La protezione del patrimonio artistico tra propaganda e dedizione 1940-1943

Il 5 giugno 1940 il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi si trovò nelle mani una circolare “urgente e riservatissima” del ministero, con la quale si ordinava l’immediata attuazione di tutti i provvedimenti predisposti per la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto. Cinque giorni dopo l’Italia sarebbe entrata ufficialmente in guerra.

Con una serie di pubblicazioni, convegni, interventi legislativi iniziati negli anni della Iª Guerra Mondiale e culminati con la legge 1089/1939 (‘Tutela delle cose d’interesse artistico e storico’), l’Italia aveva già da tempo predisposto norme e piani da far attuare alle varie soprintendenze in caso di guerra. Cosicché, già dall’11 giugno 1940, la macchina propagandistica fascista poté mostrare la perfetta efficienza del governo nella protezione in loco di palazzi, chiese, portali e facciate scolpite, efficienza ampiamente documentata da una capillare campagna fotografica e dai cinegiornali dell’Istituto Luce.

Ospedale degli Innocenti. Armature per la protezione dei tondi di Luca della Robbia e la loggia a lavori di protezione ultimata, daNella fasi iniziali della guerra non si individuava il possibile pericolo nei bombardamenti dei centri storici, quanto piuttosto nelle eventuali schegge di proiettili della contraerea e nelle vibrazioni che potevano portare a distacchi degli affreschi. Per questo si iniziò a incastellare con legname e sacchetti di sabbia le statue e coprirle con tettoie di eternit (come avvenne per le statue davanti a Palazzo Vecchio), a rinforzare le fondamenta degli edifici (come nella Basilica di San Lorenzo a Firenze), a rivestire le superfici delle opere con carta e tessuto o costruire delle vere e proprie pareti in mattoni per le cappelle affrescate all’interno delle chiese (come per gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo).

Quando, il 28 ottobre 1940, Adolf Hitler visitò Firenze per la seconda volta, la città apparve sotto un nuovo, inedito e lugubre scenario: torrette, gabbiotti, eternit ricoprivano i simboli artistici della culla del Rinascimento, garantendo in realtà una protezione estremamente superficiale contro i bombardamenti.

Tali misure protettive, enfatizzate dalla propaganda di regime come una “blindatura” totale, si rivelarono ben presto non idonee anche per la reale mancanza di mezzi a disposizione, nonostante la commovente e costante dedizione di tutto il personale delle soprintendenze toscane.

Protezioni in muratura alle cappella di Giotto in Santa Croce a Firenze, daL’inadeguatezza delle operazioni di protezione messe in atto fino a quel momento apparve chiara già dall’autunno del 1942, quando iniziarono i bombardamenti aerei sui centri storici italiani e si dovettero sostituire tutte le protezioni in legname e sacchetti di rena con coperture in muratura.

Rimaneva ancora il problema della tutela delle opere d’arte mobili, per le quali si mostrava necessario ormai un definitivo e totale allontanamento dai centri urbani.

Lo sfollamento più imponente e delicato riguardava ovviamente la soprintendenza fiorentina, e le migliaia e migliaia di opere dei musei, delle chiese e delle collezioni private cittadine. Secondo quanto registrato direttamente da Poggi nelle sue relazioni dell’ottobre 1944 e del luglio 1945 (conservate presso il Fondo Poggi in deposito presso l’archivio storico della Soprintendenza Speciale per il patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze), già nel giugno del 1940 la Soprintendenza fiorentina riuscì a trasferire nella Villa di Poggio a Caiano il nucleo più prezioso degli Uffizi, mentre in tutto il 1940 arrivarono nel palazzo Pretorio di Scarperia e di Poppi e nel convento di Camaldoli altri importanti capolavori.
Piazza della Signoria. Particolari della rimozione della Giuditta di Donatello, daCon il sopraggiungere dell’autunno del 1942, l’aggravarsi della situazione impose una repentina ed energica azione di trasloco totale e smistamento in decine di rifugi fuori dalle città. In dieci mesi e con scarsissimi mezzi a disposizione (sei camion e carburante razionato) Firenze si svuotò completamente.

Allo scoppio della guerra anche la soprintendenza di Siena e Grosseto iniziò le grandi manovre di protezione. Il personaggio chiave nella difesa del patrimonio fu il giovane Enzo Carli, che affiancò come ispettore e direttore della Regia Pinacoteca i soprintendenti Pèleo Bacci prima e Raffaello Niccoli dopo. Carli (che sarebbe poi diventato soprintendente e tra i massimi esperti di arte senese), poco più che trentenne e con un congedo provvisorio rinnovatogli di sei mesi in sei mesi dallo Spedale militare di Firenze, dal giugno 1940 coordinò con limitate maestranze tutti i lavori. Fece ricoprire con una cupola di sacchetti di sabbia sostenuti da una impalcatura di legname il pergamo di Nicola Pisano in Duomo, e si occupò della delicata rimozione della grande vetrata di Duccio e della serie di sculture di Giovanni Pisano che decoravano la facciata della cattedrale.

Tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943 anche Siena iniziò un nuovo piano di misure protettive, non più dai risvolti propagandistici ma di disperata necessità. Se da un lato furono consolidati e incapsulati con armature di mattoni gli oggetti inamovibili come il pergamo di Nicola Pisano, dall’altro fu attuato lo sfollamento pressoché totale delle opere d’arte mobili presenti in città. La tavola più importante di Siena, la Maestà di Duccio di Buoninsegna, fu allora trasferita nella fattoria di Mensanello di proprietà del Seminario, costantemente sorvegliata; le grandi tavole della Regia Pinacoteca furono collocate a Villa Arceno, di proprietà dei conti Gamba Castelli, mentre gli altri dipinti partirono per l’abbazia di Monteoliveto Maggiore, dove furono nascosti al termine di un corridoio al pian terreno, a chiusura del quale fu eretta una paretina provvisoria con davanti un piccolo altare. Nel 1943 Carli prese la moglie, il figlio di 4 anni e la figlia di pochi mesi e andò ad abitare a Villa Arceno, per sorvegliare con i propri occhi tutti i capolavori: nei mesi successivi più di una volta avrebbe rischiato la vita per difendere dalle requisizioni gran parte del patrimonio artistico senese.

E così la rischiarono anche molti dei funzionari della soprintendenza fiorentina e lo stesso Poggi, che con sangue freddo, indipendenza e autorità sul finire del 1943 intrecciò audaci e trasversali trame diplomatiche, non più solo per proteggere, ma soprattutto per difendere il patrimonio cittadino.

Lo sbarco degli Americani, le mutate alleanze, l’invasione tedesca e la coesistenza di governi e poteri paralleli avrebbero infatti alterato completamente la politica ‘centralizzata’ e celebrativa di protezione al patrimonio: nella tragicità ed emergenza del momento, soprintendenti, ispettori, restauratori o semplici custodi di rifugi dimostrarono non solo efficienza e sincera dedizione, ma anche e soprattutto un grande coraggio, spirito critico e generosa umanità.

Articolo pubblicato nel settembre del 2014.




Mens Sana Siena: 150 anni di sport

Le grandi idee nascono per gioco, spesso e volentieri davanti ad una buona birra. Non è uno slogan pubblicitario bensì una constatazione storica quella che ci porta a raccontare (in estrema sintesi) i quasi 150 anni di vita della Mens Sana Siena, società sportiva fra le più longeve, nonché vincenti, del panorama italiano. Nacque in birreria la Mens Sana, per volere di alcuni studenti universitari (Pianigiani, Alessandri, Tuci i loro nomi) che in una fresca serata autunnale del 1870 si erano incontrati fra i tavoli del “Giudat”, ritrovo senese per eccellenza in quegli anni, con l’idea di costituire un’associazione che promuovesse l’innovazione dell’attività ginnica nel tessuto sociale di una cittadina da sempre fortemente ancorata alle proprie tradizioni.

Gli albori: tra ginnastica, tiro a segno e scherma
La gestazione durò qualche mese, ma il 16 aprile 1871 arrivò il momento di mettere nero su bianco e fondare l’Associazione Ginnastica Senese (denominazione seguita dal motto di Giovenale “Mens Sana in Corpore Sano”, divenuto ragione sociale ed identificazione del club biancoverde solo nel 1931), una sorta di “palestra” per tutti quei giovani che attraverso l’esercizio fisico potevano mantenersi “robusti e disciplinati per apportare gloriosa e santa difesa alla Patria”, come scrive due anni più tardi il segretario Bandini nella relazione morale al consiglio direttivo, uno dei documenti più antichi rintracciabili nell’archivio storico della società.

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

Ginnastica, tiro a segno e scherma le discipline inizialmente praticate, un piazzale nei pressi di un ex convento di frati (fuori Porta Camollia, l’accesso nord delle mura cittadine) il primo campo di allenamento, un’ottantina i soci fondatori, oltre a quelli contribuenti (due lire per l’affiliazione, una lira il contributo mensile) e ad un buon interesse riscosso in città, soprattutto fra i giovani. La mitica palestra di Sant’Agata, a due passi da Piazza del Campo, sarebbe sorta qualche anno dopo: nel frattempo l’associazione aveva ospitato il Congresso Nazionale Ginnastico (1875) e, grazie al prestigio di cui godeva il “maestro direttore” Leopoldo Nomi, aggiunto la pratica di nuoto e ciclismo, oltre ad allestire quella sezione femminile che, nel 1907, si guadagnerà la medaglia d’argento al Concorso di Venezia dopo aver presentato, per la prima volta in Italia, il gioco della palla al cerchio. L’antesignano della pallacanestro, del basket, l’eccellenza sportiva con la quale, destino o casualità, la Mens Sana moderna ha dominato in Italia e primeggiato in Europa dal Duemila ad oggi.

I trionfi del basket
Dal fermento dei primi del Novecento nascono scissioni interne (Sport Club) e frizioni esterne (nel 1904 vede la luce la Robur, indirizzatasi con successo nel calcio ma avversaria agguerrita nel ciclismo), oltre ad un allargamento degli orizzonti che vede la Mens Sana attiva nel pattinaggio (sarà società campione d’Italia nel 1939), nell’hockey a rotelle, nella lotta, nella boxe, in maniera a dire il vero assai marginale pure sui rettangoli verdi del football. Il tunnel imboccato nel periodo fascista, quando la società viene addirittura commissariata, vede la fine con la ripresa delle attività sportive nel Dopoguerra: atletica leggera, pallavolo e soprattutto pallacanestro sono i motori che accendono una nuova stagione, culminata con l’accelerazione di fine anni Sessanta che porta, in rapida successione alla costruzione del Dodecaedro (1968) e del Palasport (1976), i due grandi impianti coperti di proprietà che accendono la stella della Mens Sana soprattutto sotto canestro.

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La pallacanestro (Archivio Storico Mens Sana 1871)

L’approdo della squadra in Serie A nel 1973 fa conoscere Siena in Italia anche a livello sportivo e accentua quel processo di identificazione del nome Mens Sana con lo sport dei giganti che dura tutt’oggi (dopo otto scudetti ed una manciata di coppe nazionali, oltre ad una coppa europea, finite in bacheca fra il 2002 ed il 2013), nonostante nel frattempo i risultati abbiano raggiunto l’eccellenza pure altrove, prova ne siano i titoli internazionali conquistati nel pattinaggio corsa da Laura Perinti e nel pattinaggio artistico da Cristina Giulianini, la breve ma significativa esperienza in Serie A2 della squadra di hockey pista, i tanti allori giunti dalla ginnastica artistica o da nuove discipline quali karate e judo.

Centoquarantaquattro anni dopo quell’allegra bevuta fra universitari, la Mens Sana (anzi, adesso chiamatela Mens Sana 1871) rappresenta una vera e propria eccellenza senese, forte dei suoi impianti che disegnano il crinale della vallata di viale Sclavo, di atleti professionisti che ne portano in giro per l’Europa i colori, di oltre tremila iscritti ai corsi (ragazzini e passionisti non più giovani che, senza inseguire risultati agonistici, vestono il biancoverde per tenersi in forma e divertirsi), di un’utenza sempre più esigente che, sotto la presidenza di Piero Ricci, ha portato al “boom” di un’innovativa e diversificata offerta nel mondo del fitness, di duemilaottocento soci che ne confermano il preminente ruolo sportivo-istituzionale nella Città del Palio.

Il presente e il futuro.
Nessun dubbio però che il 2014 sia stato un annus horribilis per tutto lo sport senese, Mens Sana compresa. Anzi, Mens Sana in prima linea. Figlio di pessime gestioni finanziarie, in aggiunta al progressivo disimpegno nel settore delle sponsorizzazioni sportive cittadine da parte di Banca Monte dei Paschi, il fallimento delle due maggiori realtà professionistiche cittadine ha cancellato in un batter d’occhi due lustri di militanza nella massima serie calcistica (l’Ac Siena ha chiuso i battenti dopo 110 anni di storia, una nuova società è pronta a ripartire ma dovrà farlo dalla serie D) e messo fine al ciclo più vincente (otto scudetti e varie coppe, anche a livello internazionale, fra il 2002 ed il 2013) che il basket italiano potesse vantare dall’avvento del professionismo. Il crac della Mens Sana Basket, una Spa controllata per oltre l’80% delle proprie azioni dalla Polisportiva Mens Sana ma, come da statuto della stessa, in sostanziale autonomia dato l’ambito professionistico nel quale svolgeva la propria attività, cancella d’improvviso Siena dalla geografia del basket che conta e la relega in quarta categoria, l’attuale serie B, laddove la neonata Mens Sana 1871 è stata ammessa a partecipare dalla Federazione Italiana Pallacanestro.

Prima squadra e settore giovanile, ricostruiti a tempo di record nonostante le comprensibili difficoltà (logistiche e, ancor più, finanziarie), rientrano nell’orbita di quella che viene chiamata la “casa madre”: entusiasmo e buona volontà non mancano (il presidente Piero Ricci ha affidato il ruolo di direttore sportivo a Lorenzo Marruganti, coach del team biancoverde sarà Matteo Mecacci), la strada per risalire però è fisiologicamente lunga. Ed in salita.

*Matteo Tasso, nato a Siena nel 1974, ha curato nel 2001 il volume celebrativo per i 130 anni di vita della Polisportiva Mens Sana. Giornalista pubblicista dal 1998, coniuga la propria attività nel settore bancario ad una collaborazione con testate giornalistiche locali occupandosi principalmente di argomenti sportivi. Segue da tre lustri le vicende del basket mensanino sulle colonne de “Il Corriere di Siena” ed è il telecronista su Canale 3 Toscana delle partite della squadra biancoverde, oltre a curare rubriche su Antenna Radio Esse e sul portale internet www.oksiena.it.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Resistere per l’arte

“Mia cara Giusta, così eccomi qui, dove passano la loro misteriosa ora di destino i tesori più preziosi della nostra Galleria e non solo. Penso alle migliaia di custodi, ispettori, direttori, di studiosi che sempre vigilarono la minima di queste cose, giorno e notte, e io non posso fare altro che camminare per queste sale devastate e aperte a tutti”.
È il 23 luglio 1944: dal castello di Montegufoni in val di Pesa Cesare Fasola, funzionario della soprintendenza fiorentina e antifascista, inizia un resoconto appassionato alla moglie. Appena due giorni prima aveva deciso di partire da Firenze a piedi, da solo, alla volta dei rifugi di Montagnana, Montegufoni e Poppiano per sorvegliare i capolavori degli Uffizi e provare ad impedire la distruzione o il furto delle opere da parte dei tedeschi.

Se il tema “arte e guerra” è diventato negli ultimi anni di crescente interesse (anche per il successo mediatico di pubblicazioni e pellicole dedicate al contributo degli Alleati nel recupero dei capolavori europei), meno nota è tuttavia la dedizione commovente alla causa da parte della comunità civile toscana. Dipendenti della soprintendenza, uomini di cultura, partigiani, parroci di campagna rischiarono continuamente la loro vita per mettere in salvo il patrimonio artistico toscano o le collezioni delle famiglie ebree e di nazionalità nemica residenti a Firenze, come quella dell’illustre storico dell’arte Bernard Berenson.

La straordinaria concentrazione in Toscana di opere d’arte disseminate capillarmente in tutto il territorio impose negli anni della guerra l’adozione di misure eccezionali. I soprintendenti e tutto il personale addetto già dal 1940 iniziarono le grandi manovre per l’individuazione di rifugi in campagna, ritenuti in quel momento più sicuri che la città, come ricovero per le opere d’arte di chiese e musei. Tra il novembre del 1942 e il gennaio del 1943 il soprintendente alle Gallerie Fiorentine Giovanni Poggi, coadiuvato dal direttore delle Gallerie Filippo Rossi e dal responsabile del laboratorio di restauro Ugo Procacci, riuscì a far partire da Firenze 174 convogli con 3107 casse contenenti dipinti e altre opere, nonché 4170 fra dipinti e sculture imballate singolarmente. A disposizione aveva solo sei camion e il carburante razionato.

Evacuazione delle sculture degli Uffizi dalla chiesa di Sant'Onofrio a DicomanoLa Primavera del Botticelli salutò gli Uffizi e fu trasportata a Montegufoni; parallelamente la Nascita di Venere prese la via del castello di Poppi e La Venere di Urbino di Tiziano fu rinchiusa in una delle 57 casse alla volta del monastero Camaldoli. Se le porte di bronzo dorato di Ghiberti furono staccate dal Battistero fiorentino e custodite nella galleria ferroviaria abbandonata di Sant’Antonio a Incisa Val d’Arno, le monumentali sculture di Michelangelo della Sagrestia Nuova di San Lorenzo trovarono riparo nella villa a Torre a Cona. La Certosa di Calci fu il rifugio strategico individuato per le opere mobili delle province di Pisa, Apuania, Livorno e Lucca, mentre i Quattro Mori di Livorno furono nascosti nel Cisternino di Pian di Rota.

Tra la fine del 1943 e l’estate del 1944, proprio quando si presentarono i pericoli maggiori per opere note in tutto il mondo, si registrarono alcuni tra gli episodi più commoventi e significativi nella difesa del patrimonio artistico toscano. Nel gennaio del 1944 Ugo Procacci fu sorpreso dai bombardamenti nell’alta val del Tevere mentre trasportava da Borgo San Sepolcro il celebre Polittico della Misericordia di Piero della Francesca: sotto il fuoco alleato, Procacci e il restauratore Edo Masini non se la sentirono di abbandonare il furgone con il capolavoro di Piero e rimasero a sorvegliare il prezioso carico: “Ma io come facevo? Non potevo lasciarle così. Pensai: morirò. Pazienza”, raccontò anni più tardi il funzionario.

Un rischio simile corse il giovane restauratore Leonetto Tintori a Prato, dove il 7 marzo 1944 era stato frantumato il venerato tabernacolo di Filippino Lippi, gioiello della città: mentre incombeva continuo il pericolo degli attacchi aerei e delle deportazioni, Tintori rimase per più giorni sul luogo per ricercare fra le macerie i frammenti di affresco e portarli in salvo nella sua casa di campagna. Se a nulla poté il coraggio del tecnico dell’Opera Primaziale del Duomo di Pisa Bruno Farnesi, che in pieno incendio (causato dal bombardamento alleato) si era arrampicato sul tetto del Camposanto con picconi, bastoni e badili per cercare di spengere inutilmente il fuoco che stava distruggendo gli affreschi monumentali, a Volterra i cittadini riuscirono in extremis a salvare l’etrusca Porta dell’Arco. Destinata ad essere abbattuta dal Comando tedesco per bloccare l’accesso alla città, pur di salvarla i volterrani raccolsero tutte le pietre del circondario e le accatastarono all’interno dell’arco, rispettando l’ultimatum di 24 ore che era stato concesso loro.

Con i tedeschi in ritirata, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili toscane divennero le razzie che i nazisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania. A tali furti si aggiunsero le intere collezioni requisite alle famiglie ebree e il Tesoro della Sinagoga di Firenze, che invano fu nascosto dai Forti negli scantinati della loro villa nelle campagne pratesi.

Solo nel luglio del 1945, grazie a un lavoro congiunto tra Alleati e italiani, dove si distinse in particolare la figura di Rodolfo Siviero, iniziarono a tornare ‘a casa’ i primi capolavori. Tra gli applausi e le lacrime, tutti i cittadini scesero in piazza per salutare il ritorno di un patrimonio che di fatto costituiva l’identità di molte città toscane e in particolare di Firenze.

Dalla primavera del 2014 la Fondazione CDSE Valdibisenzio e Montemurlo coordina il progetto “Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in Toscana”, sostenuto dalla Regione Toscana. Con cadenza mensile compariranno nel portale di ToscanaNovecento articoli di approfondimento su questo tema, corredati da fonti e materiali di difficile reperibilità.

Articolo pubblicato nell’aprile 2014.