“Passi di Storia”: itinerari di guerra e Resistenza pistoiese

Ultimo progetto di un lavoro svolto da tempo dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia, “Passi di Storia” offre l’occasione per approfondire e conoscere pagine di storia del territorio pistoiese attraversandone i luoghi che ne sono stati teatro.

Sono già 30 i luoghi segnalati sul Portale (in costante aggiornamento) che richiamano a eventi significativi della storia della Resistenza nel territorio pistoiese: dalla città capoluogo al territorio provinciale, racchiusi all’interno di percorsi tematici.

Silvano Fedi, luoghi e storie di un partigiano

L’eccidio del Padule di Fucecchio: una passeggiata nella Storia.

Sono già stati censiti luoghi della memoria delle vicende belliche nei seguenti Comuni:

Pistoia: con itinerario nei luoghi della città a partire da Piazza della Resistenza.

Fucecchio

Larciano

Monsummano Terme

Ponte Buggianese

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.

 




A piedi nella Storia. Gli itinerari di Liberation route Italia

Liberation route Italia ha realizzato due importanti itinerari che consentano di muovere, passo dopo passo, alla scoperta, di luoghi e fatti della seconda guerra mondiale e del suo impatto sul territorio toscano.

Liberation Route Italia (LRE Italia) ha l’obiettivo principale di creare ed espandere una rotta di commemorazione che colleghi le regioni in cui si è svolta la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista (1943-45). È l’ente di riferimento italiano di Liberation Route Europe, ovvero un memoriale internazionale e un sentiero che connette i luoghi della memoria della Seconda guerra mondiale e le loro storie.

LRE Italia ha lanciato un nuovo percorso tematico intitolato “Da Pistoia a Marzabotto lungo la Porrettana”, realizzato da Matteo Grasso, direttore dell’ISRPT. L’itinerario storico ripercorre i principali luoghi della memoria situati fra Pistoia e Marzabotto prendendo come punto di riferimento per l’appunto la strada statale 64 Porrettana. Lungo il percorso è possibile incontrare memoriali, monumenti, cippi, targhe, sentieri, parchi e sacrari: la zona fu infatti profondamente segnata dalla guerra, che dal 1943 al 1945 coinvolse tutto l’Appennino Tosco-Emiliano in corrispondenza con la Linea Gotica.

Scoprite tutte le tappe al link https://italy.liberationroute.com/it/themed-routes/48/from-pistoia-to-marzabotto-along-the-porrettana-road oppure scaricate l’app di Liberation Route! www.liberationroute.com/it/app

Segnaliamo la pubblicazione su Liberation Route Italia anche del percorso tematico intitolato “Da Capannori a Monsummano tra internamento, deportazione, stragi nazifasciste e Resistenza​”, realizzato da Matteo Grasso.
L’itinerario storico ripercorre i principali luoghi della memoria situati tra i due comuni e si snoda tra le province di Lucca e Pistoia. Lungo il percorso è possibile incontrare monumenti, musei, ex campi di internamento, tombe, lapidi, cippi, pietre d’inciampo.
Per maggiori info: https://italy.liberationroute.com/it/themed-routes/33/from-capannori-to-monsummano-between-internment-deportation-nazi-fascist-massacres-and-the-resistance-movement

[credit sito Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia]

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




L’eccidio di piazza Ferrucci ad Empoli

Sono 29 persone in marcia verso la morte in una mattina di luglio a Empoli.

Prima di addentrarci nella narrazioni dei fatti di piazza Ferrucci ad Empoli del 24 luglio 1944, è doveroso spiegare il contesto che portò alla fucilazione di 29 civili da parte delle forze armate tedesche. La popolazione toscana è stata vittima – dal 1943 al 1944 – di brutali eccidi perpetrati dall’esercito tedesco, aiutato delle squadre della Repubblica sociale, durante l’occupazione del territorio italiano in seguito all’armistizio. In particolare, le stragi nazifasciste nel territorio toscano si sono intensificate tra l’aprile e il settembre del 1944, in concomitanza con la ritirata tedesca dovuta all’avanzamento degli eserciti alleati. Da ricordare in questo caso vi è  l’Operazione Diadem, che portò allo sfondamento del fronte di Montecassino e di tutte le successive linee di difesa approntate da Kesselring tra la Linea Gustav e la campagna romana. Inoltre il 23 maggio, anche le truppe anglo-americane, ferme sul fronte di Anzio, iniziarono la loro marcia verso la capitale. Dopo il cedimento del fronte, le due armate tedesche iniziarono una disordinata ritirata, che si fece ancor più repentina dopo la liberazione di Roma – tra il 4 e il 20 giugno – dove gli alleati si spinsero fino alla linea del lago Trasimeno, venendo di fatto a mancare una linea di fronte stabile.

Le difficoltà delle truppe tedesche derivavano dalla difficile difesa che presentava il territorio posto sopra Roma. Con l’apertura delle valli del Tevere e dell’Arno il percorrimento si faceva assai ostico. Il Tevere non offriva alcuna protezione, rendendo solo difficili le comunicazioni. Solo l’Arno – dopo Firenze – rappresentava una linea di difesa naturale accettabile per le forze tedesche, oltre ad essere l’ultima difesa prima dell’arrivo alla Linea Gotica. Fu così che l’esercito tedesco mise in atto un riassetto organizzativo totale della linea difensiva che potremmo così riassumere: fu inizialmente costruita la cosiddetta  Linea Dora (Orbetello – lago di Bolsena – Narni – Rieti – L’Aquila – Pescara) e successivamente la Linea Albert (Grosseto – lago Trasimeno – Numana)[1]. La riorganizzazione tedesca riuscì inizialmente nel suo intento, rallentando l’avanzamento alleato e ritardando quindi la liberazione del territorio toscano, con conseguenze atroci per la parti civili. L’inizio di queste azioni di violenza inaudita contro le popolazioni locali va ricondotta anche all’interno di una logica di guerra psicologica viste le difficoltà dell’esercito tedesco nella gestione dei civili. Il casus belli  che portò al cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della compagine civile può esser ricondotto all’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo, effettuato dal gruppo di Azione Patriottica (GAP), che portò alla morte di 33 soldati tedeschi e al ferimento di 53. Un’azione così marcata contro l’esercito tedesco in una delle principali capitali europee controllate dal Reich venne percepito a Berlino come un’onta indelebile che portò ad un cambio radicale di atteggiamento di cui l’eccidio delle fosse Ardeatine rappresentò solo l’inizio.

La tragedia di Empoli va quindi inserita in questo contesto storico, all’interno di una situazione già tesa da mesi a causa degli scioperi del marzo 1944, che ad Empoli avevano riguardato la storica vetreria Taddei e che avevano portato a deportazioni di massa in tutto il territorio circostante. Da un punto di vista bellico invece, con il cambiamento ulteriore del teatro di guerra nel luglio del 1944, vi era stato lo spostamento delle truppe tedesche sulla sponda meridionale dell’Arno in attesa dell’offensiva alleata proveniente dalla Val d’Elsa. Il fronte stava rapidamente cambiando. Con la liberazione di Grosseto (metà giugno) e Siena (3 luglio), gli Alleati risalivano verso Pisa e Livorno, e il fronte si avvicinava sempre più al territorio empolese. Ad ulteriore riprova va riportato l’ordine di evacuazione del centro cittadino diramato dall’occupante tedesco per i territori di Empoli e delle località limitrofe: Tinaia, Pontorme, Cortenuova, Avane, Santa Maria, Pagnana, Marcignana, Spicchio e Sovigliana, Capraia e Limite, Montelupo, Fucecchio, San Miniato e Castelfiorentino[2].

In concomitanza con ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) empolese aveva invece invitato le formazioni partigiane sparse nel territorio a convergere sulla città, per ostacolare gli spostamenti delle truppe tedesche nei dintorni di Empoli. Durante questa mobilitazione, il 23 luglio, un gruppo di partigiani – intenti a sistemare le proprie armi all’interno di una capanna nei pressi di Pratovecchio – vennero scoperti da un’unità tedesca in perlustrazione appartenente al 29 Grenadier-Regiment. Ne nacque uno scontro a fuoco che portò alla morte di sei, forse sette, soldati tedeschi. I superstiti riuscirono a raggiungere il comando tedesco, situato presso il Terrafino, dove comunicarono l’accaduto al capitano Lutz del 2° Battaglione, il quale informò prontamente il generale Hecker, comandante della 3. Panzer-Grenadier. La rappresaglia tedesca non si fece attendere. Già nel corso della serata vi fu l’arresto di alcune persone, che vennero però rilasciate dopo poche ore, in uno scenario di un’Empoli deserta. La vera reazione tedesca arrivò il giorno seguente, quando gli uomini della 3. Panzer-Grenadier prelevarono numerosi civili per poi condurli a Pratovecchio, nella stessa capanna della sparatoria del giorno precedente. Mentre gli ostaggi aspettavano nervosamente la punizione tedesca, un pagliaio andò a fuoco, probabilmente opera di un civile per cercare di creare un diversivo, ed effettivamente qualcuno riuscì a fuggire. Nel frattempo, oltre all’arrivo di altri soldati, iniziarono ad essere piazzate le mitragliatrici. L’intento era quindi chiaro, la fucilazione degli ostaggi come piena risposta delle azioni partigiane. Proprio durante la fine delle preparazioni, la scena venne notata da un ricognitore inglese, il quale si affrettò subito ad avvertire dell’accaduto l’artiglieria inglese, la quale sparò qualche colpo in zona di avvertimento, consentendo così ad altri civili di scappare. Nonostante le numerose problematiche, l’esercito tedesco, deciso a portare a termine l’operazione, scortò gli ostaggi rimasti nel centro cittadino. Alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il tragitto, ma ne verranno catturati di nuovi[3].

Arrivati ad Empoli, i civili furono fatti sostare sotto il portico del mercato e condotti a gruppi di tre o quattro in piazza Ferrucci dove furono fucilati tra i due alberi di platano. In questa rappresaglia, la 3. Divisione uccise ben 29 persone:

– Bagnoli Luigi (31/05/1883);

– Bargigli Mario Bruno (12/10/1921);

– Bartolini Guido (05/05/1916);

– Bitossi Arduino (10/08/1885);

– Boldrini Orlando (24/07/1880);

– Capecchi Pietro (19/07/1883);

– Cerbioni Bruno (27/02/1926);

– Cerbioni Francesco (25/10/1887);

– Cerbioni Giulio (11/10/1915);

– Chelini Gaspero (26/09/1897);

– Chelini Gino (04/03/1892);

– Ciampi Giuseppe (10/05/1891);

– Ciampi Pietro (16/08/1896);

– Ciampi Virgilio (03/05/1893);

– Cianti Giulio (16/09/1911);

– Gimignani Pasquale (19/09/1898);

– Gori Corrado (30/12/1879);

– Martini Giulio (08/06/1878);

– Martini Pietro (10/04/1885);

– Morelli Mario Gino (15/08/1888);

– Nucci Palmiro (20/03/1888);

– Padovani Gaspero (22/10/1865);

– Parri Alfredo (02/05/1910);

– Parrini Antonio (56 anni);

– Peruzzi Carlo (02/11/1881);

– Piccini Gino (13/08/1895);

– Pucci Alfredo (06/10/1892);

– Taddei Gino (11/12/1906);

– Vizzone Domenico (03/03/1904)[4].

 

I loro cadaveri rimarranno in piazza fino al giorno seguente. Soltanto uno di loro riuscì a salvarsi, Arturo Passerotti. Tentò la fuga prima dell’esecuzione e, nonostante fosse stato colpito alla gamba destra e alla testa, riuscì a scappare[5]. Nei giorni successivi Empoli resterà teatro di altre manifestazioni di rappresaglia tedesca, questa volta tramite minamenti e bombardamenti, fino alla sua definitiva liberazione, il 2 settembre.

Oggi quei 29 nomi sono dignitosamente ricordati nella stessa piazza F. Ferrucci ad Empoli, rinominata piazza “XXIV luglio” in loro onore.

 

 

Note

 

[1] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 89-90.

 

[2] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, p. 487.

 

[3] G. Fulvetti, Ucciere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), regione Toscana, Carocci editore, Roma, 2009, pp. 157-159.

 

[4] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2395

 

[5] Per leggere la sua testimonianza si rimanda a Empoli negli ultimi cento anni: notizie, figure, personaggi: antologia di testi letterari e di varia documentazione, a cura di A. Morelli, Empoli, Comune di Empoli, 1977, pp. 96-99.

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le deportazioni dell’8 marzo 1944 nell’empolese

92 lavoratori in viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen. La loro unica colpa? Aver scioperato, aver cercato di rivendicare i propri diritti. Un atto ritenuto di un oltraggio tale, dall’autorità tedesca, che fu pagato con la vita.

Marzo 1944. Il fronte bellico interno presentava una situazione di assoluta impasse: era fallito il contrattacco tedesco di Anzio come l’avanzata alleata sul fronte del Cassino. Le notizie più entusiasmanti per la resistenza interna provenivano dal fronte orientale, con la liberazione dell’intera Ucraina da parte dell’Unione Sovietica e la loro repentina avanzata. Mentre i partigiani fantasticavano l’eventuale creazione di un secondo fronte di guerra alleato, paventato dagli entusiasmi di Radio Londra. È in questo contesto, di stallo italico ma di grande fervore internazionale che si inseriscono gli scioperi generali indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) per la rivendicazione di un aumento delle razioni alimentari, dei salari e contro la deportazione degli italiani in Germania.

Non doveva essere una semplice rivendicazione. Nei mesi che la precedettero, crebbe continuamente la mobilitazione alla lotta clandestina nei territori dell’empolese. Lo sciopero sarebbe dovuto essere una dimostrazione di forza da parte del CNL nei confronti di fascisti e tedeschi. La dimostrazione di esser in grado di mobilitare la maggior parte della popolazione, di rendere pubblica l’insoddisfazione per l’autorità. E così fu.

Lo sciopero, inizialmente previsto per il 3 marzo, nella zona dell’empolese fu rinviato al giorno successivo. La notte tra il 3 e il 4 marzo varie riunioni tra le squadre di SAP e GAP portarono alla decisione di organizzare alcune postazioni con mitragliatrici e casse di bombe per proteggere il corteo, che furono posizionati già a partire dall’alba. Alle otto del mattino un corteo di donne partì da Avane dando inizio alla manifestazione. Passando dalle frazioni di Mangolo e Santa Maria si unirono altre centinaia di donne, formando un’onda rosa che andò presto ad unirsi agli operai delle fabbriche e ai contadini, oltre che ai piccoli commercianti una volta chiusi i loro negozi. Per le strade del centro cittadino, ormai invase dalla mobilitazione, era alta la voce della protesta collettiva, manifestata da vari cori, da «Pace e Pane» a «Fuori lo straniero». Una rabbia popolare che aveva una chiara connotazione anti-fascista ed anti-tedesca, le cui autorità non ebbero la forza di interrompere. Gli intenti del CLN si realizzarono completamente, con i fascisti che presero dolorosamente atto della situazione, ben consci che una risposta armata alla protesta avrebbe potuto portare – oltre che ad una possibile guerriglia con le forze partigiane – ad una successiva mobilitazione in cui fosse presente l’intera popolazione. La piena riuscita dello sciopero si verificò anche nelle altre località dell’empolese, solo a Limite e Capraia ci fu il tentativo da parte dei carabinieri e dei fascisti locali di sedare la protesta tramite lacrimogeni, senza però successo[1].

La situazione più interessante la troviamo ad Empoli. Dove la riuscita della mobilitazione derivò dall’unione delle rivendicazioni portate avanti dai contadini – forti proteste per la consegna di ulteriori 15 kg di grano all’ammasso e la richiesta del diritto di libera macinazione – e dagli operai, rappresentati soprattutto dai lavoratori della vetreria Taddei, il complesso industriale più grande dell’empolese. L’unione di questi due ceti, storicamente divisi, creò la forza necessaria per dimostrare alle autorità locali la presenza di un dissenso strutturato e ormai impavido di fronte alle minacce fasciste. Una delegazione di scioperanti fu anche ricevuta in Comune per ricevere tutte le rassicurazioni di rito. Le autorità fasciste si dimostrarono così inermi e succubi della situazione, facendo percepire il loro netto disagio nel constatare la presenza di un dissenso non controllabile[2].

Le conseguenze dello sciopero furono chiare. Una situazione di ordine pubblico non più sostenibile e a cui andava posto un rimedio. La rappresaglia non ebbe però luogo nella stessa giornata, per le ragioni già scritte, ma arrivò qualche giorno più tardi. Il clamore della mobilitazione, che ricordiamo, ebbe una grande impatto in tutte le parti d’Italia sotto il controllo tedesco, ebbe una risonanza tale che arrivò direttamente alla scrivania dello stesso Hitler. Il quale, una volta informato, diede disposizione a Himmler, il comandante delle SS, di deportare il 20% di coloro che avevano partecipato agli scioperi in Germania per “lavorare”. Fu così che tra il 4 e l’8 marzo del 1944 i dirigenti locali repubblichini stilarono varie liste di nomi che avrebbero deportato da lì a breve. Decisione, questa, accolta con grande gioia e soddisfazione dai comitati fascisti locali, desiderosi di poter stilare liste arbitrarie più rivolte a connotazioni politiche e personali che riguardanti i fatti del 4 marzo (basti pensare che molti fra gli uomini che verranno deportati non avevano partecipato allo sciopero generale). Sorgeva però un problema logistico e di ordine pubblico. Vista la grande solidarietà della popolazione allo sciopero di quattro giorni prima, sarebbe stato assai rischioso svolgere queste operazioni di giorno, con il rischio di una nuova mobilitazione. L’operazione fu allora svolta la notte tra il 7 e l’8 marzo, dove i repubblichini locali, coadiuvati dalla GNR, dai poliziotti e dai carabinieri, iniziarono un rastrellamento mirato sul territorio dell’empolese. Per evitare troppe problematiche fu utilizzato un modus operandi assai semplificato: gruppi di persone armate si presentavano a casa della persona da prelevare invitandola a seguirli nella caserma più vicina dove, dicevano gli squadristi, ci sarebbe stato un maresciallo o un suo vice che aveva delle domande da porgli. L’incursione in piena notte, il sonno, la paura e la mancata conoscenza del fatto che non si trattasse di un fatto isolato ma di una deportazione generale, portò tutti gli uomini a seguire i poliziotti o chi per loro senza scappare o reagire. Un’operazione che nella sua malvagità fu gestita con rara lungimiranza e dove fu curato ogni particolare. A Montelupo, ad esempio, i fascisti, consci che sarebbe stato impossibile con questo metodo prelevare chi era già scappato dal paese – la maggior parte si rifugiò nella zona di Botinaccio – organizzarono l’imboscata utilizzando un’ambulanza per evitare ogni tipo di sospetto. Un’altra tattica diversificata fu utilizzata per i lavoratori della vetreria Taddei di Empoli, i quali furono direttamente prelevati in azienda con una retata. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche agli operai di un’altra vetreria empolese, la CESA. In questo caso però, intuendo la situazione che si stava creando, il capo fabbrica Betti Rinaldo ebbe la lungimiranza di azionare l’allarme che fece scappare tutti gli operai, i quali vennero a conoscenza soltanto il giorno seguente di esser sfuggiti non ad un guasto all’impianto ma ad una deportazione di massa[3].

Come dicevamo, esclusa la CESA, il rastrellamento riuscì perfettamente. Ad Empoli, oltre ai 26 operai della Taddei, furono arrestate altre 30 persone, a Montelupo gli arrestati sono 22, a Limite sull’Arno 11, a Vinci 7, a Fucecchio 9 e a Cerreto Guidi 7[4]. L’indomani, tra lo sgomento e l’incredulità della popolazione, ignara della sorte dei loro concittadini, gli arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio, ammassati, senza dormire né mangiare, l’arrivo ad una stazione ferroviaria austriaca. Stanchi, impauriti e sprovvisti di un abbigliamento adeguato alla neve pungente furono costretti ad intraprendere una marcia di sei chilometri fino ad una fortezza abnorme, con due torri unite da un muro in pietra al centro del quale si trovava una grande portale di legno. In pochi di loro riuscirono, in quelle condizioni, a scorgere una scritta che inaugura il campo: «Il lavoro rende liberi!». Erano arrivati a Mauthausen.

Dei 92 lavoratori ed antifascisti prelevati la notte tra il 7 e l’8 marzo e spediti al campo di concentramento, soltanto 5 o 6 avrebbero successivamente fatto ritorno alle loro famiglie, tutti gli altri non riuscirono a sopravvivere alle condizioni disumane dei campi.

 

 

Note:

 

[1] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, pp. 469-470.

 

[2]  A. Dini, La notte dell’odio, Editore Nuova Fortezza, Livorno, 2000, p. 23.

 

[3]  Ivi, pp. 26-29.

 

[4]  L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, p. 472.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Il sentiero della memoria dei Monti Scalari e Pian d’Albero

Grazie al lavoro di ricostruzione storica, condotto in particolare da Matteo Barucci intorno alle vicende della Brigata Sinigaglia e alla strage di Pian d’Albero, è stato realizzato un percorso ad anello di circa 11 km che parte e si conclude a Poggio alla Croce, nei territori dei comuni di Figline – Incisa Valdarno e Greve in Chianti.

Rispetto a precedenti percorsi CAI, il sentiero, adatto a chiunque abbia una minima esperienza, consente di scoprire luoghi poco noti che rievocano episodi della lotta di Resistenza in questa zona, oltre in noto casolare della famiglia Cavicchi teatro della strage di fine giugno del ’44.

Il sentiero attraversa, infatti, i colli di Poggio La Sughera e Poggio Tondo dove si muovevano gli uomini della Sinigaglia, costeggia i ruderi di Casa al Monte dei Venturi dove veniva cotto il pane della brigata, quindi passa dal Pianello, luogo di ricezione dei lanci alleati: una conca naturale, al riparo dai pericoli di avvistamento, nella quale fra il maggio e il giugno la brigata ricevette da parte probabilmente dell’esercito inglese almeno due lanci fondamentali per equipaggiare i partigiani fino ad allora in drammatica carenza di armi.

Il sentiero costeggia anche l’Abbazia San Cassiano o Badia Montescalari dove trovarono rifugio le truppe tedesche, il Casolare di Monte Moggio, dove si trovava un secondo forno per cuocere il pane per i partigiani, Poggio La beccheria, uno dei luoghi segnati dall’allestimento della linea difensiva Mädchen, realizzata dai nazisti per rallentare l’avanzata nemico e teatro di serrati scontri nel luglio del 1944.

Per approfondimenti: Wikiloc | Percorso Sentiero della memoria Monti Scalari e Pian d’Albero

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 




13 aprile 1944: la pasqua di Vallucciole

Vallucciole

Vallucciole è un piccolo borgo dell’alto Casentino, situato sul versante meridionale del Monte Falterona, appartenente all’attuale comune di Pratovecchio-Stia [1]. L’area intorno alla località, comprendente gli abitati di Molino di Bucchio, Serelli, Monte di Gianni ed alcuni gruppi di case e poderi sparsi nella zona, è tristemente nota per la strage avvenuta il 13 aprile 1944, in cui persero la vita 108 civili, in prevalenza donne, anziani e bambini.

 

Rimasta a lungo isolata e distante dai grandi avvenimenti della storia, la quiete del borgo e delle località limitrofe venne bruscamente interrotta nella primavera del 1944. Il 13 aprile la 2ͣ e la 4ͣ compagnia della Hermann Göring invasero la piccola vallata, saccheggiando le abitazioni, distruggendo le case ed uccidendo i civili che incontrarono durante il loro cammino.

 

La notte del 13 aprile i reparti comandati dal capitano Loeben partirono da Stia in direzione di Molin di Bucchio, arrestandosi dopo pochi chilometri al casale di Giuncheto, dove abbandonarono i mezzi motorizzati per proseguire a piedi. In base alle fonti inglesi il contingente, composto da circa ottocento uomini, venne diviso in tre gruppi, due agirono indipendentemente, compiendo un accerchiamento della vallata, mentre uno più esiguo, posto nelle retrovie, svolse funzione di controllo, impedendo l’accesso e la fuga dall’area.

 

Le formazioni che operarono la manovra a tenaglia occuparono, perquisirono e distrussero tutti i centri abitati che incontrarono nel corso dell’avanzata. Durante il loro passaggio i soldati della Hermann Göring uccisero tutte le donne, gli anziani e i bambini che individuarono lungo il tragitto, mentre utilizzarono gli uomini adulti per il trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti prelevati dalle abitazioni. Una volta terminata la distruzione e la perquisizione delle case, le colonne proseguirono il loro cammino in direzione del Falterona, alla ricerca delle formazioni partigiane segnalate dalle autorità fasciste locali. Conclusasi quest’ultima fase dell’operazione, la colonna tornò a valle, dove vennero infine uccisi gli uomini che erano stati utilizzati per il trasporto delle munizioni e degli oggetti frutto della precedente razzia [2].

 

Dalle prime ore del 13 aprile 1944 tutti i paesi e i poderi sparsi nella vallata vennero colpiti uno dopo l’altro dall’avanzata tedesca: la popolazione di Vallucciole, Monte di Gianni, Molin di Bucchio, Serelli e i casali di Giuncheto e Moiano vennero inesorabilmente colpiti dall’azione. Dovunque si ripetè la medesima scena, i soldati facevano irruzione nelle abitazioni, prelevavano gli uomini abili al trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti depredati dalle case, mentre donne, bambini ed anziani venivano immediatamente uccisi sul posto.

 

Il sopravvissuto Giovanni Bardi ricorda in questo modo quell’orribile esperienza: Così camminammo per delle ore. Ad ogni casa ci fermavamo e dappertutto la stessa storia. I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie, anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra, con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano [3].

 

La scena si ripeté in tutti i caseggiati attraversati dall’avanzata tedesca. Dopo aver distrutto e seminato il panico in un abitato la colonna proseguiva il suo cammino alla ricerca delle abitazioni successive. Durante l’ascesa del Falterona coloro che non riuscivano a trasportare i materiali venivano uccisi lungo il tragitto. Il trentasettenne Severino Seri, incapace di poter seguire la colonna a causa della sua cecità venne ucciso a Vallucciole, mentre Pietro Vadi e Angiolo Marchi, il primo sessantasei anni e il secondo settantotto, vennero eliminati lungo il percorso per non esser riusciti a trasportare i materiali [4].

 

Nel corso della giornata non mancarono le violenze sessuali ai danni delle donne, testimoniate in particolar modo nel caseggiato di Moiano di Sopra, dove vennero abusate prima di essere barbaramente uccise.

 

La furia nazista non risparmiò nessuno e non si fermò nemmeno di fronte alla presenza dei più piccoli. Nel corso dell’avanzata vennero uccisi bambini appartenenti a tutte le età: undici furono le vittime con meno di dieci anni. A Vallucciole avvenne probabilmente l’episodio più macabro, l’uccisione di Angiola Vadi Gambineri e del figlio Viviano, partorito pochi mesi prima [5].

 

Il piccolo Vivivano foto scattata da Prasildo Giachi il 15 aprile 1945

 

In questo caso, come per ampia parte della strage, non disponiamo di testimonianze dirette, poiché pochissimi furono coloro che riuscirono a salvarsi quel giorno. Le poche informazioni di cui disponiamo provengono dalle notizie fornite dai pochi sopravvissuti, da coloro che per primi si recarono a prestare soccorso nei paesi colpiti dal rastrellamento e dall’indagine condotta nel 1945 dagli alleati.

 

Dopo aver seminato il panico per la vallata, la colonna continuò l’ascesa del Monte, alla ricerca dei partigiani segnalati dalle autorità fasciste. Quest’ultima fase dell’operazione fu un insuccesso e non portò all’individuazione di nessun gruppo partigiano. La colonna di trasportatori percorse dunque a ritroso il sentiero precedentemente compiuto, passando per Monte di Gianni e Vallucciole, fino ad arrivare a valle. A Molin di Bucchio venne intimato a quattro uomini di posare l’attrezzatura e di tornare alle loro case, ma avviatosi verso le loro abitazioni vennero raggiunti dagli spari dei soldati tedeschi. La medesima scena si ripeté pochi istanti dopo al casale di Giuncheto, con la morte di dodici uomini, colpiti alle spalle dalle raffiche di mitra.

 

Il sopravvissuto Santi Trenti ricorda così quel momento: Dal Monte Falterona fummo invitati a tornare a Giuncheto, frazione che rimane nella parrocchia di S. Maria sotto Vallucciole (…) Scaricata tutta la roba a Giuncheto fummo inviati a ritornare alle nostre case, ma appena fummo partiti venimmo presi a fucilate dai tedeschi [6].

 

Ancora oggi ad oltre ottant’anni di distanza dal terribile evento, storici e comunità locali non sono concordi nell’individuare la causa che scatenò il massacro. A lungo è prevalsa la versione che attribuisce la responsabilità della strage all’uccisione a Molin di Bucchio di due soldati tedeschi da parte dei partigiani della Faliero Pucci, avvenuta l’11 aprile, appena due giorni prima della strage di Vallucciole [7].

 

Negli ultimi anni gli studiosi hanno ridimensionato tale interpretazione, collocando la strage all’interno di una grande operazione di rastrellamento promossa dai comandi nazisti. Le ricerche e i risultati emersi dai processi hanno avvalorato tale versione, confermando che l’incursione a Vallucciole non rappresentava una rappresaglia per l’uccisione dei due nazisti, ma era parte di un’azione organizzata precedentemente, volta a bonificare il territorio appenninico compreso tra la statale 71 del Passo dei Mandrioli e la statle 67 del Passo del Muraglione.

 

Allo stesso tempo questa versione non pare sufficiente a giustificare il livello di violenza raggiunto nella valle casentinese. Rispetto ai rastrellamenti compiuto lo stesso giorno nelle vicine località di Partina e Moscaio, a Vallucciole si assistette all’eliminazione di un’intera comunità, con l’uccisione indiscriminata di donne, anziani e bambini.

 

Un elemento che in parte spiega il livello di violenza raggiunto nella piccola vallata risiede nei reparti che furono protagonisti della strage. L’operazione venne affidata alla 2ͣ e alla 4ͣ compagnia della Hermann Göring, reparti ai quali appartenevano i due soldati tedeschi precedentemente uccisi a Molin di Bucchio. Inoltre la Hermann Göring era una divisione profondamente politicizzata, costituita da volontari particolarmente zelanti e da convinti sostenitori del nazionalsocialismo.

 

Nel quadro della presenza tedesca in Italia la strage di Vallucciole si inserisce in una fase di progressiva radicalizzazione della politica d’occupazione. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto a Roma il 23 marzo 1944, i vertici militari giunsero a ritenere la penisola un territorio di difficile gestione ed invitarono i reparti ad agire in modo risoluto e a rispondere in modo deciso a qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Dalla primavera del 1944 si assiste dunque ad un generale inasprimento dell’occupazione tedesca in Italia e alla progressiva tendenza ad equiparare i civili ai membri della resistenza.

 

Vallucciole e la vallata circostante si inseriscono in questo triste fenomeno, rappresentando nella primavera del 1944 il primo caso di strage indiscriminata condotta dalle forze occupanti ai danni dei civili in Toscana.

 

Nel secondo dopoguerra la prima cerimonia pubblica in ricordo delle vittime della strage si tenne nel 1954. In quell’occasione venne inaugurato presso la chiesa dei Santi Primo e Feliciano di Vallucciole un ossario, accompagnato da una lapide recante i nomi dei 108 caduti [8].

 

L’ossario e la lapide con i nomi delle 108 vittime della strage.

 

Nel 1979 è stato creato il primo monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dagli allievi della Scuola del Ferro Battuto. Collocato inizialmente in piazza Pertini, nel 2006 venne spostato nel vialetto che conduce al vecchio cimitero di Stia, dove attualmente si trova e dove è anche presente una lapide con i nomi di coloro che morirono il 13 aprile 1944 [9].

 

Monumento ai Martiri di Vallucciole.

 

 

Note:

[1] Dal 1° gennaio 2014 i centri di Stia e Pratovecchio si sono fusi, dando vita ad un’unica amministrazione.

[2] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, p. 107.

[3] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 78.

[4] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 114-117.

[5] I primi soccorritori testimoniarono che sul corpo del piccolo Viviano erano presenti numerosi segni di violenza.

[6] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 77.

[7] Tesi sostenuta in P. Paoletti, Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana, Le Lettere, Firenze 2009.

[8] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 180-181.

[9] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-martiri-di-vallucciole-stia/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




Percorsi tra Storia e memoria sul Monte Giovi

La Città Metropolitana fiorentina, assieme alle comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Pontassieve, Borgo San Lorenzo, Vicchio e Dicomano hanno istituito sul Monte Giovi un parco dedicato alla guerra di Liberazione, chiamato Parco culturale della Memoria, una sorta di «museo diffuso».

Come primo atto della costituzione del Parco culturale della Memoria, per il 60° Anniversario della Liberazione, l’ANPI di Firenze, con il gruppo escursionisti “Geo”, ha promosso una serie di “itinerari partigiani sul monte Giovi”, utilizzando in gran parte la sentieristica attivata dal CAI (Club Alpino Italiano) e intitolando i singoli sentieri a personalità o a gruppi di azione protagonisti dell’antifascismo e della Resistenza.

Il progetto è stato concepito in attuazione della Legge regionale N. 38/02 contenente “Norme in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza e di promozione di una cultura di libertà, democrazia, pace e collaborazione tra i popoli” [1].

Oltre alla finalità principale, cioè, promuovere la memoria degli eventi della Resistenza, il progetto si propone di recuperare la viabilità rurale che collega i quattro comuni compresi nell’accordo per valorizzare e rendere nuovamente fruibile la viabilità “secondaria” di un tempo. Il progetto comprende inoltre obiettivi di diffusione e di animazione culturale e sociale e precisi interventi sul territorio, tra i quali la costruzione di un monumento alla Memoria sulla vetta del monte Giovi. L’iniziativa, di alto valore culturale, coinvolge un territorio importante nella guerra di Liberazione, della quale tuttavia non conserva permanenze consistenti. Non meno rilevanti la salvaguardia della flora e della fauna locali, come il Cisto laurino (detto anche fiore della Madonna), unica presenza di tale arbusto in Italia.

Il Parco culturale è stato presentato a Firenze il 12 dicembre 2008 presso la sede della Provincia a Palazzo Medici Riccardi e prevede cinque diversi percorsi tematici:

 

MugelloToscana.it

Sentiero 1

Pievecchia-Acone [2]:

Acone (Pontassieve) – Galiga – Passo Aceraia – Prati Nuovi – Acone

Accesso principale da Pontassieve a Le Colline (8,5 chilometri); da Scopeti ad Acone (6 km). Durante questo itinerario si ricorda la rappresaglia della Pievecchia, quando i tedeschi uccisero 14 innocenti l’8 giugno 1944.

  • Lunghezza anello: 16,5 km
  • Dislivello anello max: 333 m ca. in salita, 627 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,30 ore
  • Difficoltà: medio-alta

Sentiero 2

Barbiana-Padulivo [3]: Accesso principale da Dicomano a Tamburino (7,0 chilometri). Anche in questo itinerario, che porta ai luoghi cari a Don Milani, si ricorda l’eccidio di Padulivo, quando il 10 luglio 1944 i tedeschi trucidarono 15 persone.

Mulino di Baldracca (Vicchio)- San Martino a Scopeto – Tamburino – Piramide Brigate Partigiane – Barbiana – Padulivo – Mulino di Baldracca

  • Lunghezza anello: 14 km
  • Dislivello anello max: 530 m ca. in salita, 631 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 4,20 ore
  • Difficoltà: medio-alta

La località mugellana è inoltre parte dell’itinerario denominato “Sentiero della Resistenza”, realizzato grazie a una convenzione con la Presidenza del Consiglio dei ministri – che parte dal cippo che commemora la strage nazifascista di Padulivo a Vicchio e si compone di 33 pannelli, disegnati da studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e di altre scuole. I pannelli richiamano importanti episodi storici e stralci di lettere dei condannati a morte della Resistenza locale, nazionale ed europea (https://www.donlorenzomilani.it/sentiero-della-resistenza/) [4].

Sentiero 3

Madonna del Sasso: Accesso principale da Polcanto alla cascina di Monterotondo (5,2 chilometri). In questo itinerario si ricorda un evento del 1945 quando, presso il Santuario della Madonna del Sasso, vennero uccisi un maresciallo dei Carabinieri, suo figlio ed un militante comunista. Questi fatti ispirarono il romanzo di Carlo Cassola, La ragazza di Bube.

Santa Brigida (Pontassieve) – Madonna del Sasso – Monte Rotondo – Passo dell’Aceraia – Croce di Aceraia – Santa Brigida

  • Lunghezza anello: 11,5 km
  • Dislivello anello max: 495 m ca. in salita, 398 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,15 ore
  • Difficoltà: medio-alta

Sentiero 4

Monte Giovi: Recenti ritrovamenti hanno accertato che qui, in epoche remote, esisteva un luogo di culto, probabilmente dedicato a Giove. Lungo questo itinerario, si trova anche la piramide delle Brigate partigiane e Casa al Cerro (una delle basi più utilizzate dei partigiani). Presso Fonte alla Capra si tiene ogni anno, nella seconda domenica di luglio, il Raduno dei Partigiani e dei giovani di Monte Giovi.

Tamburino – San Giusto – Prati Nuovi – Casa Cerro – Monte Giovi – Piramide Brigate Partigiane – Tamburino

  • Lunghezza anello: 6 km
  • Dislivello anello max: 188 m ca. in salita, 188 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 2,10 ore anello (+ 3 ore con l’ingresso da Dicomano – Celle – Fostia – Pruneta – Tamburino)
  • Difficoltà: media

Piramide Brigate Partigiane (Acone)

 

Sentiero 5

Monte Rotondo: Accesso Principale da Sagginale all’intersezione con il sentiero CAI 3. In questo itinerario si trova villa Cerchiai, attaccata verso la metà dell’agosto 1944, dai tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.

(San Cresci – Borgo San Lorenzo) – Innesto sentiero 3/A – Villa Cerchiai – Passo dell’Aceraia – Monte Rotondo – Montepulico – Poggio Santa Margherita – Campiano – Innesto sentiero 9 – (San Cresci)

  • Lunghezza anello: 16 km (da innesto sentiero 3/A a innesto sentiero 9)
  • Dislivello anello max: 530 m ca. in salita, 290 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,10 ore anello+ 1 ora da San Cresci
  • Difficoltà: media

 

Il 25 aprile 2009 è stato inoltre inaugurato il Sentiero della Memoria, percorribile anche a cavallo ed in mountain-bike, che unisce Pontassieve alla Consuma passando da Rufina e da tre luoghi ove nel 1944 sono avvenute stragi di civili. Il sentiero, voluto dai Comuni di Pelago, Pontassieve e Rufina e dalla Comunità Montana della Montagna Fiorentina, è stato realizzato dal Gruppo Escursionisti Organizzati di Sieci e dalla Sottosezione di Pontassieve.

Riguardo a quel che avvenne in quei tragici giorni e alle vittime, è stata stampata una Cartoguida, distribuita gratuitamente dai Comuni, dal GEO, dalla Sottosezione di Pontassieve e scaricabile anche da https://www.caipontassieve.it/sentiero-della-memoria/, insieme alle tracce GPS.

Cartoguida lato carta, Sentiero della Memoria, CAI, Sezione di Firenze, sottosezione di Pontassieve “Romano Pini”

Cartoguida lato guida, Sentiero della Memoria, CAI, Sezione di Firenze, sottosezione di Pontassieve “Romano Pini” [5]

Il sentiero è lungo complessivamente circa 29 km e, percorrendolo da Pontassieve verso la Consuma, ha un dislivello complessivo di circa 1680 metri in salita e 800 in discesa.

In estrema sintesi. La partenza è nelle vicinanze del municipio di Pontassieve; il primo tratto, in comune con il sentiero 7, salendo conduce fuori dal paese. Dopo un tratto in prevalenza boscoso, ma non privo di scorci panoramici, si giunge alla Pievecchia. Il sentiero prosegue fino alla strada asfaltata proveniente da Monterifrassine, che seguirà fino a Montebonello, con il massiccio del Monte Giovi sulla sinistra a dominare in distanza la scena, mentre quello della Secchieta che fa capolino sulla destra. Superato il paese di Rufina, s’imbocca la vallata di Pomino, fino al piccolo borgo di Pinzano. Da lì, in breve, si perviene poi a Pomino, sino a Berceto, ove avvenne la strage del 17 aprile 1944 [6]. Passato il bosco e preso il sentiero 5, si giunge alla strada regionale per la Consuma [7], fino alla fattoria di Podernuovo, per arrivare poi alla villa, luogo della terza strage, compiuta il 25 agosto 1944. Proseguendo, si giunge alla villa di Lagacciolo. Il Sentiero della Memoria incontra quindi il sentiero 6, a cui si sovrappone fino alla Consuma, dove arriva anche il 5.

Tornando al Monte Giovi, dunque, esso è ricco di percorsi per gli amanti del trekking che della Storia. Questi, infatti, hanno la possibilità di raggiungere e osservare alcuni dei luoghi chiave e dei siti della Resistenza, segnalati da panel descrittivi. È comunque bene ricordare che Monte Giovi è noto anche per le burraie (percorso delle burraie) e per il parco archeologico, con i relativi ritrovamenti etruschi.

Una menzione particolare va fatta per il paese di Acone, piccola frazione nel comune di Pontassieve, dove ogni anno si organizza una festa per commemorare i fatti del 1944.

 

Note

  1. Nel Parco culturale di Monte Giovi, MugelloToscana.it, https://www.mugellotoscana.it/it/details/3-ristoranti/146-trattoria-lago-azzurro.html?mlt=ja_purity&tmpl=component [consultato nel maggio 2024]
  2. Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]; cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008
  3. Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412 [consultato nel mese di maggio 2024]
  4. Sentiero della Resistenza, Fondazione Don Lorenzo Milani, https://www.donlorenzomilani.it/sentiero-della-resistenza/
  5. Sentiero della Memoria, CAI Sezione di Firenze Sottosezione di Pontassieve “Romano Pini”, https://www.caipontassieve.it/sentiero-della-memoria/ [consultato nel mese di maggio 2024]
  6. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
  7. Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.