Il conflitto di Cecina

Sul finire del gennaio 1921 Cecina, modesta ma vivace cittadina allora facente parte della provincia di Pisa, fu teatro di un duro scontro che coinvolse squadristi livornesi e socialisti locali, tra i quali il sindaco e alcuni membri della giunta comunale. Lo scontro, in cui venne ferito mortalmente il fascista Dino Leoni, si colloca al centro di intricate vicende che portarono alla prematura fine della neoeletta amministrazione socialista.

Gli anni che separano il primo conflitto mondiale dall’avvento del fascismo sono per l’Italia una fase di grande instabilità politica e agitazione sociale. Sulla scena pubblica del Paese si affacciano movimenti di massa contrapposti, impegnati fin da subito in una lotta violenta a tal punto da ricordare i toni di una guerra civile. Ai frequenti scioperi e disordini di piazza agitati dalle rivendicazioni delle classi lavoratrici rispose ben presto un fenomeno del tutto nuovo ma destinato a condizionare profondamente la storia italiana degli anni successivi: lo squadrismo fascista. La tensione sociale raggiunse il suo apice a seguito delle elezioni politiche del 1919 e, specialmente, di quelle amministrative del 1920, che videro una netta affermazione del Partito Socialista in numerosissimi comuni. In Toscana, su un totale di 290 comuni, ben 151 andarono ai socialisti, seguiti a grande distanza dai conservatori. Questo risultato elettorale portò a un intensificarsi delle azioni squadriste in tutta la regione, volte a colpire le amministrazioni passate agli odiatissimi “nemici rossi”.

Anche a Cecina le amministrative del 1920 segnarono l’affermazione di una maggioranza socialista. La nuova giunta era guidata da Ersilio Ambrogi, personalità di spicco della scena politica tirrenica, deputato nella Circoscrizione Livorno-Pisa e successivamente aderente al neonato Partito Comunista d’Italia. Il 9 dicembre 1920, in una delle sue prime sedute, l’amministrazione comunale votò una deliberazione con cui si decideva di rimuovere dalle sale del municipio la targa in bronzo che riportava il celebre Bollettino della Vittoria, ovvero il documento ufficiale con cui il generale Armando Diaz aveva annunciato la resa dell’Impero austro-ungarico e la fine delle ostilità sul fronte italiano. Le ragioni che spinsero la giunta a prendere questa decisione non sono totalmente chiarite dalle fonti, ma il gesto – forse dovuto all’euforia seguente il trionfo elettorale – non è certamente un caso isolato nelle turbolente cronache di quegli anni. Un indizio si può trarre dalle parole dello stesso Ambrogi il quale, interpellato in più occasioni al riguardo, dichiarò sempre che le motivazioni della rimozione della targa furono politiche, così come politica era stata, a suo dire, l’affissione della stessa. Lasciando da parte le considerazioni sulla felicità del gesto, quel che è certo è che questo costituì il casus belli dei disordini successivi.

•Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova) (img2).

• Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova).

Un primo scontro, seppur a parole, fu cominciato dall’articolo Intelligenti pauca, uscito sul settimanale cecinese Vita Nuova il 12 Dicembre 1920. L’articolo, firmato «C.», molto probabilmente è da attribuirsi a Renato Cambellotti, esponente di spicco del fascismo locale che guiderà la 23° Legione Maremmana nella Marcia su Roma. Con un tono decisamente aggressivo, l’autore intima ai membri della giunta comunale – i «signori bolscevichi» – di non procedere con la loro deliberazione e promette che la targa sarà comunque rimessa al suo posto da «coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea». La risposta della controparte arrivò il 26 dicembre sulle pagine de La Fiamma, settimanale della Federazione Socialista di Pisa. Nel suo articolo intitolato CONIGLI!!!, Pierino Cateni, personaggio vicino al sindaco Ambrogi, difende vigorosamente la rimozione della targa – vista come simbolo della guerra in cui «si spinse il proletariato al macello» – e conclude provocando il suo anonimo interlocutore, senza risparmiarsi: «È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!».

La promessa controffensiva ebbe luogo un mese più tardi: nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921, un gruppo di fascisti penetrò nel municipio e rimise al suo posto la targa. Non si conoscono con certezza i nomi dei componenti del gruppo, si sa solo che a prendere parte alla spedizione furono fascisti locali supportati da squadristi appartenenti ai Fasci di combattimento di Livorno, Pisa e, forse, Firenze. La partecipazione di fascisti provenienti da città, come il capoluogo toscano, anche piuttosto distanti da Cecina, non deve sorprendere. I Fasci operavano in stretta collaborazione ed erano organizzati in una ben definita struttura gerarchica; le azioni venivano decise nelle sezioni dei centri maggiori, dove erano definite anche forze e strategie da mettere in campo, mentre quelle dei centri minori rappresentavano una sorta di presidi, utili a fornire supporto durante le incursioni nella provincia. La mattina del 25, il sindaco e gli assessori vennero a conoscenza dei fatti della notte precedente e, dopo aver ordinato che la targa fosse nuovamente rimossa, proclamarono lo sciopero generale. La tensione era altissima.

La sera stessa, con il pretesto di difendere i commercianti – che a loro dire erano stati costretti con la forza a tenere chiusi i negozi – giunse a Cecina una seconda spedizione di fascisti, stavolta provenienti da Livorno. I leader della spedizione richiesero al vicecommissario di polizia che le autorità tutelassero gli interessi degli esercenti e rimettessero definitivamente al suo posto la targa. Dall’altro lato, ricevuta la notizia dell’arrivo dei fascisti, il sindaco Ambrogi si recò dal maresciallo dei carabinieri per sincerarsi che lo stesso avesse forze sufficienti alla tutela dell’ordine pubblico. Entrambe le parti furono rassicurate dalle autorità, così gli squadristi dissero che sarebbero tornati indietro col primo treno mentre il sindaco, atteso da numerosi compagni nella locale sezione socialista, decise di far rincasare tutti. Gli eventi successivi non sono definiti con assoluta chiarezza dalle fonti. Sicuramente i fascisti non tornarono subito a Livorno – pare per un ritardo del treno – e si avviarono sulla via Emilia, la strada principale del paese, strappando dai muri i

•Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

• Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

manifesti rossi affissi per lo sciopero e improvvisando una parata. Giunti i fascisti sotto il balcone della sezione socialista, dove ancora si trovavano il sindaco e altre persone, scoppiò uno scontro a fuoco tra i due gruppi, terminato solo dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Nello scontro – non è possibile dire con certezza quale delle due fazioni abbia sparato per prima – rimasero feriti Arsace Bertelli, un giovane cecinese colpito accidentalmente, e Dino Leoni, capitano della Marina Mercantile e fascista livornese, che morirà il 19 febbraio seguente a causa delle ferite riportate.

Le indagini vennero avviate negli istanti immediatamente successivi ai fatti. Una perquisizione della sezione socialista, alla presenza del vicecommissario di polizia e del maresciallo dei carabinieri, rinvenne nei locali e sul balcone numerose pietre, dei bossoli di rivoltella e alcune munizioni inesplose. L’unica arma sequestrata fu trovata addosso a uno dei fascisti. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e alcuni amministratori – tra i quali spicca Alfredo Bonsignori, colui che aveva proposto la rimozione della targa – vennero arrestati e subito trasferiti nelle carceri di Volterra. La fase istruttoria si concluse un anno più tardi e portò alla sentenza del 1923 presso la Corte di Assise di Padova, che condannò quasi tutti gli imputati a scontare diversi anni di carcere. Il sindaco Ambrogi venne condannato in contumacia in quanto, eletto alla Camera dei deputati per il PCd’I, era stato scarcerato nel giugno 1921 ed era espatriato pochi mesi dopo. A nulla valse il ricorso in Cassazione dei rimanenti imputati, che risultò semplicemente in alcuni aggiustamenti della pena.

Il procedimento penale, pur giungendo alle sentenze di condanna, non servì a gettare definitivamente luce sui fatti del 25 gennaio. La difesa lamentò varie irregolarità sia nel corso delle indagini sia durante il processo, ottenendo pressoché nessuna risposta. Dalle fonti appare evidente l’accanimento delle autorità nei confronti degli imputati. Gli atti, infatti, sembrano far trasparire un piano – impossibile dire se anteriore o posteriore ai fatti – volto a rovesciare la giunta. In questo senso, è utile ricordare le vicende immediatamente successive. Dopo la rimozione dalla carica del sindaco Ambrogi, stabilita con decreto reale il 30 gennaio 1921, prese il suo posto l’assessore anziano Dante Vannozzi. Quest’ultimo scrisse ripetutamente al prefetto di Pisa e al sottoprefetto di Volterra per denunciare le minacce di morte a lui indirizzate dai fascisti locali, senza ottenere dalle autorità nessun provvedimento concreto. Perciò, il 25 aprile successivo Vannozzi si dimise assieme a tutti gli assessori e i consiglieri di maggioranza. L’episodio, come numerosi altri emergenti dagli atti, avvicina le vicende di Cecina a quelle dei tantissimi comuni italiani nei quali l’azione fascista rappresentò il perno su cui rovesciare quelle amministrazioni comunali ritenute “scomode”.

Tommaso Barsotti, laureando in Storia dell’Università di Firenze, svolge il servizio civile regionale presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ciclo 26 giugno 2018 – 25 febbraio 2019).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




Destini di emigrati: Yves Montand

La fama può avere mille volti e mille possono essere i motivi che spingono una persona a tentare di uscire dall’anonimato. Yves Montand (1921-1991) fu senz’altro un artista a cui la fama arrise in più di un’occasione. Il suo talento, il fervore che riversava nelle esibizioni a teatro furono la cifra di un’epoca. Artista eclettico, seppe spendersi al meglio tanto nel mondo del cinema quanto in quello della musica. Fu proprio in quest’ultimo che mosse i suoi primi passi.

Chi lo ricorda di fronte alle migliaia di persone dell’Olympia o dell’Étoile di Parigi, stenterà a credere che tutto possa aver avuto inizio sulle assi sconnesse di un vecchio granaio di Marsiglia. Eppure, nel 1938, appena diciassettenne, Yves Montand fece il suo debutto proprio di fronte a una cinquantina di operai sfiaccati da una lunga giornata di lavoro che, mentre lui si sforzava di conquistarli con brani di Charles Trenet e Maurice Chevalier, masticavano sfacciatamente arachidi e semi di girasole. Fu il primo grande successo.

Del resto lo stesso Montand proveniva dall’ambiente proletario e ne rivendicava orgogliosamente l’appartenenza. Con una particolarità: era uno sradicato. Ivo Livi, così si chiamava veramente, era italiano, figlio di emigrati italiani. Nacque a Monsummano, al tempo provincia di Lucca, oggi Pistoia. Il padre, convinto antifascista, a seguito di una spedizione punitiva che, in una sola notte lo fece cadere sotto il peso dei manganelli e assistere alla distruzione del laboratorio di scope di cui era proprietario, dato alle fiamme per ritorsione, fu costretto a partire per la Francia. Poco dopo anche Ivo, che di quella notte conserverà a lungo i bagliori del fuoco e le grida, lo raggiunse col resto della famiglia. Ma dell’attaccamento all’Italia resterà traccia nel film del regista Giuseppe De Santis Uomini e lupi e in un disco del 1963 interamente composto da brani della musica popolare italiana, tra i quali Bella ciao.

Marsiglia avrebbe dovuto essere la tappa di un lungo viaggio verso l’America. Divenne l’ultimo approdo. Qui i Livi vissero in quartieri squallidi, abitati da povera gente. Ivo, che assunse il suo nome d’arte proprio in omaggio all’origine toscana – quando la madre lo chiamava per cena, gli gridava: “Ivo, monta!”, cioè “sali in casa” – dovette adattarsi a svolgere qualsiasi tipo di mestiere: operaio di un pastificio, saldatore, persino parrucchiere.

Poi l’esibizione nel granaio e da lì l’inizio di una faticosa e brillante carriera. Dall’Alcazar di Marsiglia, il più importante teatro cittadino, ai teatri di Parigi e del mondo. Ci furono nella vita del Montand cantante incontri che indirizzarono il suo percorso artistico. Quello nel luglio 1944 con Édith Piaf, che lo volle ad aprire un suo concerto al Moulin Rouge, inizio di una collaborazione che sarebbe durata tre anni. Per lui la regina della canzone francese avrebbe scritto tre brani: La grande Cité, Mais qu’est-ce que j’ai e Il fait des…

Nel 1946 l’interpretazione di Les feuilles mortes, capolavoro del suo repertorio, tratto da una poesia di Jacques Prévert che sarebbe stata messa in musica per il film Les portes de la nuit (“Mentre Parigi dorme”). E, nello stesso anno, l’inizio del sodalizio col cantautore Francis Lemarque che per Montand scriverà testi indimenticabili come À Paris e Quand un soldat. Quest’ultimo in particolare, uscito nel 1952, in piena guerra d’Indocina, e diventato fin da subito inno all’antimilitarismo, sarà censurato per anni dalle radio francesi e farà di Montand il bersaglio prediletto dei più accaniti nazionalisti.

A rinvigorire le polemiche ci si metterà lo stesso Montand che nel 1956, a seguito della repressione in Ungheria, non rinuncerà a partire per una tournée nei paesi sovietici, più per comprendere le ragioni di un simile gesto che per mero tornaconto personale. Ritornerà deluso e amareggiato, non più disposto a battersi per un comunismo cieco e autoritario.

Infine il ritiro dalle scene nel 1968, salvo un breve ritorno negli anni Ottanta, che segnerà la fine della sua carriera di cantante. Continuerà a fare film, ma non tornerà più ad esibirsi in pubblico, se non per cause benefiche.

I gusti cambiano e pure Montand ne era consapevole quando in un’intervista del 1972 a Danièle Heymann diceva: “Un tempo esistevano compositori che si limitavano a comporre canzoni, senza interpretarle. Oggi, grazie ai congegni elettronici e ai mezzi audiovisivi, chiunque è in grado di cantare, anche chi non ha una voce particolarmente bella o chi si muove in maniera inelegante. […] Mi rendo conto, però, che doveva essere frustrante per un autore vedersi costretto ad affidare sempre le proprie canzoni ad un interprete: forse la nuova situazione è più onesta. Ma i pochi interpreti sopravvissuti non hanno più materiale su cui lavorare. Questo è il motivo fondamentale per cui ho smesso di registrare dischi e di fare spettacoli”.

Massimo Vitulano si è laureato in Lettere presso l’Università di Firenze nel 2015 con una tesi su Roberto Vecchioni. Collaboratore per “Il Tirreno” dal 2009 al 2016, è stato docente presso l’Università dell’età libera di Firenze e attualmente è insegnante di italiano presso l’Istituto tecnico “Marchi” di Pescia.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Il Centro di Documentazione di Pistoia: protagonisti e fonti del ’68 pistoiese

All’ultimo piano della biblioteca San Giorgio, un po’ in disparte rispetto al via vai di studenti che frequentano ogni giorno la biblioteca comunale di Pistoia, si trova il Centro di Documentazione. Entrando, tra scaffali pieni di riviste e manifesti, è possibile incontrare ogni pomeriggio un nutrito gruppo di persone che, a titolo volontario, cura e gestisce un archivio, una biblioteca, un’emeroteca e una casa editrice: un patrimonio di materiali fondamentale per studiosi di tutto il mondo.

Il Centro di Documentazione è nato nella temperie culturale della contestazione del 1968 e ha saputo attraversare le stagioni successive, le problematiche interne e i mutamenti esterni, mantenendo un ruolo originale e serio nel mondo culturale pistoiese e italiano.

A cinquant’anni dal 1968 molte delle realtà nate negli anni della conestazione si sono esaurite, il riflusso nel privato ha spento gli ardori di molte associazioni e ha prosciugato le risorse, non solo economiche, di molte esperienze: non è questo il caso del Centro di Documentazione di Pistoia che ha saputo mantenere salde le proprie radici e, allo stesso tempo, rinnovarsi in un mondo completamente mutato.

Ma com’è nata questa esperienza? Nel 1968 Giuliano Capecchi, Paolo Turi e Carmine Fiorillo ebbero l’idea di iniziare a raccogliere in casa del primo, in via degli Argonauti a Pistoia, riviste e materiali da tutto il mondo relativi ai gruppi cattolici, alle attività politiche delle formazioni extraparlamentari, alle diverse aree della marginalità, alla cultura underground: in generale tutto il materiale scritto, indipendentemente dalla provenienza, purché prodotto dai gruppi della contestazione.

Intorno al materiale raccolto si radunò un gruppo di ragazzi che si autodefinì come “un gruppo di giovani che svolgono un lavoro di ricerca e di informazione sui problemi della “nuova sinistra” italiana e dei movimenti rivoluzionari mondiali, con riferimento anche a certe tendenze esistenti all’interno delle comunità cristiane”.

Ben presto il gruppo corredò il lavoro di raccolta con la pubblicazione di un Bollettino, che dal 1970 divenne Notiziario del centro di Documentazione, per far conoscere le proprie attività e il proprio materiale e per distribuire quello prodotto dai gruppi della contestazione.

Sfogliando i primi numeri della rivista emerge con chiarezza un’iniziale vicinanza del Centro di Documentazione al mondo del dissenso cattolico, cioè a un movimento diffusosi in tutta la Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II che cercò di unire la fede cattolica ad un impegno concreto per la giustizia sociale nel mondo.  I temi del bollettino sono emblematici: le lotte degli afro-americani negli Stati Uniti e in particolare l’uccisione di Martin Luter King; i cristiani e la rivoluzione; le vicende dell’Isolotto, famoso caso fiornetino centrale nel dissenso cattolico italiano, con il volume L’Isolotto: popolo di Dio che in seguito fu ripubblicato da Feltrinelli; il doposcuola, sull’onda dell’esperienza di don Lorenzo Milani (morto nel 1967) e a seguito di alcune esperimenti realizzati a Pistoia dagli stessi membri del Centro.

La politica permeava la scelta di ogni argomento; il Notiziario tuttavia non era una rivista di riflessione politica, come molte ne esistevano in quegli anni, ma era un notiziario appunto: un resoconto di quanto accadeva in Italia a livello editoriale nel mondo della contestazione, che fossero pubblicazioni di case editrici o ciclostilati in proprio di gruppi spontanei. Le case editrici di cui si pubblicarono i cataloghi furono tra le altre La Locusta, Jacka Book, la Claudiana, ora come allora di chiara impronta cattolica.

Il Notiziario offriva strumenti di informazione come elenchi bibliografici su determinati argomenti. Il primo dei quali fu sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, col preciso intento di fornire un’adeguata documentazione alla diffusa mobilitazione contro l’esercito. Il secondo sulla Chiesa in Italia, o meglio, su una specifica parte della Chiesa in Italia quella delle Comunità di base: «Crediamo che queste esperienze di base, seppur fra loro spesso differenti, siano un preciso segno dei tempi. Queste esperienze e altre che non sono documentate in libri rappresentano la vera Chiesa in Italia». Infine un ultimo tema presente tra i primi numeri del Notiziario – e rimasto al centro delle iniziative anche successive del Centro –  fu il tema della salute mentale. I titoli presentati delle bibliografie erano vari e riconducibili a diverse impostazioni ideologiche: il Centro si proponeva di farli conoscere senza censure e senza giudizi, al solo fine di fornire strumenti di conoscenza. Un’impostazione aperta che rispecchia la natura di tutta la collezione del Centro.

Il Centro di Documentazione non si limitò a raccogliere materiali pubblicati da altri, ma fu fin dalle sue origini anche una casa editrice. Scorrendo l’elenco dei titoli delle prime pubblicazioni si nota come la casa editrice permise un contatto tra la piccola cittadina di Pistoia e alcuni importanti intellettuali di quegli anni. Fu pubblicato a Pistoia Il Cristianesimo nel mondo moderno del pastore valdese Giorgio Bouchard, moderatore della Tavola valdese e presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Fu dato alle stampe Cristianesimo e lotta di classe di Giulio Girardi, sacerdote animatore dell’esperienza dei Cristiani per il Socialismo, un movimento diffusosi dal Cile in Europa e in Italia. Tradotto per la prima volta in Italia un testo di Jürgen Moltmann, tedesco riformato tra i più importanti teologi evangelici del ‘900. Infine, stampato il saggio di Ivan Illich  Distruggere la scuola: sei saggi sulla descolarizzazione, nonostante una controversia con l’editore Mondadori che ne deteneva l’esclusiva e che non mancò di ricordarlo al piccolo editore pistoiese con una visita del proprio avvocato.

Da allora il Centro ha cambiato molte sedi ed è diventato una tappa fondamentale per ogni ricerca sugli anni Sessanta e Settanta del ‘900 perchè è riuscito a preservare un importante patrimonio che oggi è possibile conoscere attraverso il catalogo della rete bibliotecaria di Pistoia e, per quanto riguarda le riviste, il catalogo nazionale dei periodici (ACNP).

Francesca Perugi è dottoranda presso l’Università Cattolica di Milano e membro della redazione dei Quaderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.

Articolo pubblicato nel maggio del 2014.




“Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione”

Il salvataggio e la distruzione del patrimonio artistico pistoiese durante la seconda guerra mondiale sono i protagonisti di questa inedita e singolare ricerca a cura di Alessia Cecconi, storica dell’arte, direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica) della Valdibisenzio, e di Matteo Grasso, storico, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.

La ricerca delle vicende pistoiesi è confluita in una mostra svoltasi a Pistoia nel Chiostro di San Lorenzo, dall’8 al 20 settembre 2017, e in una pubblicazione edita nel novembre 2017 da Pacini Editore.

Dagli archivi storici della Soprintendenza fiorentina, dai numerosi archivi pistoiesi e dall’Archivio nazionale di Washington sono emersi documenti, registri, carteggi e minute che hanno permesso di ricostruire le vicissitudini accadute alle opere d’arte dei musei e degli edifici religiosi, la loro messa in sicurezza, le protezioni in muratura, i trasferimenti nelle ville di campagna e le distruzioni causate della guerra.

Tra le principali novità della ricerca c’è la ricostruzione, per la prima volta, del ruolo della villa di Pian di Collina a Santomato di proprietà Beretta. Nel 1942 la Soprintendenza individuò tra Firenze, Arezzo e Pistoia una ventina di nuovi rifugi per le opere d’arte in modo da proteggerle dalle offese aeree: tra queste la villa di Pian di Collina. Nell’estate 1943 le sale della villa videro arrivare il primo camion di opere con i dipinti, provenienti dagli Uffizi, di Filippo Lippi, Beato Angelico, Luca Signorelli, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Una ventina di capolavori ai quali si erano aggiunte altre casse ritirate dalla villa di Poggio a Caiano contenenti i sette capolavori medievali di Pistoia ricoverati nel 1940 alla Villa Medicea, fra cui il Crocifisso di Giovanni Pisano e l’imponente Crocifissione di Coppo e Salerno di Marcovaldo.

Ampio spazio è stato dedicato ai bombardamenti alleati su Pistoia, colpita pesantemente fra il 1943 e il 1944, a causa della presenza di vie di comunicazione e di numerosi obiettivi industriali e militari, che provocarono oltre centocinquanta vittime, distruzioni pesantissime e il completo sfollamento della città. Nel territorio della Diocesi dodici chiese furono rase al suolo, cinquantuno risultarono gravemente lesionate e sessantatré leggermente danneggiate.

Per la prima volta è stato fatto il punto su tutte le distruzioni del patrimonio monumentale pistoiese, una ferita profonda e da cui però partì un’opera di ricostruzione eccezionale. Nel centro storico fu distrutta la chiesa di San Giovanni Battista e buona parte del Conservatorio, con il suo immenso patrimonio, e furono seriamente danneggiate le chiese di San Domenico e di San Giovanni Fuorcivitas. Alcune bombe cadute sulle città rimasero inesplose, altrimenti oggi non potremmo ammirare in tutta la loro bellezza il palazzo del Tribunale, la chiesa di Sant’Andrea, i faldoni più preziosi dell’Archivio di Stato e il Medagliere Gelli.

Altra importante novità emersa nel corso della ricerca è la requisizione da parte dell’esercito tedesco di importanti opere artistiche fra cui le robbiane dell’ospedale del Ceppo e il quattrocentesco Stemma del Comune che erano state riposte dai funzionari della soprintendenza alla villa di Poggio a Caiano.  Vennero trasferite in Alto Adige insieme a migliaia di opere fra cui alcune sculture di Donatello e Michelangelo custodite nel Museo del Bargello. Furono recuperate nel luglio 1945 grazie al lavoro degli uomini della soprintendenza fiorentina e dei “monuments men”, la task force americana messa in campo per la protezione delle opere d’arte, con l’intervento di vari personaggi tra cui l’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa e monsignor Giovan Battista Montini, segretario di Stato del Vaticano e futuro papa Paolo VI.

Oltre settanta fotografie accompagnano la mostra e il libro. Provengono da collezioni private e dagli archivi fotografici delle Gallerie degli Uffizi, della Soprintendenza di Firenze Prato e Pistoia, dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, della Fondazione Conservatorio di San Giovanni Battista in Pistoia.

Fra le immagini inedite vi sono quelle del trasporto delle opere artistiche dal Palazzo Comunale, dei camion della Soprintendenza a Pistoia, della protezione al pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea, dei danneggiamenti in piazza della Sala con la semi distruzione del pozzo del Leoncino, della distruzione di San Giovanni Battista, delle rovine all’interno di San Giovanni Fuorcivitas, e la Visitazione di Luca della Robbia smembrata per essere portata in sicurezza.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Strumenti antichi per nuovi fini

Tutti conosciamo Ferdinando Martini, giornalista, scrittore di teatro e soprattutto politico liberale, Ministro dell’Istruzione, delle Colonie e viceré d’Eritrea, le cui carte, acquistate e conservate dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e dalla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ci sono giunte fino a noi. Molto meno conosciuta è invece la moglie Giacinta Marescotti, una delle prime suffragiste italiane, il cui coinvolgimento nella battaglia per l’ampliamento del suffragio si coniugò a un altrettanto intenso impegno nella filantropia e nell’assistenza ai bambini con disabilità intellettiva: una figura radicalmente e fieramente autonoma dal marito ma di cui ben poca traccia ci è giunta perché nel 1928, con la morte di Ferdinando Martini, tutte le sue carte andarono distrutte.

Nata a Monsummano nel 1844 da una famiglia di nobiltà antica e consolidata, crebbe insieme ai fratelli minori Alessandro (morto a soli 18 anni) e Teresa. Nel 1866 sposò Ferdinando Martini, che dal padre Vincenzo aveva ereditato tanto il titolo nobiliare quanto le disastrate finanze familiari, vincendo anni di resistenze e preoccupazioni familiari. Nel 1872, al termine di alcuni anni di peregrinazioni (prima a Vercelli, poi a Pisa), la coppia – che aveva ormai due figli: Alessandro e Teresa – si trasferì a Roma, dove già viveva la sorella minore di Giacinta, andata nel frattempo in sposa al principe Ignazio Boncompagni Ludovisi.

Nel suo salotto di Palazzo Simonetti, Giacinta tessé relazioni con ambienti vicini all’Estrema (come allora erano chiamati i gruppi parlamentari ed extra-parlamentari vicini a radicali, repubblicani e socialisti), dando vita a un ambiente ben più radicale di quello di cui si circondò il marito, dal 1878 al 1918 deputato per la Sinistra storica. Nel turbinio dei personaggi convocati e abbandonati dalla vulcanica contessa, i più costanti e assidui furono il meridionalista Giustino Fortunato, il politico socialista Andrea Costa e Sibilla Aleramo.

Si dedicò, insieme alla sorella e all’amica Lavinia Taverna, a patrocinare l’infanzia abbandonata: in questa veste si avvicinò al medico e deputato Clodomiro Bonfigli, prossimo a fondare, nel 1898, la “Lega nazionale per la difesa del fanciullo deficiente”, la prima associazione specificatamente destinata alla tutela e all’educazione dei disabili intellettivi. Membro del consiglio direttivo della Lega, qui conobbe una giovane Maria Montessori, che nel 1899 raccomandò al Ministro Guido Baccelli perché ottenesse la cattedra di Pedagogia generale e speciale nella nuova Scuola magistrale ortofrenica – creata per formare i maestri dei bambini con disabilità intellettiva.

Sociabilità nobiliare e impegno nell’associazionismo benefico, se da un lato potevano configurarsi come un comportamento in linea con un ruolo femminile tradizionale e ampiamente consolidato, dall’altro lato consentirono alla Marescotti di collaudare e strutturare tutta quella rete di relazioni, interessi, contatti che seppe poi riutilizzare nella sua battaglia suffragista. In questo senso, gli strumenti antichi del salotto e della beneficienza trovarono ragione nei nuovi fini dell’emancipazionismo e della costruzione di un “partito femminile”, una formazione politica che riunisse tutte le donne in un’ottica interclassista e interpartitica. Le donne, infatti, tanto per Marescotti quanto per molte altre sue collaboratrici, erano viste come le uniche depositarie di valori – la compassione, l’attenzione verso i più deboli, l’interclassismo – che, con il loro ingresso in politica, avrebbero rinnovato la compagine sociale e nazionale. Questa fiducia quasi palingenetica nel contributo femminile motivò la continua mediazione della contessa monsummanese tra l’anima radical-socialista del femminismo e le correnti moderato-conservatrici, che trovavano il loro riferimento in Maria Pasolini e in Gabriella Spalletti Rasponi, presidente del CNDI (il Comitato Nazionale delle Donne Italiane).

Il coinvolgimento della Marescotti nell’associazionismo femminista, nazionale e internazionale, è documentabile già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando aveva ospitato a Palazzo Simonetti Emmeline Pankhurst, leader delle suffragiste inglesi. La discesa in campo fu però compiuta nel 1904, quando il parlamento decise di discutere il disegno di legge per il suffragio femminile presentato dal deputato dell’Estrema Sinistra Roberto Mirabelli. Nell’ottobre 1905 Marescotti fondò a Roma il Comitato pro-suffragio, che in breve tempo, attraverso il collegamento con la sezione lombarda, attecchì in tutte le principali città italiane. Solito riunirsi nei locali di Palazzo Simonetti, il comitato presentò nel febbraio 1907 al Parlamento una Petizione (già depositatavi nel marzo 1906) per richiedere il diritto di voto alle donne che sapessero leggere e scrivere. Frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le anime più radicali e quelle più moderato-conservatrici del movimento, la petizione sembrava concretizzare la possibilità di un “partito femminista”.

L’allestimento, durante il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane (tenutosi a Roma dal 23 al 28 aprile 1908), di una sessione plenaria sul suffragio femminile, sembrava confermare il rilievo assunto dall’organizzazione e dalla sua presidente, che, nonostante i problemi di salute (i non meglio precisati “mali di petto” che la condussero alla morte il 9 marzo 1912), riuscì a presiedere la seduta. Tuttavia, il tentativo di mediazione della Marescotti e la fiducia nelle istituzioni erano destinati a infrangersi: il primo, sugli scogli delle differenti visioni politiche, sociali e culturali dell’eterogeneo movimento femminista, che, sempre durante i lavori della conferenza romana, si divise durante le discussioni sull’emendamento Malnati per la laicità della scuola elementare; il secondo, nel maggio 1912, poco dopo la morte della contessa, quando la Commissione parlamentare incaricata di studiare l’allargamento alle donne del voto politico diede alla questione un parere negativo.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea, con una tesi sull’istruzione professionale nell’Italia liberale, nel 2015, presso l’Università di Firenze. Ha lavorato alla biblioteca del Consiglio dell’Unione Europea e attualmente insegna a Pescia. Dal 2013 è membro del Consiglio direttivo dell’I.S.R.Pt. Con il Comune di Monsummano e l’ISL Montecatini Monsummano ha curato una mostra documentaria su Italia Donati e Giacinta Marescotti, di cui sta per uscire il catalogo. Tra le ultime pubblicazioni: Da “conquista sociale” a “selezione innaturale”: le illusioni perdute delle classi differenziali in Italia, «Italia contemporanea», 289 (2017); Schools for workers? Industrial and artistic industrial schools in Italy (1861-1914), in P. Gonon, E. Berner (a cura di), History of Vocational Education in Europe, Lang, 2016; Branding of technical Institutes by the State: Italy 1861-1914, in A. Heikkinen, P. Lassnigg (a cura di), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

P.ne Catilina2MG

Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.