Tra bombardamenti ed eccidi, l’anno buio della guerra a Dicomano

Dicomano rappresenta al meglio la specificità delle valli appenniniche durante la resistenza nell’estate del 1944. La liberazione del 10 settembre simboleggia la fine di un incubo durato mesi e reso ancor più nefasto dalle stragi nazifasciste verificatesi a luglio. Prima è però importante per il lettore capire il significato di quelle stragi. Dobbiamo quindi illustrare che cosa rappresentano quelle zone nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da li in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Per omaggiare al meglio il ricordo di quei mesi è doveroso quindi cercare di creare un itinerario che possa contenere tutti i luoghi della memoria di Dicomano, sia quelli in paese, sia i ceppi in ricordo delle vittime stragiste situate nelle varie località adiacenti.

 

Percorso

 

  • Percorso: Via Nazionale, località Contea, Dicomano (Cippo di Contea) – Piazza Francesco Buonamici, Dicomano (Lapide del bombardamento) – Piazza Trieste, Dicomano (Monumento ai caduti della resistenza) – Località Santa Lucia, Dicomano (Cippo di Santa Lucia)
  • Tempo di percorrenza: 2 ore
  • Distanza: 7,2 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 263 m – 143 m)

 

Il nostro percorso inizia da Via Nazionale, precisamente dalla località Contea, tra Montebello e Rufina, dove ci troveremo davanti al Cippo di Contea, in ricordo della doppia strage nazifascista del 7-8 luglio 1944. Ricordiamo che Dicomano sin dalla fine del giugno 1944 è stato teatro di requisizioni e rastrellamenti tedeschi, nonché di attività di bande partigiane. Già ai primi di luglio, a seguito di uno scontro armato con i partigiani tra Monte e Santa Lucia furono catturati come ostaggi quattordici persone del luogo, poi rilasciate grazie all’intervento di don Mario Faggi pievano di Dicomano. Il 7 luglio 1944 a Contea quattro contadini furono casualmente visti da un tedesco intento a lavarsi nel torrente Sieve mentre asportavano alcune bombe da una cassa di munizioni di provenienza non nota. I quattro probabilmente intendevano usare gli ordigni per pescare, ma furono accusati invece di volerli portare ai partigiani. Dopo che furono stati fermati, ai contadini venne intimato di scavare una fossa. Probabilmente infastidito dalle numerose e reiterate suppliche che gli rivolsero per aver salva la vita, il soldato tedesco li freddò a colpi di pistola. Subito dopo l’eccidio, una ventina di persone rastrellate in zona fu condotta dai militari sul luogo dell’uccisione dei quattro contadini per prendere visione, come monito, di quanto accaduto. I militari tedeschi, venuti a conoscenza che una delle quattro vittime, Albino Cecchini, era fratello del partigiano Armando Cecchini, ucciso in località Fungaia il 20 luglio, decisero di recarsi presso l’abitazione del Cecchini in località Capraia, nella parrocchia di Celle. L’8 luglio alcuni soldati vi irruppero sterminando la madre Rosa, la moglie Maria, il figlio Antonio di appena sei mesi e una nipote lì presente di sei anni. La casa venne in seguito incendiata e le salme dei familiari mantenute a lungo senza sepoltura per ordine del comando tedesco[2]. Una strage spietata che, come ricorda anche la lapide, non deve alla guerra questi morti, bensì:

 

«Non la guerra ma la ferocia

nazi-fascista

volle l’eccidio inconsulto e barbaro

che i limiti della storia non contengono

e che gli uomini non dimenticheranno»

 

Ci spostiamo poi a Dicomano paese, precisamente a piazza Francesco Buonamici, dove troveremo la lapide dedicata al bombardamento, che recita:

 

«…prima ci sono state altre guerre.

alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

fra i vinti la povera gente

faceva la fame. fra i vincitori

faceva la fame la povera gente ugualmente»

(B. Brecht)

Il riferimento è al bombardamento del 27 maggio del 1944, dove fu raso al suolo quasi tutto il Paese, ad eccezione dell’Oratorio di Sant’Onofrio. Quest’ultimo fu risparmiato dagli alleati in quanto consapevoli del fatto che al suo interno fossero presenti numerose opere d’arte. Venuti a conoscenza del fatto anche i nazisti, il 30 luglio 1944 il colonnello Langsdorff, senza nessun accordo o autorizzazione da parte della Soprintendenza fiorentina, si recò a Dicomano e caricò alcuni camion tedeschi con circa 26 casse contenenti alcune sculture conservate nell’oratorio. Questa operazione venne giustificata in quanto ritenuto più sicuro allontanare le opere da territori che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi per custodirle all’interno di nuovi depositi istituiti in Alto Adige (territorio in pieno controllo nazifascista). L’autorizzazione per questo spostamento venne data dal Generale Wolff, il quale diresse le operazioni di trasporto indirizzandole prima verso enti ecclesiastici, come parrocchie e monasteri, poi verso i due nuovi depositi: il Castello di Neumelands a Campo Tures e il carcere abbandonato a San Leonardo in Passiria, entrambi lungo il passo del Brennero. L’11 agosto 1944 furono trasferite a Campo Tures le opere provenienti dall’Oratorio di Sant’Onofrio. Torneranno in Toscana soltanto a guerra conclusa, il 22 luglio del 1945, con un’importante cerimonia, in Piazza della Signoria a Firenze, dove furono accolte da tutti gli abitanti della città e ricollocate nei rispettivi musei di appartenenza[3].

Dopodiché ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso piazza Trieste, dove potremmo ammirare il Monumento ai caduti della resistenza, inaugurato nel 1964 e portante i nomi dei cittadini che hanno dato la vita per la libertà. Ultima tappa, ma non per importanza, è il Cippo di Santa Lucia, situato nell’omonima località, in ricordo di Arturo Fabbri, Armando Cecchini e Aimo Fritelli che caddero durante quel luogo durante uno scontro da arma da fuoco.

 

 

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[3] Frederick Hartt, L’Arte Fiorentina Sotto Tiro, Edizioni Clichy, Firenze, 2014, pp. 150-179.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Itinerari alla “scoperta” dell’eccidio del Padule

Un eccidio spietato, una delle pagine più buie della storia toscana. Una violenza feroce, che non si fermò neanche davanti ad anziani e bambini. Questo fu l’eccidio al Padule di Fucecchio.
Prima di addentrarci in una breve spiegazione dell’evento è doveroso contestualizzare le peculiarità della zona presa ad interesse. Il Padule è la più estesa pianura interna italiana, e, con i suoi quasi 2000 ettari di terreno, si trova a confine con le province di Pistoia e Firenze. Quello che dovrebbe rappresentare una delle maggiori forme di attaccamento ai valori della terra e della natura è ricordato invece come teatro di una delle stragi più cruente e inumane della seconda guerra mondiale in Toscana. Un eccidio – quello del 23 agosto del 1944 – che rientra a pieno titolo nel contesto delle “stragi di desertificazioni” avvenute lungo l’Arno da parte del contingente tedesco, con l’obiettivo di ripulire l’area retrostante il fronte di guerra, che vedeva a sud del fiume gli alleati e a nord i nazifascisti [1]. Un massacro vile e sconcertante, deciso il giorno precedente dal generale Eduard Crasemann, comandante della 26. Panzer-Grenadier-Division, e a cui parteciparono le quattro compagnie del 26° battaglione esplorante, il secondo battaglione del 67° Reggimento corrazzato e l’unità dell’artiglieria [2].

I morti furono 174. Le zone maggiormente colpite furono i comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella). Il lutto e l’immenso dolore provocato da tale tragedia portarono i singoli comuni a dotarsi di una serie di monumenti, targhe, lapidi e parchi volti al ricordo delle vittime e di una strage la cui ferita non fu mai completamente rimarginata da parte degli abitanti della zona. Questa “onda del ricordo” portò alla luce una moltitudine di zone di interesse, con il conseguente rischio che però esse siano dimenticate nel tempo, se non a seguito di ricorrenze e commemorazioni. Proprio per questa ragione tale articolo si pone l’obiettivo di creare un sentiero che ne colleghi la maggior parte, per poter realizzare una passeggiata volta al ricordo e alla riflessione. Vista, però, la moltitudine di luoghi, la scelta più logica è stata scomporre il percorso in due distinti itinerari volti a ripercorre i luoghi della memoria maggiormente suggestivi.

Sentiero 1

  • Percorso: Piazza dei Martiri, Monsummano Terme, località Cintolese (Monumento ai caduti) – Strada Regionale 436 Francesca, Larciano, località Castelmartini (Giardino della memoria) – Via delle Morette, Larciano, località Castelmartini (Monumento “Lo Stupore”) – Via Don Franco Malucchi, Larciano, località Castelmartini (Centro di Ricerca, Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio) – Via Leonardo Da Vinci, Fucecchio (Padule di Fucecchio)
  • Tempo di percorrenza: 1 ora e 15 minuti
  • Distanza: 5,4 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 15 m – 21 m)

Il nostro percorso inizia da Piazza dei Martiri, dove troviamo il Monumento ai caduti. Monsummano, specificatamente la località di Cintolese, fu la zona maggiormente colpita, con ben 84 vittime.

Monumento ai caduti Cintolese

La statua si pone l’obiettivo di ricordare i caduti e la spietata crudeltà nazifascista. Fu costruita nell’immediato dopoguerra su iniziativa del parroco di Cintolese don Renato Quiriconi.  Il monumento raffigura una donna che sorregge due bambini mentre è chinata su un uomo avvolto da un serpente, simbolo della violenza nazista. Ai lati troviamo da una parte i nomi dei caduti, mentre dall’altra un uomo inginocchiato intento a pregare e una donna con un crocifisso speranzosa mentre guarda il cielo. Sopra i bassorilievi troviamo un angelo con la testa rivolta verso l’alto come simbolo di libertà. Un significato e un’immagine impattante, che ci forniscono ancor di più l’esempio di come questo episodio abbia segnato irrimediabilmente queste comunità.

Uscendo da piazza Dante Desideri ci dirigiamo verso il Giardino della memoria, lungo la strada Regionale 436. Inaugurato il 23 agosto del 1996, nel luogo in cui sorgeva un ex cimitero, il giardino si compone di due rappresentazioni artistiche: “Paysage” di Andrea Dami, e “Mio fratello è qui”, curato da Simone Fagioli. Il primo è un dipinto di forma triangolare realizzato con tante formelle quante sono le vittime. Il secondo è formato da nove pedane a mosaico che rappresentano altrettanti simboli universali collegati ai temi della solidarietà e della pace. A pochi passi dal giardino, precisamente a Via delle Morette, ci troveremo davanti a “Lo Stupore”, monumento ad opera di Gino Terreni inaugurato nel 2002, e dedicato a tutte le vittime del Padule.

Continuando il nostro percorso ci dirigiamo verso via Don Franco Malucchi, sede del Centro Visite della Riserva Naturale, gestito dal Centro di Ricerca, Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio. Agisce principalmente come punto d’informazione turistica e centro di educazione ambientale. Al suo interno sarà possibile trovare aule, laboratori didattici, bookshop, esposizioni di attività, di prodotti e una mostra permanente delle opere preparatorie del monumento di Gino Terreni, donate dallo scultore al Comune di Larciano. Organizza varie attività di visita del Padule volte alla scoperta delle zone per birdwatching ma anche per varie zone di interesse storico come il Casotto del Criachi, lapide in ricordo delle vittime. Il sentiero proposto arriva fino all’inizio del Padule, sia che ci si voglia avventurare singolarmente sia che si voglia seguire degli itinerari già presenti e collaudati dal Centro di Ricerca.

 

Sentiero 2

  • Percorso: Piazza Dante Desideri, Via Vittorio Veneto, Cerreto Guidi (MuMeLoc) – Via della Prata, Cerreto Guidi (Giardino della meditazione) – Piazza Sette Martiri 11, Fucecchio, località Massarella (Lapide sulla chiesa di Santa Maria) – Via delle Cerbaie, Fucecchio, località Massarella (Parco della Rimembranza) – Piazza Martiri del Padule, Ponte Buggianese, località Anchione (Monumento alle vittime del Padule di Fucecchio)
  • Tempo di percorrenza: 4 ore
  • Distanza: 18,5 km
  • Dislivello: con dislivelli (+ 69 m – 153 m)

Questo secondo itinerario è indubbiamente più lungo e faticoso, vista anche la presenza di qualche dislivello. Il punto di partenza è Piazza dei Desideri a Cerreto Guidi, dove ci troveremo davanti al MuMeLoc, il museo della memoria locale. Caratterizzato per la sua peculiarità multimediale, il MuMeloc è un centro culturale dove non viene dato priorità ai cimeli, agli oggetti, ma alle storie, alle voci, alle immagini e alle esperienze. Il centro del museo è rappresentato proprio dalla narrazione dell’eccidio del Padule, con peculiarità uniche e storie strazianti pronti ad immergere completamente il visitatore.

Giardino della meditazione “Livio Lensi” a Stabbia, Cerreto Guidi

Sempre a Cerretto, precisamente a Stabbia, troviamo poi il Giardino della meditazione “Livio Lensi”, che riporta i ceppi dei morti dei morti di Cerreto e Fucecchio, ponendosi quindi come punto di ricordo e commemorazione collettiva, in un’atmosfera cullata dalla calma e dal silenzio.

Ci spostiamo poi a Fucecchio, precisamente in piazza dei Sette Martiri, dove potremmo vedere la lapide dedicata ai sei civili ed un carabiniere di Massarella posta sulla parete esterna della Pieve di Santa Maria.

Sempre a Massarella, ci spostiamo a via delle Cerbaie dove troviamo il Parco della Rimembranza. Si tratta di un giardino molto esteso con due lastre di ferro rettangolare dove sono riportati 7 nomi, lungo un viale ci sono poi una serie di strutture in metallo a forma di cuore in cui sono scritti i nomi dei deceduti, in fondo al viale vi è infine una lapide in marmo con una dedica.

Concludiamo infine il nostro itinerario dirigendoci a Piazza Martiri del Padule a Ponte Buggianese, nella frazione di Anchione. Qui troveremo il Monumento alle vittime del Padule di Fucecchio, dove sono incisi i nomi delle 44 vittime della zona, divise tra residenti, non residenti e militari.

 

Note

 

[1] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), regione Toscana, Carocci editore, Roma, 2009, p. 162.

 

[2] M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia, 1997, p. 143.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2024.




L’eccidio di Berceto tra luci ed ombre: quando la Storia non è univoca

Una delle vicende forse più tristi, dal forte impatto morale e ancora controverse, verificatasi nelle campagne tra Monte Giovi e Pratovecchio, verso gli Appennini, è sicuramente quella di Berceto, piccola località del comune di Rufina, in provincia di Firenze, tappa del Sentiero della Memoria.

Immagine satellitare di Berceto. Fonte: Google Maps

Nel periodo tra marzo e aprile del 1944, sul Monte Giovi si riunirono pian piano vari nuclei di combattenti, fra cui il gruppo Lanciotto Ballerini proveniente da Monte Morello. Per tutto l’inverno dovettero sopportare non solo il freddo, ma soprattutto le varie marce forzate di spostamento, rese necessarie dai continui rastrellamenti operati dalle milizie repubblichine e dai reparti nazisti della divisione Hermann Goering, fatti giungere nel centro Italia con funzioni antipartigiane [1].

Ai primi d’aprile, tedeschi e repubblichini misero in atto un rastrellamento su vasta scala nella zona tra la Calvana e il monte Falterona. Incendi, distruzioni ed uccisioni indiscriminate caratterizzarono quell’operazione di polizia con l’intento di dissuadere i contadini della zona a dare aiuto ai partigiani.

Furono proprio costoro a subire le più gravi conseguenze per il sostegno dato alla causa della Resistenza. I contadini, inoltre, erano spesso succubi di un apparato agrario dominato dai grandi latifondisti, coadiuvati da fattori asserviti al regime, controllori attenti del territorio [2].

È in tale clima che avvenne l’eccidio di Berceto.

Lunedì 17 aprile del 1944, infatti, a Berceto, non distante da Pomino, sempre nel comune di Rufina, arrivarono sette uomini, che si definirono partigiani sbandati. In quei giorni, nella zona di Pomino, era presente in perlustrazione una formazione partigiana comandata da Pietro Corsinovi detto “Pietrino” (a cui faceva capo il gruppo Lanciotto Bellerini). La formazione aveva lasciato ad inizio aprile il Monte Morello, spostandosi in direzione del Falterona. Dopo i fatti di Vallucciole (frazione di Stia, in provincia di Arezzo) di Pasqua, stava rientrando verso Rufina. Corsinovi dette ordine di muoversi verso il passo della Consuma, attraverso il quale sperava di giungere al Pratomagno. Durante il trasferimento però, la squadra di Romolo Moretti “Capitan Tempesta” rimase indietro: lui riuscì a ricongiungersi con i compagni, ma sette dei suoi uomini si erano fermati in una casa colonica di Berceto, all’alba del 17 aprile [3].

Questi uomini, tutti tra i 19 e i 22 anni, erano saliti sul Monte Morello dopo l’8 settembre: tre erano fiorentini, Osvaldo Toci del Medico, detto “Sindic”, il suo futuro cognato Dino Bolognesi “Onid” e Carlo Uttummi; due erano di Carmignano, come Mauro Chiti e Adelindo Bocci; uno di Campi Bisenzio, tale Guglielmo Chiti “Teotiste”. Il settimo era un disertore austriaco della Wermacht, che si era unito agli altri solo da poco [4].

Questi chiesero al signor Lazzaro Vangelisti, uno dei coloni della vicina fattoria di Pomino dei marchesi Frescobaldi, cibo e ospitalità e pernottarono lì, nonostante Vangelisti stesso e i paesani, anch’essi coloni, avessero detto loro di non trattenersi a lungo, onde evitare rischi.

Vecchia foto di Lazzaro Vangelisti a Berceto Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

 

Vangelisti nei giorni precedenti si era già mostrato solidale con i soldati alleati e i partigiani, fatto forse noto ad Uttummi e al Tesi. Quel giorno però Vangelisti si mostrò diffidente. Era infatti noto che i soldati della Divisione Göring fossero impegnati sui rilievi dei monti Morello, Falterona, Giovi e nell’area del Casentino in una grande operazione di rastrellamento antipartigiano.

I partigiani non si decisero a ripartire e, anzi, si fermarono a farsi rammendare e sistemare i vestiti dalle donne del posto, mostrandosi -secondo la testimonianza di Vangelisti- ostili, fatto che aveva destato in lui, ex post, sospetti sulle reali intenzioni dei ribelli.

Come temuto però, poco dopo, giunsero a Berceto gli uomini della Göring, tra i quali alcuni militi della 92° Legione GNR di Firenze, distaccati a Dicomano [5]. Cinque partigiani vennero catturati, due dei quali, Guglielmo Tesi e Mauro Chiti, fucilati all’istante. Gli altri, stando ai loro racconti, colpiti da un calcio, avrebbero perso l’equilibrio e sarebbero caduti, evitando così le raffiche di mitra che uccisero gli altri due ragazzi. Furono dapprima portati alla Consuma, poi a Firenze, nella Fortezza da Basso, quindi alle Murate, dove sarebbero stati torturati, prima di riuscire a fuggire, per ricongiungersi con i ribelli [6].

Nel frattempo, a Berceto, la furia dei soldati si era abbattuta sulla famiglia Vangelisti, ritenuta fiancheggiatrice dei partigiani: la moglie di Lazzaro, Giulia, assieme a quattro figlie, vennero seviziate e uccise , mentre la loro abitazione fu data alle fiamme. Lo stesso copione venne adottato nei confronti delle famiglie Ebicci e Soldeti, vicine dei Vangelisti: furono uccisi i coniugi Alessandro e Isola Ebicci, poi Fabio e Iolanda Soldeti, rispettivamente nonno e nipote, e le loro case date alle fiamme [7]. Sopravvissero solo coloro che al momento dell’eccidio si trovavano al lavoro nei campi.

Giulia Vangelisti con le quattri figlie. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

I due partigiani colpiti a morte. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Gli Ebicci e i Soldeti. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Elina Vangelisti, una delle figlie di Vangelisti sopravvissuta alla strage, così racconta le ore successive:

«I corpi delle vittime furono sistemati al coperto e ricomposti con la collaborazione della Signora Ada Barducci, una vedova amica di famiglia, giunta nel primo pomeriggio a dare aiuto» [8]. I corpi delle vittime, come lo stesso Vangelisti ha raccontato, era stati infatti martoriati [9].

Più tardi, sempre durante i rastrellamenti antipartigiani per indebolire la popolazione civile, i tedeschi uccisero a Cigliano, non distante da Berceto, un pastore, Giuseppe Poggiolini, e un partigiano non identificato.

Il giorno seguente, il 18 aprile, le salme furono sistemate nelle casse di castagno e il giorno successivo sepolte in un’unica fila al cimitero di Pomino come testimonia l’atto di morte della parrocchia redatto dal sacerdote don Fanetti [10].

Non erano ancora stati identificati però i due partigiani uccisi, quindi furono tumulati senza nome. Sette mesi dopo, terminata la guerra, le autorità del C.L.N. invitarono degli esponenti della Resistenza campigiana a riconoscere i due partigiani morti nella strage di Berceto. Guglielmo Tesi era infatti originario di Campi Bisenzio e fu identificato per le sue fattezze fisiche [11].

Molte le polemiche sorte dopo la fine della guerra sui fatti di quel triste giorno. Secondo Corsinovi si sarebbe trattato di una «malvagia rappresaglia» dei nazifascisti, in risposta a quello che chiamò un «combattimento» armato, a causa del quale la formazione partigiana avrebbe subito ingenti perdite [12]. In realtà non ci sarebbe stato un vero e proprio conflitto a fuoco precedente, bensì, come ha scritto Fusi, l’eccidio rientrerebbe nella «guerra ai civili», oramai in atto da settimane nel territorio toscano [13].

Secondo la testimonianza di Lazzaro Vangelisti, mosso dalla voglia di vendetta e per il grande dolore, nel gruppo di partigiani che aveva trovato rifugio presso il suo capanno, vi erano una o più spie (“falsi partigiani”) al servizio dei tedeschi, forse allertati dall’allora fattore, poi portato a processo dallo stesso Vangelisti. Basandosi sui propri ricordi, sulle spiegazioni ricevute e suggestionato da varie illazioni, Vangelisti accusò di aver ordito tale vendetta, coadiuvato da alcuni dei sette partigiani, il marchese Frescobaldi, proprietario della tenuta di Pomino e il suo fattore, Giuliano Franciolini, animati da simpatie fasciste e, a suo dire, desiderosi di fargli pagare il suo sostegno alla Resistenza [14].

Aveva mosso già tali accuse nell’aprile del 1945, quando venne interrogato allo Special Investigation Branch britannico che indagava sul caso. Lo stesso farà poi con le autorità italiane nel dopoguerra. Ne nacque una vicenda giudiziaria, sia nei confronti dei tre partigiani superstiti, sia verso il Frescobaldi e il fattore, che sfociò in un processo durante il quale «L’Unità», organo ufficiale del Pci, difese il partigiano Sindic e gli altri due accusati con un’inchiesta molto documentata. La sentenza del processo non lasciò adito a dubbi perché Sindic e gli altri vennero assolti con la formula più ampia, ovvero «per non aver commesso il fatto» [15]. Nel novembre del 1948, infatti, la sezione istruttoria della Corte di Appello di Firenze concluse che le accuse mosse verso il Frescobaldi, il fattore e i partigiani di Corsinovi erano infondate [16].

Nessuna giustizia, dunque, ha ripagato per i dolori di quel giorno, mentre luci e ombre caratterizzano , anche perché la verità giudiziaria non ha sostenuto la tesi di Vangelisti. La vicenda di Berceto è, difatti, caratterizzata da «reticenze giudiziarie e operazioni politico-culturali di rimozione di fatti ed episodi», storie troppo scomode nel secondo dopoguerra, come ha scritto l’oramai ex sindaco di Rufina Mauro Pinzani [17].

Come chiaramente scrive Fusi, si può dubitare -come fece Vangelisti- che le accuse da lui mosse fossero state insabbiate per motivi politici, dovuti alle forti polarizzazioni della politica italiana d’allora, come avvenne per altri crimini dei nazifascisti. Tuttavia, in mancanza di prove verificabili, resta lacunosa la ricostruzione dei fatti e resta difficile ipotizzare che un simile eccidio sia stato pianificato così nel dettaglio [18].

Come per molti altri eccidi, le popolazioni martirizzate hanno sempre cercato verità, senza contestualizzare però l’evento, difficile da accettare e metabolizzare, ricercando cause razionali.

Vera Vangelisti con una vecchia foto del padre Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Lazzaro Vangelisti, per avere una qualche giustizia, ha lottato a lungo con la figlia Vera, sopravvissuta alla strage e autrice di un libro, La strage di Berceto (DEA, Firenze, 2013), mentre lui ha affidato le proprie memorie biografiche e i ricordi di quel giorno ad un altro testo, intitolato Una vita trascorsa sotto tre regimi (Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]). Il titolo parla da sé: Vangelisti racconta la vita che aveva vissuto durante la Prima Guerra mondiale, poi sotto il fascismo e con la Seconda Guerra mondiale, infine, quando aveva dovuto lottare ancora per avere giustizia [19].

Copertina della prima edizione del testo di Vangelisti, presentato da Vasco Pratolini, che conobbe tale testo grazie a Don Masi, prete molto vicino a Lazzaro Vangelisti.

Il libro di Vangelisti va dunque letto come una testimonianza delle atrocità commesse dai nazifascisti e come «esempio di una lacerante ricerca personale di una spiegazione e di un senso di giustizia in grado di lenire in qualche modo il peso angosciante di un’incolmabile perdita subita; ma non possono però essere intese come una ricostruzione provante delle presunte responsabilità di cui egli al tempo, pur coscienziosamente, si convinse» [20].

A proposito delle vicende di Berceto così le introduce:

«Era il 17 aprile 1944. Quel giorno ci fu troncata definitivamente la felicità che ci restava [21]».

Nel 1978, quando uscì il libro, l’autore ripropose le sue idee e le sue verità, accusando nuovamente i tre partigiani sopravvissuti, il Frescobaldi e il Franciolini.

Così parla Marzia Toci del Medico, la figlia di Sindic: «Ho scoperto solo molti anni dopo questo libro e da quel momento ho cominciato a lottare in difesa della memoria di mio padre, ritrovando documenti e sentenze e iniziando una battaglia legale che ha portato al ritiro del libro di Vangelisti. Adesso con questo volume spero che finalmente la verità sia ristabilita e accettata da tutti, anche se fino ad adesso non ho trovato disponibilità da parte di Anpi che è rimasta arroccata sulla versione del Vangelisti» [22].

Come ricordato da Francesco Fusi, Marzia Toci del Medico ha pubblicato una ricostruzione dei fatti, supportata da materiale archivistico dell’Archivio di Stato di Firenze, per riabilitare la memoria del padre, oramai scomparso (Marzia Toci del Medico, Sindic, la storia non si cambia! Albatros, Roma, 2022) [23].

Le memorie contrapposte, segnate dal tremendo trauma, restano quindi divise. La Storia deve rispettarle e soprattutto può restituire la complessità degli eventi entro cui questo episodio si è svolto, pur senza pretesa di offrire soluzioni alle legittime aspirazioni dei singoli né tanto meno sentenze.

Unidici le vittime di quel giorno, tra luci ed ombre: nove civili, tra donne, uomini e bambini e due partigiani.

Ebicci Alessandro, 78 anni

Ebicci Isola, 49 anni

Soldeti Fabio, 81 anni

Soldeti Iolanda, 19 anni

Vangelisti Giulia, 46 anni

Vangelisti Iole, 9 anni

Vangelisti Anna Maria, 3 anni

Vangelisti Angelina, 22 anni

Vangelisti Bruna,  23 anni

Chiti Mauro, 19 anni

Tesi Guglielmo, 19 anni

 

Il 17 aprile 1945, il comune di Rufina pose a Berceto una lapide in ricordo delle vittime su di una parete del casolare dei Vangelisti, teatro dell’eccidio e, nel Sessantesimo anniversario della strage, una seconda lapide in loro memoria. Infine, il 25 aprile 1972, lo stesso comune fece erigere nel centro di Pomino un cippo-monumento in ricordo delle vittime dell’eccidio [24].

Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, Comune di Rufina (FI) Fonte: Giovanni Baldini, Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/1615/lapide-per-il-60-delleccidio-di-berceto/

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Il nome del partigiano Mauro Chiti è riportato anche su una lapide in ricordo dei cittadini caduti, posta sul Municipio di Carmignano, presso Prato, luogo da cui proveniva [25].

Lapide del municipio, Comune di Carmignano (PO). Fonte: Giovanni Baldini, Lapide del municipio di Carmignano, Memo, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/59/lapide-del-municipio/

Nell’aprile del 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito al comune di Rufina la Medaglia di Bronzo al Merito Civile per l’opposizione al fascismo e per il sacrificio pagato con l’eccidio di Berceto, «nobile esempio di spirito di sacrificio e di amor patrio» [26].

Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’eccidio, l’amministrazione comunale di Rufina organizza a Berceto una commemorazione delle vittime.

Tomba delle donne di Berceto, Comune di Rufina (FI). Fonte: Giovanni Baldini, tomba delle donne di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/430/tomba-delle-donne-di-berceto/

Il 4 gennaio 1945, qualche mese dopo la liberazione di Firenze, al partigiano Guglielmo Tesi venne intitolata una strada a Campi, quella che un tempo era Via delle Lame [27] e dal 1947, in suo ricordo, si organizza una corsa ciclistica, la cosiddetta Coppa Guglielmo Tesi [28]. Il suo nome compare, inoltre, sul monumento ai caduti di Campi.

Monumento ai caduti e ai deportati, Comune di Campi Bisenzio (FI) Fonte: Fulvio Conti, Monumento ai caduti e ai deportati del Comune di Campi Bisenzio, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/51/monumento-ai-caduti-e-ai-deportati/

Stando a recenti notizie di cronaca, a Berceto potrebbero essere effettuati presto lavori di restauro per conservare la memoria di quel luogo, come Vangelisti desiderava e come la figlia Vera ha a lungo sperato [29].

Berceto oggi (https://ecomuseomontagnafiorentina.it/siti-di-interesse/berceto/)

Note:

  1. Bernardi Renzo, Conti Fulvio, Risi Mendes, Rizzo Vincenzo (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, Comune di Campi Bisenzio, Campi Bisenzio, [2005], pp. 30-31
  2. Ivi, p. 31
  3. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 313-314
  4. Ivi, p. 314
  5. La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata istituita dalla Repubblica Sociale Italiana l’8 dicembre 1943 con compiti di polizia interna e militare.
  6. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 315-316
  7. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]; sulla vicenda vedi anche Casalini, Giovanna, L’eccidio nazifascista di Berceto a Rufina, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Gorgonzola, 2011, pp.63-65
  8. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, cit., p. 37
  9. Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014, p. 75
  10. Bernardi R., Conti F., Risi M, Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, 37
  11. Ivi, , p. 37
  12. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, , p. 316
  13. Ivi, cit., p. 317
  14. Ivi, pp. 317-318
  15. s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”, in PrimaFirenze, https://primafirenze.it/altro/un-libro-verita-sulla-morte-di-guglielmo-tesi/ [consultato nel mese di giugno 2024]
  16. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 318
  17. Pinzani, Mauro, Prefazione, in L. Vangelisti, Una vita trascorsa sotto tre regimi, p. 9
  18. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 321-322
  19. Vagelisti Vera, La strage di Berceto, DEA, Firenze, 2013; Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]
  20. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944,, p. 322
  21. Vangelisti L., Una vita trascorsa sotto tre regimi, cit., p. 70
  22. Citazione di Marzia Toci del Medico, in A.s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”
  23. nota 61, in Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, p. 322
  24. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
  25. Ibidem
  26. Ibidem
  27. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, pp. 47-50
  28. Ivi, pp. 51-77
  29. Bartoletti, Leonardo, “La casa di Berceto restaurata dalla proprietà Frescobaldi”, La Nazione, 23 aprile 2023, https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/la-casa-di-berceto-restaurata-dalla-proprieta-frescobaldi-f730c3b4 [consultato nel mese di maggio 2024]

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di luglio 2024.




Monte Giovi e dintorni: memorie e commemorazioni della Resistenza in provincia di Firenze

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza In ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

Monte Giovi è un complesso montuoso situato nella provincia di Firenze, entro la dorsale appenninica di Monte Morello e Monte Senario, che separa il Mugello dal Valdarno e dalla Valdisieve. Il suo territorio è diviso tra i comuni di Pontassieve e Borgo San Lorenzo e, in misura minore, da quelli di Rufina, Vicchio e Dicomano.

Foto da Google Maps di Monte Giovi dal satellite

Il massiccio raggiunge l’altitudine maggiore nella sua cima (992 metri), ma lungo il crinale principale si trovano anche Poggio Ripaghera (914 metri) e Monte Calvana (913 metri) [1].

A dimostrazione della centralità di Monte Giovi negli eventi della Resistenza toscana, la Provincia di Firenze assieme alle Comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Borgo San Lorenzo, Dicomano, Pontassieve e Vicchio vi hanno istituito un parco dedicato alla guerra di Liberazione chiamato, “Parco culturale della Memoria”.

Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, Monte Giovi fu uno dei luoghi dove i primi “ribelli” si aggregarono in formazioni partigiane. È qui che si costituirono alcune delle più famose brigate.

Tra la popolazione dei paesi presso Monte Giovi e coloro che parteciparono alla Resistenza si creò un legame di collaborazione. Molti, tra cui Acone, tutt’oggi luogo della memoria del Monte, offrirono rifugio, non senza ferite, come dimostrano le varie stragi nel territorio.

I partigiani ricambiarono, salvando i beni dei contadini dai sequestri che operavano i tedeschi o dall’ammasso obbligatorio che esigevano i fascisti, per poi riconsegnarli di soppiatto con la complicità dei “derubati”.

Fra i primi gruppi partigiani ci fu il “Gruppo Pontassieve” rimasto noto per la volontà di agire in totale indipendenza: i partigiani che lo costituivano non si aggregarono alle altre formazioni se non dopo il suo scioglimento. Sempre a Monte Giovi si formarono la “Faliero Pucci” e la “Spartaco Lavagnini”. Qui operarono anche la “Caiani” e la “Lanciotto Ballerini”.

Ai partigiani si unirono alcuni prigionieri di guerra russi, allora reclusi in un campo nei pressi della vetta del monte, a Tamburino, che poi avevano trovato rifugio ad Acone.

Nell’agosto del ’44 da qui partì o transitò buona parte dei partigiani che contribuirono alla battaglia di Firenze.

I tedeschi e i fascisti non restarono, però, in questi mesi, con le mani in mano. Durante la ritirata nazifascista, in vari gruppi di partigiani erano presenti anche spie e infiltrati. Il loro ruolo serviva a minare ulteriormente il rapporto tra le varie brigate e la popolazione civile, spesso vittima di ritorsioni.

Per quel che riguarda il versante pontassievese e rufinese, è bene ricordare che quel territorio, dopo l’8 settembre 1943, diventò un obiettivo di grande interesse per gli Alleati e le loro azioni aeree, essendo Pontassieve un importante snodo ferroviario e stradale, oltre ad essere sede delle Officine delle Ferrovie dello Stato. Come del resto in tutta la Toscana, i bombardamenti e le rappresaglie tedesche non mancarono, essendo stata quella toscana una terra martirizzata dalla ritirata nemica.

Monte Giovi e la sua popolazione subirono molte ferite proprio in quell’anno. A fronte del forte legame tra i partigiani e la cittadinanza, si verificarono eventi drammatici, come in molte altre zone d’Italia.

Già durante gli ultimi mesi del 1943 si erano intensificati gli scontri tra nazi-fascisti e ribelli, come dimostra il tafferuglio scoppiato a Nave di Ponte a Vico, tra Pontassieve e Rufina. Pontassieve venne inoltre presa di mira dai bombardamenti.

Nella primavera del 1944, fascisti e tedeschi avevano cercato di intercettare le formazioni partigiane tra Monte Giovi e Falterona, così come nei mesi seguenti. Nei monti del Mugello e della Valdisieve si rifugiavano molte squadre di ribelli che, via via, si andarono strutturando. Tristemente noto l’eccidio nazifascista consumatosi a Berceto (Rufina) [2][3], tappa del Sentiero della Memoria, il 17 aprile 1944. In quell’occasione, proprio durante una di queste intercettazioni, nell’incontro-scontro tra nazifascisti e partigiani, sempre per rappresaglia, furono uccise undici persone, compresi donne e bambini.

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Nel frattempo, nel maggio del 1944, il movimento partigiano fiorentino fu costretto a riorganizzarsi. L’obiettivo era quello di superare il modello delle piccole formazioni autonome, per passare ad una grande formazione unica, un’unica brigata partigiana. Tale compito fu affidato dai centri dirigenti fiorentini a Aligi Barducci (“Potente”), dal 24 maggio 1944 alla guida della prima Brigata “Garibaldi”, la “Lanciotto Ballerini”. La Brigata si ricostituì proprio su Monte Giovi [4].

Anche il mese di giugno era iniziato con uno scontro tra tedeschi e partigiani, proprio sul Monte Giovi, a Monte Rotondo, presso Casa Messeri, coinvolgendo la 10° Brigata “Garibaldi”, la “Caiani”, dove morirono un partigiano e tre tedeschi. Seguirono bombardamenti degli Alleati su Pontassieve per rendere difficile ai tedeschi di raggiungere Firenze [5].

È in questo contesto che si verificò anche la triste vicenda della Pievecchia, a Pontassieve, l’8 giugno 1944, dove quattordici uomini vennero uccisi, di cui tredici fucilati durante la rappresaglia tedesca, con l’obiettivo di punire la popolazione inerme [6][7].

Pievecchia, Ok!Valdisieve

Tra il 10 e l’11 luglio 1944 si consumerà un nuovo eccidio, questa nel versante mugellano, verso Vicchio. Il mattino del 10 luglio, si presentò alla fattoria di Padulivo, a circa 6 km da Vicchio, alle pendici di Monte Giovi, un reparto di SS con circa una sessantina di uomini. La fattoria ospitava allora circa centocinquanta sfollati mentre il proprietario, Aldo Galardi, aiutava, saltuariamente, le locali formazioni partigiane.

Durante la perquisizione, i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani. Questi furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo, quando le SS si stavano ritirando. Un tedesco venne ferito, mentre un altro morì. I tedeschi, tornati alla fattoria, arrestarono tutti coloro che trovarono, prima di appiccare il fuoco all’abitato.

Per rappresaglia, sul ponte dove avevano subito l’agguato, le SS giustiziarono, tra gli arrestati, dieci uomini e una donna; solo uno degli uomini sopravvisse. Dopo una notte di prigionia, i catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate [8].

In ricordo della triste vicenda è stato posto un cippo in località Padulivo nel 1994. Ogni anno, inoltre, il Comune di Vicchio con l’Anpi locale commemora l’eccidio.

Sempre sul versante mugellano, in zona Borgo San Lorenzo, villa Cerchiai, presso Sagginale, fu attaccata, verso la metà dell’agosto 1944, da alcuni tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.

Nello stesso mese vi sarà la strage della famiglia Einstein , nota anche come strage di Rignano o strage del Focardo (3 agosto 1944) e la strage alle ville e fattorie di Legacciolo e di Podernovo, alla Consuma (25-26 agosto 1944), per ricordare altri tristi eventi, non troppo distanti da Monte Giovi [9].

Posteriore e ben diverso il fatto che scosse il Santuario della Madonna del Sasso, vicino a Santa Brigida, reso noto dal romanzo di Cassola, La ragazza di Bube. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora ancora ben visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Santuario del Sasso

Il 13 maggio 1945, in occasione della festa alla Madonna del Sasso, infatti, una normale giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò nel caos. Fuori dalla chiesa, prima della funzione, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, si scontrarono verbalmente, a causa dei vestiti “succinti” di quest’ultimi. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Carmine Zuddas, incaricato della sorveglianza, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. La situazione degenerò: pare che alcuni abbiano tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine. Stando alle testimonianze, il figlio, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’arrivo di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciambri (Bube), che sparò contro il ragazzo, uccidendolo.

Vennero arrestate 10 persone, dopo le prime indagini, 7 delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube.

Il processo si tenne a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di S. Brigida.

La dinamica non è tutt’oggi chiara, Bube si è sempre dichiarato innocente, ma l’evento è significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano. Chiunque si riteneva portatore di una giustizia, spesso in contrasto con le altre. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e un fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta [10].

La vicenda ispirò Carlo Cassola che la raccontò nel suo romanzo, La ragazza di Bube [11], dal quale Comencini trasse la storia per farne un film. Nada Giorgi, protagonista del libro assieme al marito, non sentendosi ben rappresentata da Cassola, ha in seguito delegato a Massimo Biagioni la scrittura di un altro libro sulla vicenda (Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, 2006) [12].

Nessuna lapide ricorda l’evento al Santuario e non vi sono commemorazioni e cerimonie ufficiali al riguardo.

Monte Giovi è rimasto invece un luogo simbolico della Resistenza locale, dove ogni anno si tiene una vera e propria festa dei Partigiani e dei Giovani. Una festa per socializzare e commemorare, come viene definita. L’evento si tiene proprio nel versante pontassievese, presso Acone, piccola frazione in collina.

Tutti gli anni, a cominciare dal 1949, il secondo fine settimana di luglio, l’ANPI della provincia di Firenze con la collaborazione delle Case del Popolo dei paesi vicini, delle Pro-loco e altre associazioni organizza una festa sulla cima del Monte. La manifestazione si articola in due giorni, il sabato dedicato ai giovani, con spettacoli e balli che durano fino a notte fonda, e la domenica, quando si tengono, invece, le commemorazioni e le orazioni ufficiali. Visto che la strada dalla Rufina è lunga ed arrivare ad Acone non è semplice, in molti campeggiano nell’abetina di Fonte alla Capra.

Nella due giorni sono anche attivi stands gastronomici, si effettua la vendita di libri tematici e altre manifestazioni che variano ogni anno [13].

 

Panel presso Acone

 

Monumento in ricordo della Resistenza ad Acone

 

La piramide in ricordo del contributo femminile alla ResistenzaIn ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza
In ricordo del contributo
femminile alla Resistenza
ed alla Costituzione
dello Stato Repubblicano

 

Spiazzo ad Acone, dove si tiene-ogni anno-la Festa dei partigiani e dei giovani

 

Note:

[1] Vivi Acone! https://viviacone.it/acone/luoghi-da-visitare/monte-giovi/ [consultato nel maggio 2024]

[2] Vangelisti, Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Consiglio Regionale della Toscana, Edizioni dell’Assemblea, 2014

[3] Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]

[4] cfr.  Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 322-323

[5] cfr. Ivi, p. 322

[6] Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]

[7] cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008

[8]Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412  [consultato nel mese di maggio 2024]

[9] Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]

[10] Mazzoni, Dania, Attraverso la bufera. Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione (1943-1948), Comune di Pontassieve, 1990, pp. 142-144

[11] Cassola, Carlo, La ragazza di Bube, Einaudi, Torino, 1960

[12] Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006

[13] Baldini, Giovanni, Monte Giovi, ResistenzaToscana.it, (9 gennaio 2004), https://resistenzatoscana.org/storie/monte_giovi/ ]

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




L’eccidio di piazza Ferrucci ad Empoli

Sono 29 persone in marcia verso la morte in una mattina di luglio a Empoli.

Prima di addentrarci nella narrazioni dei fatti di piazza Ferrucci ad Empoli del 24 luglio 1944, è doveroso spiegare il contesto che portò alla fucilazione di 29 civili da parte delle forze armate tedesche. La popolazione toscana è stata vittima – dal 1943 al 1944 – di brutali eccidi perpetrati dall’esercito tedesco, aiutato delle squadre della Repubblica sociale, durante l’occupazione del territorio italiano in seguito all’armistizio. In particolare, le stragi nazifasciste nel territorio toscano si sono intensificate tra l’aprile e il settembre del 1944, in concomitanza con la ritirata tedesca dovuta all’avanzamento degli eserciti alleati. Da ricordare in questo caso vi è  l’Operazione Diadem, che portò allo sfondamento del fronte di Montecassino e di tutte le successive linee di difesa approntate da Kesselring tra la Linea Gustav e la campagna romana. Inoltre il 23 maggio, anche le truppe anglo-americane, ferme sul fronte di Anzio, iniziarono la loro marcia verso la capitale. Dopo il cedimento del fronte, le due armate tedesche iniziarono una disordinata ritirata, che si fece ancor più repentina dopo la liberazione di Roma – tra il 4 e il 20 giugno – dove gli alleati si spinsero fino alla linea del lago Trasimeno, venendo di fatto a mancare una linea di fronte stabile.

Le difficoltà delle truppe tedesche derivavano dalla difficile difesa che presentava il territorio posto sopra Roma. Con l’apertura delle valli del Tevere e dell’Arno il percorrimento si faceva assai ostico. Il Tevere non offriva alcuna protezione, rendendo solo difficili le comunicazioni. Solo l’Arno – dopo Firenze – rappresentava una linea di difesa naturale accettabile per le forze tedesche, oltre ad essere l’ultima difesa prima dell’arrivo alla Linea Gotica. Fu così che l’esercito tedesco mise in atto un riassetto organizzativo totale della linea difensiva che potremmo così riassumere: fu inizialmente costruita la cosiddetta  Linea Dora (Orbetello – lago di Bolsena – Narni – Rieti – L’Aquila – Pescara) e successivamente la Linea Albert (Grosseto – lago Trasimeno – Numana)[1]. La riorganizzazione tedesca riuscì inizialmente nel suo intento, rallentando l’avanzamento alleato e ritardando quindi la liberazione del territorio toscano, con conseguenze atroci per la parti civili. L’inizio di queste azioni di violenza inaudita contro le popolazioni locali va ricondotta anche all’interno di una logica di guerra psicologica viste le difficoltà dell’esercito tedesco nella gestione dei civili. Il casus belli  che portò al cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della compagine civile può esser ricondotto all’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo, effettuato dal gruppo di Azione Patriottica (GAP), che portò alla morte di 33 soldati tedeschi e al ferimento di 53. Un’azione così marcata contro l’esercito tedesco in una delle principali capitali europee controllate dal Reich venne percepito a Berlino come un’onta indelebile che portò ad un cambio radicale di atteggiamento di cui l’eccidio delle fosse Ardeatine rappresentò solo l’inizio.

La tragedia di Empoli va quindi inserita in questo contesto storico, all’interno di una situazione già tesa da mesi a causa degli scioperi del marzo 1944, che ad Empoli avevano riguardato la storica vetreria Taddei e che avevano portato a deportazioni di massa in tutto il territorio circostante. Da un punto di vista bellico invece, con il cambiamento ulteriore del teatro di guerra nel luglio del 1944, vi era stato lo spostamento delle truppe tedesche sulla sponda meridionale dell’Arno in attesa dell’offensiva alleata proveniente dalla Val d’Elsa. Il fronte stava rapidamente cambiando. Con la liberazione di Grosseto (metà giugno) e Siena (3 luglio), gli Alleati risalivano verso Pisa e Livorno, e il fronte si avvicinava sempre più al territorio empolese. Ad ulteriore riprova va riportato l’ordine di evacuazione del centro cittadino diramato dall’occupante tedesco per i territori di Empoli e delle località limitrofe: Tinaia, Pontorme, Cortenuova, Avane, Santa Maria, Pagnana, Marcignana, Spicchio e Sovigliana, Capraia e Limite, Montelupo, Fucecchio, San Miniato e Castelfiorentino[2].

In concomitanza con ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) empolese aveva invece invitato le formazioni partigiane sparse nel territorio a convergere sulla città, per ostacolare gli spostamenti delle truppe tedesche nei dintorni di Empoli. Durante questa mobilitazione, il 23 luglio, un gruppo di partigiani – intenti a sistemare le proprie armi all’interno di una capanna nei pressi di Pratovecchio – vennero scoperti da un’unità tedesca in perlustrazione appartenente al 29 Grenadier-Regiment. Ne nacque uno scontro a fuoco che portò alla morte di sei, forse sette, soldati tedeschi. I superstiti riuscirono a raggiungere il comando tedesco, situato presso il Terrafino, dove comunicarono l’accaduto al capitano Lutz del 2° Battaglione, il quale informò prontamente il generale Hecker, comandante della 3. Panzer-Grenadier. La rappresaglia tedesca non si fece attendere. Già nel corso della serata vi fu l’arresto di alcune persone, che vennero però rilasciate dopo poche ore, in uno scenario di un’Empoli deserta. La vera reazione tedesca arrivò il giorno seguente, quando gli uomini della 3. Panzer-Grenadier prelevarono numerosi civili per poi condurli a Pratovecchio, nella stessa capanna della sparatoria del giorno precedente. Mentre gli ostaggi aspettavano nervosamente la punizione tedesca, un pagliaio andò a fuoco, probabilmente opera di un civile per cercare di creare un diversivo, ed effettivamente qualcuno riuscì a fuggire. Nel frattempo, oltre all’arrivo di altri soldati, iniziarono ad essere piazzate le mitragliatrici. L’intento era quindi chiaro, la fucilazione degli ostaggi come piena risposta delle azioni partigiane. Proprio durante la fine delle preparazioni, la scena venne notata da un ricognitore inglese, il quale si affrettò subito ad avvertire dell’accaduto l’artiglieria inglese, la quale sparò qualche colpo in zona di avvertimento, consentendo così ad altri civili di scappare. Nonostante le numerose problematiche, l’esercito tedesco, deciso a portare a termine l’operazione, scortò gli ostaggi rimasti nel centro cittadino. Alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il tragitto, ma ne verranno catturati di nuovi[3].

Arrivati ad Empoli, i civili furono fatti sostare sotto il portico del mercato e condotti a gruppi di tre o quattro in piazza Ferrucci dove furono fucilati tra i due alberi di platano. In questa rappresaglia, la 3. Divisione uccise ben 29 persone:

– Bagnoli Luigi (31/05/1883);

– Bargigli Mario Bruno (12/10/1921);

– Bartolini Guido (05/05/1916);

– Bitossi Arduino (10/08/1885);

– Boldrini Orlando (24/07/1880);

– Capecchi Pietro (19/07/1883);

– Cerbioni Bruno (27/02/1926);

– Cerbioni Francesco (25/10/1887);

– Cerbioni Giulio (11/10/1915);

– Chelini Gaspero (26/09/1897);

– Chelini Gino (04/03/1892);

– Ciampi Giuseppe (10/05/1891);

– Ciampi Pietro (16/08/1896);

– Ciampi Virgilio (03/05/1893);

– Cianti Giulio (16/09/1911);

– Gimignani Pasquale (19/09/1898);

– Gori Corrado (30/12/1879);

– Martini Giulio (08/06/1878);

– Martini Pietro (10/04/1885);

– Morelli Mario Gino (15/08/1888);

– Nucci Palmiro (20/03/1888);

– Padovani Gaspero (22/10/1865);

– Parri Alfredo (02/05/1910);

– Parrini Antonio (56 anni);

– Peruzzi Carlo (02/11/1881);

– Piccini Gino (13/08/1895);

– Pucci Alfredo (06/10/1892);

– Taddei Gino (11/12/1906);

– Vizzone Domenico (03/03/1904)[4].

 

I loro cadaveri rimarranno in piazza fino al giorno seguente. Soltanto uno di loro riuscì a salvarsi, Arturo Passerotti. Tentò la fuga prima dell’esecuzione e, nonostante fosse stato colpito alla gamba destra e alla testa, riuscì a scappare[5]. Nei giorni successivi Empoli resterà teatro di altre manifestazioni di rappresaglia tedesca, questa volta tramite minamenti e bombardamenti, fino alla sua definitiva liberazione, il 2 settembre.

Oggi quei 29 nomi sono dignitosamente ricordati nella stessa piazza F. Ferrucci ad Empoli, rinominata piazza “XXIV luglio” in loro onore.

 

 

Note

 

[1] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 89-90.

 

[2] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, p. 487.

 

[3] G. Fulvetti, Ucciere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), regione Toscana, Carocci editore, Roma, 2009, pp. 157-159.

 

[4] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2395

 

[5] Per leggere la sua testimonianza si rimanda a Empoli negli ultimi cento anni: notizie, figure, personaggi: antologia di testi letterari e di varia documentazione, a cura di A. Morelli, Empoli, Comune di Empoli, 1977, pp. 96-99.

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le deportazioni dell’8 marzo 1944 nell’empolese

92 lavoratori in viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen. La loro unica colpa? Aver scioperato, aver cercato di rivendicare i propri diritti. Un atto ritenuto di un oltraggio tale, dall’autorità tedesca, che fu pagato con la vita.

Marzo 1944. Il fronte bellico interno presentava una situazione di assoluta impasse: era fallito il contrattacco tedesco di Anzio come l’avanzata alleata sul fronte del Cassino. Le notizie più entusiasmanti per la resistenza interna provenivano dal fronte orientale, con la liberazione dell’intera Ucraina da parte dell’Unione Sovietica e la loro repentina avanzata. Mentre i partigiani fantasticavano l’eventuale creazione di un secondo fronte di guerra alleato, paventato dagli entusiasmi di Radio Londra. È in questo contesto, di stallo italico ma di grande fervore internazionale che si inseriscono gli scioperi generali indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) per la rivendicazione di un aumento delle razioni alimentari, dei salari e contro la deportazione degli italiani in Germania.

Non doveva essere una semplice rivendicazione. Nei mesi che la precedettero, crebbe continuamente la mobilitazione alla lotta clandestina nei territori dell’empolese. Lo sciopero sarebbe dovuto essere una dimostrazione di forza da parte del CNL nei confronti di fascisti e tedeschi. La dimostrazione di esser in grado di mobilitare la maggior parte della popolazione, di rendere pubblica l’insoddisfazione per l’autorità. E così fu.

Lo sciopero, inizialmente previsto per il 3 marzo, nella zona dell’empolese fu rinviato al giorno successivo. La notte tra il 3 e il 4 marzo varie riunioni tra le squadre di SAP e GAP portarono alla decisione di organizzare alcune postazioni con mitragliatrici e casse di bombe per proteggere il corteo, che furono posizionati già a partire dall’alba. Alle otto del mattino un corteo di donne partì da Avane dando inizio alla manifestazione. Passando dalle frazioni di Mangolo e Santa Maria si unirono altre centinaia di donne, formando un’onda rosa che andò presto ad unirsi agli operai delle fabbriche e ai contadini, oltre che ai piccoli commercianti una volta chiusi i loro negozi. Per le strade del centro cittadino, ormai invase dalla mobilitazione, era alta la voce della protesta collettiva, manifestata da vari cori, da «Pace e Pane» a «Fuori lo straniero». Una rabbia popolare che aveva una chiara connotazione anti-fascista ed anti-tedesca, le cui autorità non ebbero la forza di interrompere. Gli intenti del CLN si realizzarono completamente, con i fascisti che presero dolorosamente atto della situazione, ben consci che una risposta armata alla protesta avrebbe potuto portare – oltre che ad una possibile guerriglia con le forze partigiane – ad una successiva mobilitazione in cui fosse presente l’intera popolazione. La piena riuscita dello sciopero si verificò anche nelle altre località dell’empolese, solo a Limite e Capraia ci fu il tentativo da parte dei carabinieri e dei fascisti locali di sedare la protesta tramite lacrimogeni, senza però successo[1].

La situazione più interessante la troviamo ad Empoli. Dove la riuscita della mobilitazione derivò dall’unione delle rivendicazioni portate avanti dai contadini – forti proteste per la consegna di ulteriori 15 kg di grano all’ammasso e la richiesta del diritto di libera macinazione – e dagli operai, rappresentati soprattutto dai lavoratori della vetreria Taddei, il complesso industriale più grande dell’empolese. L’unione di questi due ceti, storicamente divisi, creò la forza necessaria per dimostrare alle autorità locali la presenza di un dissenso strutturato e ormai impavido di fronte alle minacce fasciste. Una delegazione di scioperanti fu anche ricevuta in Comune per ricevere tutte le rassicurazioni di rito. Le autorità fasciste si dimostrarono così inermi e succubi della situazione, facendo percepire il loro netto disagio nel constatare la presenza di un dissenso non controllabile[2].

Le conseguenze dello sciopero furono chiare. Una situazione di ordine pubblico non più sostenibile e a cui andava posto un rimedio. La rappresaglia non ebbe però luogo nella stessa giornata, per le ragioni già scritte, ma arrivò qualche giorno più tardi. Il clamore della mobilitazione, che ricordiamo, ebbe una grande impatto in tutte le parti d’Italia sotto il controllo tedesco, ebbe una risonanza tale che arrivò direttamente alla scrivania dello stesso Hitler. Il quale, una volta informato, diede disposizione a Himmler, il comandante delle SS, di deportare il 20% di coloro che avevano partecipato agli scioperi in Germania per “lavorare”. Fu così che tra il 4 e l’8 marzo del 1944 i dirigenti locali repubblichini stilarono varie liste di nomi che avrebbero deportato da lì a breve. Decisione, questa, accolta con grande gioia e soddisfazione dai comitati fascisti locali, desiderosi di poter stilare liste arbitrarie più rivolte a connotazioni politiche e personali che riguardanti i fatti del 4 marzo (basti pensare che molti fra gli uomini che verranno deportati non avevano partecipato allo sciopero generale). Sorgeva però un problema logistico e di ordine pubblico. Vista la grande solidarietà della popolazione allo sciopero di quattro giorni prima, sarebbe stato assai rischioso svolgere queste operazioni di giorno, con il rischio di una nuova mobilitazione. L’operazione fu allora svolta la notte tra il 7 e l’8 marzo, dove i repubblichini locali, coadiuvati dalla GNR, dai poliziotti e dai carabinieri, iniziarono un rastrellamento mirato sul territorio dell’empolese. Per evitare troppe problematiche fu utilizzato un modus operandi assai semplificato: gruppi di persone armate si presentavano a casa della persona da prelevare invitandola a seguirli nella caserma più vicina dove, dicevano gli squadristi, ci sarebbe stato un maresciallo o un suo vice che aveva delle domande da porgli. L’incursione in piena notte, il sonno, la paura e la mancata conoscenza del fatto che non si trattasse di un fatto isolato ma di una deportazione generale, portò tutti gli uomini a seguire i poliziotti o chi per loro senza scappare o reagire. Un’operazione che nella sua malvagità fu gestita con rara lungimiranza e dove fu curato ogni particolare. A Montelupo, ad esempio, i fascisti, consci che sarebbe stato impossibile con questo metodo prelevare chi era già scappato dal paese – la maggior parte si rifugiò nella zona di Botinaccio – organizzarono l’imboscata utilizzando un’ambulanza per evitare ogni tipo di sospetto. Un’altra tattica diversificata fu utilizzata per i lavoratori della vetreria Taddei di Empoli, i quali furono direttamente prelevati in azienda con una retata. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche agli operai di un’altra vetreria empolese, la CESA. In questo caso però, intuendo la situazione che si stava creando, il capo fabbrica Betti Rinaldo ebbe la lungimiranza di azionare l’allarme che fece scappare tutti gli operai, i quali vennero a conoscenza soltanto il giorno seguente di esser sfuggiti non ad un guasto all’impianto ma ad una deportazione di massa[3].

Come dicevamo, esclusa la CESA, il rastrellamento riuscì perfettamente. Ad Empoli, oltre ai 26 operai della Taddei, furono arrestate altre 30 persone, a Montelupo gli arrestati sono 22, a Limite sull’Arno 11, a Vinci 7, a Fucecchio 9 e a Cerreto Guidi 7[4]. L’indomani, tra lo sgomento e l’incredulità della popolazione, ignara della sorte dei loro concittadini, gli arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio, ammassati, senza dormire né mangiare, l’arrivo ad una stazione ferroviaria austriaca. Stanchi, impauriti e sprovvisti di un abbigliamento adeguato alla neve pungente furono costretti ad intraprendere una marcia di sei chilometri fino ad una fortezza abnorme, con due torri unite da un muro in pietra al centro del quale si trovava una grande portale di legno. In pochi di loro riuscirono, in quelle condizioni, a scorgere una scritta che inaugura il campo: «Il lavoro rende liberi!». Erano arrivati a Mauthausen.

Dei 92 lavoratori ed antifascisti prelevati la notte tra il 7 e l’8 marzo e spediti al campo di concentramento, soltanto 5 o 6 avrebbero successivamente fatto ritorno alle loro famiglie, tutti gli altri non riuscirono a sopravvivere alle condizioni disumane dei campi.

 

 

Note:

 

[1] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, pp. 469-470.

 

[2]  A. Dini, La notte dell’odio, Editore Nuova Fortezza, Livorno, 2000, p. 23.

 

[3]  Ivi, pp. 26-29.

 

[4]  L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, p. 472.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Il sentiero della memoria dei Monti Scalari e Pian d’Albero

Grazie al lavoro di ricostruzione storica, condotto in particolare da Matteo Barucci intorno alle vicende della Brigata Sinigaglia e alla strage di Pian d’Albero, è stato realizzato un percorso ad anello di circa 11 km che parte e si conclude a Poggio alla Croce, nei territori dei comuni di Figline – Incisa Valdarno e Greve in Chianti.

Rispetto a precedenti percorsi CAI, il sentiero, adatto a chiunque abbia una minima esperienza, consente di scoprire luoghi poco noti che rievocano episodi della lotta di Resistenza in questa zona, oltre in noto casolare della famiglia Cavicchi teatro della strage di fine giugno del ’44.

Il sentiero attraversa, infatti, i colli di Poggio La Sughera e Poggio Tondo dove si muovevano gli uomini della Sinigaglia, costeggia i ruderi di Casa al Monte dei Venturi dove veniva cotto il pane della brigata, quindi passa dal Pianello, luogo di ricezione dei lanci alleati: una conca naturale, al riparo dai pericoli di avvistamento, nella quale fra il maggio e il giugno la brigata ricevette da parte probabilmente dell’esercito inglese almeno due lanci fondamentali per equipaggiare i partigiani fino ad allora in drammatica carenza di armi.

Il sentiero costeggia anche l’Abbazia San Cassiano o Badia Montescalari dove trovarono rifugio le truppe tedesche, il Casolare di Monte Moggio, dove si trovava un secondo forno per cuocere il pane per i partigiani, Poggio La beccheria, uno dei luoghi segnati dall’allestimento della linea difensiva Mädchen, realizzata dai nazisti per rallentare l’avanzata nemico e teatro di serrati scontri nel luglio del 1944.

Per approfondimenti: Wikiloc | Percorso Sentiero della memoria Monti Scalari e Pian d’Albero

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 




Percorsi tra Storia e memoria sul Monte Giovi

La Città Metropolitana fiorentina, assieme alle comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Pontassieve, Borgo San Lorenzo, Vicchio e Dicomano hanno istituito sul Monte Giovi un parco dedicato alla guerra di Liberazione, chiamato Parco culturale della Memoria, una sorta di «museo diffuso».

Come primo atto della costituzione del Parco culturale della Memoria, per il 60° Anniversario della Liberazione, l’ANPI di Firenze, con il gruppo escursionisti “Geo”, ha promosso una serie di “itinerari partigiani sul monte Giovi”, utilizzando in gran parte la sentieristica attivata dal CAI (Club Alpino Italiano) e intitolando i singoli sentieri a personalità o a gruppi di azione protagonisti dell’antifascismo e della Resistenza.

Il progetto è stato concepito in attuazione della Legge regionale N. 38/02 contenente “Norme in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza e di promozione di una cultura di libertà, democrazia, pace e collaborazione tra i popoli” [1].

Oltre alla finalità principale, cioè, promuovere la memoria degli eventi della Resistenza, il progetto si propone di recuperare la viabilità rurale che collega i quattro comuni compresi nell’accordo per valorizzare e rendere nuovamente fruibile la viabilità “secondaria” di un tempo. Il progetto comprende inoltre obiettivi di diffusione e di animazione culturale e sociale e precisi interventi sul territorio, tra i quali la costruzione di un monumento alla Memoria sulla vetta del monte Giovi. L’iniziativa, di alto valore culturale, coinvolge un territorio importante nella guerra di Liberazione, della quale tuttavia non conserva permanenze consistenti. Non meno rilevanti la salvaguardia della flora e della fauna locali, come il Cisto laurino (detto anche fiore della Madonna), unica presenza di tale arbusto in Italia.

Il Parco culturale è stato presentato a Firenze il 12 dicembre 2008 presso la sede della Provincia a Palazzo Medici Riccardi e prevede cinque diversi percorsi tematici:

 

MugelloToscana.it

Sentiero 1

Pievecchia-Acone [2]:

Acone (Pontassieve) – Galiga – Passo Aceraia – Prati Nuovi – Acone

Accesso principale da Pontassieve a Le Colline (8,5 chilometri); da Scopeti ad Acone (6 km). Durante questo itinerario si ricorda la rappresaglia della Pievecchia, quando i tedeschi uccisero 14 innocenti l’8 giugno 1944.

  • Lunghezza anello: 16,5 km
  • Dislivello anello max: 333 m ca. in salita, 627 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,30 ore
  • Difficoltà: medio-alta

Sentiero 2

Barbiana-Padulivo [3]: Accesso principale da Dicomano a Tamburino (7,0 chilometri). Anche in questo itinerario, che porta ai luoghi cari a Don Milani, si ricorda l’eccidio di Padulivo, quando il 10 luglio 1944 i tedeschi trucidarono 15 persone.

Mulino di Baldracca (Vicchio)- San Martino a Scopeto – Tamburino – Piramide Brigate Partigiane – Barbiana – Padulivo – Mulino di Baldracca

  • Lunghezza anello: 14 km
  • Dislivello anello max: 530 m ca. in salita, 631 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 4,20 ore
  • Difficoltà: medio-alta

La località mugellana è inoltre parte dell’itinerario denominato “Sentiero della Resistenza”, realizzato grazie a una convenzione con la Presidenza del Consiglio dei ministri – che parte dal cippo che commemora la strage nazifascista di Padulivo a Vicchio e si compone di 33 pannelli, disegnati da studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e di altre scuole. I pannelli richiamano importanti episodi storici e stralci di lettere dei condannati a morte della Resistenza locale, nazionale ed europea (https://www.donlorenzomilani.it/sentiero-della-resistenza/) [4].

Sentiero 3

Madonna del Sasso: Accesso principale da Polcanto alla cascina di Monterotondo (5,2 chilometri). In questo itinerario si ricorda un evento del 1945 quando, presso il Santuario della Madonna del Sasso, vennero uccisi un maresciallo dei Carabinieri, suo figlio ed un militante comunista. Questi fatti ispirarono il romanzo di Carlo Cassola, La ragazza di Bube.

Santa Brigida (Pontassieve) – Madonna del Sasso – Monte Rotondo – Passo dell’Aceraia – Croce di Aceraia – Santa Brigida

  • Lunghezza anello: 11,5 km
  • Dislivello anello max: 495 m ca. in salita, 398 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,15 ore
  • Difficoltà: medio-alta

Sentiero 4

Monte Giovi: Recenti ritrovamenti hanno accertato che qui, in epoche remote, esisteva un luogo di culto, probabilmente dedicato a Giove. Lungo questo itinerario, si trova anche la piramide delle Brigate partigiane e Casa al Cerro (una delle basi più utilizzate dei partigiani). Presso Fonte alla Capra si tiene ogni anno, nella seconda domenica di luglio, il Raduno dei Partigiani e dei giovani di Monte Giovi.

Tamburino – San Giusto – Prati Nuovi – Casa Cerro – Monte Giovi – Piramide Brigate Partigiane – Tamburino

  • Lunghezza anello: 6 km
  • Dislivello anello max: 188 m ca. in salita, 188 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 2,10 ore anello (+ 3 ore con l’ingresso da Dicomano – Celle – Fostia – Pruneta – Tamburino)
  • Difficoltà: media

Piramide Brigate Partigiane (Acone)

 

Sentiero 5

Monte Rotondo: Accesso Principale da Sagginale all’intersezione con il sentiero CAI 3. In questo itinerario si trova villa Cerchiai, attaccata verso la metà dell’agosto 1944, dai tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.

(San Cresci – Borgo San Lorenzo) – Innesto sentiero 3/A – Villa Cerchiai – Passo dell’Aceraia – Monte Rotondo – Montepulico – Poggio Santa Margherita – Campiano – Innesto sentiero 9 – (San Cresci)

  • Lunghezza anello: 16 km (da innesto sentiero 3/A a innesto sentiero 9)
  • Dislivello anello max: 530 m ca. in salita, 290 m ca. in discesa
  • Tempo di percorrenza: 5,10 ore anello+ 1 ora da San Cresci
  • Difficoltà: media

 

Il 25 aprile 2009 è stato inoltre inaugurato il Sentiero della Memoria, percorribile anche a cavallo ed in mountain-bike, che unisce Pontassieve alla Consuma passando da Rufina e da tre luoghi ove nel 1944 sono avvenute stragi di civili. Il sentiero, voluto dai Comuni di Pelago, Pontassieve e Rufina e dalla Comunità Montana della Montagna Fiorentina, è stato realizzato dal Gruppo Escursionisti Organizzati di Sieci e dalla Sottosezione di Pontassieve.

Riguardo a quel che avvenne in quei tragici giorni e alle vittime, è stata stampata una Cartoguida, distribuita gratuitamente dai Comuni, dal GEO, dalla Sottosezione di Pontassieve e scaricabile anche da https://www.caipontassieve.it/sentiero-della-memoria/, insieme alle tracce GPS.

Cartoguida lato carta, Sentiero della Memoria, CAI, Sezione di Firenze, sottosezione di Pontassieve “Romano Pini”

Cartoguida lato guida, Sentiero della Memoria, CAI, Sezione di Firenze, sottosezione di Pontassieve “Romano Pini” [5]

Il sentiero è lungo complessivamente circa 29 km e, percorrendolo da Pontassieve verso la Consuma, ha un dislivello complessivo di circa 1680 metri in salita e 800 in discesa.

In estrema sintesi. La partenza è nelle vicinanze del municipio di Pontassieve; il primo tratto, in comune con il sentiero 7, salendo conduce fuori dal paese. Dopo un tratto in prevalenza boscoso, ma non privo di scorci panoramici, si giunge alla Pievecchia. Il sentiero prosegue fino alla strada asfaltata proveniente da Monterifrassine, che seguirà fino a Montebonello, con il massiccio del Monte Giovi sulla sinistra a dominare in distanza la scena, mentre quello della Secchieta che fa capolino sulla destra. Superato il paese di Rufina, s’imbocca la vallata di Pomino, fino al piccolo borgo di Pinzano. Da lì, in breve, si perviene poi a Pomino, sino a Berceto, ove avvenne la strage del 17 aprile 1944 [6]. Passato il bosco e preso il sentiero 5, si giunge alla strada regionale per la Consuma [7], fino alla fattoria di Podernuovo, per arrivare poi alla villa, luogo della terza strage, compiuta il 25 agosto 1944. Proseguendo, si giunge alla villa di Lagacciolo. Il Sentiero della Memoria incontra quindi il sentiero 6, a cui si sovrappone fino alla Consuma, dove arriva anche il 5.

Tornando al Monte Giovi, dunque, esso è ricco di percorsi per gli amanti del trekking che della Storia. Questi, infatti, hanno la possibilità di raggiungere e osservare alcuni dei luoghi chiave e dei siti della Resistenza, segnalati da panel descrittivi. È comunque bene ricordare che Monte Giovi è noto anche per le burraie (percorso delle burraie) e per il parco archeologico, con i relativi ritrovamenti etruschi.

Una menzione particolare va fatta per il paese di Acone, piccola frazione nel comune di Pontassieve, dove ogni anno si organizza una festa per commemorare i fatti del 1944.

 

Note

  1. Nel Parco culturale di Monte Giovi, MugelloToscana.it, https://www.mugellotoscana.it/it/details/3-ristoranti/146-trattoria-lago-azzurro.html?mlt=ja_purity&tmpl=component [consultato nel maggio 2024]
  2. Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]; cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008
  3. Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412 [consultato nel mese di maggio 2024]
  4. Sentiero della Resistenza, Fondazione Don Lorenzo Milani, https://www.donlorenzomilani.it/sentiero-della-resistenza/
  5. Sentiero della Memoria, CAI Sezione di Firenze Sottosezione di Pontassieve “Romano Pini”, https://www.caipontassieve.it/sentiero-della-memoria/ [consultato nel mese di maggio 2024]
  6. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
  7. Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.