Mens Sana Siena: 150 anni di sport

Le grandi idee nascono per gioco, spesso e volentieri davanti ad una buona birra. Non è uno slogan pubblicitario bensì una constatazione storica quella che ci porta a raccontare (in estrema sintesi) i quasi 150 anni di vita della Mens Sana Siena, società sportiva fra le più longeve, nonché vincenti, del panorama italiano. Nacque in birreria la Mens Sana, per volere di alcuni studenti universitari (Pianigiani, Alessandri, Tuci i loro nomi) che in una fresca serata autunnale del 1870 si erano incontrati fra i tavoli del “Giudat”, ritrovo senese per eccellenza in quegli anni, con l’idea di costituire un’associazione che promuovesse l’innovazione dell’attività ginnica nel tessuto sociale di una cittadina da sempre fortemente ancorata alle proprie tradizioni.

Gli albori: tra ginnastica, tiro a segno e scherma
La gestazione durò qualche mese, ma il 16 aprile 1871 arrivò il momento di mettere nero su bianco e fondare l’Associazione Ginnastica Senese (denominazione seguita dal motto di Giovenale “Mens Sana in Corpore Sano”, divenuto ragione sociale ed identificazione del club biancoverde solo nel 1931), una sorta di “palestra” per tutti quei giovani che attraverso l’esercizio fisico potevano mantenersi “robusti e disciplinati per apportare gloriosa e santa difesa alla Patria”, come scrive due anni più tardi il segretario Bandini nella relazione morale al consiglio direttivo, uno dei documenti più antichi rintracciabili nell’archivio storico della società.

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

Ginnastica, tiro a segno e scherma le discipline inizialmente praticate, un piazzale nei pressi di un ex convento di frati (fuori Porta Camollia, l’accesso nord delle mura cittadine) il primo campo di allenamento, un’ottantina i soci fondatori, oltre a quelli contribuenti (due lire per l’affiliazione, una lira il contributo mensile) e ad un buon interesse riscosso in città, soprattutto fra i giovani. La mitica palestra di Sant’Agata, a due passi da Piazza del Campo, sarebbe sorta qualche anno dopo: nel frattempo l’associazione aveva ospitato il Congresso Nazionale Ginnastico (1875) e, grazie al prestigio di cui godeva il “maestro direttore” Leopoldo Nomi, aggiunto la pratica di nuoto e ciclismo, oltre ad allestire quella sezione femminile che, nel 1907, si guadagnerà la medaglia d’argento al Concorso di Venezia dopo aver presentato, per la prima volta in Italia, il gioco della palla al cerchio. L’antesignano della pallacanestro, del basket, l’eccellenza sportiva con la quale, destino o casualità, la Mens Sana moderna ha dominato in Italia e primeggiato in Europa dal Duemila ad oggi.

I trionfi del basket
Dal fermento dei primi del Novecento nascono scissioni interne (Sport Club) e frizioni esterne (nel 1904 vede la luce la Robur, indirizzatasi con successo nel calcio ma avversaria agguerrita nel ciclismo), oltre ad un allargamento degli orizzonti che vede la Mens Sana attiva nel pattinaggio (sarà società campione d’Italia nel 1939), nell’hockey a rotelle, nella lotta, nella boxe, in maniera a dire il vero assai marginale pure sui rettangoli verdi del football. Il tunnel imboccato nel periodo fascista, quando la società viene addirittura commissariata, vede la fine con la ripresa delle attività sportive nel Dopoguerra: atletica leggera, pallavolo e soprattutto pallacanestro sono i motori che accendono una nuova stagione, culminata con l’accelerazione di fine anni Sessanta che porta, in rapida successione alla costruzione del Dodecaedro (1968) e del Palasport (1976), i due grandi impianti coperti di proprietà che accendono la stella della Mens Sana soprattutto sotto canestro.

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La pallacanestro (Archivio Storico Mens Sana 1871)

L’approdo della squadra in Serie A nel 1973 fa conoscere Siena in Italia anche a livello sportivo e accentua quel processo di identificazione del nome Mens Sana con lo sport dei giganti che dura tutt’oggi (dopo otto scudetti ed una manciata di coppe nazionali, oltre ad una coppa europea, finite in bacheca fra il 2002 ed il 2013), nonostante nel frattempo i risultati abbiano raggiunto l’eccellenza pure altrove, prova ne siano i titoli internazionali conquistati nel pattinaggio corsa da Laura Perinti e nel pattinaggio artistico da Cristina Giulianini, la breve ma significativa esperienza in Serie A2 della squadra di hockey pista, i tanti allori giunti dalla ginnastica artistica o da nuove discipline quali karate e judo.

Centoquarantaquattro anni dopo quell’allegra bevuta fra universitari, la Mens Sana (anzi, adesso chiamatela Mens Sana 1871) rappresenta una vera e propria eccellenza senese, forte dei suoi impianti che disegnano il crinale della vallata di viale Sclavo, di atleti professionisti che ne portano in giro per l’Europa i colori, di oltre tremila iscritti ai corsi (ragazzini e passionisti non più giovani che, senza inseguire risultati agonistici, vestono il biancoverde per tenersi in forma e divertirsi), di un’utenza sempre più esigente che, sotto la presidenza di Piero Ricci, ha portato al “boom” di un’innovativa e diversificata offerta nel mondo del fitness, di duemilaottocento soci che ne confermano il preminente ruolo sportivo-istituzionale nella Città del Palio.

Il presente e il futuro.
Nessun dubbio però che il 2014 sia stato un annus horribilis per tutto lo sport senese, Mens Sana compresa. Anzi, Mens Sana in prima linea. Figlio di pessime gestioni finanziarie, in aggiunta al progressivo disimpegno nel settore delle sponsorizzazioni sportive cittadine da parte di Banca Monte dei Paschi, il fallimento delle due maggiori realtà professionistiche cittadine ha cancellato in un batter d’occhi due lustri di militanza nella massima serie calcistica (l’Ac Siena ha chiuso i battenti dopo 110 anni di storia, una nuova società è pronta a ripartire ma dovrà farlo dalla serie D) e messo fine al ciclo più vincente (otto scudetti e varie coppe, anche a livello internazionale, fra il 2002 ed il 2013) che il basket italiano potesse vantare dall’avvento del professionismo. Il crac della Mens Sana Basket, una Spa controllata per oltre l’80% delle proprie azioni dalla Polisportiva Mens Sana ma, come da statuto della stessa, in sostanziale autonomia dato l’ambito professionistico nel quale svolgeva la propria attività, cancella d’improvviso Siena dalla geografia del basket che conta e la relega in quarta categoria, l’attuale serie B, laddove la neonata Mens Sana 1871 è stata ammessa a partecipare dalla Federazione Italiana Pallacanestro.

Prima squadra e settore giovanile, ricostruiti a tempo di record nonostante le comprensibili difficoltà (logistiche e, ancor più, finanziarie), rientrano nell’orbita di quella che viene chiamata la “casa madre”: entusiasmo e buona volontà non mancano (il presidente Piero Ricci ha affidato il ruolo di direttore sportivo a Lorenzo Marruganti, coach del team biancoverde sarà Matteo Mecacci), la strada per risalire però è fisiologicamente lunga. Ed in salita.

*Matteo Tasso, nato a Siena nel 1974, ha curato nel 2001 il volume celebrativo per i 130 anni di vita della Polisportiva Mens Sana. Giornalista pubblicista dal 1998, coniuga la propria attività nel settore bancario ad una collaborazione con testate giornalistiche locali occupandosi principalmente di argomenti sportivi. Segue da tre lustri le vicende del basket mensanino sulle colonne de “Il Corriere di Siena” ed è il telecronista su Canale 3 Toscana delle partite della squadra biancoverde, oltre a curare rubriche su Antenna Radio Esse e sul portale internet www.oksiena.it.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza.

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente.

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.

 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madrignani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Fascisti repubblicani a Lucca

Nel giugno del 1944 la notizia della liberazione di Roma e la veloce avanzata degli Alleati aveva destato nella popolazione toscana un grande entusiasmo, radicando la convinzione, che si rivelerà poi errata, di una rapida fine della guerra e dell’occupazione tedesca. A Lucca, come nel resto della Toscana, crollavano senza clamori le istituzioni del fascismo repubblicano e noti esponenti del fascismo locale, preoccupati per la propria sorte, avevano provveduto a varcare l’Appenino, a nascondersi, oppure tentato un rapido cambiamento ideologico.

Pavolini, il segretario nazionale del Fascio Repubblicano, aveva intrapreso agli inizi di giugno un viaggio attraverso le città toscane per valutare personalmente l’entità della crisi serpeggiante tra le istituzioni saloine del territorio.  Conscio dell’imminente avanzata degli Alleati, aveva deciso, in accordo con Mussolini, di direzionare tutti i suoi sforzi verso una militarizzazione del partito attraverso la creazione delle Brigate Nere, considerate quale unica possibilità di salvezza per la RSI, ormai assediata sul fronte interno dalla guerriglia partigiana e su quello esterno dalle armate anglo-americane. Il partito subiva così una trasformazione, da partito di massa a partito armato, d’avanguardia, di combattenti al servizio del fascismo e fedeli a Mussolini, per contrastare i nemici interni, i “ribelli”, gli antifascisti, ma anche verso tutti coloro che non si erano schierati e aspettavano soltanto la fine della guerra.

Ѐ con queste premesse che Pavolini arriva a Lucca il 17 giugno 1944, accompagnato dal suo braccio destro, il colonnello Giovan Battista Riggio, Beniamino Fumai e da Idreno Utimpergher, fascista della prima ora, che aveva fatto carriera durante il Ventennio come segretario provinciale dei sindacati dell’Industria. Dopo la costituzione della Repubblica Sociale, nell’autunno del ’43 si era spostato a Trieste dove aveva riaperto la sede del Fascio e insieme a Beniamino Fumai, a capo della squadra del “Mai Morti”, aveva seminato il terrore in città con rapine, estorsioni e assassinii, episodi che gli erano costati la destituzione da ogni incarico e l’allontanamento da Trieste. Utimpergher si era poi spostato nei territori dell’Italia occupata con il compito di riorganizzare squadre di fascisti e proprio con questo obiettivo era arrivato a Lucca.

Pavolini assegna a Utimpergher il compito di presiedere e organizzare la prima Brigata Nera della Repubblica Sociale italiana, intitolata a Mussolini e poi contrassegnata con il numero XXXVI. Si tratta di un unicum in Italia perché in realtà il decreto che ordina la creazione delle Brigate Nere viene pubblicato alcuni giorni dopo, il 30 giugno, e la maggior parte delle Brigate nere riesce a costituirsi soltanto due mesi più tardi, nell’agosto del 1944.

manifesto BNMa chi sono gli uomini che nell’estate del ’44 scelgono di entrare nelle Brigate Nere?

Le ricerche sull’argomento hanno rivelato che a determinare l’arruolamento nel partito armato intervengono motivazioni molteplici e diverse tra loro: condivisione convinta e agguerrita dell’ideologia fascista, opportunismo, volontà di emulazione nei confronti dei tedeschi, tentativo di rivendicare l’umiliazione dell’8 settembre, volontà di vendetta verso quelli che venivano considerati “voltagabbana” e di lotta senza quartiere al movimento partigiano, assimilazione della violenza, del razzismo e dell’intolleranza agguerrita contro il nemico, disvalori di cui il fascismo italiano si era fatto interprete fin dal ventennio.

Quando Utimpergher ai primi di luglio del ’44 provvede a organizzare la Brigata Nera lucchese si rivolge ai fascisti lucchesi con un appello che fa leva proprio su questi sentimenti. Il gruppo dei brigatisti lucchesi che risponde alla richiesta di arruolamento è molto eterogeneo, sia per esperienze politiche e militari precedenti, sia per appartenenza generazionale. Troviamo giovani e giovanissimi nati durante il Ventennio, educati e assuefatti alla retorica fascista, che compiono questa scelta a volte in modo convinto, altre ingenuamente; troviamo ex squadristi, marcia su Roma, delusi dalla burocratizzazione del partito e di nuovo esaltati all’idea dell’uso della forza e delle armi; troviamo veri e propri clan familiari che si arruolano insieme all’interno della brigata.

Completato l’organico, di circa 150 unità, alla metà di luglio, la Brigata Nera “Mussolini” diventa operativa lavorando al fianco degli occupanti tedeschi di zona ma anche in modo autonomo. Tante le operazioni che la vedono protagonista, come per esempio quella del 3 agosto 1944, quando i brigatisti organizzano una rappresaglia nella frazione di S. Lorenzo a Vaccoli che porta all’incendio delle case del paese e all’arresto e successiva deportazione nei campi di lavoro di alcuni contadini. Pochi giorni dopo i brigatisti della “Mussolini” partecipano ad interrogatori eseguiti con l’uso di sevizie nei confronti di presunti fiancheggiatori dei partigiani locali, e ancora partecipano insieme ai tedeschi al rastrellamento avvenuto il 21 agosto 1944 sul Monte Faeta, durante il quale vengono fucilati sette giovani uomini appartenenti a gruppi di resistenti accampati sui Monti Pisani. Nei primi di settembre hanno inoltre un ruolo determinante di delazione nella strage della Certosa di Farneta e infine, in questa escalation di violenza, il 23 settembre, in risposta al ferimento di un brigatista nero, pianificano ed eseguono, in totale autonomia rispetto alle forze tedesche presenti in zona, la strage del Convento dei Cappuccini a Castelnuovo Garfagnana in località Merlacchiaia, durante la quale vengono uccisi, per mano dei brigatisti lucchesi, otto giovani uomini.

Alla fine di settembre 1944 con lo spostamento del fronte e l’avanzata degli Alleati la XXXVI Brigata Nera lascia la lucchesia e continua ad essere operativa prima in Emilia, nel modenese e a Piacenza, poi in Piemonte. Ciò che resta della “Mussolini” converge infine a Milano il 25 aprile 1945: da qui un piccolo gruppo di militi lucchesi ancora al comando di Utimpergher segue Mussolini nel suo ultimo disperato viaggio. Il 27 aprile 1945, in testa alla colonna dei camion tedeschi e delle automobili del duce e dei ministri, l’autoblinda della BN lucchese viene fermata a Dongo.

Il giorno successivo Utimpergher verrà fucilato sul lungolago di Como insieme a Pavolini e ai gerarchi, gli aderenti alla Brigata invece saranno processati per collaborazionismo e per la partecipazione alle rappresaglie e alle stragi sopra citate presso le Corti d’Assise straordinarie di Lucca e di Firenze. Dopo un’iniziale comminazione di pene severe i brigatisti verranno perlopiù prosciolti o amnistiati, in linea con l’allentamento della politica in materia di epurazione e punizione dei crimini fascisti che caratterizza i governi italiani a partire dal ’46.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Partigiani, principesse, maghi e generali

“Tutti contenti, è finita; andiamo a casa!”, scrive l’8 settembre 1943 Sante Pelosin sul suo diario di guerra. Quanti dei nostri soldati hanno reagito nello stesso modo. Almeno metà non sono tornati a casa che due anni dopo, molti non sono tornati affatto. Sante è tra i fortunati, rimpatriato con la sua divisione l’8 marzo 1945. Ma quante sofferenze, in quei 18 mesi!

2La sua storia, e quella dei suoi commilitoni, è unica e straordinaria. Due divisioni italiane, la Venezia e la Taurinense, sono di presidio nell’interno del Montenegro. È forse la zona più periferica e inaccessibile dell’intero schieramento italiano all’8 settembre. Infatti i tedeschi arrivano qui tardi, verso fine mese, quando i comandanti sono già riusciti a organizzarsi, hanno chiarito l’equivoco iniziale (contro chi bisogna combattere ora?) e hanno preso una decisione storica. Dopo due anni e mezzo di lotta senza quartiere, di violenze da ambo le parti e crimini contro le popolazioni civili, ora due divisioni dell’esercito occupante, con generali e stato maggiore, si alleano con i partigiani jugoslavi comunisti e costituiscono la divisione Garibaldi.

Sembra incredibile eppure è vero. L’odissea dei partigiani italiani in Jugoslavia è testimoniata addirittura da un filmato. Anche questo è straordinario: ben poche unità dell’esercito avevano a disposizione una macchina da presa. Si vede il vecchio generale Oxilia, uno dei più intelligenti di tutto il Regio Esercito, mentre sottoscrive l’accordo con Peko Dapčević, appena trentenne ma già generale anche lui. Seguono mesi di fatica e sofferenza, di fame e freddo. “Vivere e combattere senza soldi, senza pane, senza carne, senza scarpe, malvestiti è impossibile”, scrive Oxilia nel novembre 1943 agli alti comandi italiani nell’Italia già liberata dagli angloamericani. “Aiutateci, e continueremo a fare l’impossibile!”. E tuttavia gli aiuti arrivano col contagocce. D’altronde i partigiani combattono anche così, soprattutto così. Lo stesso Oxilia, stanco e malato, viene rimpatriato, e nel luglio del 1944 viene nominato un nuovo comandante: Carlo Ravnich. Minatore di Albona, vicino a Fiume, ha cominciato la guerra come maggiore, la termina da generale. Istriano, parla bene il serbocroato, ed è un interlocutore perfetto per i comandi dell’esercito partigiano jugoslavo. Nonostante le origini slave del cognome, Ravnich è un italiano monarchico e, come gran parte dei suoi uomini, ha scelto di unirsi ai partigiani di Tito per seguire le indicazioni del suo Re, non certo per adesione ideologica al comunismo.

A volte, non sempre, rintracciare i documenti per una ricerca storica è quanto di più noioso si possa immaginare. In quei casi lo storico sembra il classico e stereotipato “topo da biblioteca”. In altre circostanze invece le fonti sono sfuggevoli, i documenti vanno cercati con cura e fatica, frugando non solo nei fondi meno frequentati degli archivi ma anche in case, biblioteche private, o nei ricordi dei protagonisti. In quelle occasioni il lavoro dello storico assomiglia più a quello di un detective impegnato a risolvere un caso, anche se di cinquanta, cento o mille anni fa. È quel che è capitato a me, studiando la storia della divisione Garibaldi in Jugoslavia nella seconda guerra mondiale.

Ma torniamo all’inizio. O meglio alla fine della guerra.

lapide commemorativa dei caduti garibaldini, Berane, Montenegro 1945. La divisione Garibaldi è tornata a casa decimata. Ha avuto almeno 10.000 vittime, tra morti e dispersi. Una percentuale doppia o tripla rispetto a chi si è lasciato catturare ed è finito internato dai nazisti. Tuttavia i nostri partigiani ottengono ben pochi riconoscimenti in patria. Considerati comunisti, perché hanno combattuto con Tito, non vengono nemmeno ammessi all’Anpi, non essendo partigiani italiani. Qualche piccola lapide o stele in Italia; un grande monumento in Jugoslavia, inaugurato nel 1983 a Pljevlja alla presenza del presidente Pertini.

Gli stessi documenti della divisione, il cosiddetto “Diario Storico”, non trovano una collocazione in nessun archivio, né italiano né jugoslavo. Seguono il comandante Ravnich fino alla morte, avvenuta nel 1996. Pochi giorni dopo il soldato Sante Pelosin riceve una chiamata dalla moglie: “C’è qui l’archivio del generale, venite a prenderlo”. Due commilitoni caricano la macchina con 16 casse di documenti, tra cui i famosi filmati. L’archivio rimane a casa Pelosin per poco. Alcuni giorni dopo si presentano alla porta due personaggi: la contessa Anna Provana di Collegno, amica e finanziatrice del famoso sensitivo torinese Gustavo Rol, e un suo collaboratore, il professor Cesare Bertana. Impugnano il testamento di Ravnich, che aveva promesso di lasciare in eredità il suo archivio a Maria Gabriella di Savoia, terza figlia di Umberto II, l’ultimo re d’Italia. La principessa ha costituito in Svizzera una fondazione per conservare documenti e materiale vario di interesse storico per la famiglia, tra cui diversi fondi che il padre avrebbe voluto lasciare in eredità allo Stato italiano. I documenti di Ravnich vengono caricati sulla macchina della contessa, poi consegnati a un intermediario, Domenico Orsi, che li trasferisce in Svizzera. Dell’archivio fanno parte anche “n° 22 scatole metalliche contenenti Film”. Documenti e pellicole originali dovrebbero dunque trovarsi presso la fondazione “Umberto II e Maria Josè”, anche se la principessa non ha mai risposto alle richieste di consultazione del materiale presentate da me e dall’associazione reducistica della divisione (Anvrg).

La maggior parte dei circa 25.000 italiani che si schierano contro i tedeschi in Montenegro sono piemontesi e toscani. Sia la Taurinense che la Venezia erano divisioni speciali, caratterizzate, a differenza della normale fanteria, da un reclutamento regionale. Sono passati 70 anni e pochi sono i sopravvissuti. Nel 2013 ho viaggiato tra Toscana e Piemonte, intervistando alcuni di quei ragazzi di allora, uomini ancora combattivi, orgogliosi di raccontare le loro incredibili avventure, di difenderne la memoria. Devo ringraziare gli Istituti storici della Resistenza di queste due regioni, che mi hanno permesso di effettuare queste videointerviste, oltre a RaiStoria, che ha creduto nel progetto e ha realizzato con me un documentario in tre puntate.

Ma più di tutti devo ringraziare il reduce Gino Bindi, di Castiglioncello (LI), ora purtroppo scomparso, che mi ha fornito una copia in dvd di alcuni dei filmati originali della Divisione Garibaldi. Il documentario della Rai si chiude con un’intervista al direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, il dottor Attanasio, il quale ribadisce ufficialmente, a nome dello Stato italiano, la richiesta di consultazione dei documenti della fondazione svizzera. Ancora una volta la principessa Maria Gabriella di Savoia risponde evasivamente.  

Dove sono dunque finite le pellicole originali? Che fine hanno fatto i documenti? Quanto ancora dovranno aspettare gli storici per poter analizzare in maniera neutra e scevra da pregiudizi la straordinaria vicenda di quegli uomini che hanno combattuto una violentissima guerra partigiana fuori dalla patria, ma pur sempre per riscattare l’Italia?

Domenico Orsi è morto, Sante Pelosin è molto anziano e così la contessa Provana di Collegno. Anche Gustavo Rol è morto; peccato, con le sue straordinarie doti di veggente avrebbe potuto darci qualche risposta.

Partigiani, generali, maghi, sono scomparsi. Rimane solo la principessa; è l’unica che può aiutarci a ricostruire questa storia. Restiamo in attesa. Se ci sei batti un colpo.

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2014.