Il “soccorso nero” in una provincia rossa. Il Movimento italiano femminile a Siena.

Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia”.

Il Movimento italiano femmine, comunemente riassunto nell’acronimo MIF, fu tra le prime organizzazione neofasciste formatesi nell’Italia postbellica, con l’obiettivo di assistere gli ex fascisti in carcere o in clandestinità. Fondato ufficialmente il 28 ottobre 1946, una sorta di mito fondativo ne avrebbe ricondotto in realtà la paternità a Mussolini in persona, che nell’aprile 1944 avrebbe incaricato la principessa Maria Elia Pignatelli di riunire le donne fasciste e orientarne l’attività in senso assistenziale e propagandistico. Già distintasi, assieme al marito Valerio, nell’organizzazione delle reti fasciste clandestine nell’Italia liberata, la principessa Pignatelli avrebbe dato vita a un’organizzazione strutturata a livello nazionale, con sedi in quasi ogni provincia e un’estesa rete di collaboratrici, comprendente figure di rilievo nel mondo dell’industria, della politica e, soprattutto, all’interno della Santa Sede. Scopo principale del MIF fu quello di fornire assistenza materiale e legale ai cosiddetti prigionieri politici fascisti, favorendo al contempo l’espatrio dei latitanti. Tuttavia, l’azione del movimento si sarebbe progressivamente allargata, portandolo a stringere rapporti con altre organizzazioni neofasciste europee, come pure a svolgere propaganda in favore del Movimento sociale italiano. Anche per tale attivismo, nonché per la sua funzione aggregatrice, il MIF avrebbe rappresentato uno degli attori più importanti del panorama neofascista italiano dell’immediato dopoguerra.

L’archivio del MIF e l’iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Le carte del Movimento italiano femminile sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza. Disposizioni per il versamento, avvenuto nel 1969, furono impartite dalla stessa Maria Pignatelli poco prima della sua scomparsa nel marzo 1968, a causa di un incidente stradale. Il fondo, riordinato e inventariato, conta oggi 88 buste, relative all’attività svolta dal MIF dalla sua costituzione fino alla prima metà degli anni Cinquanta. La suddivisione interna presenta serie dedicate all’organizzazione del movimento; all’amministrazione; ai rapporti con organi dello Stato, enti, associazioni, partiti politici; alla corrispondenza con assistiti, avvocati, personalità politiche ecc. La serie più voluminosa è però quella relativa all’organizzazione periferica del movimento, comprendente i fascicoli delle sue sezioni provinciali e comunali.

Attraverso la cordiale collaborazione del personale dell’Archivio di Stato di Cosenza, nel 2020 l’Istituto storico della Resistenza senese si è impegnato nella riproduzione della documentazione riguardante la sezione senese del MIF, organizzata in tre ricchi fascicoli. Tali documenti sono adesso conservati in versione digitale presso la sede dell’Istituto di via San Marco 90 a Siena.

Brevi cenni sulla storia del MIF senese.

Un ufficio senese del Movimento italiano femminile fu costituito nell’ottobre 1947, sollecitato dall’inizio dei procedimenti contro i collaborazionisti fascisti presso la sezione speciale della locale Corte d’Assise. Già dal maggio precedente, infatti, si erano intensificati al riguardo i contatti tra la principessa Pignatelli e la lucchese Tita Luporini, responsabile toscana del movimento, e tra la stessa e l’ex capo della provincia di Siena Giorgio Alberto Chiurco. Nella prima metà di ottobre, la Pignatelli decise di recarsi personalmente nella città del Palio, per organizzare un primo nucleo del MIF e prendere contatti con importanti esponenti della nobiltà cittadina, disposti a finanziare le attività del movimento. Una prima lista delle iscritte alla sezione senese, risalente probabilmente a quel periodo, conta una quarantina di nominativi, vagliati dalla signora Chiurco per accertarne l’affidabilità.

Nel contesto dei processi senesi, l’azione del MIF si indirizzò verso il sostegno materiale ai detenuti, fornendo indumenti, sigarette, riviste da leggere; soprattutto, fu l’organizzazione della Pignatelli a sostenere la difesa degli imputati, rintracciando gli avvocati e provvedendo, assieme al concorso di alcuni notabili cittadini, al pagamento delle relative spese legali. Un’attività che non si limitò al solo capoluogo, allargandosi ai detenuti fascisti delle carceri di San Gimignano, tra i quali figurava anche l’ex federale milanese Vincenzo Costa.

Di grande interesse risultano al riguardo le relazioni economiche relative ai bienni 1948-1949 e 1950-1951, dalle quali emergono indicazioni di carattere quantitativo circa l’azione assistenziale del movimento, comprendente l’invio di pacchi natalizi, generi alimentari e medicinali; l’organizzazione di pranzi; l’assistenza alle famiglie dei detenuti.

Merita infine un accenno la corrispondenza intrattenuta con i singoli imputati – particolarmente significativa quella riguardante Chiurco e l’ex comandante della squadra politica fascista Alessandro Rinaldi – dalla quale emergono sia informazioni circa la quotidianità dei prigionieri, il loro stato d’animo e le preoccupazioni del momento; sia indicazioni relative all’organizzazione dei ricorsi dopo le prime condanne emesse dall’assise senese.

Riferimenti bibliografici.

  1. F. Bertagna, Un’organizzazione neofascista nell’Italia postbellica. Il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia» di Maria Pignatelli di Cerchiara, in Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013, pp. 5-32;
  2. R. Guarasci, La lampada e il fascio. Archivio e storia di un movimento neofascista. Il «Movimento italiano femminile», Laruffa, Reggio Calabria 1987;
  3. K. Massara, Vivere pericolosamente. Neofascisti in Calabria oltre Mussolini, Aracne, Roma 2014;
  4. A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983;
  5. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 55-74;
  6. N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.



GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




1922-2022. L’affaire Comaschi.

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, viene fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e viene ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo e organizza anche un gruppo di Arditi del popolo.

L’assassinio di Comaschi è l’ultimo di una lunga serie di uccisioni politiche perpetrate dai fascisti locali, come quella del comunista Enrico Ciampi, o del giovane Archimede Bartoli, o ancora dei socialisti Paris Profeti e Corrado Bellucci.

 1922. Il processo fascista

La vicenda giudiziaria si apre all’indomani dell’uccisione di Comasco Comaschi, quando vengono immediatamente fermati i presunti responsabili dell’assassinio, ma si chiuderà definitivamente solo nel 1951.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi infatti i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per ins ufficienza di prove. Responsabile del celere insabbiamento del processo anche il comandante dei Carabinieri di Cascina, Frullini, vicino agli ambienti fascisti.

Successivamente anche il procuratore generale di Lucca, nella sua requisitoria del 23 ottobre 1922, chiede che l’istruttoria sia chiusa per insufficienza di prove. Emblematico che questa prima fase della vicenda giudiziaria sull’omicidio Comaschi si chiuda proprio nei giorni a cavallo della marcia su Roma. Se la requisitoria del procuratore generale è infatti del 23 ottobre, l’8 novembre giunge la sentenza. Il giudice conferma infatti non doversi procedere per insufficienza di prove.

1945. La riapertura delle indagini

L’affaire Comaschi sembra essersi concluso, senza giustizia. Passa il ventennio, giunge la guerra, ma il processo è destinato a riaprirsi il 17 marzo 1945.

Cascina è stata liberata il 4 settembre 1944, ma ancora il suolo italiano è diviso e occupato dagli eserciti stranieri. Il 17 marzo Vasco Comaschi denuncia nuovamente ai Carabinieri di Cascina i responsabili dell’assassinio del fratello, elencando tutte le vicende delittuose che dal 1921 al 1944 li hanno visti protagonisti.

Nella stessa giornata quindi i denunciati vengono reperiti, fermati e portati alle carceri di Pisa, anche per salvaguardare la loro incolumità, dato che il lunedì successivo, ricorrendo l’uccisione del Comaschi Comasco, vi sarebbe stato in Cascina un corteo commemorativo e quindi qualche elemento, definito irresponsabile, avrebbe potuto compiere atti di vendetta.

10 maggio 1945. La resa dei conti

Mentre si riaprono le indagini e si svolgono dunque interrogatori e testimonianze, il 10 maggio 1945 rientra dal Nord, dove si era trasferito in seguito all’istituzione della Repubblica di Salò, facendo parte della GNR di Malorno (Brescia), Orfeo Gabriellini, ritenuto il capo della squadra d’azione che aveva ucciso Comaschi.

Il maresciallo Adolfo Mascolo, segnala di essere intervenuto sul Corso Vittorio Emanuele dopo aver notato in lontananza un individuo che perdeva sangue dalla testa ed accompagnato da molta gente che lo offendeva con parole e pugni, conducendo quindi il Gabriellini in caserma, al cui esterno si era radunata una moltitudine di persone che volevano fare giustizia sommaria. Il Gabriellini, dopo aver confessato la propria responsabilità in merito all’uccisione di Comaschi, veniva tradotto nelle carceri di Pisa.

Negli stessi giorni sempre sul corso Vittorio Emanuele era stata tosata anche la direttrice della scuola elementare da un gruppo di donne e uomini di Cascina.

Si riapre quindi il processo, ma le indagini si concludono nel 1946. Il processo del dopoguerra si apre all’insegna della lentezza, dei cavilli trovati per rinviare il processo, mostrando quindi la debolezza della macchina giudiziaria. Nel 1946 infatti siamo oltre la fase dell’epurazione e dei conti col fascismo dell’immediato dopoguerra. C’è già stata la famosa amnistia Togliatti (decreto presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946), con la quale il guardasigilli ricorda che c’è ormai una volontà e una necessità di pacificare il paese e di tornare ad una normalizzazione, di lasciarsi indietro i rancori e le divisioni prodotte da vent’anni di fascismo e dalla guerra.

 1946-1947. l’istruttoria e il processo a Pisa

Dopo aver raccolto nuove indagini, il 17 febbraio avrebbe dovuto svolgersi il dibattimento presso la Corte di Pisa.

Gli avvocati difensori, tra cui Mario Gattai, presentano però alcune presunte lettere anonime di minaccia, sostengono che lo svolgimento del processo a Pisa avrebbe potuto provocare gravi disordini, visto che a Pisa, dove il fascismo aveva lasciato impronte indelebili di violenze e delitti, la popolazione è talmente sovraeccitata che basterebbe un nonnulla per far nascere i più impensati e gravi incidenti, specialmente quando vi si celebrasse il processo per l’uccisione di Comasco Comaschi, che fece allora grande scalpore nella zona della piana di Pisa.

Nonostante l’esito delle indagini circa la lettera anonima da parte del brigadiere Luigi Girasoli dei Carabinieri di Cascina del 10/2/1947, ritenga che la minaccia diretta all’avvocato Gattai possa essere un’astuzia adoperata dagli anonimi allo scopo di trasferire il processo dalla parte politica opposta, il processo viene comunque trasferito a Firenze per legittima suspicione dalla Corte suprema di Cassazione con ordinanza del 13 febbraio 1947.

1946-1948. Il processo di Firenze

Dopo una prima udienza del 16 maggio 1947, in cui la Corte di Firenze ritieen la improcedibilità nei rapporti del Gabriellini del Damiani Pilade e del Casarosa, la sentenza presso la Corte di Firenze venne pronunciata il 7 luglio 1948, quando Gabriellini, Damiani e Bertelli vengono ritenuti colpevoli. Gabriellini, che nel mentre si era reso latitante, è condannato a 21 anni, Bertelli a 6 anni e 3 mesi e Damiani a 12 anni e 6 mesi. I condannati beneficiano di larghi sconti di pena grazie all’amnistia Togliati e all’indulto del 1948, e vengono quindi condonati 14 anni al Gabriellini e l’intera pena del Bertelli.

Vengono invece assolti Casarosa Antonio, per non aver commesso il fatto, e Damiani Oreste per insufficienza di prove.

 1949-1950. Rinvio alla corte di Perugia

Dopo un altro ricorso in Cassazione da parte dei condannati, l’8 febbraio del 1949 il processo viene rinviato dalla Cassazione al giudizio della Corte di assise di Perugia.

Il 21 dicembre del 1949 intanto Orfeo Gabriellini veniva reperito e arrestato a Fiesole, presso il convento di San Francesco dove era stato assunto come personale di fatica.

Quindi la Corte di Perugia sostanzialmente conferma le pene comminate precedentemente, quindi a 14 anni di reclusione Gabriellini, 4 anni e 2 mesi di reclusione per il Bertelli, 8 anni e 4 mesi per il Damiani. Anche in questo caso gli imputati beneficiano di ulteriori sconti di pena e il 16 maggio 1950 Damiani e Gabriellini, gli unici ancora in carcere per l’uccisione di Comasco Comaschi vengono scarcerati.

 La memoria di Comasco Comaschi

 Si conclude così dopo 30 anni l’affaire Comaschi, ma la memoria di Comasco invece resta viva nella comunità cascinese.

Già a partire dal giorno del funerale c’erano stati momenti di grande partecipazione pubblica in ricordo di Comaschi,.

Umanità nuova il 26/3/1922, descrive sulle sue pagine la manifestazione di cordoglio a Cascina, quando la cittadina era tutta parata in rosso e nero, il corteo funebre aveva attraversato le vie seguita da enorme folla, commossa e piangente, che gettava fiori sul carro funebre, coperto da oltre 60 corone. Tutti i lavoratori, i contadini, senza nessun ordine, spontaneamente avevano abbandonato il lavoro, tutti i negozi, perfino le farmacie, erano rimasti chiusi.

Il 9 novembre 1945 la giunta deliberò di nominare la circonvallazione del paese all’anarchico cascinese. Molte iniziative di commemorazione si tennero per gli anniversari dell’uccisione tra il 1945 e il 1950.

Il momento culminante della memoria pubblica fu la giornata di scopertura del busto in bronzo realizzata dallo scultore Francesco Morelli domenica 19 marzo 1961, nella piazza della Mostra artigiana, alla presenza di una grande folla. Presero la parola il sindaco, Alfonso Failla e Remo Scappini. Il primo rievocò le gesta criminali degli squadristi; Scappini ricordò anche la lotta dei partigiani per abbattere la dittatura. Entrambi gli oratori esortarono ad agire compatti, per evitare il risorgere del fascismo. Per espresso desiderio di Gusmano Mariani, che insieme a Pilade Caiani levò a Cascina la protesta anarchica l’indomani dell’assassinio di Comaschi, Aristide Galli depose un memore fiore rosso alla base del busto.

Infine alcune iniziative più recenti hanno coinvolto i più giovani e le scuole, come per esempio gli spettacoli teatrali a cura dell’istituto Pesenti e il gruppo TeatroInBiliko, del 2003 e del 2012, La notte di Comasco e Comasco.

Nel 2014 in occasione del 70° anniversario della Liberazione della Toscana e di Cascina, il Comune di Cascina, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Lucca (ISREC) e l’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Pesenti” di Cascina hanno promosso I Sentieri della Libertà e delle Resistenze, che si snodano attraverso i luoghi in cui vennero uccisi gli antifascisti cascinesi, come Comasco Comaschi, e proseguono attraverso quei siti che testimoniano il passaggio della guerra e la presenza degli eserciti stranieri: quelli in cui i soldati nazisti perpetrarono stragi civili, oppure i luoghi simbolo delle distruzioni provocate dai bombardamenti Alleati e tedeschi.

Ancora oggi a cento anni dalla sua morte dunque la memoria di Comaschi è ancora viva, come ha dimostrato la gremita sala della gipsoteca comunale, che ha testimoniato come il miglior testamento che possiamo raccogliere dall’anarchico cascinese è quello di portare avanti i valori dell’umanità, la solidarietà, la fratellanza tra i popoli, opponendoli alla violenza, alla sopraffazione, alla guerra e diffonderli anche e soprattutto nelle nuove generazioni.




Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito.

Una delle frasi più famose della narrativa italiana sulla Resistenza è quella del partigiano Kim, tra i protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, «E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte»[1]. Lo stesso Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza utilizzò questo passo letterario per spiegare le ragioni attorno ai diversi schieramenti di campo all’indomani dell’8 settembre 1943, non sempre semplici e spesso legate al caso. Ecco, a me sembra che la frase di Calvino calzi anche per descrivere, almeno in parte, e la scelta antifascista di Oberdan Chiesa – e forse anche del fratello Mazzino, a cui Stefano Gallo ha già dedicato uno studio[2] – anticipata di quasi un ventennio rispetto all’ambientazione originaria della storia, cioè al momento dell’instaurazione del regime fascista. Il «nulla» che colpì i fratelli Chiesa – comunque cresciuti in un ambiente familiare imbevuto di idee repubblicane e socialiste – fu una spedizione squadrista contro il loro quartiere, consumatasi quando entrambi erano degli adolescenti. Ma procediamo con ordine.

La famiglia Chiesa era composta dai genitori, Garibaldo e Ada Cini, e da quattro figli, Corrado-Giovanni, Mazzino, Oberdan e Mazzina. Già i loro nomi tradivano l’orientamento politico che si respirava al numero 54 di via Giuseppe Garibaldi, l’arteria principale del quartiere livornese “Il Pontino” – uno dei centri “sovversivi” della Livorno contemporanea – dove vivevano. Ma dalle memorie dei protagonisti emerge ancora più chiaramente come la spinta alla loro decisa presa di posizione contro il fascismo avvenne nell’ottobre del 1924. Bisogna ricordare come in seguito all’omicidio Matteotti il partito di governo sembrò sbandare, anche sull’onda della costernazione dei circoli conservatori che avevano supportato l’ascesa di Mussolini. La reazione dei fascisti fu contraddistinta da un uso diffuso della violenza squadrista, la stessa del biennio 1921-1922, che si riversò anche su Livorno[3]. Quella sera un gruppo di squadristi invase la fiaschetteria dei fratelli Sirio e Gino Spagnoli, noti repubblicani da poco convertiti al comunismo, per dargli una lezione. I due non si fecero intimidire ed estrassero le armi che tenevano sotto al bancone, ferendo tre degli aggressori e mettendo in fuga gli altri[4]. Come ritorsione un folto gruppo di fascisti si diresse verso il loro appartamento, che era esattamente dal lato opposto a quello dei Chiesa:

Durante la notte mia madre è venuta in camera – chi parla è Mazzino, che ricordava  quell’episodio a mezzo secolo di distanza – terrorizzata, mi ha svegliato dicendomi che i fascisti erano giù e volevano entrare in casa […] Non c’è stato bisogno di andare ad aprire perché avevano già abbattuto la porta ed erano entrati dentro. Sono entrati [sic] in camera dove io dormivo con mio fratello [Oberdan] e tra questi “masnadieri” ho visto uno […] che ha detto “No, no, non sono quelli che stiamo cercando”[…] Quando sono andati via, allora, mi sono alzato [mi sono affacciato alla finestra] e ho assistito ad una scena terrificante: da ogni parte c’era un incendio. Per vendicarsi, siccome i fascisti non avevano potuto trovare quelli che avevano sparato, avevano dato fuoco ai pagliai, perfino a delle pine […] per   fare il fuoco […] e dettero la via ai maiali […]. Come al solito la reazione dei fascisti si riversò nei confronti degli inermi e degli ultimi[5].

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

L’episodio, per quanto risoltosi in maniera fortunata per i due fratelli Chiesa, fu il trauma – lo affermò lo stesso Mazzino nell’intervista audio –  che decise per un loro percorso di vita votato all’antifascismo. Il primo ad impegnarsi nella lotta aperta contro il partito di governo fu Mazzino, il quale aderì formalmente alla federazione giovanile comunistamettendosi a distribuire manifestini in città e ad aiutare nell’organizzazione comizi clandestini[6]. Oberdan decise di rimanere ancora per un po’ nell’ombra, evitando di esporsi pubblicamente e interiorizzando la propria opposizione al fascismo. Di lì a poco anche lui avrebbe fatto sentire la sua voce, costringendo la polizia politica a mettersi sulle sue tracce. Soprattutto all’estero.

Nel settembre del 1933, all’indomani del servizio militare di leva, Oberdan espatriò per Bona, in Algeria, dove fece il suo battesimo politico partecipando, col fratello – allora già da qualche tempo esule ed agente del Pcd’I clandestino –, all’aggressione al direttore della scuola italiana di quella città[7]. Per quell’episodio fu processato ed espulso dalla colonia francese spostandosi prima a Marsiglia, poi ad Ajaccio, dove risiedette dal gennaio all’agosto 1936, ed infine a Grenoble[8]. In quest’ultima città rimase poco tempo perché, lo stesso giorno del suo arrivo, ebbe modo di parlare con altri emigrati che gli parlarono di cosa stesse accadendo in Spagna. Non sapeva veramente nulla riguardo l’ammutinamento del generale Francisco Franco contro la giovane repubblica? Pur nutrendo alcuni dubbi su questa dichiarazione – che fece lui stesso al momento del rimpatrio – non mi è stato possibile scoprirlo, ma è certa la sua partenza per Barcellona dei giorni seguenti. Partecipò alla Guerra Civil prima tra i ranghi della centuria “Gastone Sozzi”, poi nelle Brigate internazionali e, infine, nella Marina da guerra repubblicana. Nel 1939, al momento della sconfitta, fu costretto a lasciare la Spagna finendo recluso nei campi di prigionia francesi per gli ex volontari. L’ultimo campo fu quello di Vernet, dal quale venne liberato nell’estate del 1941 per essere rimpatriato in Italia. Raggiunse Livorno a settembre, rimanendovi per poche settimane. Iscritto al Casellario politico centrale dal 1934, fu condannato al confino, che scontò sull’isola di Ventotene. All’indomani della caduta del regime fascista venne liberato, rientrando nella sua Livorno solo alla fine del mese di agosto. La città che si trovò di fronte non era certo quella lasciata anni prima, avendo già subito i due grandi bombardamenti del 28 maggio e del 28 giugno 1943[9].

La sua permanenza fu tutto sommato breve, dato che dopo la notizia dell’armistizio con gli angloamericani e l’avvio dell’occupazione nazifascista, trascorsero pochi mesi prima del suo arresto. Oberdan venne fermato dalla squadra politica della Questura di Livorno il 22 dicembre 1943, e quello che fece in questo lasso di tempo, ahimè, non è testimoniato da nessuna fonte. Sicuramente ebbe un ruolo nell’organizzazione della Resistenza livornese, ma non certo così centrale come è stato dipinto nel dopoguerra. Questo emerge abbastanza chiaramente sia nella documentazione prodotta durante il processo ai suoi assassini – sebbene gli inquirenti non dedicarono ampia attenzione ad approfondire le modalità del suo arresto – sia nelle memorie di alcuni tra i principali animatori della lotta partigiana nel livornese. Anche la sua scelta come vittima delle rappresaglia che si consumò per ordine della Prefettura di Livorno sulla spiaggia di Rosignano Solvay il 29 gennaio 1944 conferma questa lettura, a cui è importante aggiungere come in occasione del suo arresto venne fermato anche il principale rappresentante della Resistenza comunista livornese in quelle prime settimane di occupazione, vale a dire Vasco Jacoponi[10]. Al di là di queste interpretazioni – che ci tengo a ribadire come siano del tutto personali, sebbene ancorate ad un ampio scavo archivistico e bibliografico – resta il fatto che quella mattina del gennaio 1944, in risposta ad un attentato fallito contro il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Rosignano Solvay di poche ore prima, Oberdan venne fucilato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) composto da ex militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e carabinieri. La sua esecuzione era l’esempio concreto di quella guerra civile che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia, per cui il ricordo dell’episodio non poteva perdersi tra quelli che costellarono quei mesi. Alla formazione di una solida memoria “popolare” della morte di Oberdan contribuì indubbiamente il processo che venne celebrato nell’estate del 1947 – dopo più di due anni di istruttoria e decine di testimonianze raccolte – contro la catena di comando fascista-repubblicana che aveva ordinato, ed eseguito, la rappresaglia. Sul banco degli imputati finirono: Edoardo Serafino Facdouelle, capo della provincia di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Giampaolo Mannelli, segretario particolare di Facdouelle e dirigente dell’ufficio politico della Prefettura di Livorno; Fernando Gori, federale del Partito fascista repubblicano di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Renato Simoncini, commissario del fascio repubblicano di Quercianella; Giovanni Giampieri, ispettore federale e commissario del fascio di Piombino; Giuseppe Bartolini, tenente colonnello della Gnr e comandante della 88ª legione di Livorno tra gennaio e aprile 1944; Michele Cioffi, capitano dei carabinieri e comandante del gruppo di Livorno tra l’estate 1942 e quella del 1944; Luigi Carocci, squadrista e capitano della Gnr; Luigi Porquieur, capitano della Gnr e comandante dell’ufficio politico dell’88ª Legione; Luigi Cardile, tenente della Gnr; e Eugenio Bartolini, Sirio Lami e Marino Piga, tutti e tre militi della Gnr livornese. Facdouelle e Mannelli, entrambi latitanti, vennero puniti con l’ergastolo; a Gori furono inflitti 26 anni e 8 mesi di reclusione; a Carocci, latitante anche lui, 20 anni e 8 mesi; a Giuseppe ed Eugenio Bartolini, Cardile, Piga e Lami 13 anni, 9 mesi e 10 giorni; mentre a Cioffi 11 anni, 1 mese e 24 giorni. Tutti furono condannati a pagare le spese processuali e a risarcire la madre di Oberdan, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Augusto Diaz. In virtù dell’amnistia del 22 giugno 1946, nota come “amnistia Togliatti”, vennero immediatamente condonati 8 anni e 10 mesi a Gori, mentre 5 anni ai due Bartolini, Cardile, Piga, Lami e Cioffi[11].

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l'uccisione di Oberdan.

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l’uccisione di Oberdan.

Ho definito la memoria scaturita dal processo come “popolare” non per caso, in modo da far emergere la differenza con quella “istituzionale” che rese il 29 gennaio una data topica del calendario laico dei livornesi. Perché accadde ciò? A partire dal 1945 la neonata federazione labronica dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia pose una stele commemorativa sul luogo dell’esecuzione di Oberdan quale punto di riferimento soprattutto per gli abitanti di Rosignano Solvay. Nel capoluogo di provincia, invece, gli venne dedicata una via e intitolata una sezione del Pci. A partire dal 1948, a causa del mutato clima internazionale, le cose iniziarono a cambiare e le celebrazioni annuali in sua memoria assunsero un chiaro orientamento politico. A ciò si aggiunse l’offensiva giudiziaria antipartigiana che si aprì nel dicembre 1947 e che investì anche la figura di Oberdan[12]. In questo clima si svolse il processo ad alcuni componenti della banda partigiana “Danesin” – dal nome del suo comandante Sante, e che operò tra i comuni di Rosignano Marittimo, Castellina Marittima e Riparbella – imputati quali autori dell’attentato del 27 gennaio 1944 che portò alla rappresaglia contro Oberdan, ma anche del tentato omicidio del commissario prefettizio di Montecatini Val di Cecina Oreste Giglioli, e degli omicidi dell’ex squadrista di Rosignano Solvay Arturo Gaiozzi, dell’ex podestà di Castellina Marittima Francesco Renzetti, e del maresciallo dei carabinieri di Riparbella Lugi Scordo. Non mi soffermo sulla complessità di questo processo – col primo grado celebrato dalla Corte d’assise di Pisa, il secondo dalla Corte d’appello di Firenze e il terzo dalla Cassazione – ma per comprenderla è sufficiente sapere come solo il dibattimento durò dal 16 febbraio al 30 marzo 1953, e che i principali imputati furono portati in carcere già a partire dal luglio 1951. Il significato del processo, per quanto risoltosi in maniera tutto sommato favorevole a Danesin e ai suoi compagni di lotta, non fu tanto quello di far giustizia di fatti di sangue risalenti a quasi un decennio prima, quanto quello di attaccare ancora una volta l’attività partigiana, cercando di screditarla in un’aula di tribunale. In questo scontro tra le parti finì schiacciata la memoria di Oberdan, che fu completamente riabilitata solo dopo la fine di questa seconda fase di processi. Il 19 luglio 1959, in occasione del 15° anniversario della Liberazione di Livorno, si tenne la consueta orazione del sindaco del capoluogo per commemorare l’evento. Dopo le dimissioni di Furio Diaz, primo cittadino dal 1944 al 1954, le funzioni erano passate a Nicola Badaloni. Nel suo discorso ufficiale, ricordò il nome di Oberdan, ponendolo in continuità con i valori risorgimentali della città e affiancandolo, unico civile, ai numerosi militari livornesi decorati di medaglia d’oro al valore militare[13]. L’inedita attenzione di Badaloni verso la figura di Oberdan non era assolutamente di facciata, ma sintomo di un diverso interesse rispetto a prima per la sua triste vicenda, e il significato pedagogico che avrebbe potuto assumere per tutto il contesto livornese: Oberdan era la figura attorno alla quale coagulare l’antifascismo di una provincia nei suoi vari passaggi dal 1922 al 1945, esaltando l’esperienza del fuoriuscitismo, dell’intervento internazionale in Spagna, del confino fascista e della guerra partigiana. Si spiega così perché in occasione del 18° anniversario della fucilazione di Oberdan, i giornali livornesi pubblicarono, per la prima volta contemporaneamente, il testo di una lettera inviata dall’avvocato Campi a sua madre alcuni anni prima, in cui ricambiava ai ringraziamenti per aver ricordato il figlio nella seduta del consiglio comunale del luglio 1954, tenutasi per decidere sull’apposizione di una targa commemorativa il decimo anniversario della Liberazione nella sala consiliare del municipio[14]. D’altro canto, poi, anche la considerazione del principale esponente della famiglia Chiesa ancora in vita, Mazzino, stava cambiando. Dopo un’iniziale contestazione trasversale a tutte le scelte politiche della federazione comunista, Mazzino “l’anarcoide” era stato escluso dalla vita del Pci. Nel 1957 aveva addirittura rifiutato la tessera perché «nemmeno un gatto della federazione» era intervenuto al funerale della madre. Grazie però ad una lenta mediazione dello stesso sindaco Badaloni si convinse a tornare tra le fila comuniste, avvallando così l’uso pubblico della figura del fratello[15]. A partire dal 1964, in occasione del 20° anniversario della morte Oberdan, la data 29 gennaio si affermò definitivamente nella serie delle celebrazioni annuali della Resistenza in tutta la provincia Livorno.

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1946), p. 146

[2] Cfr. S. Gallo, Mediterraneo antifascista. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio, in Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 1-17. La ricerca è stata pubblicata anche su questo portale col titolo Mazzino Chiesa, un uomo in mare. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (consultato il 28 febbraio 2022).

[3] Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990; M. Rossi, La battaglia di Livorno. Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923), Bfs, Pisa, 2021.

[4] Cfr. Nicola Badaloni e Franca Pieroni-Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 169 e 201.

[5] Pochi mesi prima di morire Mazzino Chiesa rilasciò una lunga intervista audio a Iolanda Catanorchi, per un progetto di raccolta delle memorie di 7 figure storiche dell’antifascismo livornese. Cfr. Mazzino Chiesa, intervista audio di I. Catanorchi per il progetto dal titolo Livornesi sovversivi nel ventennio fascista, 1974, 1.18.00 (d’ora in poi Intervista a Mazzino Chiesa, 1974).

[6] Nel novembre 1926 Mazzino venne arrestato per la prima volta a Napoli, mentre si trovava su una nave proveniente dal Canada, per il ritrovamento di alcuni materiali del “Soccorso rosso” a casa. A tradirlo era stata una lettera alla madre intercettata dalla polizia, già sulle sue tracce per via degli stretti legami con altri comunisti livornesi. Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A8, b. 1398, fasc. «Mazzino Chiesa», verbale di perquisizione del 18 settembre 1926 e sgg. Per una narrazione più precisa della sua attività in questo periodo della sua vita rimando all’intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 00.05.00.

[7] Oberdan si dichiarò innocente a più riprese – anche nell’interrogatorio del 1941 al suo rientro dall’esperienza spagnola, scagionando pure il fratello – ma contro di lui le autorità francesi poterono far valere l’espatrio clandestino e l’assenza di un qualsiasi documento d’identità. Archivio Centrale dello Stato, Min. Interno, Cpc, b. 1303, fasc. 47130 «Oberdan Chiesa», verbale di interrogatorio ad Oberdan (28 ottobre 1941).

[8] Si trattava di Leo Franci, un comunista di Colle Vall d’Elsa emigrato a Marsiglia da pochi mesi dopo una fuga rocambolesca dall’Italia. Volontario in Spagna dall’ottobre del 1936, divenne commissario politico della 1° compagnia, 2° battaglione del «Garibaldi», e fu ucciso a Villanueva de Pardillo (nei pressi di Madrid) nel luglio 1937. I. Cansella e F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effegi, Arcidosso, 2012, p. 198.

[9] Cfr. E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ETS, Pisa, 2016.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell'anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell’anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

[10] Jacoponi aveva aderito da subito alla svolta comunista del 1921, divenendo segretario della Federazione giovanile comunista di Pisa e Livorno nel 1924. Fu arrestato due anni più tardi, processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e assegnato al confino a Lipari. Riuscì a fuggire dall’isola emigrando clandestinamente in Francia e mettendosi al servizio del Pcd’I. Nel 1940 fu rimpatriato dalle autorità francesi, processato una seconda volta e confinato a Ventotene. Nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in seno alla Cgil e al sindacato dei portuali di Livorno, risultando eletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1953 e nel 1958. Cfr. I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo. Resistenza e guerra partigiana dalla battaglia di Piombino (10 settembre 1943) alla liberazione di Livorno (19 luglio 1944), Esi, Napoli, 1988, p. 158.

[11] ASLi, Tribunale, Corte d’assise speciale, b. 855, fasc. «1947», sentenza del processo per l’uccisione di Oberdan Chiesa (16 luglio 1947).

[12] Cfr. Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11- 39; Guido Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona, Paolo Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 223-228; Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Aracne, Roma, 2008; Simeone del Prete, «Fare di ogni processo una lotta politica». Gli avvocati difensori nei processi ai partigiani del secondo dopoguerra, «Contemporanea», articolo in early access  https://www.rivisteweb.it/doi/10.1409/102810 (consultato il 28 febbraio 2022).

[13] Le biografie di questi personaggi erano state raccolte pochi anni prima e pubblicate unitariamente in «Rivista di Livorno. Rassegna di attività municipale a cura del Comune», ed. “Decennale della Resistenza” (1955), fasc. I-II, pp. 17-22. ASLi, Prefettura, b. 37, copia del verbale del consiglio comunale del 14 luglio 1959.

[14] Ricordo del sacrificio di Oberdan Chiesa, «Il Telegrafo», 26 gennaio 1962. Lo stesso articolo fu pubblicato anche su un altro giornale locale con una presentazione alla lettera leggermente diversa, di cui ho trovato solo il ritaglio effettuato dalla polizia senza alcuna indicazione. ASLi, Questura, A4b (1965-1980), b. 497, ritaglio di articolo di giornale Ricordo di Oberdan Chiesa (26 gennaio 1962).

[15] Intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 03.19.55. In questo passaggio Mazzino spiegò come quella era la prima volta in cui raccontava come si fossero svolti realmente i fatti, spesso ricondotti alla diaspora di molti comunisti dal partito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss.




Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. 1919-1921

L’articolo costituisce un’anteprima del nuovo volume sui fatti di Montespertoli a firma di Francesco Catastini, Paolo Gennai, Andrea Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021 

Nel giugno del 1914 si tennero in tutta Italia le elezioni amministrative. Anche a Montespertoli vinsero le forze liberali ma il risultato della vicina Firenze agì da ‘lento’ detonatore per una serie di drammatici eventi che maturarono alcuni anni dopo e che coinvolsero non solo la città fiorentina ma anche alcuni comuni del suo circondario che avevano con Firenze intensi rapporti commerciali, politici ed economici. Montespertoli era appunto uno di questi centri.

Sindaco Bini Augusto

Augusto Bini, primo sindaco socialista di Montespertoli eletto alle amministrative del 1920

Le elezioni del giugno 1914 avevano riportato nel Consiglio comunale di Montespertoli una schiera di persone che ormai da decenni guidavano l’Amministrazione comunale (il barone Sidney Sonnino, i marchesi Lamberto Frescobaldi e Alessandro Bartolini Salimbeni, i conti Lorenzo e Lodovico Guicciardini, i cavalieri Alceste Salvadori, Gustavo Pacchiani e Ubaldino Baldi, il notaio Giulio Peruzzi, gli avvocati Giulio Rapi e Gino Giani) tanto che si può affermare che la cosa pubblica si era col tempo strutturata a loro immagine e somiglianza. Insieme a questa categoria di personaggi certamente molto influenti, avevano fatto la loro comparsa anche i rappresentanti di quel ceto di piccoli e medi borghesi originari del territorio, che con il passare del tempo si dimostrarono sempre più in grado di condizionare la vita pubblica e la gestione del potere locale, grazie al fatto che potevano vantare alleanze economiche con i grandi possidenti, sfruttando in modo utilitaristico e a proprio vantaggio i rapporti gerarchici che intrattenevano con essi. Questi “nuovi borghesi” si dimostrarono, peraltro, sempre più in grado di tessere una ragnatela affaristica che travalicava i confini della singola Amministrazione locale per insinuarsi nei gangli vitali anche di quelle confinanti, giocando in questo modo su più tavoli e volgendo a loro favore le occasioni che si presentavano via via nella gestione della cosa pubblica. A Montespertoli era soprattutto il settore del commercio che pesava sulla realtà economica e produttiva locale attraverso un prodotto come il vino che aveva un effervescente mercato non solo nella realtà del luogo, ma anche nelle maggiori piazze della Valdelsa, della Valdipesa e, soprattutto, di Firenze. Il vino infatti dava adito ad un circuito economico che dal possedimento di terreni adibiti a vigneti passava poi per gli impianti di trasformazione e coinvolgeva anche figure essenziali per il suo commercio come i «mediatori», gli «agenti di campagna», i trasportatori, i commercianti (al dettaglio e grossisti), i gestori di bettole, locande e fiaschetterie e anche una schiera di personaggi che dal commercio del vino ricavavano in modo ‘occulto’ piccoli introiti (ad esempio i «vetturali»).

A fianco del vino si collocava la paglia, altro settore produttivo molto attivo a Montespertoli sin dal tardo Settecento, intorno al quale si era strutturata una ramificata economia che coinvolgeva in maniera trasversale sia la fascia dei grandi possidenti e dei “nuovi borghesi” visti sopra, ma anche tutto un sottobosco di figure (piccoli commercianti, trasportatori al dettaglio, braccianti, piccolissimi possidenti) dedite a più lavori contemporaneamente che si insinuavano nelle maglie della lavorazione di questo prodotto poi esportato nell’area fiorentina, signese e campigiana.

Assessore Razzolini Severino

Severino Razzolini, assessore nella giunta del Bini. I fascisti fiorentini cercarono di far irruzione nel caffè da lui gestino per provocare violenze

E’ di fondamentale importanza tenere in considerazione questi aspetti di economia locale, oltre agli stretti legami politici ed economici con Firenze, quando si prenda in considerazione il caso di Montespertoli nel biennio 1919-1921, sia durante la presenza del Commissario prefettizio Umberto Patella (novembre 1919-ottobre 1920), che durante il governo della Giunta socialista di Augusto Bini (ottobre 1920-aprile 1921).

Il governo del Commissario Patella si basò quattro tipologie di imposte (quella sui terreni, sui bestiami, sui pianoforti e biliardi e la compartecipazione a quella governativa sul vino) alle quali affiancò voci di spesa (rifacimento della fognatura e dei marciapiedi nel Capoluogo, servizio sanitario per i poveri, spedalità in genere, estensione delle rete elettrica alle frazioni) più consone ad un’Amministrazione socialista che ad un Commissario prefettizio. Costui durante il suo operato si impegnò anche nel settore dell’edilizia popolare strettamente connesso, nella realtà economica di Montespertoli, a quello della paglia per il fatto che i proprietari di piccoli ambienti e magazzini che potevano essere adibiti ad abitazioni, preferivano invece riservarli alla lavorazione della paglia piuttosto che all’affitto perché più remunerativi, data l’importanza che questo prodotto aveva a Montespertoli. Tanto che lo stesso Patella lo inserì come voce specifica nel dazio di consumo, provocando un’amplissima protesta (trasversale) fra gli abitanti del paese.

Fu proprio l’abolizione di questa voce dalla tabella del dazio uno dei primi provvedimenti presi dalla Giunta socialista di Augusto Bini (possidente terriero locale e industriale della paglia) salita al potere con le elezioni amministrative del 19 settembre 1920, con una vittoria nettissima. Il clamore che il risultato delle votazioni dovette suscitare negli avversari, ma anche in tutta la popolazione di Montespertoli e delle sue frazioni, con una differenza eclatante in termini di voti, dovette essere enorme. Un manipolo di 24 persone di cui, tranne una, tutte le altre di estrazione e/o di professione contadina, andavano ad occupare gli scranni dove fino a pochi giorni prima sedevano baroni, conti, marchesi, cavalieri, notai e avvocati. Si ribaltavano i concetti fondamentali di una società che durava da tempo immemore e che sembrava, fino a pochissimi anni prima, non dovesse mai cadere.

Assessore Verdiani Angiolo

Angiolo Verniani, assessore nella giunta socialista di Augusto Bini

Il 10 e 11 ottobre 1920 a Montespertoli si sperimentò il primo tentativo dei fascisti fiorentini di ribaltare il risultato delle libere elezioni in una Amministrazione comunale; tentativo non riuscito grazie al concorso della popolazione che si pose a difesa del Palazzo comunale, ma che gettò lunghe ombre sul futuro prossimo delle Amministrazioni socialiste toscane.

Lo sforzo messo in campo dalla Giunta Bini per cercare di attuare un piano fiscale che fosse il più possibile aderente alla realtà locale e che quindi praticasse quella giustizia fiscale e distributiva cavallo di battaglia del partito socialista, si scontrò con la difficoltà ad individuare i cespiti di entrata delle famiglie di Montespertoli e quindi della loro effettiva ricchezza nel momento in cui affrontò il delicatissimo problema della «revisione delle matricole delle tasse comunali». Quanto fosse infida e piena di conseguenze imprevedibili questa operazione fiscale, lo dimostra l’analisi delle lettere inviate nel 1921 all’Amministrazione comunale da chi si sentì ingiustamente penalizzato dalla nuova ripartizione fiscale. Le lettere mostrano con esemplare chiarezza il risentimento diffuso, ma in certi casi anche il livore e la rabbia a stento trattenuti, che la Giunta socialista provocò fra molti suoi amministrati con la nuova matricola fiscale. Si trattava di un fronte esteso ed eterogeneo che andava dai parroci ai dipendenti comunali, dai grandi possidenti dai cognomi altisonanti agli anonimi piccoli proprietari, ai commercianti e bottegai; dai fattori ai piccoli possidenti inseriti anche nel commercio della paglia e/o del vino. Un aspetto questo che ebbe il suo peso quando nella primavera seguente lo sforzo congiunto delle autorità centrali, della Prefettura e delle squadre di azione fasciste riuscirono a far cadere la Giunta socialista di Augusto Bini.

Assessore Del Terra Savino

Savino Del Terra, assessore nella giunta del Bini

Troppo esiguo fu il margine di tempo che questa Giunta ebbe a disposizione per poter dispiegare la sua politica socialista sul territorio di Montespertoli (quattro mesi e dieci giorni). Inoltre, oltre ad essere breve fu anche particolarmente difficile per il manipolo di nuovi Consiglieri che si trovarono a svolgere per la prima volta nella loro vita un’attività politico-amministrativa del tutto sconosciuta nelle sue articolazioni interne. Oltre a queste ve ne furono altre di difficoltà legate proprio alla contingenza (ricorsi della minoranza, dazio di consumo, situazione finanziaria e approvvigionamento acqua) e all’operato della Prefettura.

I fatti accaduti a Certaldo e ad Empoli fra il 28 febbraio ed il 3 marzo 1921 costituirono l’occasione per dare la spallata finale a molte Amministrazioni socialiste della Valdelsa, fra le quali anche Montespertoli. Anche a Montespertoli infatti fu indetto lo sciopero che secondo le autorità assunse la forma di un’insurrezione contro i poteri dello Stato e su questa ‘insurrezione’ fu montato un processo celebrato presso il Tribunale di Firenze, che portò sul banco degli imputati un centinaio di cittadini, compresa l’intera Giunta municipale (escluso un solo assessore). Le accuse andarono da «insurrezione contro i poteri dello Stato», «costituzione di bande armate», «sequestri di persona», «interruzione delle comunicazioni», «assedio alla caserma dei carabinieri» e «violenza privata».

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La coperta del fascicolo processuale relativo al procedimento intentato per volere delle autorità fasciste contro lo sciopero indetto a Montespertoli nel marzo 1921 per cui furono incriminati un centinaio di cittadini e l’intera giunta  Bini (Archivio di Stato di Firenze, Processi Penali 1923, b. 73)

Così, il 4 marzo vennero arrestati i primi tre Consiglieri di maggioranza, mentre due dei quattro assessori si erano resi latitanti e lo sarebbero rimasti a lungo. Ma l’obiettivo principale della controffensiva di marca reazionaria e fascista era rappresentato dal Sindaco Bini, contro cui si passò a forme di intimidazione ben più gravi e violente fra le quali un agguato. Il 4 aprile, verso le 11 del mattino si presentarono nel suo ufficio in Comune Sergio Codeluppi ed altri due compari minacciandolo con una pistola, ed insultandolo gli intimarono di firmare una dichiarazione di dimissioni da sindaco. Il giorno seguente Augusto Bini fu convocato in comune dal Segretario Bastianini per rispondere ad un telegramma del Prefetto inerente le sue dimissioni; firmato il telegramma Augusto Bini lasciò per sempre il Palazzo comunale.

Il 31 marzo 1923 la Corte d’Assise emise la sentenza che confermò il movente politico alla base degli episodi di violenza verificatisi durante i fatti di Montespertoli, condannando 47 dei 66 imputati a pene variabili fra i tre mesi ed i cinque anni di reclusione.

Il 23 settembre Augusto Bini venne arrestato a Firenze con l’accusa di aver commesso atti volti a far sorgere in armi gli abitanti di Montespertoli contro i poteri dello Stato e di aver organizzato bande armate di fucili e bastoni, esercitando su di esse un’azione di comando.

Bibliografia:

– M.C. Dentoni, Annona e consenso in Italia (1914-1919), Milano, Franco Angeli, 1995;

– F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, UTET, 2009;

– M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Milano, Mondadori, 2003;

– L. Guerrini, La provocazione fascista per giustificare la repressione del movimento operaio e la repressione titolo preminente e permanente del carrierismo, in La Toscana nel regime fascista (1922-1930), Firenze, Olschki Editore, 1971, vol. I, pp. 621-634

– P. Pezzino, Empoli antifascista. I fatti del 1° marzo 1921, la clandestinità e la resistenza, Firenze, Pacini Editore, 2007;

– R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991.




Gennaio 1922, fuoco a Serravalle

All’inizio del 1922 l’infittirsi delle spedizioni squadriste nel pistoiese registrava ormai numeri da bollettino di guerra. Nel corso del 1921 il neonato fascismo locale aveva devastato la Camera del Lavoro a Pistoia e sequestrato due volte il suo segretario Onorato Damen, rapito il parroco – animatore del movimento delle casse rurali – Don Ceccarelli, aggrediti numerosi militanti sindacalisti, socialisti, comunisti, anarchici e antifascisti, compiuto una sanguinosa spedizione a San Marcello, assaltato circoli, occupato interi paesi come Agliana e Casalguidi, incendiato sulla pubblica piazza copie dei giornali avversari, colpito leghe contadine e si era scontrato con la breve esperienza degli Arditi del popolo locali. Il tutto senza trovare un’attiva opposizione delle autorità statali, che si delineava sempre più come un’aperta connivenza. In questo contesto matura un’azione, svoltasi sulla falsariga delle altre, della quale disponiamo di preziosi resoconti, che mette ben in risalto il modus operandi delle squadre ed il ruolo della forza pubblica.

Il 10 di gennaio infatti una spedizione punitiva colpì il circolo comunista di Serravalle. Le modalità con cui venne portata a termine svelano un’accurata preparazione e la connivenza delle autorità del luogo. Il comando dei Carabinieri di Pistoia era venuto a conoscenza della possibilità di un’azione simile, prendendo per una volta immediati provvedimenti. Erano stati inviati a Serravalle quattro Carabinieri a cavallo per informare il comandante di quella stazione di intensificare la vigilanza in paese ed allo sbarramento istituito da tempo per impedire, senza grandi risultati, il passaggio delle squadre da e per la Valdinievole. Un altro sbarramento fu predisposto a Pontelungo ed infine veniva inviato un camion di Carabinieri di rinforzo. Tutte queste precauzioni furono inutili. Nella sua relazione il Sottoprefetto dichiarava che «è risultato che elementi giovanili fascisti eransi recati per tempo alla spicciolata per sentieri reconditi a Serravalle ove avrebbero dovuto essere assolutamente fronteggiati da quel Comandante di Stazione dell’Arma il quale aveva a disposizione mezzi più che sufficienti alla bisogna. Senonché il Comandante di quella Stazione il quale, come sovra è detto, era stato debitamente avvertito dalla pattuglia di CC. RR. a cavallo ed aveva disposto servizio sorveglianza dinanzi al circolo comunista, per ragioni assolutamente inesplicabili aveva sospeso il servizio stesso alla mezzanotte. I fascisti di Serravalle e quelli giunti alla spicciolata da fuori colsero tale momento per compiere l’azione» (sottolineature nell’originale).
Il camion dei carabinieri proveniente da Pistoia aveva arrestato sulla strada per Serravalle tre fascisti, di cui uno armato di pistola, e ne aveva avvistati altri diretti a Serravalle che però erano riusciti a fuggire per le vie laterali. Arrivato in paese verso le una di notte l’ufficiale dei Carabinieri al comando dei rinforzi, tenente Simula, constatava l’avvenuta «devastazione del circolo, sulla soglia del quale trovavansi ancora i residui in fiamme delle sedie dei tavoli delle porte e delle finestre». Il tenente constatò «la inesplicabile imprevidenza del servizio disposto dal maresciallo Vannini Umberto, comandante di quella stazione, il quale nel disporre il servizio quella notte non aveva ordinato che il servizio stesso avesse il cambio sul posto». Il capitano Mazzone stabilì che «la devastazione del circolo di Serravalle era stata opera di un gruppo di una ventina di individui i quali giunti verso le ore 23 per un sentiero erto di campagna dal fondo valle ed evitando ogni controllo lungo la strada maestra e quello dello sbarramento, avevano potuto riunirsi non visti da alcuno alle spalle del piccolo fabbricato adibito a circolo comunisti e socialisti del luogo, in località assolutamente deserta», qui aspettarono la fine del turno di guardia dei Carabinieri e «attesa una diecina di minuti circa per dar tempo a questi di far ritorno in caserma, irruppero contro la porta del circolo facendo tutta prima contro di essa una scarica di una ventina di colpi di rivoltella. Quindi abbattuta la porta poco resistente, entrarono nei locali tutto devastando e distruggendo e riunendo poscia i rottami innanzi l’ingresso, appiccandovi il fuoco e dileguandosi poscia per la stessa via dalla quale erano venuti, completamente indisturbati». Il circolo comunista “Umanità Nuova” subì danni per 2.500 lire. Furono arrestati 7 fascisti. I 3 sopramenzionati, Vittorio Franceschini di 20 anni carrozziere, Francesco Vannini di 18 anni studente, Pellegrino Pistoresi e poi Bruno Lorenzoni di 23 anni studente, Antonio Cappelli di 19 anni definito benestante, Riccardo Rosati e Desiderato Rosati. Un telegramma del Sottoprefetto al Prefetto dell’11 gennaio faceva salire il numero degli arrestati a otto, cinque di Pistoia e tre di Serravalle, ma non fornisce i nominativi. Tuttavia già da queste informazioni rileviamo ancora una volta la giovane età degli assalitori e l’interclassismo dei fasci, tutti elementi tipici dello squadrismo.
La devastazione del circolo di Serravalle fu un piccolo tassello nell’ascesa del fascismo nel pistoiese, che tende a scomparire di fronte ai ben più gravi fatti del 1922, con l’uccisione di diversi antifascisti, ma ci permette ci mettere in luce quanto l’ascesa del movimento di Mussolini fosse “resistibile”, se contrastata da chi ne avrebbe avuto la funzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.