Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Ebrei in Toscana, XX-XXI secolo

Il 20 dicembre 2016, alle ore 13, si aprirà presso la Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi a Firenze la prima grande mostra sulla storia degli ebrei in Toscana nel XX e XXI secolo. Un arco di tempo a cavallo di due secoli, due guerre mondiali e migliaia di storie di vite che appartengono a questa regione e si legano al mondo intero.

La Mostra, aperta dal 20 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017, promossa e coordinata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO), realizzata col contributo determinante della Regione Toscana, racconta attraverso un percorso narrativo di immagini, documenti, testi e produzioni multimediali la vita delle comunità ebraiche toscane e i loro legami con la comunità ebraica italiana e internazionale.

L’importanza delle comunità ebraiche nella storia della Toscana è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi, da quello di Livorno – sicuramente il più numeroso – alla comunità di Firenze, a quelle di Pisa, Siena, il piccolo nucleo di Pitigliano, e altri gruppi familiari sparsi sul territorio.

Ogni comunità, grazie ai suoi membri, ha legami con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall’antica emigrazione iberica, altre dal bacino del Mediterraneo, altre ancora dall’Europa dell’Est. Ogni comunità ha poi relazioni con la tradizione sionista nazionale ed internazionale, con i fermenti culturali che attraversano il paese e con gli orientamenti più significativi che lo agitano.

Il racconto di questa storia permette di cogliere i rinvii ad una cornice che non è solo locale ma nazionale ed europea, con un allestimento espositivo rivolto anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani.

I testi, in italiano e inglese, si prestano ad una molteplicità di letture trasversali e di connessioni e sono arricchiti da riproduzioni di carte d’archivio, copertine di libri e disegni ma soprattutto da uno straordinario apparato di riproduzioni fotografiche generosamente messo a disposizione da archivi familiari privati e da fondazioni culturali. L’idea è rivolgersi a tutte le generazioni per rafforzare i fili della nostra memoria democratica e soprattutto costituire un antidoto alle pulsioni razziste e discriminatorie che attraversano la nostra realtà.

Il progetto scientifico è curato da un gruppo di studio e di lavoro costituito dalla Direttrice dell’ISTORECO Catia Sonetti e tre ricercatrici di storia ebraica contemporanea: Barbara Armani (Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Pisa), Elena Mazzini (Università di Firenze), Ilaria Pavan (Scuola Normale Superiore di Pisa). La traduzione dei testi è stata curata da Johanna Bishop.

L’allestimento è progettato da Frankenstein-Progetti di vita digitale di Firenze.

La mostra è organizzata con il supporto della Regione Toscana; il sostegno della Città Metropolitana di Firenze; col patrocinio della Scuola Normale Superiore, dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, dell’UnicoopFirenze.

NOTIZIE UTILI sulla MOSTRA

20 DIC | 26FEB

FIRENZE, Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi

Via Camillo Cavour, 5

ORARI DI APERTURA E VISITE GUIDATE

Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, ingresso gratuito

Info: +39 0586 809219 | +39 055 284296 | +39 334 112 3981

istoreco.livorno@gmail.com | isrt@istoresistenzatoscana.it

Per prenotare visite guidate (massimo 25 persone), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO)

Mail: istoreco.livorno@gmail.com

Per prenotare visite alle scuole (singole classi), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza in Toscana (ISRT), referenti: Paolo Mencarelli e Silvano Priori

Mail: isrt@istoresistenzatoscana.it

Tel: 055 284296 (lun-ven, ore 10-13)

Ufficio stampa e comunicazione

Frankenstein S.r.l.

055-06516906

info@frankenstein.sm

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




“L’Ombrone affitta ma non vende”: il patto antico tra Grosseto e le acque.

Le piene dell'Ombrone

Livello delle piene dell’Ombrone

In occasione delle celebrazioni legate al Cinquantenario della drammatica alluvione del 4 novembre del 1966, alluvione che non vide solo Firenze al centro della epocale vicenda, ma innumerevoli altre realtà tra le quali Grosseto e la sua Maremma, emerge con chiarezza la necessità di una riflessione storica di lungo periodo che ci consenta di cogliere le peculiarità di un complesso problema storico e geografico.

La realtà grossetana, infatti, presenta alcuni spunti per definire una prospettiva che nasce da incroci di punti di vista disciplinari e da sensibilità diverse giocate nell’intento di restituire l’organicità complessa del sistema uomo-ambiente nel tempo.

Grosseto non è solcata dal fiume, ma dal fiume è stata segnata per intero la sua esistenza, sin dalla sua origine. Dal legame stretto con l’acqua, buona o cattiva, sgorga la sua stessa essenza e la sua identità, che dà forma alle cose, disegna i contorni del paesaggio, forgia le vite delle generazioni che vi dimorano: un connubio da indagare nelle sue radici profonde e da insegnare a chi sta crescendo in questo luogo, perché impari a rispettare il patto della città con il suo ambiente, lo accolga e lo difenda.

Da questa riflessione nasce l’idea dell’urgenza e della necessità di un lavoro didattico organico e mirato per avvicinare i ragazzi alla storia dei luoghi, intesi come nodo problematico nato dall’ambiente e dall’uomo che vi si insedia nella prospettiva storica di lungo periodo. In questo contesto la caratteristica precipua della didattica proposta dagli istituti storici, che risiede nella impostazione del lavoro su base laboratoriale, consente di avvicinare i ragazzi al testo delle fonti storiche: siano quelle classiche o quelle archivistiche, archeologiche o iconografiche, non trascurando le fonti materiali ancora presenti sul territorio né un’organica e strutturata lettura del paesaggio urbano e fluviale, né la copiosa messe di studi editi sulla città e il territorio.

Ci viene incontro a questo proposito la mostra organizzata presso l’Archivio di Stato di Grosseto, “L’Ombrone ed altri fiumi. Breve storia delle alluvioni in Maremma” presentata il 24 settembre 2016, che ci restituisce il panorama storico documentario, offrendoci preziosi spunti per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono la complessa vicenda delle acque e la città, estratti dai documenti conservati nei fondi archivistici grossetani, quali l’Uffizio de’ Fossi e Coltivazioni, Il Genio Civile, l’Ingegnere Ispettore del Compartimento, il Commissario della Provincia Inferiore, La Sottoprefettiura di Grosseto, L’Uffizio di Buonificamento delle Maremme, Il Catasto, la Prefettura Granducale, la Provincia di Grosseto, il Comune di Grosseto.

Ilario Casolani (Siena 1588 - 1661) Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  Olio su tela cm.274x160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d'Arte della Maremma e Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Ilario Casolani (Siena 1588 – 1661)
Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  |   Olio su tela cm.274×160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e Museo Diocesano d’Arte Sacra.

A sintetizzare mirabilmente le vicende che legano la città all’ambiente fluviale e palustre in cui è immersa, l’antica immagine iconografica forse più suggestiva della città di Grosseto. Si tratta del particolare tratto dalla pala d’altare conservata presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Madonna con Bambino e i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano di Ilario Casolani del 1630, immagine cara agli storici della città, che l’hanno indagata più è più volte per poter immaginare un ambiente storico lontano nel tempo, ormai totalmente modificato, tanto da risultare irriconoscibile. È la vista a volo d’uccello di una piccola città chiusa nelle sue mura stellate, ancora circondate da un fossato, immersa nella luce dorata riflessa da un paesaggio di terra e d’acqua che si perde in lontananza e sfuma i contorni di una natura che si intuisce ostile indomita e selvaggia, sublimata in una struggente bellezza.

Questa bellezza aspra, che riesce a commuovere chi vive e ama la Maremma, e ne vuole indagarne il segreto, percepirne le forza e la sostanza, costituisce la radice identitaria di un territorio che va capita e fatta capire anche a chi è giunto da poco, a chi è giovane oppure che l’ha dimenticata, perché è qualcosa di delicato e fragile, un equilibrio secolare che ogni tanto si infrange e chiede quindi attenzione, cure, nuove fatiche e ancora riflessione.

Sin dall’antichità le fonti più importanti sono quelle di Tito Livio, (Ab urbe condĭta libri, XXVIII, 45, 18) che parla di contributi in legno d’abete e grano destinate a Scipione che raggiungono Roma forse per vie d’acqua (fluitazione), di Plinio, (Naturalis Historia, III 51 ) che definisce l’Ombrone “Navigiorum capax” o del citatissimo Rutilio Namaziano, (De Reditu suo) che nel 417 ripara la notte presso la foce dell’Ombrone, “Non ignobile flumen” definendo la foce un attracco sicuro ed esprimendo il desiderio impossibile di potervi rimanere più a lungo.

Ma forse l’indizio che ci fa maggiormente intuire il legame d’affetti tra gli antichi abitatori della Maremma con le acque del suo fiume è il frammento con iscrizione ritrovato presso lo Scoglietto (all’interno del Parco della Maremma non distante dalla foce dell’Ombrone) con dedica a Diana Umbronensis e restituitoci dagli studi di Studi di Sebastiani e Cygielman.

Molte questioni rimangono aperte, come la presunta navigabilità dell’Ombrone: per molti studiosi certa per l’ultimo tratto, discussa a fondo con posizioni diverse e contrastanti riguardo al tratto nei pressi di Grosseto.

Certo è che in epoca altomedievale il fiume scorreva vicino alla città: esiste un legame imprescindibile tra l’Ombrone e l’origine della città. Essa infatti compare verso la fine del VI secolo, dopo la decadenza della villa di San Martino accanto al tracciato della Via Emilia Scauri (II sec. a.c.) che aveva percorso più interno rispetto alla vecchia Aurelia (III sec. A .c) e guadava il fiume nei pressi di Grancia. Vi era forse un approdo fluviale: nella direttrice fiume – saline – mare- è da rinvenire la cifra dell’esistenza di questo minuscolo centro abitato nascente sulle rovine di un’antichità che aveva visto fiorire città importanti e potenti come Roselle e Vetulonia. Così il piccolo centro prende vita su piccole alture o su un pianoro sommitale nell’area dell’ attuale Piazza della Palma e via Garibaldi -come ci restituiscono recenti scavi urbani- forse per scongiurare il pericolo delle piene dell’imminente fiume.

Ma Grosseto è città fluviale? Non certo in senso classico, come le grandi città italiane, Roma Firenze o Pisa: non è attraversata dal fiume. Ma in forma simile a Grosseto altre città sono lambite da fiumi, basti pensare ai casi di Casale Monferrato sorta accanto al Po, a Cuneo nata vicino ai fiumi Stura e sul Gesso, a Vicenza, lambita dal Bacchiglione, al caso toscano di Prato sorta a sfiorare il Bisenzio. Una possibile pista di analisi conoscitiva potrebbe nascere dalla comparazione delle realtà storico- geografiche simili, valutando analogie e differenze per meglio comprenderne gli equilibri passati e le prospettive future.

Uno spunto importante, poi, su cui concertare una riflessione è la storia delle alluvioni in Maremma nella documentazione e nella letteratura: se poco si sa delle alluvioni in età altomedievale è facile intuirne la presenza nelle caratteristiche legate alla struttura urbana di Grosseto, come si è detto sviluppatasi su piccole alture nei pressi del corso del fiume, ma anche nella mancanza di locali ipogei e di cantine. Documentate sono invece le alluvioni nel basso Medioevo soprattutto nel 1318 (G. Venerosi Pesciolini, Mura e casseri di Grosseto nell’Evo Medio, Siena 1925) e la grande alluvione del 1333 descritta nella Cronica di Giovanni Villani, libro undecimo:

“negli anni di Cristo 1333, il dì di calen novembre, […] onde quel dì della Tussanti cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti […] dovunque ha fiumi o fossati in Toscana e in Romagna crebbero in modo che tutti i loro fiumi ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume Tevero e copersono le loro pianure d’intorno con grandissimo dammaggio del contado del Borgo a San Sepolcro e di Castello, di Perugia, di Todi d’Orbivieto e di Roma; e ‘l contado di Siena e d’Arezzo e la Maremma gravò molto.”

Alluvioni imponenti, quasi un flagello divino, un preludio dell’apocalisse tanto che il fiume Ombrone cambiò il suo corso e si allontanò dalla città di oltre un chilometro e mezzo: il toponimo Fiume morto a designare un ampio territorio che va dalla Porta Vecchia della città di Grosseto all’attuale argine in fondo a Via de’ Barberi, ne è la testimonianza più evidente. Il toponimo è altresì attestato sin dal 1258 nei pressi di Istia-San Martino, segno evidente che il fiume tendeva a variare il suo corso con andamento progressivo (G Prisco, Atlante storico topografico)

In Età moderna si segnalano man mano che ci avviciniamo al presente, moltissime alluvioni: la documentazione si fa più ricca e più indagata risulta la storia più vicina a noi. Ci basti ricordare le disastrose alluvioni del 1557 del 1758 e del 1813. Epoche difficili segnate da guerre, crisi, carestie. La prima ha una probabile connessione con il conflitto Franco-Spagnolo in cui è inserita la guerra di Siena, che tanto coinvolse da vicino le sorti della Maremma, consegnata, con tutta la Repubblica di Siena, come premio al nascente stato regionale dei Medici; la seconda è al culmine di quello stato di prostrazione demografica ed economica che ispirò a Sallustio Bandini il Discorso su la Maremma di Siena (scritto probabilmente nel 1737); la terza da mettere probabilmente in relazione con le guerre napoleoniche che avevano insanguinato tutta l’Europa. Epoche in cui, dunque, il patto col fiume viene meno? Difficile dimostrarlo con certezza. Sappiamo solo che alla fine dell’età moderna si inizia veramente in maniera seria e strutturata a pensare di intervenire per mettere finalmente a regime le acque maremmane: è del 1815 un bellissimo progetto di sistemazione dell’argine mediceo dell’Ombrone onde scongiurare il pericolo dell’alluvione per la città (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio de’Fossi 609). Di lì a poco iniziarono i grandi lavori che trasformarono in maniera radicale e irreversibile in senso moderno l’ambiente intorno alla città, con il Motuproprio di Leopoldo II di Lorena del 27 novembre 1828, che dispose l’inizio della bonifica e l’avvio dell’opera di colmata prospettata da Vittorio Fossombroni, deviando all’altezza dell’attuale Steccaia il corso del fiume e dirottando le sue acque torbide all’interno della piana di Grosseto e del Padule di Castiglione.

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Purtroppo, però, malgrado le maggiori attenzioni e l’immane lavoro svolto, i documenti ci parlano di continue tracimazioni delle acque dell’Ombrone: il 28 dicembre del 1821, nel settembre del 1848, il 30 novembre 1864, il 4 e 5 ottobre 1868, nel novembre e dicembre del 1869, nel 1874, il 7 agosto del 1880, il 7 novembre 1896. Si moltiplicano documenti e notizie, le stime dei danni, le parole delle popolazioni colpite soprattutto nelle abitazioni, nei lavori agricoli, nella morte del bestiame.

Singolare è poi un progetto di una chiusa mobile a Porta Vecchia di ferro fuso per contenere le piene del 1868 (Archivio di Stato di Grosseto, Comune X 98) di cui ancora leggiamo all’interno dell’arco di Porta Vecchia la scanalatura in cui era inserito il meccanismo, proprio accanto al bastione che riporta le iscrizioni lapidee dei livelli delle piene: un vero e proprio luogo della memoria delle ultime alluvioni storiche della città.

Tra queste, l’alluvione del 2 novembre del 1944 è ancora tutta da studiare e da riscoprire. La città liberata da pochi mesi dall’Esercito alleato, ancora dolente per le profonde ferite inferte al tessuto urbano e sociale dai bombardamenti e dalla guerra, stava lottando per tornare ad una difficile e precaria normalità, quando, secondo le testimonianze dei vecchi grossetani, le sirene d’allarme antiaereo suonarono di nuovo, stavolta annunciando un flagello diverso più antico e familiare, ma non meno inquietante. Scarseggiano i documenti e le immagini, si tratta di una storia tutta da ricostruire. Ci vengono in aiuto importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio dell’Isgrec nel fondo del CPLN di Grosseto. A ridosso dell’alluvione, il 9 novembre, si riunisce il Comitato provinciale di Liberazione nazionale per discutere i numerosi problemi di una città che sta ancora in bilico tra la guerra e la pace, tra istanze di democrazia, di ritorno ad un’agognata normalità, e il desiderio di giustizia per le violenze subite. Trova spazio al n.5 dell’ordine del giorno, la voce “aiuti pro sinistrati dell’inondazione del 2 corrente mese” che sviluppa l’idea di creare una commissione formata dai rappresentanti dei sei partiti che formano il CLN unitamente al tenente Rush per la distribuzione degli aiuti. Viene poi stesa una circolare da inviare ai maggiori proprietari della zona per sollecitare donazioni di danaro per i sinistrati.

Fa seguito un nutrito fascicolo di documenti, costituito, tra le altre cose, da una lista di proprietari e persone abbienti di Grosseto, dalle lettere di risposta di alcuni di questi con la comunicazione della cifra donata. Si tratta di uno spiraglio per restituire alla città una memoria che rischia di andare perduta, imprescindibile anello di una catena che ci conduce al presente dando un senso diverso anche all’alluvione di cinquant’anni fa.

In ultima analisi, ciò che ci suggerisce questo breve excursus è l’impellente necessità di conoscere, di studiare il passato per mantenere in futuro un sano equilibrio tra gli uomini ed il loro ambiente che può trasformarsi in qualcosa di temibile e minaccioso se l’avidità, l’immediato interesse la sconsiderata ricerca di profitto prevarranno a oscurare la natura insieme difficile e gentile della Maremma: “L’ Ombrone affitta ma non vende”, dicevano un tempo i vecchi grossetani, gli stessi che per San Lorenzo, patrono della città, giocavano la Giostra del Saracino in via dei Barberi fino ai primi del Novecento. (La Nazione, 10 agosto 1980, Roberto Ferretti). Era una gara tra la città degli uomini e la natura che la accoglieva, sotto gli occhi benevolmente ironici del Santo con la graticola.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




Le donne della famiglia Castelli

È una consapevolezza diffusa, basata anche sulle ricerche e i dati ricavabili dai censimenti, che il livello di alfabetizzazione all’interno delle comunità ebraiche italiane sia stato sempre assai più significativo di quello presente nelle altre componenti della popolazione italiana. Essere in grado di leggere, scrivere e far di conto era una condizione preliminare per chiunque per poter accedere a un qualsiasi livello di emancipazione. Questo presupposto imprescindibile dentro la componente ebrea della popolazione era posseduto da tutti, dai maschi e dalle femmine, ma non era sufficiente affinché si aprissero, per le donne, percorsi di vita migliorativi.

Cercherò qui di seguito di illustrare questa mia convinzione attraverso una fonte particolare, quella di un deposito di lettere private assai significativa: si tratta dell’archivio privato della famiglia Castelli, oltre ottocento tra lettere e cartoline postali, consegnate all’Istoreco di Livorno da un’erede della famiglia che le aveva miracolosamente salvate. Su questo carteggio, insieme ad altre scritture private, alcune già pubblicate da tempo, e ad alcuni lavori storiografici sulle famiglie livornesi, sto lavorando da oltre un anno per estrapolarne una monografia. Grazie a tutto questo materiale sono venuta costruendo queste riflessioni che porgo all’attenzione del lettore.

Occorre precisare che nella stragrande maggioranza dei casi sono scritture e testimonianze femminili che permettono di delineare un quadro di genere sulla condizione della donna all’interno della comunità ebraica, ancora osservabile negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: soprattutto l’epistolario che raccoglie le lettere, in grande maggioranza indirizzate da Livorno ad Asmara, scritte nella quasi totalità dalla componente femminile della famiglia. Le mittenti sono la madre Emma De Rossi e le sorelle Anna, Ada, Ilda, che intrattengono con la sorella minore, Rita, trasferitasi in Eritrea, una corrispondenza quasi quotidiana per circa vent’anni. Le prime lettere sono del dicembre del 1937, le ultime sono degli anni Cinquanta.

L’autrice più interessante per questa riflessione è Ilda, per la cui biografia possiamo utilizzare anche quello che lei stessa scrisse in occasione di una pubblicazione promossa dal Comune di Livorno. In quel volume, Ebrei tra due censimenti, Ilda racconta che il padre di fronte al suo desiderio espresso di studiare Medicina, rispose:

La vecchia sinagoga di Livorno

La vecchia sinagoga di Livorno

“Per me le donne fanno meglio a stare a casa ad imparare a far le polpette ma, se vuoi studiare, studia. Io non ti aiuto. Se ci riesci, riesci, se non riesci, non riesci.”

La frase rievocata da Ilda Castelli può darsi che non sia stata espressa precisamente in questo modo. Del resto il ricordo si colloca alla fine degli anni Ottanta e la discussione con il padre Ilda l’aveva avuta nella prima metà degli anni Trenta. Curiosamente, ma non troppo però, ne troviamo conferma in alcune lettere dell’epistolario antecedenti un quarantennio la pubblicazione della Labronica. La memoria vicina a quella discussione ripete in modo quasi omogeneo quanto poi ricorda Ilda ormai avanti negli anni. Evidentemente fu una discussione che si fissò nella sua memoria e gli anni non furono sufficienti a scalfirla. È evidente dalla rievocazione come Ugo Castelli, il padre, ritenesse una scelta inutile, quasi uno spreco, mandare la figlia all’Università. Le figlie femmine, lui ne ha quattro (Anna, Ada, Ilda e Rita) devono imparare a diventare delle buone casalinghe, delle brave cuoche, delle buone madri. Egli non ritiene di avere tra i suoi doveri di padre, istruito e benestante, quello di aiutare le figlie ad emanciparsi attraverso una facoltà universitaria che avrebbe permesso loro autonomia economica e decisionale. Per chiarirsi meglio aggiunge che se la figlia Ilda ce la farà a laurearsi, a lui questo non interesserà alcunché. Avere una figlia laureata, giunta cioè all’apice dell’istruzione allora possibile, era più un fastidio da giustificare davanti agli altri che un motivo di orgoglio da rivendicare.

Eppure il milieu familiare avrebbe potuto aiutare. La famiglia Castelli è un nucleo medio-borghese, in cui sia il padre che il figlio primogenito Carlo, sono proprietari di farmacie cittadine. Anche il genero di Ugo, Aleardo Lattes, è coinvolto direttamente nella gestione di questa attività. Ai nostri occhi questo dovrebbe permettere una visione più aperta nell’educazione delle figlie. Tuttavia la scelta che Ugo Castelli cercherà di ribadire con tutte e quattro le figlie, sarà quella di mantenersi nel solco delle consuetudini, delle tradizioni accettate e praticate anche da famiglie più abbienti della sua. Tradizioni che prevedono, come nella maggior parte dei borghesi del tempo, anche non ebrei, una divisone dei ruoli rigida e invalicabile. I maschi a lavorare per mantenere il ménage domestico, le donne ad accudire la casa, sorvegliare la servitù, occuparsi dei figli. Quella di Ugo è una famiglia che riserva alle donne un’educazione che si colloca pienamente nel solco delle tradizioni ebraiche, comuni sia alle ragazze figlie della piccola e media borghesia, che a quelle delle grandi famiglie imprenditoriali. Queste dovevano frequentare le scuole, magari anche le superiori, imparare una lingua straniera, per lo più il francese ma non solo, e se ne avevano l’estro anche un po’ di musica. Ma l’accesso agli studi universitari e professionalizzanti non era contemplato. Spesso poi l’insegnamento non era acquisito dentro un percorso regolare di studi perché si preferiva il precettore privato o l’iscrizione a scuole private. A Livorno ne erano attive due, gestite da ebrei, laiche ed aperte anche alle altre confessioni: la scuola dei coniugi Coen e la scuola delle sorelle Garcin. Per i più abbienti poi c’era la possibilità di utilizzare le lezioni private di Rodolfo Mondolfi, dantista di valore e padre di Umberto, primo sindaco socialista di Livorno, così come per le lingue chi ne aveva le possibilità poteva usufruire della rete di relazioni familiari e amicali con l’estero, oltre che di istitutrici private. Una volta però entrate nell’età adulta, e dopo aver preso marito, tutte dovevano dedicarsi alla casa, a partire dalla madre Emma fino ad arrivare alla figlia più piccola, Rita, sposata e residente in Africa.

La nostra Ilda si ribella a questo destino e ce la farà a trovare la sua collocazione, collocazione molto lontana per certi aspetti dalla tradizione. Essa incarna un personaggio di grande interesse storiografico poiché racchiude in sé molte delle contraddizioni che riguardano le donne ebree del secolo passato. La sua forte personalità e il suo forte dinamismo le permetteranno, pur in contrasto con il vecchio padre, di frequentare Medicina a Pisa con successo (l’anno della sua laurea furono solo due le donne laureate), e di specializzarsi in Pediatria divenendo la prima donna pediatra di Livorno; e quando, dopo la promulgazione delle leggi razziali, un altro pediatra, ebreo pure lui, Roberto Funaro, sceglierà di partire subito per gli USA senza aspettare che la situazione divenga drammatica, Ilda Castelli avrà la possibilità di avere tutta la sua numerosa e ricca clientela.

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Riproduzione di una lettera di Ilda Castelli, in Archivio privato di Lydia Levi.

Ma Ilda diventa una pediatra apprezzata anche nel nucleo familiare. Lo dimostrano le lettere ricche di prescrizioni mediche che invia alla sorella lontana e madre di tre bambini piccoli. Ilda è la più emancipata tra le quattro sorelle, l’unica che guida l’auto e che si muove tra la città di Livorno e quella di Pisa e dintorni per tenere conferenze sulla puericultura a nome del Fascio pisano al quale appartiene, ed è sempre intenta a scrivere pezzi entusiasti della guerra d’Africa sui giornali. Eppure quando deve suggerire qualcosa alla sorella più giovane riguardo il suo ruolo di moglie, le suggerisce di “assecondare il maritino, tenere in ordine la casa, farsi trovare sempre in ordine, civettuola” e via di seguito. Come si coniuga da una parte la donna medico che con pochi fronzoli impartisce ordini sicuri e terapie e sconsiglia di ascoltare qualsiasi suggerimento che non provenga da una fonte autorevole e professionale, con queste indicazioni così bamboleggianti che sembrano così poco confacenti con la sua personalità? L’impressione che se ne ricava è quella di una emancipazione a metà. La sua incapacità di assumere atteggiamenti più autonomi, meno conformisti, nei confronti del ruolo della moglie all’interno del gruppo familiare e sociale di appartenenza può essere compreso, a mio parere, come una reazione quasi di paura rispetto al salto in avanti compiuto, salto tutto consumato nella dimensione pubblica, ma non solo. Ilda si trova a suo agio dentro le liturgie del regime come gran parte della sua famiglia, e la maggioranza degli ebrei del tempo. Ci si trova così a suo agio che sposa un fascista molto convinto, ma anche cattolico. E sicuramente per questo Ilda si era in seguito convertita alla religione del marito, al quale, a suo giudizio, occorre che la donna porti sempre obbedienza. Con lo stesso spirito Ilda diventa nel secondo dopoguerra una delle più accese protagoniste della Democrazia Cristiana più clericale e anticomunista. Colpisce molto che questa donna fuori dal comune nella dimensione pubblica, nella dimensione privata riproponga per intero, e senza incrinature, gli stereotipi della sua generazione. Io penso che il suo percorso sia anche la testimonianza di come sia difficile, irto e contraddittorio ribellarsi ed emanciparsi dall’autorità del padre-patriarca. Accade, e la vicenda di Ilda ne dà testimonianza, che talvolta persino quelle donne che pure ci sono riuscite, abbiano poi mantenuto forme di subordinazione all’autorità sia paterna che maritale tipica della tradizione. Solo verso la fine della vita, raccontano i parenti, Ilda ormai vedova ritorna alla religione dei padri, e su di essa comporrà anche un libro. Di sicuro il suo è un personaggio interessantissimo perché interno totalmente a tutta la tragedia del secolo scorso, perché dinamico e reattivo su molti fronti e ligio e obbediente alla religione del “capofamiglia” per altri.

Foto 1Ilda rimane il personaggio meno classificabile all’interno di questa numerosa famiglia. Famiglia che aveva già conosciuto un matrimonio misto, quello del primogenito Carlo, e che aveva già visto la conversione della giovane nipote Elena al cattolicesimo e il suo successivo matrimonio. Questi comportamenti, le lettere ne danno estesa testimonianza, avevano provocato dolori e tensioni ma alla fine erano stati tutti faticosamente metabolizzativ. All’interno di questo gruppo familiare, il padre Ugo esercita il potere tramite anche l’organizzazione di matrimoni combinati, pratica ancora molto frequente negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, come del resto era stato il suo con la giovane Emma De Rossi.

Ma il carteggio a mia disposizione fa intravedere anche altre storie di donne, a cominciare proprio dalla madre Emma che proviene da una grande famiglia alto-borghese imparentata con Benjamin Disraeli e che è la prima autrice dell’epistolario. È una donna severa, asciutta, controllata e con una precisa condivisone della ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia. Anche se è lei, nei fatti, a tenere unita la trama di questi rapporti con la giovane figlia lontana, ogni qualvolta che si presentano delle discussioni più spinose e argomenti più delicati da trattare, fa un passo indietro e cede la penna al marito-padre. Ugo, padre e nonno amorevolissimo quando si tratta di aggiungere i “salutoni” in fondo alle lettere per Asmara, diviene, quando affronta argomenti più difficili, l’autorità indiscussa.  Come tale usa un linguaggio chiaro, senza nessun infingimento retorico, e più che cercare di dialogare con la figlia lontana, impartisce ordini e disposizioni che non si devono discutere.

Poi ci sono le altre sorelle: Anna e Ada. Entrambe più anziane, mogli e madri. Entrambe parlano il francese e Ada sa anche suonare il pianoforte. I loro argomenti, anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, sono incentrati sulla casa, la famiglia, le ricette, i vestiti, i figli: insomma la vita quotidiana. Probabilmente le aiuta a sostenersi a vicenda dentro una tragedia imprevista e terribile dalla quale però tutti riescono, sia per fortuna, sia per relazioni, che per ragioni di classe, a uscire indenni e a ritrovarsi, a guerra finita, ancora tutti in piedi. Delle due Ada è quella meno presente, perché convive con i genitori insieme al suo nucleo familiare e per lei in qualche modo, scrive la madre. Invece Anna, moglie di Giorgio Orefice, anche lei madre di Gastone e Vittorio, gioca un altro ruolo. Spesso vive nella casa dei vecchi genitori ma spesso è anche via. Suo marito, Giorgio, è un antifascista perseguitato anche prima delle leggi razziali che cercherà la sua via di fuga in Francia. Pare dal tono delle sue missive la più solare, quella con più risorse per far fronte alle difficoltà, anche se poi le idee che si prospettano non avranno mai buon esito. Da un piccolo numero di lettere da Anna a Rita (da Livorno ad Asmara) si capisce che Anna aveva partorito l’idea, per raggranellare un po’ di denaro, di mettere su un commercio di abiti e biancheria confezionati in Italia da rivendere alle ricche signore italiane di Asmara. L’idea forse poteva anche essere buona ma le difficoltà erano troppe e così tutto naufragò in un niente di fatto. L’aspetto più interessante, dentro questa riflessione, è che si comprende come di questa idea siano stati tenuti all’oscuro proprio i maschi di casa. Prima si vedrà se funziona. Questa è la tipica strategia di difesa femminile: ricorrere al silenzio, anche all’inganno, pur di far marciare una propria idea – perché se venisse manifestata alla luce del sole, sarebbe eliminata sul nascere.

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Il volume-intervista di Catia Sonetti a Gastone Orefice

Sempre dall’epistolario in nostro possesso scopriamo che, tra le due, sarà proprio Rita la minore, a lavorare e a guadagnare per sé e per la famiglia. Prima in Africa con l’arrivo degli inglesi e poi grazie alla sua conoscenza della lingua, dopo la guerra, tornata a Livorno, con gli Americani. Anna invece rimarrà tutta la vita moglie e madre. Ma dopo la liberazione e la fine della guerra il quadro cambia per tutti e quella diventa un’altra storia.

Eppure queste donne passeranno tra i drammi della guerra e della persecuzione incolumi adottando varie strategie di sopravvivenza. La più anziana, la vecchia madre Emma, racconta in un diario che poi il nipote Gastone contribuirà a rendere pubblico, le peripezie degli ultimi mesi. È un testo interessante che messo a confronto con i testi delle lettere fa emergere con chiarezza come la prosa epistolare sia una prosa familiare, più sciolta, più colloquiale, mentre il diario scritto con l’intenzione di lasciare una testimonianza per i nipoti e per i posteri in genere, è più strutturato, propone scelte lessicali più meditate e dà maggiore spazio al tema della religiosità ebraica e delle tradizioni, così minacciate in un contesto di fuga.

A nessuna di loro capitò quello che accadde a un’altra Emma, omonima della nostra, Emma Castelli (sorella di Ugo e moglie di Salomone Giulio Belforte) che negli anni della Grande Guerra fu strappata alle sue occupazioni domestiche e si dovette occupare a tutto tondo dell’azienda di famiglia, sia della cartoleria che della casa editrice. Il figlio Gino racconterà che “se fino ad allora era stata del tutto ignara di ogni attività commerciale, seppe assumere con energia le redini dell’azienda, sì da conservare soldi fino al ritorno dei figli. E fino all’estremo delle sue forze non volle più abbandonare il lavoro e ne fece, insieme all’affetto per la famiglia, lo scopo della sua vita.” (M. Luzzati, 1990). In sostanza da donna risoluta qual era si rifiutò di essere di nuovo relegata alle faccende domestiche riuscendo a trasformare quello che le si era prospettato come dovere in un diritto a cui non volle più rinunciare. Furono però poche le donne ebree alle quali capitò quest’occasione. Peccato.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.