Stato sociale anni Cinquanta: le carte dell’ENAOLI di Rispescia

L’archivio della Fattoria-Scuola E.N.A.O.L.I. di Rispescia (GR) può essere definito,a buon diritto, un piccolo tesoro. La sua acquisizione da parte dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea si è rivelata essere, sin dal primo sondaggio sulle carte, una grande fortuna per la ricerca e il patrimonio archivistico del territorio grossetano: il fondo rischiava seriamente il disfacimento, anche fisico, essendo rimasto per lungo tempo nei locali dell’ex-Collegio dell’Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani di Rispescia senza alcuna cura. Grazie all’iniziativa dell’associazione degli ex-allievi, e della Direzione dell’Istituto grossetano, le carte sono pervenute nei locali di quest’ultimo, pronte per i primi sondaggi e la definitiva sistemazione archivistica.

La Scuola professionale di formazione agricola di Rispescia, e l’Azienda di produzione agroalimentare ad essa associata, vennero costruite ed organizzate su iniziativa del succitato Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani, ente di diritto pubblico istituito inizialmente già nel 1941 (legge n.987 del 27 giugno) dal regime fascista con l’intento di coordinare in modo organico l’assistenza alle famiglie dei caduti sul lavoro, successivamente riconfermato nella sua esistenza e nelle sue funzioni con il decreto n. 327 del 23 marzo 1948. L’Ente, con sede centrale a Roma e uffici periferici nei capoluoghi delle province in cui sorgevano o sarebbero sorte le strutture di accoglienza ed educazione, operava sotto l’egida del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale; il suo scopo precipuo era finalizzato all’educazione morale, civile e professionale – sino al diciottesimo anno di età – degli orfani dei lavoratori mediante l’istituzione e la gestione di collegi-convitti o il ricovero in strutture gestite da altri enti, all’interno delle quali avrebbe dovuto curare l’avviamento professionale e il collocamento degli orfani assistiti. L’attività dell’Ente sarebbe proseguita fino al 1977, anno in cui il d.p.r. n. 616 del 24 luglio ne avrebbe decretato la soppressione nell’ambito della più generale riforma sulle autonomie locali e sul decentramento dei poteri alle Regioni.

7

Immagine della fattoria-scuola di Rispescia nel 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

I lavori di edificazione della fattoria-scuola di Rispescia, iniziati nel 1952, si conclusero nel 1955; la struttura poteva dirsi a regime a partire dal 1958, anno di completamento del primo ciclo scolastico. Fino al 1962 il piano formativo degli allievi prevedeva un ciclo scolastico post-elementare unico della durata di 6 anni; in quell’anno una generale riorganizzazione dell’assetto della Scuola professionale (nel frattempo elevata dallo Stato italiano a scuola pubblica con l’attestato finale fornito di valenza statale) avrebbe ridotto a 3 gli anni del ciclo post-elementare, introducendo 3 anni di Istituto professionale superiore. Fra il 1955 e il 1973 (stando ai dati raccolti nell’ambito di una ricerca interna compiuta in quell’anno), circa 650 ragazzi sarebbero stati ospitati a Rispescia: in maggioranza provenienti dal Sud e dalle Isole (molti dei quali trasferiti in Maremma da altri Istituti E.N.A.O.L.I. del Centro-Sud), in seconda battuta dalla provincia di Grosseto e più in generale dal Centro Italia; pochissimi i ragazzi provenienti dal Settentrione.

14

I ragazzi dell’ENAOLI di RIspescia impegnati nell’azienda agraria, 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

Le carte dell’archivio acquisito dall’ISGREC presentano una ricchezza qualitativa ed una completezza quantitativa assolutamente straordinarie: esse ci restituiscono un quadro oltremodo particolareggiato e ricco di informazioni su tutta la vasta gamma di attività che caratterizzavano la vita quotidiana della Fattoria-Scuola di Rispescia. Le oltre 220 buste che lo compongono restituiscono un affresco interessantissimo sull’attività scolastica (cartelle personali degli allievi complete di pagelle, profili psicologici, informazioni anagrafiche e sul collocamento al lavoro), sulla conduzione del Convitto (contabilità della mensa, spese per l’alloggiamento degli orfani, acquisti della biblioteca e della discoteca ecc.), sull’Azienda di produzione annessa (piani annuali di produzione e colturali, contabilità, attività sperimentali come quella relativa ad un impianto metanifero attivo sin dal 1955 ecc.).  Il fondo contiene poi ancora serie particolarmente regolari sul personale (sia didattico che amministrativo), la corrispondenza istituzionale e privata della Direzione, e infine, ma non ultimo per importanza, il fondo bibliotecario dell’Istituto professionale che aspetta ancora uno spoglio approfondito.

L’ISGREC, facendo tesoro del contributo regionale nell’ambito del programma “Giovani Sì, ma consapevoli” 2014-2015, ha portato a compimento, al termine di un anno di proficua attività di spoglio e sistemazione delle carte, una fase di mappatura preliminare della consistenza archivistica del fondo E.N.A.O.L.I. che offre alla ricerca e alla consultazione uno strumento prezioso e già operativo. Questo fondo archivistico, così interessante e prezioso per la conservazione e l’indagine di un pezzo non secondario della storia di Grosseto e del suo territorio, attende pur tuttavia una prosecuzione delle operazioni di catalogazione e di eventuale ricondizionamento, che una realtà come quella grossetana, sommamente bisognosa di fare luce sul suo passato, merita senza dubbio alcuno.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




La Giornata del Ricordo a dieci anni dalla prima celebrazione

A distanza di 10 anni dalla prima applicazione della legge istitutiva della Giornata del Ricordo, vale la pena di dare uno sguardo d’insieme a quella che all’inizio fu una sfida per la rete degli istituti storici della Resistenza, oggi è un patrimonio di molte esperienze, che ci consegna anche un’eredità di riflessioni sul rapporto storia-memorie-usi pubblici della storia. La storia di “dolore ed esilio” delle popolazioni del Confine orientale era considerata storia negata; la scena fu occupata allora da conflitti di memorie e usi politici delle vicende di tutta quell’area: foibe, violenze, l’abbandono delle terre che ne erano state teatro: il lungo esodo da Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Nel tempo il fenomeno nazionale della crescita delle date del calendario della memoria ha fatto riflettere sulla creazione di quelli che Giovanni De Luna ha definito “pilastri dell’albero genealogico della nazione”, avvenimenti del nostro passato che si sceglie di ricordare, lasciandone cadere nell’oblio altri. Quella che la Giornata del Ricordo ha voluto sottrarre al silenzio ormai non è più una storia negata. Si sono moltiplicate ricerche nuove, la letteratura e la memorialistica prima a circolazione soprattutto locale hanno raggiunto grande visibilità, scuola e istituzioni puntualmente rispettano il dettato della legge.

partenze

Partenze di profughi da Pola, 1947

Quella di cui si tratta non è questione locale e concentrata tra le prime violenze delle foibe istriane -1943 – e l’esodo, ma parte di un dramma che ha coinvolto milioni di europei durante e dopo la seconda guerra mondiale, “laboratorio” della storia complessa del Novecento: tra guerre, violenze, foibe, diplomazia. Guido Crainz, in un libricino pensato per la buona divulgazione, parlò di «un calvario che ha riguardato milioni di persone […] fra tensioni e conflitti di lungo periodo, l’incubo del nazismo, le macerie materiali e ideali della guerra e i processi traumatici di costruzione di un’Europa ‘divisa’» (Il dolore e l’esilio, 2005). Rimanendo entri i limiti cronologici del Novecento, la Grande Guerra aveva lasciato tensioni legate alla nazionalità, nelle zone di confine tra Italia e paesi slavi, cresciute con i processi d’italianizzazione forzata imposti dal fascismo. Alla deflagrazione della seconda guerra mondiale si accompagnarono gli orrori della guerra fascista nei Balcani (il “testa per dente” contro i partigiani slavi della famosa Circolare 3C Roatta), l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico, le Resistenze antifasciste italiana e slava e l’esplosione delle violenze. In forma più o meno sotterranea, l’ombra di quegli eventi s’allunga fino alle strategie della tensione dell’Italia repubblicana.

Guardando alla diffusione delle conoscenze nella società e nella scuola, il bilancio è di una crescita quantitativa di sapere, in parte di coscienza critica, indispensabile per distinguere il lavoro di onesta divulgazione dalle incursioni della politica in argomenti delicati, ancora vivi nelle memorie e nelle implicazioni con le storie di tempi vicinissimi a noi. Sapevamo poco, prima del 2005, degli oltre cento centri nazionali di raccolta profughi, dei luoghi della memoria, del viaggio del piroscafo Toscana e delle traversìe dei profughi (dalle stime tra 200.000 e 350.000), accolti anche in Toscana, in centri di raccolta – il più noto Laterina (AR), la cui esistenza è documentata fino al 1963. Non disponiamo di dati certi sugli arrivi: da un censimento del 1956 si rilevarono 6.074 presenze.

confineA dare strumenti per far crescere le conoscenze ha agito la risorsa-rete nazionale degli istituti storici della Resistenza, collegata anche ad associazioni e centri culturali, come la Società di Studi fiumani di Roma. Essenziale il contributo dell’Istituto regionale del Friuli Venezia Giulia, dalla cartografia del “Confine mobile” all’abbondante storiografia; l’Istituto piemontese organizzò nel 2005 a Torino un corso di formazione, da cui gli istituti toscani riportarono un patrimonio di sapere, inizio del percorso, ancora in atto, di studio, elaborazione didattica, invenzione di iniziative originali di studio e divulgazione. Fu momento di svolta un triennio di lezioni e laboratori che coinvolsero un gran numero di insegnanti, iniziativa istituzionale, sostenuta dalla Regione Toscana e dalla Direzione scolastica regionale, coordinata dall’Istituto di Grosseto in collaborazione con l’ISRT, premessa al viaggio di studio di un gruppo di insegnanti, uno per ciascuna provincia.

L’itinerario del viaggio, seguendo le tappe dei luoghi di memorie dolorose e del “confine mobile”, completò la mappa delle conoscenze. A Trieste, alla Risiera di San Sabba, le tracce dell’orrore dei forni crematori nazisti, accanto a quelle della violenza del fascismo di Confine – Narodnj Dom e Sinagoga. Ma lo sguardo su Trieste era diretto a trovare segni di una città-incrocio tra due linee di confine: nord-sud, est-ovest, confronto e convivenza plurisecolare tra culture. A Gonars ci fu la scoperta del lungo silenzio italiano sul campo di concentramento fascista per slavi, quasi introvabile, a oltre sessant’anni privo di un memoriale. L’Istria e Basovizza mostrarono i segni di altri orrori: gli infoibamenti di italiani, nella fase di persecuzione slava di italiani, nel contesto di un conflitto tra Resistenze e fascismi, ma anche nazionale. In Istria, le campagne dell’interno testimoniavano l’abbandono, porte e finestre chiuse da decenni in città come Albona la definitiva e quasi totale estinzione della comunità italiana. A Padriciano fu ultima tappa del viaggio il Centro raccolta profughi, temporanea dimora di chi aveva scelto di partire, lasciando oggetti, che oggi invece di farsi osservare come indizi di vita passata suscitano una sensazione di morte.

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Il racconto del viaggio è parte essenziale del ruolo che l’esperienza toscana ha avuto nel trasferimento di conoscenze e nella formazione culturale e civile nelle scuole toscane e in ambienti vari, non solo toscani. Un documentario, una mostra itinerante, la diffusione di strumenti didattici che ogni anno si sono affinati, “beni culturali durevoli”, che hanno impedito di disperdere l’eredità di un esperimento interessante, stimolando al contrario altro lavoro. Attualmente sono a fuoco altri temi di studio, altri itinerari, che hanno dilatato il tempo oggetto di interesse e di sperimentazione didattica fino all’epoca dell’esplosione delle nazioni nella ex-Jugoslavia, partendo dallo scoppio della Grande Guerra, come i viaggi a Sarajevo.

Un percorso durato dieci anni ha incrociato momenti storici e geo-politici diversi. Quello attuale richiede con urgenza la sottolineatura della lezione che i più riflessivi tra gli intellettuali nati e vissuti nelle terre di confine o esuli consegnano: il confine come luogo di confronto e non di scontro e negazione dell’altro, la diversità di culture come ricchezza, la conoscenza come mezzo necessario per misurarsi con memorie difficili e lutti non elaborati. Per questo abbiamo a cuore, tra le lezioni che una ricca e buona storiografia ha offerto, quella di Marta Verginella, storica italiana nell’Università slovena di Lubiana, doppia “identità”, in termini linguistici e culturali, per sensibilità vicina a protagonisti della grande letteratura di confine, come Claudio Magris. Conviene raccogliere le buone lezioni, proprio ora che il corso della storia presenta preoccupanti indizi di segno opposto, con forme inedite di violenza e rifiuto dell’altro, in cui l’Europa forse sperava di non doversi più imbattere.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

foto4

4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2014.