Le mobilitazioni operaie in Toscana del 1969

Ricordare il ’69 operaio, o autunno caldo, a 50 anni dal suo svolgimento, non è una questione semplice. Prima di tutto perché si tratta di un anniversario che definire passato “in sordina” rende poco e male la situazione. Secondo perché se c’è un aspetto del presente che dimostra come la teoria delle “magnifiche sorti e progressive” sia una colossale sciocchezza, è proprio il settore del lavoro. Basta gettare uno sguardo sulle nuove precarietà, da quella dei braccianti impiegati nel nostro sud nella raccolta delle arance o dei pomodori, a quella dei rider che ci consegnano il cibo a domicilio, o a quella delle donne italiane e straniere che accudiscono i nostri anziani, o ancora ai lavoratori delle partite Iva, per capire che quel ciclo di mobilitazione che aprì speranze, realizzò diritti, spinse la società tutta intera in avanti, è lontano anni luce da questo presente che ci circonda.

Ricordare poi la mobilitazione operaia da un punto di osservazione come quello della Toscana è una complessità in più. Non c’era e non c’è in questo territorio una concentrazione operaia simile a quella delle fabbriche del nord, in primis Fiat. Anche i grandi stabilimenti, come il siderurgico di Piombino o il metalmeccanico Piaggio di Pontedera non sono mai arrivati ad avere quei numeri di addetti, né quella rilevanza nazionale. Né abbiamo avuto concentrazioni così massicce nel settore del tessile-abbigliamento, della conceria, o dell’industria energetica o cantieristica. Di sicuro, però, la fine degli anni Settanta vedeva l’attività industriale toscana ancora in primo piano sotto tutti i punti di vista. Per addetti, per fatturato, per diffusione territoriale. E sicuramenti negli stabilimenti di Santa Croce sull’Arno, così come all’Italsider di Piombino, o nei Cantieri Orlando di Livorno, alla Lebole di Arezzo, così come nelle altre centinaia di aggregazioni industriali diffuse nella regione, il ’69 ci fu, portò trasformazioni e impresse mutazioni sia con i risultati contrattuali diffusi, sia con il cambiamento di linguaggio, delle strategie di alleanza, delle modalità conflittuali. Pensiamo ad esempio, alla mobilitazione interna ai reparti, a gatto selvaggio, o a singhiozzo, di cui tutte le testimonianze rivendicano la paternità.

Queste memorie raccontate con orgoglio, non sono di per sé né false, né vere. Ogni luogo di produzione cercò, in quell’autunno lontano, di darsi anche delle soluzioni originali, di inventarsi una strategia capace di generare alleanze, e non solo quelle con gli altri lavoratori, ma anche quelle con settori ritenuti tradizionalmente più lontani, come quella tra i cattolici della piana di Pontedera e i lavoratori della Piaggio.[1]

Ci furono mobilitazioni assai significative nel settore, amplissimo, del lavoro a domicilio, che portarono a risultati interessanti, ci furono battaglie per la salute nei posti di lavoro, salute che non riguardava solo gli addetti ma tutti gli abitanti del comprensorio coinvolto, come nelle zone del cuoio di Santa Croce e Ponte a Egola.

La difficoltà di ragionare sulle lotte del ’69 da un luogo come la Toscana è legata anche alla miopia della storiografia italiana che ha concentrato tutta la sua attenzione sulla Fiat e su Torino con qualche incursione verso Milano e poco altro.

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Come scrivevo alcuni anni fa: “Eppure studi, anche approfonditi, su altre realtà non sono mancati. Ma non si capisce se per pigrizia, o per una coazione a ripetere, si torna sempre lì. Eppure tutti noi che ci occupiamo o ci siamo occupati di storia del movimento operaio, siamo tutti consapevoli che l’Italia, l’Italia operaia, quella che lottava e costruiva quegli anni straordinari di lotte e di rivendicazioni realizzate, si concretizzava a Torino ma anche a Piombino, a Gioia Tauro ma anche a Marghera, nelle fabbriche di Santa Croce in Toscana, così come nei calzaturifici delle Marche, alla Max Mara dell’Emilia così come alla Lebole di Arezzo e in cento altre località, in parte uguali ma in parte anche profondamente diverse dal grande agglomerato piemontese.”[2]

Di sicuro poi occorrerebbe tornare indietro, all’anno degli studenti, il ’68, e poi alle lotte per le pensioni, come insegnava Bruno Trentin,[3] per capire in profondità l’argomento di cui ci dobbiamo occupare. E ricordare che con l’ingresso degli operai sulla scena pubblica, il sindacato “..recuperò… fra gli studenti medi e quelli degli istituti tecnici; o fra gli ‘studenti-lavoratori’, i quali, in molte realtà, come in Piemonte, diventarono attori a pieno titolo della lotta sindacale.”[4] Sempre seguendo il ragionamento di uno dei più grandi leader storici del sindacalismo confederale, si può sostenere che il sindacato riuscì, a differenza dei partiti storici della sinistra, a dialogare e anche a farsi permeare dalla cultura proveniente dal mondo giovanile. E come dichiarò lo stesso dirigente: “..non fu una passeggiata”.[5]

Ma torniamo alle realizzazioni più significative e più connotanti il territorio della nostra regione, trascurandone altre, non perché poco importanti ma perché stanno dentro un quadro di relazioni sindacali e industriali di livello nazionale ed oltre. Penso ad esempio alla mobilitazione dell’Acciaierie di Piombino all’interno del gruppo delle Partecipazioni Statali e dentro il quadro conflittuale diretto dal sindacato metalmeccanico, il più importante di quegli anni.

Spesso i risultati migliori si ebbero nei luoghi non deputati in senso tradizionale del lavoro operaio ma nel settore dei servizi. Pensiamo a quello che accadde nel settore dell’assistenza psichiatrica, dove, alla “fabbrica dei matti” come chiamavano a Volterra il manicomio, si sostituì l’assistenza domiciliare. Con la chiusura di quel centro di reclusione, si sovvertirono le tradizioni culturali che fino a quel momento avevano governato quel luogo oltre a realizzare una profonda conversione dell’organizzazione del lavoro di assistenza.

La vicenda della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Volterra era stata resa possibile anche dalla nascita del sindacato degli ospedalieri che nella provincia pisana diventò subito fortemente significativo a causa del peso che aveva, ed ha, il polo ospedaliero di Santa Chiara insieme a quello di Cisanello e alla stessa facoltà di Medicina, come punto di riferimento non solo regionale.[6]

C’è un episodio, piccolo in sé ma altamente significativo, per il forte valore simbolico, quando nel ’69, un malato psichiatrico derubato da un infermiere, venne risarcito e il responsabile fu sospeso per un mese dal lavoro senza assegno.[7]  Si cominciava a respirare un’altra atmosfera. Il dibattito sulla riforma della psichiatria si era allargato da Trieste a Gorizia, a Arezzo, a Lucca fino a Volterra, la città dell’alabastro e dei matti. Quella battaglia che non fu solo operaia, sindacale, ma fu anche culturale e politica, che si scontrò anche con consolidati atteggiamenti di chiusura verso qualsiasi forma di “diversità”, cominciò negli anni Sessanta e si protrasse per un lungo periodo. Ma la trasformazione del manicomio e la sua chiusura sono successive al ’69. Arrivano infatti due anni dopo, con la battaglia per la riforma Basaglia[8]. Un biennio, in quel caso, non poteva bastare. Dal punto di vista strettamene sindacale la trasformazione si era però intravista già dal ’67 quando c’era stato il superamento della Cisl da parte della Cgil che aveva una maggioranza di iscritti nella manodopera femminile e nei lavoratori manuali.[9] Ricordava Annibale Fanali, psichiatra arrivato a Volterra nel 1971:

 “..a Volterra c’erano due fonti fondamentali di lavoro: l’alabastro e l’ospedale psichiatrico. Io sono entrato nel ’71 e c’erano 1800 ricoverati all’incirca. Questo era un mondo. Non c’erano solo gli infermieri. C’erano quelli della cucina, gli operai. C’erano le aziende agricole perché c’erano dei reparti dislocati nella campagna. Quindi era un mondo…. La contraddizione grossa di Volterra rispetto ad altre esperienze era che qui c’era un grande manicomio ed una piccola città, non come Perugia, o anzitutto Trieste.”[10]

E ancora:

“A Volterra tutto girava attorno al manicomio, ma il manicomio era considerato come una fabbrica. I pazienti erano la pietra….. C’era gente dalla Liguria, dalla Sardegna, c’erano anche stranieri: c’era un casino di gente. Gente di tutti i tipi.. Era la legge del 1904, di “cura e custodia”. La custodia era grossa, la cura era piccina. Quando si è detto: ‘facciamo diventare grande la parola cura’, sono nate le contraddizioni. E la città, soprattutto politicamente, è riuscita a metabolizzare.”[11]

 Fu una vicenda che coinvolse e trasformò l’intera città, le sue componenti, sia quelle più aperte che quelle più chiuse, che trasformò nel profondo il senso comune del sentire collettivo nei confronti dei “matti”. Fece crescere tutti, in meglio.  Per quanto è stato possibile verificare, questa è una delle storie più belle e più durature, fino a qui, dell’Italia di quegli anni.

Ma accanto a questa narrazione se ne possono affiancare molte altre, apparentemente minori ma altamente significative come quella che coinvolse le maestranze della Fiat di Marina di Pisa, già dal ’67, l’anno delle Tesi della Sapienza[12], che anticipò il biennio seguente, anche in una fabbrica classica, quella della Fiat di Marina, dove accadde qualcosa di insolito. Ricordava un vecchio sindacalista, isolato in fabbrica e nelle lotte perché iscritto Fiom:

“A Pisa quando si fece il corteo dei licenziati, la gente si allontanava, se ne andava per conto suo. All’opposto, nel 1967, per la prima volta che si riuscì a scioperare dopo dieci anni, si scioperò una mattina di febbraio. Era nevicato. Uscii io insieme a tre o quattro convinti che rimanessero tutti dentro perché tre volte avevo scioperato anche da solo. Difatti quella mattina eravamo in dieci e poi ad un certo momento si sentì il silenzio… Cosa sta succedendo dentro? Comincio’ a sorti’ gli operai. Sortirono tutti e quella fu la più grande soddisfazione perché dopo dieci anni ero riuscito a creare le condizioni per scioperare perché c’ero solo io. Però ero diventato un po’ un esempio. La Fiat non aveva dimostrato una grande intelligenza. Colpiva me.. e lo sapevano che io ero una persona ragionevole, che tenevo legami, che cucivo in continuità, che sopportavo angherie..”[13]

Anche qui c’è l’anticipazione di un anno rispetto alla rottura epocale del ’68. Perché sia il ’68 studentesco che quello operaio sono date simboliche più che periodizzazioni fra un prima e un dopo. Il dopo si è venuto costruendo solo poco alla volta ma i suoi effetti sono stati poi così deflagranti e così sintetici che, correttamente noi rinviamo a quella data e non ad una trasformazione di lunga durata. Perché il tempo e i cambiamenti si concentrarono moltissimo lasciando l’impronta di una accelerazione dirompente. Ma dentro una realtà così differenziata, come quella della Toscana produttiva e della Toscana dei servizi, sia per concentrazioni operaie che per tipologie di lavoro, ci furono anche settori dove il ’69 operaio entrò pochissimo e anzi cominciò, proprio a partire da quell’anno, una stagione di licenziamenti e sconfitte. Come fu per il caso della Marzotto di Pisa. Una fabbrica con una schiacciante presenza di manodopera femminile, gestita con piglio patriarcale e con l’ausilio delle suore che si occupavano della formazione delle rammendatrici in un clima di intimidazione durissima e di violenza discriminatoria spaventosa. Dove si realizzò una vicenda opposta a quella di Valdagno. Quando arriva il ’69 la Marzotto di Pisa aveva già perso oltre 600 addette anche se vi lavoravano ancora 850 addetti, si respirava un’aria di dismissione. Si giunse al 7 giugno 1968 quando la direzione annunciò la chiusura dello stabilimento. Cominciò una gara di solidarietà attorno alla fabbrica ma alla fine, dopo decine di manifestazioni, di sit-in davanti ai cancelli, di iniziative politiche e sindacali, Marzotto uscì di scena e gli subentrò un’altra proprietà. Era il 24 gennaio 1969. Il nuovo proprietario riprese circa la metà delle vecchie maestranze. Di sicuro, per quell’insediamento industriale, l’autunno di quell’anno non fu molto caldo.[14]

Manifestazione a Lucca, anni '70

Manifestazione a Lucca, anni ’70

In una realtà simile ma non uguale, quella delle confezioni della Lebole, ad Arezzo, le cose andarono assai diversamente. In quel caso la mobilitazione nel biennio ’68-’69 realizzò molti risultati: dalla mensa al sabato libero, dalla riduzione d’orario senza diminuzione di salario, dall’abolizione delle zone salariali al superamento della commissione interna con il riconoscimento del consiglio di fabbrica. Anche qui le maestranze erano quasi per intero femminili e anche qui la loro volontà si incontrò con un tessuto cittadino, sociale e politico solidale.[15] Ma anche qui come ovunque si consumò la contrapposizione tra chi voleva aumenti uguali per tutti, come Vittorio Foa o Emilio Pugno, e chi invece come Bruno Trentin era contrario.[16] Vinsero la battaglia, che fu anche e forse soprattutto culturale, Foa e Pugno.

In una intervista dell’autrice a Foa, il vecchio ex sindacalista diceva:

 “..mi è accaduto di ripensare a tante battaglie egualitarie: parità uomo-donna, parità nord-sud, parità tra operai comuni e operai specializzati, parità operai-impiegati. Sono tutte le battaglie dei primi anni Sessanta e di tutti gli anni Settanta. Tutte queste battaglie possono essere viste come puro tentativo di ‘essere come quell’altro’ oppure essere viste in modo diverso. Cioè come uscita da una condizione di inferiorità generale e come affermazione di me stesso e delle mie possibilità. Cioè come un problema anziché di uguaglianza materiale, di libertà. “[17]

Ma il 1969 fu anche l’anno nel quale la Fiom pubblicò una dispensa in cui veniva illustrato il modello sindacale di “lotta per la salute” che divenne il testo base di riferimento per ogni mobilitazione legata all’ambiente di lavoro.[18] Anche in questo caso la vicenda era cominciata molto prima, in particolare nel 1961 con la costituzione della Commissione medica nella Camera del Lavoro di Torino e grazie ai risultati di lavori di ricerca e di denuncia di Giovanni Berlinguer[19] e di Giulio Alfredo Maccacaro[20].

Nella realtà toscana scegliamo due casi sui quali poter collocare l’attenzione, quello delle concerie di Santa Croce e quello della lavorazione a domicilio delle calzature. Per Santa Croce l’anno 1969 cominciò con la firma di un ottimo accordo contrattuale: aumenti uguali per tutti, contrattazione del premio di produzione, passaggi di categoria per le donne che svolgevano lavori superiori alla loro mansione, comitati e delegati per la prevenzione e la sicurezza in ogni azienda, diritto di assemblea dei lavoratori dentro l’azienda con la presenza dei sindacati. Non erano risultati di poco conto ma il delegato per la prevenzione e la sicurezza fu un risultato che rimase ancora per molto tempo sulla carta.  Dagli inizi del ‘900, da quelle parti era stata fatta l’abitudine al cattivo odore e a condizioni di lavoro durissime che tuttavia assicuravano a tutti una relativa pace sociale e un buon ritorno economico. Il problema “ambiente e salute” a Santa Croce emerse con grande ritardo grazie alla denuncia prima di “Paese Sera” nel 1974, e poi con l’”Espresso” con un’inchiesta di Sergio Saviane nel 1978.  Fino a lì, da quelle parti la parola d’ordine: “la salute non si vende” non aveva trovato diritto di cittadinanza.[21]

“Il Grande Vetro” scriveva: “Per la sete di guadagno tutti si erano improvvisati conciari, anche dentro le cascine di campagna.”[22] Occorre comunque riconoscere che, anche se in ritardo, la situazione fu poi gestita con la collaborazione delle istituzioni, degli imprenditori e dei sindacati, e a tutt’oggi si sperimentano di continuo soluzioni concertate per migliorare l’organizzazione del lavoro e l’ambiente.[23]

Discorso simile ma non uguale quello è che possiamo fare per le lavoranti a domicilio. E per questo settore mi permetto di rinviare ad un mio saggio[24] da quale si evince la frammentarietà del problema, la compresenza al suo interno di modernità e di arcaismo, di spinte alla conservazione e di spinte al rinnovamento, spesso però non inteso in senso tradizionale. Per realizzare l’importanza di questo segmento vale la pena ricordare che ancora agli inizi degli anni Settanta il settore coinvolgeva oltre 1.600.000 addetti.[25]

Un settore di sicuro importante per quantità di prodotto e per reddito ma poco compreso dalle stesse organizzazioni sindacali che puntando tutta la battaglia per l’ingresso in fabbrica delle lavoranti, alla fine ottennero solo il risultato di costringere le medesime a diventare, ob torto, delle artigiane con partita iva. Soprattutto per un settore delicato e importante nell’economia toscana come quello dell’aggiuntatura delle scarpe. Un settore dove la femminilizzazione della manodopera era pressoché totale. E dove giocava un ruolo attivo la convivenza con la famiglia d’origine e soprattutto avere una stanza da adibire a laboratorio, come ricordava una testimone da me intervistata, Patrizia Cerri:

“E meno male che avevo questa stanza! Te pensa chi lavorava in un ambiente così, che poi ci doveva mangiare, che sul tavolo ci doveva lavorare e poi sparecchia’ tutto, e poi ci doveva mangiare. Pensa un po’ te!”[26]

In quelle condizioni la battaglia più importante fu quella di dare visibilità a queste lavoratrici. Ma quando accadeva che queste lavoratrici emergessero era sempre per pochi giorni, su una pagina di giornale e niente più, come accadde nel 1973 a Cascina in una Conferenza provinciale.[27]

Ed in questo settore, quando, dopo un accordo raggiunto proprio nel ’69 con il quale si ottenne che il lavoro venisse portato a domicilio alle lavoranti, la situazione peggiorò perché:

Questo fatto crea divisione tra le donne. Ognuna sta a casa sua e vede poca gente: il portantino ti impaurisce e minaccia di non portarti più il lavoro.[28]

 Se il ’69 fu l’anno degli operai, fu molto meno quello delle operaie. Come scrivevo nello stesso saggio:

“Le donne impegnate nel lavoro a domicilio lavorano sole, dentro una cornice familiare e di relazioni che resta uguale nel tempo, a parte i mutamenti naturali che subiscono pure loro, come l’invecchiamento.”[29]

Anche in quel contesto, quello di quegli anni così vivaci sul piano delle rivendicazioni e dei risultati contrattuali, non riuscirono ad attivare azioni di difesa collettiva perché come ha scritto Christophe Dejours:

lavorare non è solo avere un’attività, ma è anche vivere; vivere il rapporto con la costrizione, vivere insieme, affrontare la resistenza opposta del reale, costruire il senso del lavoro, della situazione e della sofferenza.[30]

Se poi passiamo a guardare il discorso sulla tutela della salute, proprio nel 1969, Luigi Frey analizzò il caso di San Giovanni in Persiceto e il quadro ottenuto (era una zona di lavoro a domicilio delle confezioni) fu sconfortante. Disturbi alla funzionalità epatica, ai muscoli, alla vista. Risultati pubblicati poi alcuni anni dopo[31] Nel calzaturiero la situazione era anche peggiore perché a causa dei “mastici forti” le lavoranti si potevano prendere malattie terribili come la nevrite e arrivare alla morte. Ma praticamente nessuno se ne accorgeva e fino a che certe sostanze non furono escluse per legge, il controllo ricadeva sulle loro spalle e la loro sorte era spesso solo un fatto di fortuna.

Sicuramente il settore del lavoro a domicilio era il più fragile dell’intero settore produttivo nazionale e pertanto aveva ragione Trentin a scrivere:

 “Si comprende… come nella memoria politica della maggior parte dei gruppi dirigenti della sinistra, non sia rimasta traccia degli obiettivi e dei risultati più significativi delle lotte dell’autunno caldo’, come il controllo sulla salute e le condizioni di lavoro, la conquista di nuovi diritti individuali e collettivi, il diritto all’assemblea. E come sia rimasto soltanto il ricordo di una grande lotta salariale, forse eccessiva nei suoi obiettivi e nei suoi risultati. Si comprende come, con tali lenti da miopi, alcuni si siano dilettati a irridere l’obbiettivo di conseguire un nuovo modo di lavorare e, perché no? un ‘nuovo modo di fare l’automobile’ superando le catene di montaggio. Mentre altri, come il gruppo parlamentare comunista, non ebbero alcuna reticenza ad astenersi nella votazione dello Statuto dei lavoratori”…… E come, nel momento più aspro della lotta dei metalmeccanici per il diritto di informazione sui piani di investimento delle grandi imprese e per una svolta delle politiche industriali delle aziende di Stato, in direzione del Mezzogiorno, una parte rilevante del gruppo dirigente del Pci cercherà di scongiurare ‘l’avventura’ dei sindacati a Reggio Calabria. E si schiererà, senza esitare a sostegno delle ragioni delle baronie che dominavano l’Iri e si opponevano strenuamente a discutere con i sindacati, alla luce del giorno, i loro programmi di investimenti e le ragioni degli sperperi inauditi che il loro clientelismo e la loro incompetenza avevano accumulato.”[32]

Possono sembrare amare considerazioni ma forse ci possono essere utili anche per capire i ritardi attuali della politica e la debolezza dei partiti storici della sinistra. E come anche il sindacato non gode proprio di un’ottima salute.

[1] Catia Sonetti, Dentro la mutazione. La complessità delle storie del sindacato in provincia di Pisa, Einaudi, Torino, 2006, p.67.

[2] C. Sonetti, Sì anche il diritto di suonare il clavicembalo! Intervento dattiloscritto presentato al Convegno di Firenze sui due bienni rossi nel 1998.

[3] Bruno Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969.Intervista di Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 79.

[4] Ibidem, p. 97.

[5] Ibidem, p.114

[6] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa, 1960-1980, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, pp.483-484.

[7] Ibidem, p. 525.

[8] Cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”: Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 19611968, Feltrinelli, Milano, 2014; Vinzia Fiorino (a cura di), Rivoltare il mondo, abolire la miseria. Un itinerario dentro l’utopia di Franco Basaglia, Ets, Pisa, 1994.

[9] Ibidem, p, 526.

[10] C. Sonetti, Dentro la mutazione… cit., p. 128.

[11] Ibidem, pp. 134-135.

[12] Cfr., Luciano Ghelli, ’68 e dintorni. Il movimento, gli operai, il Pci e i gruppi a Pisa dalle tesi della Sapienza alla giunta Lazzeri, Edizioni Progetto, Ponsacco, 1988.

[13] Ibidem, p. 32.

[14] C. Sonetti, Dentro la mutazione..cit., p 44.

[15] Claudio Repek, La confezione di un sogno. La storia delle donne della Lebole, Ediesse, Roma, 2003.

[16] Aris Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 30.

[17] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa. 1960-1980 in, La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980), a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, p. 490.

[18] Patrizio Tonelli, “La salute non si vende”. Ambiente di lavoro e lotte di fabbrica tra anni ’60 e ’70, in I due bienni rossi del Novecento 1919-1920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto,  Ediesse, Roma, 2006, p.345.

[19] Giovanni Berlinguer, Medicina e politica, De Donato, Bari, 1973.

[20] Giulio Alfredo Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979.

[21] Cfr, anche “Il Grande Vetro”,  n.9, anno 2, settembre 1978.

[22] C. Sonetti, La rottura.. cit., p. 532

[23] Vd. la trasmissione di Rai3, Leonardo del 6 maggio 2019.

[24] C. Sonetti, Il lavoro nascosto. Lavoranti a domicilio nella seconda metà del Novecento, in Fuori dall’ombra. Studi di storia delle donne nella provincia di Pisa (secoli XIX e XX), Plus university press, Pisa, 2006, pp.371-416.

[25] Sebastiano Brusco, Prime note per uno studio del lavoro a domicilio in Italia, in “Inchiesta”, III, 10, (1973), riproposto poi in, Decentramento, costi di produzione, e condizione operaia nel settore della maglieria, in Piccole imprese e distretti industriali. Una raccolta di saggi, Il Mulino, Bologna, 1989.

[26] C. Sonetti, Il lavoro nascosto… cit., p 387.

[27] Ibidem, p. 394.

[28] Ibidem, p. 401.

[29] Ibidem, p. 401.

[30] Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 146, citato in C. Sonetti, Il lavoro nascosto…. p. 401.

[31] Cfr., Lavoro a domicilio e decentramento produttivo nei settori tessili e dell’abbigliamento in Italia, a cura di Luigi Frey

[32] B. Trentin, Autunno caldo.., cit., p. 130.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




1/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

È possibile scrivere la storia dei movimenti giovanili di cinquant’anni fa?

Ma, prima ancora: ne vale la pena?

C’è da chiedersi infatti se ripensare “quel” passato in termini storici non sia una perdita di tempo; o, peggio, se non significhi distogliere gli occhi da ciò che ci accade intorno e quindi rassegnarsi all’incapacità di affrontare i problemi che sarebbe urgente invece risolvere qui e ora. Si deve ammettere che, almeno a prima vista, la vita attuale ha poco a che vedere con vicende vecchie di mezzo secolo: sarebbe certamente patetico appassionarsi alle polemiche che attraversarono allora il movimento studentesco o tornare a scaldarsi per le divergenze strategiche all’interno del PCI in vista del “compromesso storico”. C’è chi sostiene, del resto, che ben difficilmente la storia sia di qualche utilità nelle vicende attuali; figuriamoci, verrebbe da aggiungere, la storia locale: per di più di una piccola città, come Grosseto, ai margini perfino della “provincia” italiana più marginale. Volendo comunque rievocare quegli eventi, non ci si può stupire che si preferisca allora fare a meno della storia e accontentarsi della memoria di qualche testimone, possibilmente disposto al gioco di riconoscersi, da giovane, in qualche vecchia foto.

Non credo però che sia questa, necessariamente, la risposta alla domanda che ho posto: se ne valga la pena. Intanto le ragioni della storia, perfino di “quella” storia, pur così marginale, contrastano anch’esse una rassegnazione: quella di chi rinuncia a comprendere davvero il passato. Si può capire che ciò comporti, in certi casi, il fastidio di riconsiderare anche la propria storia e si tenda perciò a evitarlo, piuttosto che andare a vedere se esista un filo, quantunque tenue, che unisca il passato al presente. Ma se questo filo esiste – e l’indagine storica potrebbe aiutare a trovarlo e a dipanarlo – potremmo anche sperare di capire qualcosa di ciò che sta accadendo oggi. Diversamente, come potremmo pensare di affrontare il presente e provare a immaginare il futuro?

Ci sarebbe poi da sgomberare il campo da immagini false e fuorvianti e anche questo dovrebbe essere il compito della riflessione critica. Non c’è dubbio, che riguardo ai movimenti giovanili degli anni sessanta e settanta – diciamo pure per brevità: riguardo al movimento del Sessantotto – circolino analisi a dir poco approssimative, oltre a mitologie di incerto fondamento. Stando, ad esempio a una “vulgata”, avvalorata anche in ambienti dai quali non ci si aspetterebbe, il frutto immediato e perfino scontato del Sessantotto sarebbe stata la cosiddetta “lotta armata”. Questa lo riassumerebbe tutto e senza residui, restituendocelo come in uno specchio a cui non si può che prestare fede. Insomma ci sarebbe stata in Italia una “guerra civile”, sia pure – aggiunge qualcuno – “a bassa intensità”, nella quale, come era accaduto nella Resistenza, gli schieramenti erano solo due: chiunque avesse una posizione critica nei confronti dello stato, del capitalismo, della cultura dominante e così via non poteva non sentirsi rappresentato dai  “compagni” in armi[1]. Proprio questo, del resto, è ciò che raccontano i reduci di quella “lotta armata”, senza differenza tra irriducibili e pentiti: tutti diventati incredibilmente loquaci e tutti devotamente ascoltati senza eccessiva considerazione per i crimini di cui eventualmente siano stati giudicati colpevoli; quasi fossero, essi e essi soltanto, gli interpreti autentici di quell’epoca. Nessuno che denunci la presunzione e l’arroganza di chi arbitrariamente si assunse allora il compito, e continua ad assumerselo, di parlare a nome dell’intero “movimento”, addirittura, come essi amano dire, di un’intera generazione. Il brigatista, insomma, come evoluzione coerente o addirittura obbligata del “sessantottino”.

Del resto, l’altro “ideal-tipo” di quegli anni sembra non possa essere altri che il tossico.

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facolta' di lettere

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facoltà di Lettere

Ne consegue l’immagine di una generazione, appunto, affollata da brigatisti rossi e consumatori di droghe più o meno pesanti, con l’aggiunta, a completare il quadro, di qualche terrorista nero e qualche stragista. A chi si salvò, scampando alla morte per overdose o per arma da fuoco, a chi non si arrese alla malattia mentale, a quanti riuscirono a evitare le patrie galere, non sarebbe poi rimasto altro da fare che scomparire “nel privato”; a meno che invece, ma questa è la ripetizione di una storia ancora più vecchia, non abbia trovato il modo di assestarsi su posizioni di potere, rinnegando tutto ciò che fino allora aveva fatto e era stato.

Ecco: a tutto questo credo che si debba reagire, anche in riferimento a una situazione marginale quale quella di Grosseto, proprio con le ragioni e con il metodo della storia. Se ci si limita infatti a rievocazioni fondate su memorie vacillanti e prive di riscontri, buone al più per ritrovi di vecchi amici in vena di nostalgia, si finisce proprio per avallare quelle narrazioni. Operazioni del genere non fanno che sovrapporre alla tragicità di quegli anni una patina folcloristica, per non dire goliardica, comunque provinciale, che impedisce di mettere a fuoco gli avvenimenti e ne ostacola la conoscenza e la comprensione, evitando per di più di fare i conti con abbagli e errori, che ovviamente ci furono, e molti. In tal modo i solchi tra le generazioni, anziché colmarsi, si approfondiscono. Una cosa è certa: le generazioni successive non hanno interesse a malinconie senili vagamente autoassolutorie; hanno il diritto piuttosto di sapere che cosa sia effettivamente successo. È questa una questione di responsabilità, sia del testimone che dello storico[2].

D’altra parte, anche quando si mette in evidenza l’impatto di quel movimento sul costume, sulla morale corrente, sulla stessa mentalità e si sottolinea, giustamente, la sua radicale portata innovativa, che si presentò addirittura come rottura generazionale, si tende a dimenticare che fu anche, e forse soprattutto, un movimento politico, che si propose di incidere sugli equilibri che si erano consolidati – e non solo in Occidente – nel ventennio successivo alla guerra. Dunque anche riguardo ai suoi esiti politici andrebbe storicamente valutato. La possibilità di un giudizio di inadeguatezza o di vera e propria sconfitta non dovrebbe costituire motivo per tacere di quella “politicità”, sempreché, di nuovo, non ci si fermi alla sensibilità dei testimoni, che potrebbero ancora sentirsi in essa troppo coinvolti per rievocarla obiettivamente, o potrebbero, al contrario, non avvertirla: ma sarebbero probabilmente gli stessi che neppure allora – ma solo per loro miopia – l’avvertirono.

Quanto alla possibilità. È ovvio che, al netto di eventuali entusiasmi di ritorno per le mitologie sessantottine, non si possa fare a meno dei testimoni. Purché le testimonianze che si raccolgono e si utilizzano siano sottoposte ai criteri di quella che viene definita “storia orale”, che è ormai una disciplina con propri metodi e un suo preciso statuto epistemologico[3]. Occorre la consapevolezza che ben difficilmente potremo contare su una memoria condivisa e sarà dunque necessario ascoltare versioni diverse e non necessariamente sovrapponibili, se vogliamo evitare di accreditare verità totalmente o in gran parte arbitrarie [4].  Bisognerà inoltre che le testimonianze siano confrontate con documenti scritti, fotografici, filmici. Alcuni archivi sono già disponibili, altri, quello della questura ad esempio, prima o poi lo saranno. L’ISGREC ne possiede alcuni che fanno capo a partiti, a organizzazioni politiche e a associazioni, come ad esempio quella dei genitori di giovani tossicodipendenti, o il “Centro Donna”, che ha raccolto documenti dell’UDI e del Collettivo femminista. C’è poi la stampa: la cronaca locale di giornali regionali. Un lavoro difficile, ma possibile: ci sono giovani storici in grado di farlo con grande competenza. Non sta a me indicare le piste documentali da seguire. Basta sapere che queste piste esistono, come esiste ormai una bibliografia locale di base, almeno per alcuni argomenti settoriali, ma connessi al fenomeno dei movimenti giovanili: penso alla storia delle donne, alla questione della malattia mentale e della psichiatria[5].

Copertina del n. 14-15 di "Nuovo Impegno", aprile 1969, contenente la cronaca e un'analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Copertina del n. 14-15 di “Nuovo Impegno”, aprile 1969, contenente la cronaca e un’analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Vorrei piuttosto suggerire una traccia cronologica e qualche orientamento tematico a quanti volessero accingersi a uno studio rigoroso e criticamente avvertito. Con l’avvertenza, appunto, che questa proposta, pur dovendo – credo – essere presa in considerazione, sarà soggetta essa stessa a “falsificazione”, sulla base di documenti e testimonianze eventualmente discordanti.

Si dovrebbe intanto andare a vedere che cosa c’era in questa città prima del ’68 e che cosa cambiò in quell’anno. I movimenti giovanili dei partiti democratici – quello comunista, ma non solo – erano sicuramente aggregazioni consistenti fin dai primi anni del dopoguerra. Anche il MSI ebbe sempre un seguito a livello giovanile. Ma erano soprattutto le parrocchie a raccogliere i giovani sotto le più diverse forme organizzative. Nel corso del decennio dal 1960 al 1970 però cambiarono profondamente i costumi e i comportamenti giovanili; non solo a confronto con la generazione dei padri e delle madri, quella che aveva vissuto la guerra, ma forse in modo ancora più marcato a confronto con la generazione immediatamente precedente, quella nata durante la guerra o appena dopo. Le mode importate dall’estero, in particolare dall’Inghilterra, ebbero un peso decisivo: soprattutto la musica, ma anche l’abbigliamento, le occasioni di incontro, l’utilizzazione dei mass-media. Per quanto riguarda i giovani cattolici incise a fondo il rinnovamento fatto intravedere dal Concilio. Sia i giovani cattolici che quelli di sinistra trovarono nel tema della pace un elemento comune di interesse, sul quale comunque ancora non riuscivano a incontrarsi, e frequente per loro cominciava a essere il riferimento al movimento pacifista e per in diritti civili in USA. La guerra nel Vietnam, ma anche l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, furono avvertite come rotture dell’impegno di pace che era seguito alla sconfitta dei fascismi e che mostrava invece, nella logica della “guerra fredda”, tutta la sua precarietà e il suo inganno.

Volendo indicare avvenimenti significativi, viene da pensare alle iniziative di solidarietà dopo l’alluvione del 1966: gli interventi assistenziali delle parrocchie, il recupero dei libri della biblioteca. Personalmente ricordo molto bene Roberto Ferretti in divisa da boy scout (AGESCI) impegnato a regolare il traffico dei soccorsi nel Viale Matteotti, ancora invaso dal fango. Non fu ovviamente come a Firenze, ma il clima era quello. Una forte eco aveva avuto nell’aprile di quell’anno l’uccisione a Roma dello studente Paolo Rossi ad opera dei fascisti, in seguito a cui i giovani comunisti tentarono anche a Grosseto una mobilitazione nelle scuole superiori.

Intanto gruppi di cattolici cominciarono ad avere momenti di aggregazione esterni alle parrocchie, che resero possibile la lettura collettiva di testi inusuali, come ad esempio “Lettera a una professoressa” e facilitarono rapporti con realtà già più vivaci di altre città. Mentre a sinistra fu il PSIUP a raccogliere le inquietudini giovanili che cominciavano a orientarsi verso una rottura della tradizione resistenziale ormai ingessata e verso una distinzione rispetto alla gestione pluridecennale del potere locale, da cui invece i giovani comunisti, più fedeli generalmente ai costumi familiari, facevano fatica a staccarsi.

E fu dunque il ’68.

Fu, anche a Grosseto, il Sessantotto degli studenti. Contatti con i giovani lavoratori li mantennero i circoli comunisti e in futuro il PCI ne avrebbe tratto frutto.  Fu però nelle scuole, ben prima che nelle sezioni di partito e nelle federazioni giovanili, che si fece sentire forte il vento della rivolta, alimentato dal maggio francese, ma anche da quanto stava accadendo nelle università italiane, a Roma, a Pisa, quindi dagli avvenimenti praghesi e dalle notizie che giungevano da oltre oceano, in particolare l’uccisione di M.L.King.  Gli elementi più ricettivi si accorsero che il loro cerchio poteva allargarsi con una facilità che sarebbe stata inimmaginabile solo qualche mese prima. Si resero conto che, nonostante la denuncia di Don Milani contro la scuola di classe, la scuola media superiore era ora frequentata da molti studenti che non provenivano da ceti sociali privilegiati e erano ormai disposti a opporsi alla borghesia che, spalleggiata da un ceto professorale conformista quando non apertamente reazionario, fino ad allora vi aveva spadroneggiato: con i suoi pregiudizi, il suo perbenismo, la sua ipocrisia condita di cattolicesimo pre-conciliare, i suoi ridicoli riti goliardici. All’interno della stessa borghesia del resto, quella colta, delle professioni, la frattura generazionale era ormai in atto.

A questo punto ci sarebbe bisogno di un affinamento e di una precisazione della cronologia, perché gli avvenimenti si susseguirono rapidamente[6]. Ci fu l’occupazione del Liceo classico, che è l’episodio più spesso ricordato; ma ci fu anche una serie di assemblee al Liceo scientifico molto partecipate, convocate su documenti politici elaborati autonomamente dai promotori dell’agitazione; la manifestazione per Jan Palach, indetta dalla destra sotto lo sguardo benevolo dei fascisti e poi condotta dagli studenti di sinistra, a costo di qualche scontro fisico; ci furono altre manifestazioni di piazza e un’occupazione dell’Istituto professionale, alla quale tentarono senza successo di partecipare anche studenti di altre scuole. Nel novembre 1969 ci fu una grossa partecipazione studentesca alla manifestazione indetta dai sindacati in occasione dello sciopero generale per la casa.  Iniziarono inoltre riunioni politiche pomeridiane nella sede del Teatro sperimentale a cui partecipò anche qualche studente universitario. L’iniziativa spontanea nelle scuole era sostenuta in vario modo, sia pure con qualche titubanza, dalla FGCI, ma l’orientamento politico veniva soprattutto dal gruppo giovanile del PSIUP. Si può aggiungere che alcuni volantini per gli scioperi furono ciclostilati nella sede dell’Azione cattolica. Intanto andava coagulandosi un gruppo anarchico, che niente aveva a che fare ovviamente con l’anarchismo storico maremmano da tempo esauritosi.

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Servizio d’ordine a una manifestazione della sinistra rivoluzionaria

Un passaggio importante, che meriterebbe di essere ricostruito con documenti e testimonianze (non impossibili da trovare), fu la stroncatura sul nascere, da parte del PCI locale, del tentativo di costituire un nucleo della frazione del Manifesto, espulsa, a livello nazionale, dal partito. Il gruppo che si ritrovava al Teatro sperimentale aveva infatti un contatto diretto a Roma con quella frazione attraverso un elemento proveniente dal PCI locale che sembrava possedere tutti i requisiti di un leader. Sta di fatto che questa persona sparì da un giorno all’altro e non fu più vista in città. Si disse che aveva trovato (“gli avevano trovato”) lavoro altrove. In tal modo il pericolo che il PCI più temeva, una scissione locale del partito, fu scongiurato e per qualche tempo il Manifesto non fu presente a Grosseto. Si ripresentò dopo qualche anno ad opera di studenti universitari che però svolgevano a Grosseto solo un’attività sporadica.

Se qualcuno pensò di aver arginato in questo modo il movimento, dovette presto ricredersi. I giovani psiuppini che nel panorama locale avevano mostrato di essere i più sensibili ai segnali che provenivano dai movimenti studenteschi universitari e soprattutto dal Potere operaio pisano, cominciarono a sentirsi stretti nel loro partito. Ben presto costituirono un gruppo autonomo (il Gruppo di Azione Operaia, GAO) che, attenuando l’interesse verso gli studenti, tentò interventi nelle fabbriche di confezioni e abbigliamento che allora esistevano in città, andando incontro anche a denunce e processi. L’unico che rimase infine nel PSIUP, con il ruolo di funzionario stipendiato, fu Roberto Ferretti.

I cattolici furono posti di fronte all’incompatibilità dell’attività nel movimento studentesco con la permanenza nelle organizzazioni ufficiali della chiesa, con la conseguenza dell’abbandono di queste ultime da parte dei nuclei più attivi, dai quali scaturirà un gruppo cristiano interconfessionale che manterrà una continuità per tutti gli anni settanta e una presenza militante nelle organizzazioni locali della sinistra, con un riconoscimento anche esterno alla provincia attraverso i Cristiani per il socialismo e le Comunità cristiane di base.

Il movimento nelle scuole superiori si trovò di fronte alla difficoltà del ricambio dei nuclei che lo avevano diretto: terminato il ciclo di studi superiori, questi si trasferivano nelle sedi universitarie interrompendo ogni contatto. Soltanto un gruppo di studenti del liceo classico continuò a incontrarsi, per lo più in abitazioni private e al di fuori di qualsiasi riferimento a organizzazioni politiche, per studiare i classici del marxismo.

Lo stallo del movimento studentesco poteva essere superato solo con l’intervento di organizzazioni dotate di una certa stabilità. La FGCI non era ancora in grado di svolgere questo ruolo, perché fortemente condizionata dalla diffidenza mostrata dal partito verso le agitazioni giovanili; diffidenza che a livello nazionale, fu soltanto attenuata dall’incontro avuto da Longo nel 1968 con i principali esponenti del movimento studentesco romano, allora non ancora strutturato nelle diverse organizzazioni che di lì a poco si sarebbero costituite. Si presentò quindi (inverno 1971/1972) un’organizzazione (Lega dei comunisti) che aveva la sua base a Pisa e derivava dalla scissione (e scioglimento) del Potere operaio avvenuta all’indomani dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)[7]. Non fu tanto quel drammatico avvenimento a portare a conclusione una delle esperienze più significative del Sessantotto italiano, quanto piuttosto l’esasperazione di preesistenti divergenze ideologiche, dalle quali parve allora di non poter prescindere, nella ricerca quasi spasmodica di un’alternativa anche ideologica al PCI, che avesse definitivamente ragione del “riformismo” irrimediabile di quel partito. Parve inevitabile la separazione tra quanti confidavano esclusivamente sulla spontaneità rivoluzionaria, prima degli studenti, poi anche degli operai e quanti invece ritenevano che tale spontaneità dovesse trovare un orientamento strutturato, dunque un’organizzazione in grado di incidere politicamente sulla realtà. La nuova organizzazione si valse a Grosseto dell’attività militante non più saltuaria di studenti universitari e si rivolse in primo luogo a consolidare una base tra gli studenti delle superiori, a cominciare dai più giovani. Raccolse immediatamente, con poche eccezioni, ciò che rimaneva del GAO e sviluppò un intervento di agitazione nelle scuole aperto a tutti, anche agli appartenenti a altri gruppi e organizzazioni, ad eccezione dei fascisti, i quali comunque non di rado si mostrarono disposti a rinnegare i propri trascorsi per partecipare al movimento. Ci fu il tentativo di orientare politicamente il ribellismo giovanile, ancora molto forte, a partire dai bisogni materiali degli studenti, incoraggiando una pratica di partecipazione e di democrazia, che presto acquistò ampia visibilità nelle scuole (senza distinzioni ormai tra licei e istituti tecnici) e divenne maggioritaria nel movimento. Si cercò anche di valorizzare e vivacizzare l’antifascismo tradizionale, facendo partecipare comandanti partigiani, come ad esempio Angiolino Rossi (Trueba), alle assemblee scolastiche.

Il consolidamento delle organizzazioni politiche giovanili era del resto una tendenza generale e portò anche a Grosseto a un chiarimento anche nelle posizioni individuali. Di conseguenza la stessa FGCI si rafforzò notevolmente, raccogliendo anche militanti vicini in precedenza alle posizioni che quell’organizzazione definiva “estremiste”. Comparve in seguito anche Lotta continua, che a Pisa aveva rappresentato la parte maggioritaria uscita dalla scissione del Potere operaio e costituiva appunto l’ala “spontaneista” del movimento, pur dotandosi presto anch’essa di strutture organizzative sempre più consistenti. La presenza di altre organizzazioni che rappresentavano ormai un riferimento per la base studentesca impedì che Lotta continua avesse a Grosseto un ruolo decisivo, come invece ebbe nelle maggiori città italiane, dove la sua visibilità divenne spesso preponderante. Nessuna altra organizzazione, a parte talvolta il piccolo gruppo anarchico, svolse attività politica tra gli studenti.

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

La Lega dei comunisti si pose ben presto l’obiettivo di un intervento operaio, attraverso volantinaggi di fronte ai luoghi di lavoro e la costituzione di nuclei di fabbrica. Problema questo che la FGCI risolveva facilmente potendo contare sulla solida base operaia del PCI, mentre il PDUP (il resto del PSIUP non confluito nel PCI e unitosi in seguito con il Manifesto) puntava a allargare la sua presenza tradizionale nel sindacato, riuscendo effettivamente a raccogliere numerosi militanti nelle categorie della scuola, dei bancari, dei metalmeccanici e dei postelegrafonici. Neppure la Lega dei comunisti, del resto, era più ormai un’organizzazione esclusivamente studentesca: alcuni dei suoi membri assunsero ruoli dirigenti nella cosiddetta sinistra sindacale. Si può ricordare, a questo proposito, la partecipazione degli studenti grossetani all’occupazione delle miniere amiatine, da cui derivò una grossa manifestazione di operai e studenti a Grosseto, che colse di sorpresa la segreteria della Camera del lavoro.

*La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la prossima settimana QUI

NOTE

(*) Ringrazio Stefania Cecchi, Silvia Guerrini, Marco Turbanti e Pier Francesco Minnucci delle osservazioni e dei consigli che mi hanno dato e di cui ho tenuto conto per stendere questa breve nota. La responsabilità di ciò che ho scritto è però soltanto mia. Grazie anche a Luciana Rocchi, Antonella Piani e Barbara Solari che l’hanno letta prima della pubblicazione.

[1] Si consideri però questa riflessione di Luigi Ferrajoli: “È utile ricordare che in Italia, negli anni del terrorismo, su una cosa tutti concordammo – destra e sinistra, critici e difensori delle leggi dell’emergenza -: nel negare ai terroristi lo statuto di belligeranti e perciò nel rifiutare la logica di guerra che i terroristi volevano imporre al nostro paese” (L.Ferrrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, bari, 2019, p. 278, n. 23).

[2] Ma anche dell’antropologo. Va da sé che poeti e romanzieri, gli artisti in genere, si attengono a ben diversi, del tutto legittimi, codici deontologici.

[3] Il riferimento d’obbligo, dal punto di vista sia concettuale che metodologico, è: Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.

[4] Bella e coraggiosa la rievocazione di una vicenda familiare grossetana degli anni Settanta proposta recentemente da Vanessa Roghi (Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia comune di eroina, Laterza, Bari, 2018), che tuttavia presenta un’immagine parziale e non del tutto attendibile dell’ambiente locale, delineato unicamente sulla scorta di poche testimonianze e scarsi e discutibili riscontri documentali. 

[5] Luciana Rocchi-Stefania Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci, Roma, 2004. Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell’Italia del secondo Novecento, ESI, Napoli, 2012.

[6] La necessità di un’ulteriore messa a punto cronologica si ricava anche dalla lettura, peraltro di notevole interesse, del contributo postumo di Roberto Ferretti, apparso di recente a 34 anni dalla scomparsa dell’autore (Roberto Ferretti, Contestazione studentesca: il Sessantotto a Grosseto, in: Il ’68 in Maremma, a c. di Flavio Fusi e Paolo Nardini, Effigi, Arcidosso, 2018). Sembra purtroppo che i documenti a suo tempo utilizzati (sia pure senza riferimenti puntuali) per la stesura, siano andati irrimediabilmente perduti.

[7] Già dalla primavera precedente i collettivi di studio, che si riunivano in abitazioni private, erano orientati, nell’intenzione, almeno, di alcuni militanti alla costituzione di questa organizzazione, che aprì la sua sede, nel centro cittadino, nel mese di settembre 1971. Fu la prima sede a Grosseto di un gruppo di “nuova sinistra”, o “sinistra rivoluzionaria”, o “sinistra extraparlamentare”, come allora preferibilmente era definita.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Lo sviluppo delle case “popolari ed economiche”

Evoluzione della cultura dell’edilizia popolare ed economica.
Il concetto di edilizia popolare viene da lontano, con caratteristiche legate alle condizioni contingenti della Repubblica Italiana; si caratterizza, ora come supporto alle condizioni economiche della popolazione, ora come incentivo alla ricostruzione dopo le devastazioni delle guerre, ora come azione integrata nel risanamento e recupero di parti del territorio urbano degradato. La legge del 1942 nasce in periodo bellico e di lì a poco la ricostruzione diventerà un torrente in piena la cui rapidità e diffusione renderà quasi del tutto inefficaci i complessi meccanismi amministrativi previsti, spalancando le porte ad un processo di speculazione inarrestabile.
I primi interventi dopo la legge del ’38 sono i due edifici in via Ferrucci che nel 1946 si chiamava via Campo Marzio. A questi seguono quelli di viale Matteotti e di viale Italia.  Verso la metà degli anni ’40 inizia a formarsi una tipologia insediativa più caratterizzata: quella dei cosiddetti Villaggi. Si rafforza anche una concezione nefasta per la vita delle città: quella degli “alloggi per…” quindi della concentrazione nello stesso ambito urbano di categorie sociali omogenee.
È da rilevare come la cultura architettonica rimanga ancora largamente ai margini di queste realizzazioni. Nel 1956 viene completato il programma per realizzazione dei 41 edifici ai margini della via Pagliucola, le “Casermette”. Negli anni successivi viene realizzato, lungo la via Ombrone Vecchio, il Villaggio di Castel de Luci, per un totale di 37 alloggi. Di seguito saranno realizzati 19 alloggi in località Sei Arcole. Con finanziamento specifico sarà promossa l’eliminazione delle “case malsane”. La realizzazione dei Villaggi prosegue: nel 1958 viene completato il Villaggio di via Sestini, un piccolo quartiere dormitorio costituito da 32 alloggi.
Dopo il completamento delle Casermette, l’IACP, nel 1957, inizia la trattativa per l’acquisto delle aree tra la via Dalmazia e la via di Valdibrana. Con questo complesso residenziale inizia una nuova configurazione dello spazio urbano: non più un sistema residenziale fine a se stesso ma un vero e proprio quartiere, dotato dei servizi e delle attrezzature che caratterizzano i centri urbani. Queste caratteristiche rappresenteranno un
1 Legge n. 640/1964. Provvedimenti per l’eliminazione delle case malsane valore nuovo per la città di Pistoia, che inizierà a manifestare i suoi effetti nel corso degli anni ‘60.
All’opera contribuiscono anche architetti di grande prestigio (Giovanni Michelucci, Leonardo Savioli…) anche se in alcuni casi
peseranno sugli abitanti carenze legate al confort abitativo, alla sicurezza, alla privacy. Ma saranno comunque rapporti umani a trarre da questa esperienza urbanistica i frutti migliori. La consegna di buona parte degli alloggi avviene sostanzialmente in modo simultaneo intorno al 1960-61. Per i giovani risiedere al Villaggio Belvedere rappresenta un tratto identificativo importante. Nel villaggio il tenore di vita non è mai caratterizzato dal disagio ed il lavoro è in valore diffuso, con una buona parte dei residenti occupata alle officine San Giorgio. La stessa caratterizzazione in “villaggio di sopra” e “villaggio di sotto” sarà una delle basi dialettiche per capire i differenti modi e motivi di aggregazione sociale caratteristici degli anni sessanta: patrimonio del quale, nei decenni seguenti, mancheranno una attenta valutazione ed una adeguata valorizzazione.
Dal Villaggio Belvedere sono scaturiti giovani motivati: molti laureati, professionisti, artisti, a riprova del fatto che la diversità, unita al desiderio di integrazione e di comunità, possono produrre quella qualità sociale ed umana che rappresenta l’unico vero supporto alla
convivenza ed allo sviluppo in una società civile.

Maurizio Lazzari, architetto e autore di saggi e articoli di storia dell’architettura, è membro della redazione della rivista “Farestoria” dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Storia di una memoria. Il settantacinquesimo anniversario dell’Eccidio del Montemaggio.

75 anni fa, il 28 marzo 1944, un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Siena, comandata da Renato Billi e Alessandro Rinaldi, attaccò un gruppo di partigiani a casa Giubileo (nel Comune di Monteriggioni) uccidendone uno in combattimento e fucilando, poco dopo, diciotto prigionieri; dell’episodio ci fu un unico superstite, Vittorio Meoni, che riuscì a salvarsi in modo rocambolesco.

Proprio Meoni, venuto a mancare lo scorso anno, in questo lungo periodo, è stato il testimone ma anche il custode di una memoria divenuta esemplare[1] fin dall’azione che la generò.

In particolar modo la fucilazione dei prigionieri (a parte quella del partigiano Giovanni Galli, rimasto ferito durante il conflitto a fuoco e finito sul posto dai fascisti che non tentarono in nessun modo di prestare soccorso) si rivelò un atto calcolato e pianificato a sangue freddo. Una serie di indizi, che vennero ampiamente valutati durante il processo, celebrato tra il 1947 ed il 1949, denunciò in modo inequivocabile la premeditazione dell’Eccidio. Innazitutto il lasso temporale: i partigiani vennero catturati intorno alle otto del mattino; la fucilazione avvenne alle quattordici; ci fu quindi tutto il tempo di prendere ordini dal Prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco (difficilmente l’esecuzione sarebbe avvenuta senza il suo benestare), ma anche di predisporre un eventuale trasferimento dei prigionieri in carcere in attesa di processo.

Altro ancora: l’accuratezza della scelta del luogo. Casa Giubileo venne scartata subito, lo stesso si verificò per la località di Campo ai Meli. Il motivo fu probabilmente la presenza di testimoni: entrambi questi luoghi, case coloniche, erano abitati e passare per le armi anche due intere famiglie di civili fu, probabilmente, valutato inopportuno. La scelta cadde pertanto su La Porcareccia, una radura isolata sulla strada che risaliva da est il Montemaggio partendo da Abbadia Isola.

Racconta Vittorio Meoni che, all’arrivo delle vittime, la piazzola con la mitragliatrice e un drappello di militari erano già stati predisposti: il successivo ordine di sedersi e di togliersi le scarpe non lasciò adito a dubbi[2].

Dopo la fucilazione i cadaveri vennero lasciati sul posto per più di un giorno (furono raccolti soltanto la mattina del 30) e il prefetto di Siena rifiutò il permesso, richiesto dalle famiglie per mezzo della mediazione di un sacerdote, di riesumare i corpi dalla fossa comune dove erano stati frettolosamente seppelliti. Soltanto cinque giorni dopo si procedette alla riesumazione, al riconoscimento e alla traslazione delle salme nel camposanto di Castellina Scalo[3].

Immediatamente dopo la tragedia iniziò a strutturarsi la memoria dell’evento.

IMG_1271La notizia divenne di pubblico dominio ma seguì due canali diversi, quello ufficiale delle autorità fasciste le quali, in un primo momento, dichiararono che i partigiani erano morti nel conflitto a fuoco (versione diffusa dai giornali del Regime e più volte cambiata), e quello spontaneo legato alla rete dei familiari e dei conoscenti dei caduti; quest’ultima tradizione fu considerata senz‘altro più degna di fede per una serie di ragioni, prima fra tutte quella emozionale; in secondo luogo, in un territorio come quello senese, dove la maggioranza della popolazione viveva e lavorava in campagna e dove tante famiglie  nascondenvano un parente o un amico renitente alla leva, il fatto che tutte le vittime fossero giovani nonché di umile estrazione (a parte una, le altre erano contadini e operai)  fece sì che in moltissimi considerassero particolarmente vicina la tragedia.

La condanna fu pressoché totale e già un anno dopo, a liberazione avvenuta ma ancora a guerra in corso (28 marzo 1945), un gran numero di persone, spontaneamente, si recò a Casa Giubileo e alla Porcareccia per ricordare e rendere omaggio ai caduti che nel frattempo avevano assunto una sorta di sacralità e avevano ottenuto la definizione di martiri.

Altra tappa fondamentale per la costruzione della memoria dell’Eccidio fu la celebrazione del processo che portò alla sbarra Chiurco, Rinaldi e altri ottantuno imputati. Le testimonianze degli accusati furono incongruenti, contrastanti e chiaramente finalizzate a dimostrare l’estraneità dei singoli rispetto al gruppo dei carnefici[4], mentre il testimone chiave dell’accusa, Vittorio Meoni, si dimostrò preciso ed esauriente, riconoscendo, tra l’altro, molti militi del plotone d’esecuzione. La ricostruzione puntuale, la chiarificazione delle dinamiche e l’individuazione dei protagonisti fornì una grande mole di dettagli nuovi, fino a quel momento sconosciuti, che si saldarono nell’immaginario della popolazione locale dell’epoca.

Il processo, alla lunga, si concluse con un nulla di fatto (come del resto tutti gli analoghi procedimenti intentati in quegli anni contro i criminali di guerra italiani); in primo grado  per trentaquattro imputati si aprirono le porte del carcere con pene variabili dall’ergastolo ai dodici anni di reclusione, ma in seguito all’amnistia e al successo delle istanze presentate in cassazione, ben presto tutti i protagonisti dell’eccidio della Porcareccia vennero scarcerati[5].

Nonostante l’impunità, la memoria si era tuttavia istituzionalizzata: la neonata Repubblica, dopo il ventennio fascista, aveva bisogno di nuove radici morali e queste passavano anche attraverso gli eccidi e i massacri commessi dai nazifascisti sul nostro territorio[6]; per tale ragione l’anniversario dei fatti del Montemaggio, a partire dalle prime manifestazioni spontanee della primavera 1945, divenne un appuntamento fisso con i propri simboli (il tronco d’albero tagliato a metà, emblema delle vite giovani stroncate con la violenza, i gonfaloni dei comuni di provenienza dei martiri), un inno (O bella ciao!) un cerimoniale e un cerimoniere di indiscusso prestigio (lo stesso Vittorio Meoni).

Parallelamente alla fine della generazione che aveva vissuto e subito il drammatico periodo degli eventi dittatoriali e bellici  si ebbe l’avvento della Seconda Repubblica e, con questo, le radici morali e memoriali dell’età precedente vennero rimesse in discussione da una parte dei protagonisti della nuova classe dirigente. Anche la memoria periferica non fu immune da questa sorta di revisione che ai nostri giorni sta investendo, in modo indiretto, anche il ricordo della tragedia del Montemaggio. Mi riferisco in particolar modo al tentativo di riabilitare  il principale responsabile, ossia il Prefetto fascista di Siena, Giorgio Alberto Chiurco.

L’operazione  è visibilmente campata per aria poiché va contro decenni di ricerche senza presentare alcuna prova né nuova né tantameno decisiva, pertanto non è finalizzata in alcun modo a influenzare la comunità scientifica. L’obiettivo è un altro, ossia riscrivere la storia del fascismo italiano  trasformandolo, da dittatura violenta e sanguinaria che fu, a vittima degna di rispetto; ma tale operazione, oltre che contro la storia, intesa come disciplina legata a una rigorosa  metodologia scientifica è, con tutta evidenza, una mina vagante contro quella forma di memoria che costitusce il fondamento stesso della nostra Democrazia.

 

[1]Sul concetto di memoria esemplare cfr TODOROV T., Gli abusi della memoria, Miliano, Meltemi, 2018, p.63 e ss.
[2]MEONI V., Memoria su Montemaggio, Siena, Pistolesi, 2003, pp.29 e ss.
[3]ELIA D.F.A., Montemaggio. Dall’Eccidio al processo, Bari, Laterza, 2007, pp.142-143.
[4]Archivio I.S.R.S.E.C. Vittorio Meoni, Processo Chiurco, Verbali di dibattimento novembre 1947.
[5]ORLANDINI A. – VENTURINI G., I Giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Milano, La Pietra, 1983, pp.43-46.
[6]Cfr TODOROV T., Gli abusi …, op. cit., p.71

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.
Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.



I profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto

Il progetto “Per la storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento” della Regione Toscana (2017-2018)

Dalla prima applicazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, avvenuta nel 2004, la Regione Toscana fu tra le prime in Italia a prendere a cuore il diritto a una cultura storica per la scuola su temi che entrarono da allora nel calendario civile nazionale. Così hanno cominciato ad entrare in classe le storie e le memorie dolorose del confine più difficile del Novecento italiano, a lungo rimaste patrimonio quasi esclusivamente locale. Gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole hanno insegnato gli uni, imparato gli altri la complessa storia del confine orientale “laboratorio della storia del Novecento”; si sono avviati verso la conoscenza dei luoghi delle foibe istriane e giuliane, di un sistema concentcover_summerrazionario ologramma delle violenze del Novecento, del lungo esodo delle popolazioni istriano-dalmate. Hanno intravisto gli spostamenti di un “confine mobile” e il lungo periodo di gestazione delle violenze, partorite da nazionalismi, guerre, forme di razzismo.

Nel 2017 un progetto sperimentale, frutto della collaborazione tra Regione Toscana, rete degli istituti storici toscani della Resistenza e dell’età contemporanea e Ufficio scolastico regionale, ha promosso un intervento sistematico: Summer school per insegnanti di scuola superiore, selezionati tramite bando, in preparazione del viaggio di un piccolo gruppo di studenti nei luoghi di memoria dell’area giuliana e istriana, preceduto e seguito da altre iniziative di formazione. La conoscenza storica ha un duplice valore, quando si trattano temi di tale delicatezza: è sapere ed educazione alla cittadinanza. Il programma della Summer school ha posto al centro eventi solo in apparenza racchiusi in un tempo breve e in un territorio limitato, ma appartenenti a una storia europea di lungo periodo. Un sovrappiù di valore è dato a questa iniziativa dal rilievo che hanno assunto, tra la fine del secolo scorso e il tempo presente, la riproposizione di violenze nell’area balcanica e, più recente, la questione dei confini tra popoli, Stati, culture.

Un ulteriore seminario formativo si è avuto a Siena (novembre 2017), nel corso del quale sono intervenuti il Presidente Antonio Ballarin ed esponenti della Federazione italiana degli esuli istriano-fiumano-dalmati. fra cui Marino Micich, Direttore dell’Archivio museo storico di Fiume. Altri ne seguiranno nei prossimi mesi.cover viaggio

Dal 12 al 16 febbraio 25 insegnanti e 52 studenti, accompagnati da rappresentanti della regione Toscana e della rete degli istituti storici toscani della resistenza, saranno sui luoghi del Confine. Redipuglia, Trieste, Gonars, Basovizza, Padriciano, Fiume, Albona e Fossoli saranno le importanti tappe di un viaggio durante il quale studenti e docenti avranno modo di incontrare studiosi e testimoni e di confrontarsi con studenti italo sloveni.

L’Istituto storico di Grosseto lavora sul Confine orientale da 14 anni. A una prima pubblicazione di materiali didattici sono seguiti convegni, eventi, ricerca. Ha organizzato, sempre per conto della Regione Toscana, un primo viaggio per un piccolo gruppo di insegnanti toscani nel 2009, narrato nel documentario “La nostra storia e la storia degli altri. Viaggio intorno al confine orientale“, e una mostra con lo stesso titolo che è stata esposta in tutta Italia (a Grosseto per ben due volte nei locali della Prefettura) e che si avvale dal febbraio 2017 di un catalogo bilingue, curato da Luciana Rocchi. Ultima pubblicazione, l’ebook del 2017 liberamente consultabile con gli esiti della ricerca pluriennale di Laura Benedettelli sui profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto.

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L’esodo dalle terre di confine.

L’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati, a differenza di quanto accadde per altre popolazioni di confine al termine del secondo conflitto mondiale, non fu la conseguenza di formali provvedimenti di espulsione, ma il frutto di una scelta, talvolta compiuta in forma ufficiale ricorrendo all’esercizio del diritto di opzione, previsto prima dal Trattato di Pace del 1947 e poi dal Memorandum di Londra del 1954, tal altra sul piano di fatto mediante il ricorso all’espatrio clandestino. Quello che avvenne nell’area dell’alto Adriatico fu comunque un fenomeno di espulsione di massa dovuto non a precise leggi, ma a forti pressioni ambientali che si erano venute a creare verso gli italiani e che ebbero di fatto la stessa efficacia di un decreto di espulsione.images

Le partenze dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia iniziarono prima della fine del II conflitto mondiale e della firma del Trattato di pace: da Zara avvennero quando la guerra era ancora in corso, sotto la spinta dei bombardamenti alleati; da Albona, Cherso, Veglia, Lussino e, in genere, dalle località dell’Istria meridionale, dove l’annessione alla Jugoslavia apparve più probabile, i profughi partirono con mezzi di fortuna sin dall’estate 1945. Fu però proprio in seguito alla firma del Trattato di pace che il fenomeno assunse carattere di massa.

fdr12gL’abbandono di questi territori, inoltre, non avvenne in un periodo di tempo limitato, ma si presentò come un fenomeno di portata temporale abbastanza lunga, superiore ai dieci anni, che ha portato a parlare di un “lungo esodo” e, secondo alcuni storici, di “esodi”, per distinguere le diverse fasi di uno stesso fenomeno migratorio, le cui varie ondate sono riconducibili a eventi precisi.

Un primo spostamento di popolazione si ebbe infatti a partire dal 1943, cioè nel momento in cui si verificò la prima ondata di infoibamenti nel centro dell’Istria, per poi riprendere nel 1945, quando, dopo che la IV Armata jugoslava nel mese di maggio aveva occupato Trieste, Gorizia e Fiume, si verificò una seconda ondata di infoibamenti, che spinse molte altre persone ad abbandonare le città.

La firma dell’accordo di Belgrado, che stabilì la linea Morgan fu un ulteriore momento in cui molti italiani decisero di abbandonare le località temporaneamente assegnate alla Jugoslavia, che in pratica considerava tali territori come annessi di fatto. Vi era comunque chi nutriva ancora la speranza che, con la definizione del Trattato di pace, queste terre tornassero a tutti gli effetti sotto l’Italia, ma quando tali speranze vennero definitivamente annientate si verificò una ripresa dell’esodo che si protrasse per più anni.image_gallery

L’esodo, come spiega anche Guido Crainz, fu dunque in stretto rapporto con questo alternarsi di speranze e delusioni che accompagnarono gli anni in cui le potenze definirono a tavolino i confini e quando i confini furono definitivamente decisi e impressi sulla carta, nero su bianco, l’esodo non ebbe più freni.

Furono migliaia i profughi che, partiti dalle tante località poste al di là del confine, vennero ospitati nei Centri di Smistamento, per poi approdare, per uno o più anni, nei Centri di Raccolta Profughi, prima di trovare una sistemazione definitiva.

Un problema con il quale dovettero confrontarsi i profughi a fine guerra fu quello molto complesso del riconoscimento delle cittadinanze, per cui si rese necessario inserire nel testo del Trattato di pace delle norme che riguardavano proprio la “gestione delle cittadinanze”.

0007179L’Articolo 19 del Trattato riguardava espressamente i cittadini italiani e prevedeva che sarebbero diventati automaticamente cittadini jugoslavi tutti coloro che, al 10 giugno 1940, fossero stati domiciliati nel territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, clausola che valeva anche per i figli nati dopo quella data. Essi avrebbero pertanto perso la cittadinanza italiana e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini dello Stato subentrante, cioè della Jugoslavia. La cosa interessò le migliaia di italiani che erano nati e che vivevano da sempre in queste zone o che vi si erano recati per motivi di lavoro.

Proprio per ovviare a questo problema e concedere una libertà di scelta, il Trattato prevedeva che lo Stato al quale il territorio era stato trasferito, la Jugoslavia, avrebbe dovuto predisporre, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato stesso, perché tutte le persone di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, sia al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua d’uso fosse l’italiano, avessero la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso. Le persone che avessero optato in tal senso avrebb2h3v5hvero potuto così conservare la cittadinanza italiana. La Jugoslavia, alla quale il territorio era stato ceduto, poteva esigere, come di fatto avvenne, che coloro che si avvalevano del diritto di opzione si trasferissero in Italia entro un anno dalla data in cui questo era stato esercitato.

Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva dunque il diritto di opzione: optare significava scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significava di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significava in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo.

L’arrivo dei profughi a Grosseto.

Come riportato da Amedeo Colella in L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, in Toscana, dove erano stati organizzati 10 tra campi profughi e Centri di accoglienza, arrivarono 6.074 profughi, di questi 252 giunsero nella provincia di Grosseto.

Qui, dove non era stata allestita nessuna struttura, l‘arrivo dei profughi avvenne nel corso di un periodo abbastanza lungo che andò dal 1943 al 1975, due gli anni che registrarono la maggiore affluenza: il 1946, con 41 arrivi, e il 1955 quando si registrarono 57 arrivi. Molti di loro erano transitati dal Centro Smistamento di Udine e dai Centri di Raccolta di Servigliano (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi di Fermo) e di Laterina, in provincia di Arezzo.

Centro Raccolta Profughi di PadricianoDei profughi arrivati nella nostra provincia 110 abitarono, per periodi più o meno lunghi, a Grosseto, dove molti profughi di seconda generazione risiedono ancora, a cui andarono ad aggiungersi altri 14 che, inizialmente residenti in altri comuni della provincia, dopo pochi anni si trasferirono nel capoluogo. Contemporaneamente avvennero anche alcuni trasferimenti in senso inverso, cioè dal capoluogo verso le varie località della provincia. Dopo Grosseto, le località verso le quali si indirizzarono in misura maggiore furono Massa Marittima, Ribolla, Follonica, Orbetello e Roccastrada.

Lo Stato si preoccupò abbastanza presto di precisare chi dovesse essere definito “profugo”.

Una delle prime circolari che vennero inviate ai Sindaci dei vari Comuni fu la n.892 del 28 novembre 1944 che riassumeva le disposizioni che erano state emanate dall’Alto Commissariato per i Profughi di Guerra e che erano state indirizzate ai Prefetti delle varie Province. In essa si faceva espresso riferimento alla qualifica di profugo di guerra che al momento doveva essere attribuita solamente a coloro che in seguito ad orrendi eventi bellici si sono trovati nella necessità di doversi trasferire in luoghi diversi dalla loro abituale residenza o che per ragioni contingenti non possono farvi ritorno. A questa data pertanto ricevettero la qualifica di profugo di guerra tanto gli italiani che iniziarono ad abbandonare le zone del Confine orientale, sottoposte in questo momento alla pressione tedesca, quanto gli italiani costretti ad abbandonare le zone che dopo l’8 settembre 1943 e dopo gli sbarchi alleati nel sud Italia diventarono zone di operazioni di guerra.

Per quanto riguardava l’Assistenza a favore dei profughi, tra le varie disposizioni in materia, il 4 marzo 1952 venne promulgata la Legge n.137, che prevedeva, tra le altre cose, la riserva del 15% degli appartamenti costruiti dagli IACP ai profughi, dando la precedenza a quelli ricoverati nei Centri di Raccolta dipendenti dal Ministero dell’Interno e, successivamente, agli assistiti fuori Campo. In base a tale legge, a Grosseto vennero costruiti vari alloggi, tra questi il lavoro più significativo riguardò l’edificazione, in quella che oggi è Piazza Albegna, di un palazzo ancora presente nella piazza.1441878909-esulegiuliana

Il 22 luglio 1952, e quindi a quattro mesi dalla emanazione della Legge n.137, il Sindaco della città Renato Pollini (1951-1970) venne informato dal Prefetto che il Ministero dell’Interno aveva disposto la costruzione a Grosseto di un gruppo di abitazioni per la sistemazione dei profughi, per un totale di 100 appartamenti di varia ampiezza, pregava quindi di sottoporre al successivo Consiglio comunale la possibilità di cedere gratuitamente l’area necessaria. Non disponendo il Comune di terreni propri, questi dovevano essere necessariamente acquistati mentre, per quanto riguardava i servizi pubblici, il Comune poteva e doveva impegnarsi ad assicurarli. Venne costituito un Comitato cittadino che dette vita ad una sottoscrizione per raccogliere la somma occorrente per l’acquisto del terreno e il 12 ottobre il “Comitato cittadino pro-case profughi giuliani” fece pubblicare sulla Cronaca locale del “Tirreno” un primo elenco di sottoscrittori con le cifre donate, per un totale che al momento ammontava a £. 268.400. Venne individuato il terreno per la costruzione del palazzo in una zona allora lontana dal centro, posta tra la Chiesa di San Giuseppe Cottolengo e il Villaggio Curiel, sul prolungamento di Via della Pace, quella che in seguito avrebbe preso il nome di Piazza Albegna. La zona, allora del tutto incolta e caratterizzata da campi, era di proprietà dell’Ingegner Benedetto Pallini, che al tempo era consigliere comunale.

Il Ministero dei Lavori Pubblici inviò direttamente all’IACP di Grosseto una Circolare riguardante la costruzione degli alloggi che definiva anche la somma preventivata per la loro realizzazione: £ 48.000.000. Fu affidato all’IACP l’incarico di progettazione, esecuzione e contabilizzazione dei lavori occorrenti per la realizzazione del programma e vennero comunicate alcune “istruzioni” per dare uniforme e rapido corso all’attuazione del programma stesso.

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Pianta originale di una delle case del “Palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Il Progetto del fabbricato venne realizzato e firmato dall’Ingegner Gastone Saletti e porta la data del 28 febbraio 1953. Nel Fondo IACP sono conservati tutti i disegni del progetto, tra cui il prospetto principale e la pianta di un piano tipo. I 40 appartamenti, come si ricava dai disegni, erano formati dall’ingresso, il soggiorno con un terrazzino, una cucina ricavata in una rientranza del soggiorno (con lavello e cappa aspirante), una camera, un bagno (con lavandino, water e piccola vasca da bagno) ed erano di circa 60 – 65 metri quadrati.

I lavori principali per la realizzazone del fabbricato si svolsero dal novembre 1953 al novembre 1954 e la prima consegna degli alloggi avvenne il 24 maggio 1955.

Tali alloggi vennero destinati sia ai profughi che provenivano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ma anche a quelli arrivati dall’Albania e dalla Libia, tutti comunque assistiti nei Campi di Raccolta, ad eccezione di tre famiglie che arrivarono direttamente dalla zona B del territorio di Trieste.

Se quella di Piazza Albegna fu la costruzione che accolse contemporaneamente il numero maggiore di profughi, va ricordato che negli stessi anni vennero costruiti a Grosseto, dall’IACP e dall’INCIS, altri alloggi di edilizia popolare il cui 15%, in base alla Legge 137/1952, venne riservato ai profughi.

Il “palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Analogamente a quello che avveniva a Grosseto anche in altre località della provincia vennero realizzati degli appartamenti, in tutto 165, il cui 15% venne destinato ai profughi.

Queste le località interessate dagli interventi di edilizia popolare: Arcidosso, Casteldelpiano, Cinigiano, Follonica, Gavorrano, Manciano, Monterotondo Marittimo, Orbetello, Paganico, Pitigliano, Porto S. Stefano, Potassa, Puntone, Roselle, Santa Fiora, Selvena, Sorano.

Complessivamente, nel periodo 1953 – 1964, a Grosseto e in provincia vennero assegnati ai profughi più di 140 alloggi.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.