Stato sociale anni Cinquanta: le carte dell’ENAOLI di Rispescia

L’archivio della Fattoria-Scuola E.N.A.O.L.I. di Rispescia (GR) può essere definito,a buon diritto, un piccolo tesoro. La sua acquisizione da parte dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea si è rivelata essere, sin dal primo sondaggio sulle carte, una grande fortuna per la ricerca e il patrimonio archivistico del territorio grossetano: il fondo rischiava seriamente il disfacimento, anche fisico, essendo rimasto per lungo tempo nei locali dell’ex-Collegio dell’Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani di Rispescia senza alcuna cura. Grazie all’iniziativa dell’associazione degli ex-allievi, e della Direzione dell’Istituto grossetano, le carte sono pervenute nei locali di quest’ultimo, pronte per i primi sondaggi e la definitiva sistemazione archivistica.

La Scuola professionale di formazione agricola di Rispescia, e l’Azienda di produzione agroalimentare ad essa associata, vennero costruite ed organizzate su iniziativa del succitato Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani, ente di diritto pubblico istituito inizialmente già nel 1941 (legge n.987 del 27 giugno) dal regime fascista con l’intento di coordinare in modo organico l’assistenza alle famiglie dei caduti sul lavoro, successivamente riconfermato nella sua esistenza e nelle sue funzioni con il decreto n. 327 del 23 marzo 1948. L’Ente, con sede centrale a Roma e uffici periferici nei capoluoghi delle province in cui sorgevano o sarebbero sorte le strutture di accoglienza ed educazione, operava sotto l’egida del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale; il suo scopo precipuo era finalizzato all’educazione morale, civile e professionale – sino al diciottesimo anno di età – degli orfani dei lavoratori mediante l’istituzione e la gestione di collegi-convitti o il ricovero in strutture gestite da altri enti, all’interno delle quali avrebbe dovuto curare l’avviamento professionale e il collocamento degli orfani assistiti. L’attività dell’Ente sarebbe proseguita fino al 1977, anno in cui il d.p.r. n. 616 del 24 luglio ne avrebbe decretato la soppressione nell’ambito della più generale riforma sulle autonomie locali e sul decentramento dei poteri alle Regioni.

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Immagine della fattoria-scuola di Rispescia nel 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

I lavori di edificazione della fattoria-scuola di Rispescia, iniziati nel 1952, si conclusero nel 1955; la struttura poteva dirsi a regime a partire dal 1958, anno di completamento del primo ciclo scolastico. Fino al 1962 il piano formativo degli allievi prevedeva un ciclo scolastico post-elementare unico della durata di 6 anni; in quell’anno una generale riorganizzazione dell’assetto della Scuola professionale (nel frattempo elevata dallo Stato italiano a scuola pubblica con l’attestato finale fornito di valenza statale) avrebbe ridotto a 3 gli anni del ciclo post-elementare, introducendo 3 anni di Istituto professionale superiore. Fra il 1955 e il 1973 (stando ai dati raccolti nell’ambito di una ricerca interna compiuta in quell’anno), circa 650 ragazzi sarebbero stati ospitati a Rispescia: in maggioranza provenienti dal Sud e dalle Isole (molti dei quali trasferiti in Maremma da altri Istituti E.N.A.O.L.I. del Centro-Sud), in seconda battuta dalla provincia di Grosseto e più in generale dal Centro Italia; pochissimi i ragazzi provenienti dal Settentrione.

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I ragazzi dell’ENAOLI di RIspescia impegnati nell’azienda agraria, 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

Le carte dell’archivio acquisito dall’ISGREC presentano una ricchezza qualitativa ed una completezza quantitativa assolutamente straordinarie: esse ci restituiscono un quadro oltremodo particolareggiato e ricco di informazioni su tutta la vasta gamma di attività che caratterizzavano la vita quotidiana della Fattoria-Scuola di Rispescia. Le oltre 220 buste che lo compongono restituiscono un affresco interessantissimo sull’attività scolastica (cartelle personali degli allievi complete di pagelle, profili psicologici, informazioni anagrafiche e sul collocamento al lavoro), sulla conduzione del Convitto (contabilità della mensa, spese per l’alloggiamento degli orfani, acquisti della biblioteca e della discoteca ecc.), sull’Azienda di produzione annessa (piani annuali di produzione e colturali, contabilità, attività sperimentali come quella relativa ad un impianto metanifero attivo sin dal 1955 ecc.).  Il fondo contiene poi ancora serie particolarmente regolari sul personale (sia didattico che amministrativo), la corrispondenza istituzionale e privata della Direzione, e infine, ma non ultimo per importanza, il fondo bibliotecario dell’Istituto professionale che aspetta ancora uno spoglio approfondito.

L’ISGREC, facendo tesoro del contributo regionale nell’ambito del programma “Giovani Sì, ma consapevoli” 2014-2015, ha portato a compimento, al termine di un anno di proficua attività di spoglio e sistemazione delle carte, una fase di mappatura preliminare della consistenza archivistica del fondo E.N.A.O.L.I. che offre alla ricerca e alla consultazione uno strumento prezioso e già operativo. Questo fondo archivistico, così interessante e prezioso per la conservazione e l’indagine di un pezzo non secondario della storia di Grosseto e del suo territorio, attende pur tuttavia una prosecuzione delle operazioni di catalogazione e di eventuale ricondizionamento, che una realtà come quella grossetana, sommamente bisognosa di fare luce sul suo passato, merita senza dubbio alcuno.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




“Abbasso la guerra!”

Quando, con l’ “impresa” dell’ottobre 1911, il governo Giolitti dà il via alla conquista della Libia, sono molte le voci che esprimono con forza l’opposizione delle donne.

Come per esempio aveva ricordato Maria Goja in un articolo di “Su comapgne!”  del 1911 (vedi materiali correlati), le “donne d’Italia” si erano già mobilitate in occasione della “guerra d’Africa”, il tentativo di conquista dell’Etiopia culminato nella disfatta di Adua del 1896. Nelle manifestazioni popolari contro il governo Crispi e per il ritiro delle truppe dall’Africa, infatti, è massiccia la presenza delle donne, che indirizzano anche petizioni e proteste al parlamento.

L’emergere del protagonismo delle donne in questi due tragici momenti dell’‘avventura’ coloniale italiana non sarebbe forse possibile, tuttavia, se non fosse preceduto da una storia di crescita di pensiero e azione per la pace che inizia già nella seconda metà dell’800 e proseguirà, pur tra differenziazioni e defezioni, fino alla Prima guerra mondiale.

La Guerra di Libia

È all’inizio della Guerra Italo-turca nel 1911, tuttavia, che si determina in campo femminile una netta spaccatura, e mentre tra le emancipazioniste e pacifiste prevale lo spirito ‘patriottico’, socialiste e anarchiche restano le sole a rappresentare una dura e coerente opposizione alla guerra.

Nella redazione de La Difesa delle lavoratrici, diretta da Anna Kuliscioff, che inizia le pubblicazioni nel gennaio 1912, confluiscono, tra le altre, le più attive e riconosciute militanti socialiste: Angelica Balabanoff, Giselda Brebbia, Carlotta Clerici, Rosa Genoni, Maria Giudice, Maria Goja, Linda Malnati, Margherita Sarfatti, Giuseppina Moro Landoni, Maria Perotti Bornaghi, Abigaille Zanetta.

La propaganda contro la guerra – che dalla fine del 1912 s’intreccia a quella contro l’incombente conflitto europeo – non solo occupa le prime pagine e quelle interne del giornale con editoriali, novelle antimilitariste, rubriche rivolte ai bambini, citazioni da Tolstoj e De Amicis, ma è portata tra le donne con comizi e “agitazioni”.

Leda_Rafanelli

L’anarchica toscana Leda Rafanelli

Nel campo libertario s’intensifica l’attività antimilitarista di Maria Rygier, mentre dalla “Palestra femminile” dell’Avvenire anarchico Priscilla Fontana e la figlia Jessa e da La Donna Libertaria Amelia Legati rivolgono accorati appelli “Alle madri” perché si mobilitino contro la guerra. Su Libertà la toscana Leda Rafanelli stigmatizza non solo il sopruso e l’arroganza dei conquistatori italiani contro “i liberi figli d’Africa”, ma anche “l’odio di razza” delle potenze europee nei confronti di tutti i popoli colonizzati.

La “Grande guerra”

All’inizio della guerra europea nell’agosto 1914 sulla prima pagina de La Difesa appare a caratteri cubitali il manifesto “Non vogliamo la guerra!” e da quel momento fino all’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 socialiste e anarchiche intensificano la propaganda e la mobilitazione delle donne nelle piazze.

Sui giornali, non solo di donne, si moltiplicano gli interventi: sull’Avanti!, oltre che su La Difesa, appaiono quotidianamente gli articoli della Balabanoff, di Rosa Genoni e Maria Giudice, ma anche di Leda Rafanelli. Su La Pace quelli di Fanny Dal Ry e sui giornali libertari quelli della Rafanelli e delle “irriducibili” Priscilla Fontana e Jessa Pieroni.

Nei loro ripetuti appelli, tuttavia, si avverte un crescente pessimismo sulla volontà di tutte le donne di opporsi alla guerra. È in questo momento, infatti, che l’idea della “guerra giusta” – la “guerra di difesa” – crea quelle divisioni che rompono la linea unitaria all’interno del fronte sia socialista, sia anarchico. Margherita Sarfatti prima e Giselda Brebbia poi, e come loro Maria Rygier, seguono Mussolini (espulso dal PSI) e la linea editoriale del Popolo d’Italia.

La grande maggioranza delle socialiste, tuttavia, continua a riconoscersi nelle posizioni di Clara Zetkin, che a dicembre lancia un nuovo appello alle donne di tutti i paesi, e dell’Internazionale femminile socialista, la cui vicenda di questi anni è tra l’altro molto significativa per quanto riguarda la specificità dell’opposizione delle donne alla guerra. Dopo la dissoluzione della Seconda Internazionale in seguito alla votazione dei crediti di guerra da parte dei maggiori partiti socialisti nel 1914 e a partire dal convegno di Berna del marzo 1915, infatti, l’Internazionale Femminile assume le caratteristiche di movimento autonomo. La rete di donne socialiste sia dei paesi belligeranti che di quelli neutrali si autoconvoca ed agisce indipendentemente dalle posizioni e direttive dei rispettivi partiti nazionali. Spesso in contrasto con questi, mantenendo la fedeltà all’internazionalismo tradita dai compagni.

In campo anarchico, contro il tradimento di Maria Rygier ed altri, Leda Rafanelli ribadisce in articoli sui giornali libertari e sull’Avanti!, oltre che nell’opuscolo Abbasso la guerra!, l’opposizione della maggioranza degli anarchici sia alla guerra coloniale che a quella contro altri popoli europei. Nella Giacomelli, a sua volta, si rivolge con un manifesto a tutte le donne perché dimostrino contro il conflitto.

Benché in generale resti incontestabile il fatto che – come nel resto d’Europa – il nazionalismo nelle donne fu più forte (e soprattutto più visibile) del pacifismo, anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, dunque, permane tra le socialiste e le libertarie una maggioranza di ‘resistenti’.

Mentre su L’Avanti! continuano ad uscire (pur con tagli sempre più pesanti della censura) interventi della Balabanoff, di Leda Rafanelli, Rosa Genoni, La Difesa delle Lavoratrici, nonostante le divisioni interne, mantiene viva l’informazione sulle iniziative per la pace delle donne anche degli altri paesi. All’attività internazionale della Balabanoff  (tra gli organizzatori della conferenza dei partiti socialisti di Zimmerwald nel 1915) si affianca quella delle altre militanti, come l’organizzazione di leghe di resistenza femminile e della protesta  delle donne torinesi da parte di Maria Giudice e il lavoro nelle scuole e nel campo dell’educazione di Linda Malnati, Carlotta Clerici e Abigaille Zanetta. Rosa Genoni, fondatrice dell’associazione Pro Humanitate e delegata al Congresso Internazionale dell’Aja del maggio 1915, promosso dalla statunitense Jane Addams, sarà poi rappresentante italiana della Women’s International League for Peace and Freedom che da questo ha origine.

L’opposizione delle donne italiane, dunque, resta viva attraverso e oltre la guerra. E tra le altre saranno proprio alcune delle ‘veterane’ – come Maria Giudice e Giuseppina Moro Landoni, arrestata la prima e internata la seconda nel 1916, Abigaille Zanetta, arrestata nel 1918 – a rappresentarne la continuità e a scrivere altri capitoli di storia del protagonismo delle donne anche durante la resistenza al fascismo.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




La Firenze industriale di primo ‘900

All’inizio del Novecento, sull’onda del decollo economico dell’età giolittiana, anche la struttura industriale fiorentina conobbe un forte sviluppo. Quali caratteristiche assunse lo sviluppo industriale di una città a lungo dominata dagli interessi del notabilato agrario-finanziario?

Un buon punto di partenza per ricostruire il tessuto produttivo della Firenze dell’epoca sono le fonti statistiche ufficiali (censimenti, annuari, statistiche industriali), messe a confronto e integrate con i dati nominativi delle aziende censite nel 1904 dall’ Indicatore generale della città di Firenze. Riportando su una pianta della città la lunga lista di indirizzi di industrie reperiti su queste fonti è possibile farsi un’idea della localizzazione delle imprese cittadine tra fine ’800 e primo ’900.

È evidente, a colpo d’occhio, la notevole consistenza dei settori metallurgico-meccanico e tipografico-editoriale, che si impongono come i più rappresentativi della realtà economica dell’epoca, sia per il numero degli stabilimenti sia per la consistenza degli addetti. Inoltre, è interessante notare come la loro localizzazione contribuisca a disegnare nel contesto urbano una sorta di geografia industriale separata e distinta. Le fonderie e le officine meccaniche erano ubicate perlopiù nelle aree periferiche lontane dal centro storico, mentre gli stabilimenti tipografici e le case editrici erano concentrate nelle vie centrali di Firenze, dando forma a una geografia industriale che, in un certo senso, incarnava e perpetuava due identità della città: da un lato, l’industria nelle sua accezione più moderna, dall’altra le attività legate alla produzione di beni culturali della Firenze città d’arte e “Atene d’Italia”, spesso con intere strade dedicate a particolari lavorazioni o commerci (si vedano gli orafi intorno al Ponte Vecchio o la lavorazione del legno in via Maggio).

Il panorama che ne emerge, inoltre, è caratterizzato dalla prevalenza della piccola e piccolissima unità aziendale, con un numero notevole di imprese gestite dal solo proprietario, e da settori largamente incentrati sul lavoro a domicilio. Dalla confezione di abiti alla preparazione di accessori in pelle, dalla lavorazione della paglia al ricamo, dal mosaico al mobile, il lavoro a domicilio risulta in effetti una componente essenziale del modo di “fare industria” della produzione manifatturiera fiorentina.

Nonostante la presenza di ditte ragguardevoli per la realtà dell’epoca – come la Società anonima Fonderia del Pignone, l’Officina Galileo, le Officine Ferroviarie, le Manifatture Tabacchi -, il tessuto industriale della città appare insomma frantumato e disperso in una miriade di situazioni produttive spesso molto differenti, fra le quali non è facile tracciare una precisa linea di demarcazione. Lo stabilimento come la piccola officina e il laboratorio, lo studio come la bottega dell’artigiano e la casa dell’operaio rappresentavano i diversi e molteplici luoghi della produzione, in una serie di interazioni e compenetrazioni che rinviavano a un universo composito e dinamico, non assimilabile alla fabbrica moderna, ma ugualmente figlio dei meccanismi innescati dalla rivoluzione industriale.

Ing. Pietro Veraci

Ing. Pietro Veraci

Accanto a questo tessuto fatto di micro-aziende, crescevano e si rafforzavano industrie più moderne. Proprio nei primi anni del secolo, alcune imprese cittadine si erano trasformate in società anonime, a conferma dell’esistenza anche a Firenze di importanti fenomeni di concentrazione produttiva e finanziaria. La fonderia dell’ing. Pietro Veraci, per esempio, nel marzo del 1905 si era costituita in società anonima con un capitale sociale di 800.000 lire e si stava dotando di nuovi reparti; la Fabbrica di automobili Florentia, divenuta società anonima nel 1903, aumentò il suo capitale per ben due volte tra l’aprile del 1905 e il marzo 1906 e conobbe un notevole potenziamento occupazionale, passando dai 55 addetti del 1904 ai 195 del 1907. Tuttavia, anche nel comparto metalmeccanico – settore che in quegli anni aveva assunto un ruolo trainante nel processo di industrializzazione nazionale – la realtà fiorentina si caratterizzava per la prevalenza di una meccanica di tipo leggero, ancorata a produzioni che non richiedevano grandi investimenti di capitale fisso. Nella varietà delle tipologie produttive figuravano però anche realizzazioni ad alto contenuto tecnologico quali, ad esempio, gli strumenti ottici prodotti dalla Galileo per la Marina militare. La storia stessa delle maggiori industrie metalmeccaniche fiorentine (Pignone, Galileo…) mostra, al contempo, l’esistenza di un processo di crescita e di rinnovamento dell’apparato industriale locale e il persistere di difficoltà ad adottare forme di organizzazione del lavoro più razionali e moderne. Pertanto, almeno nel primo quinquennio del ’900, l’industria metalmeccanica fiorentina non sembra conoscere quella radicale svolta nell’organizzazione del lavoro che era in atto già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento in alcune grandi aziende metalmeccaniche dell’Italia del Nord. Ancora all’inizio del ‘900, l’industria fiorentina cresceva soprattutto grazie alla moltiplicazione di piccole unità aziendali scarsamente meccanizzate.

Questo fenomeno si riscontra anche in altri settori importanti nella realtà industriale cittadina. È il caso del variegato universo produttivo censito sotto la voce “industrie diverse”, di cui il settore tipografico-editoriale era di gran lunga il più rappresentativo. Accanto ad iniziative come quella avviata nel 1897 dal tedesco Leo Samuel Olschki, legato al mercato antiquario e agli ambienti culturali e accademici (italiani e stranieri), o ad alcuni stabilimenti più grandi – come quello di Antonio Civelli –, troviamo un fitto tessuto di piccole e piccolissime tipografie orientate a una produzione più propriamente commerciale volta a soddisfare la domanda proveniente da un turismo che, se non era ancora di massa, vedeva muoversi sulla scena cittadina flussi consistenti di persone, perlopiù straniere, interessate ad acquistare cartoline illustrate, carte decorate e incise in oro e colori, lavori artistici in carta e cartonaggi, incisioni, litografie di paesaggi e architetture della Toscana.

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Al fine di valutare le caratteristiche della crescita dell’industria fiorentina di inizio secolo occorre guardare anche a tutte quelle lavorazioni che facevano ancora ampio ricorso al lavoro a domicilio. Stando a un’indagine della Camera di Commercio del 1904, nella confezionatura di biancheria – una manifattura che aveva un certo rilievo in una città che da qualche decennio aveva visto crollare le ultime vestigia di una attività tessile degna di nota – erano occupate a Firenze circa 500 «operaie cucitrici adibite da sole o in piccoli laboratori a questa fabbricazione». L’impiego di manodopera a domicilio era largamente diffuso e sottostimato, a causa della difficoltà di censire l’effettiva entità del fenomeno, anche in altre attività del settore come, per esempio, nella cucitura di divise militari.

Un altro aspetto che contraddistingueva la struttura produttiva fiorentina era la vivacità delle lavorazioni censite sotto la voce di Arti decorative ed industriali (1904). Ad accomunare queste produzioni non era la materia prima utilizzata o l’adozione di determinati procedimenti trasformativi, bensì l’attenzione riservata alle “qualità artistiche” del prodotto. La notevole varietà dei materiali adoperati – dal ferro al legno, dal vetro al merletto, dal marmo alla porcellana -, dei prodotti e la notevole eterogeneità delle figure coinvolte – dall’apprendista al piccolo imprenditore – dimostrano come la risorsa principale del settore fosse costituita dal patrimonio di mestieri recuperati dalla lunga tradizione artigianale fiorentina. Questo settore era caratterizzato da un fitto e variegato tessuto produttivo: la produzione artistica di più alto livello conviveva con l’attività di copiatura di opere d’arte – una vera e propria “industria della replica” – molto diffusa a Firenze in quegli anni, che traeva alimento dalla presenza di radicate colonie di stranieri e da un turismo d’élite particolarmente sensibile ai richiami del “prodotto artistico”. Accanto a questo lavoro di riproduzione e di imitazione di oggetti d’arte mutuati dalla tradizione tardo-rinascimentale – come per esempio le fedeli riproduzioni dei Della Robbia della Ditta Cantagalli o le pregiate terrecotte artistiche della Manifattura di Signa – si era notevolmente sviluppata la produzione di beni di consumo e di componenti per l’arredo (domestico e urbano) in stretta connessione ai progetti di ristrutturazione urbana degli anni Ottanta dell’Ottocento.[foto 6]

Dunque, la Firenze di primo ‘900 descritta da queste fonti si caratterizza per un impasto originale di specializzazione artigianale e di ammodernamento industriale. Funzionale all’idea di Firenze “città d’arte e di cultura”, tanto cara al ceto dirigente moderato toscano, questa struttura produttiva era il frutto di una trasformazione, di un adattamento della tradizione corporativa e artigiana alle esigenze della competizione industriale e ai cambiamenti del mercato. Accanto agli stabilimenti più grandi, che impiegavano macchine e motori, cresceva un fitto tessuto di piccole aziende a carattere familiare organizzate con criteri semi-artigianali. Era varia la tipologia dei luoghi adibiti alla produzione: dalla piccola officina, dove ritmi e cadenze del lavoro artigianale si alternavano a forme produttive più moderne – seriali ma di qualità – ai ricoveri per poveri; dalle scuole professionali, dove il motivo dell’apprendistato si saldava con quello della produzione, alla casa-laboratorio dell’operaio. Tra questi mondi c’erano contatti e interazioni reciproche, ma parallelamente si andavano sviluppando forme di associazionismo e di rappresentanza differenziate e articolate per categorie e classi, a cui il decollo industriale e la crisi del blocco di potere moderato avrebbero dato nuova visibilità nella Firenze degli anni giolittiani.

Articolo pubblicato nell’aprile 2015.




Aperossa

L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico con sede a Roma, è stato costituito alla fine degli anni settanta da un gruppo di intellettuali e registi tra cui  Cesare Zavattini che è stato anche il primo presidente, ed è divenuto Fondazione con DPR del 13 febbraio 1985.

logo aamod 1La Fondazione svolge attività scientifica e politico-culturale nel campo degli audiovisivi e della multimedialità, per favorire la costruzione di una memoria collettiva della vita sociale, delle lotte democratiche e dei loro protagonisti. Tra le sue finalità istituzionali più importanti, vi è la ricerca, la raccolta, la conservazione, la catalogazione e il restauro di documenti cinematografici, videomagnetici, digitali, sonori, grafici e fotografici su ogni tipo di supporto, sia a carattere documentario che di ricostruzione narrativa. Di uguale importanza è l’attività di studio, analisi, diffusione e riuso di tali documenti, affinché essi non rimangano «nelle scaffalature in una indeterminata attesa», come diceva Cesare Zavattini, ma divengano un bene culturale condiviso, stimolo di riflessione e conoscenza. Quindi, la Fondazione promuove ricerche e restauri, cura pubblicazioni specializzate, collabora a festival, organizza convegni, seminari, rassegne, mostre su temi legati alle sue aree di interesse istituzionale; realizza, inoltre, corsi di formazione con particolare attenzione alle figure professionali del documentalista e del film maker e ai temi connessi al settore archivistico. Il linguaggio filmico rappresenta uno straordinario strumento per analizzare, comprendere, rappresentare e comunicare la realtà: perciò la Fondazione sostiene, anche in collaborazione con altre strutture, la produzione di film a base d’archivio, e continua a documentare attraverso l’audiovisivo gli eventi del presente, incrementando così il proprio deposito di memoria. http://www.aamod.it/

L’anno scorso, avvicinandosi la ricorrenza del 70° della Liberazione, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha presentato all’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana un progetto denominato “Aperossa”, finalizzato a realizzare una serie di iniziative legate all’idea che le proiezioni pubbliche e itineranti non solo abbiano ancora un senso, ma rappresentino una possibilità di comunicazione interessante e originale. http://aamod-aperossa.com/2015/04/08/laperossa-torna-in-toscana/

Queste proiezioni sono organizzate intorno all’Aperossa che cercherà di diventare segno e simbolo di una forma di partecipazione ed espressione artistica condivisa. Infatti, l’Aperossa non sarà soltanto il “veicolo” che porta, organizza e cura la proiezione di materiali audiovisivi legati al territorio, una specie di moderno cantastorie, ma diventa anche “centro di raccolta” di materiali privati come fotografie e filmini di famiglia e amatoriali, che saranno acquisiti dopo il rilascio di regolare ricevuta e restituiti ai legittimi proprietari dopo essere stati digitalizzati e messi in condizione di diventare patrimonio condiviso attraverso la loro messa in rete su un sito internet appositamente costruito. Le caratteristiche strutturali del mezzo, la mobilità e le dimensioni ridotte, fanno si che un’Aperossa attrezzata per le videoproiezioni può essere uno strumento agile e brillante per ascoltare e raccontare storie nelle strade, nelle piazzette, nei vicoli dei centri storici, in quegli spazi alle volte molto ristretti, ma ugualmente frequentati dalla gente, dagli anziani e dai giovani.

 L’Aperossa è stata presentata al pubblico il 17 maggio 2014 a Sesto fiorentino presso la sede dell’Istituto De Martino e ha iniziato il suo percorso di raccolta di testimonianze e di video proiezioni in giugno a San Quirico d’Orcia, Pienza, Monticchiello e poi Viareggio e Pietrasanta (16 e 19 settembre).

Nel 2015, ha celebrato la memoria del 70° nel Rifugio antiaereo di Massa in collaborazione con la Provincia, il Comune, l’A.N.P.I e l’Associazione Sancio Pancia, il giorno successivo nella biblioteca civica di Carrara con il Comune e l’A.N.P.I. ed infine, per concludere il ciclo di eventi, il 25 aprile a Fosdinovo in collaborazione con il Comune e gli Archivi della Resistenza.

Nel corso delle celebrazioni dell’anno passato e in quello corrente, sono state realizzate diverse interviste a protagonisti dell’epoca e raccolte immagini e testimonianze che saranno utilizzate per produrre una serie di materiali audiovisivi da proporre nelle scuole dei territori nei quali si è mossa l’Aperossa con il fine di evitare di disperdere l’immenso patrimonio di fatti, testimonianze e memoria che la gente della Toscana ha saputo esprimere durante la guerra patriottica di Liberazione pagando un prezzo altissimo in termini di sacrificio e di atti di eroismo contro il nemico e l’oppressore.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




Fare i lavoratori?

Trascurate dalla legge Casati – che non le aveva previste -, introdotte in silenzio nel 1878, con una circolare emanata dal Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Benedetto Cairoli, ancora all’inizio del XX secolo le scuole industriali e artistico-industriali conservavano la dimensione informe di una disordinata galassia educativa. Designate le prime per i futuri capi-officina e le seconde per gli artigiani, analogamente agli altri tre indirizzi dell’istruzione professionale (agrario, commerciale e professionale femminile) erano state affidate, diversamente dalle altre scuole, alle cure delle amministrazioni locali e private, che fino al 1913 poterono autonomamente definirne fondazione, organizzazione e curricula.

Quando ottennero nel 1907 l’ambito riconoscimento statale con la legge Cocco-Ortu, le scuole industriali e artistico-industriali stavano conoscendo da più di dieci anni un’espansione di tutto rispetto. La Toscana, dal 1900 la quarta regione con più iscritti, pur avendo assistito tra 1891 e 1902 a un buon incremento degli studenti (che aumentarono da 2948 a 3505), nei sei anni successivi era stata protagonista di un’inattesa contrazione, che aveva riportato gli studenti a 2855 proprio quando a livello nazionale aumentavano senza sosta le iscrizioni a questo nuovo tipo di istruzione.

Eppure, proprio in quegli anni la regione aveva assistito alla fondazione di numerosi istituti: la scuola per i piccoli laboratori forestali di Stia (Arezzo), le scuole industriali “Leonardo da Vinci” di Firenze e “Antonio Pacinotti” di Pisa e Pistoia e la riapertura della scuola di disegno di Cascina (Pisa) arricchirono un panorama in cui già operavano le scuole di disegno di Seravezza (Lucca), Lucca, Empoli, Pescia e Sesto Fiorentino, quelle industriali di Siena e Colle Val d’Elsa e la scuola per le arti tessili e tintorie di Prato, foggiata sulle orme del più famoso istituto biellese. Le numerose scuole di disegno fiorentine, ruotanti intorno alla prestigiosa Scuola superiore d’arti applicate all’industria cittadina, completavano il quadro.

La portata del rinnovamento è evidente: il reticolo regionale delle scuole di disegno serali e domenicali, rivolte soprattutto a operai e artigiani semianalfabeti, fu arricchito in pochi anni da quattro scuole industriali diurne, i cui macchinari erano destinati alla formazione di una nuova classe di capi-operai. Anche il curriculum, che oltre al disegno prevedeva le materie tecnico-scientifiche (fisica, tecnologia, meccanica, la nuova e sperimentale elettrotecnica) e la pratica dell’officina, era più ambizioso rispetto a quello delle scuole serali, incentrate sulla pratica del solo disegno. Nelle intenzioni dei fondatori, le nuove scuole erano istituti congeniati per i figli della piccola borghesia e degli operai specializzati, che, secondo la diffusa opinione di politici e docenti, dovevano essere distolti dai ginnasi-licei e dalle scuole tecniche. Furono tuttavia questi gli obiettivi raggiunti?

I dati sul collocamento e sulla provenienza sociale degli allievi per i primi anni del XX secolo sono discordanti. Non vi sono informazioni sulle scuole toscane di disegno; sono disponibili però quelle su Prato e Pistoia, che indicano, tanto nel primo quanto nel secondo caso, una netta prevalenza dei futuri industriali e dirigenti, in consonanza con quanto accadeva nelle altre regioni.

Ancora tutta da scrivere, invece, è la storia degli studenti nelle scuole di disegno serali e domenicali: i dati disponibili per le altre regioni (come quelli di Padova, di Luino, provincia di Como, e di Viggiù, vicino Varese) evidenziano la loro vicinanza ai bisogni e agli obiettivi degli operai e dei piccoli artigiani, effettivamente attratti da un corso di studi che, a differenza dei nuovi e costosi istituti diurni, erano frequentabili anche da chi non poteva posticipare l’ingresso nel mondo del lavoro dopo le prime classi elementari.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




19 marzo 1922. L’uccisione di Comasco Comaschi

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, è fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo.

D’altra parte dopo gli anni del Biennio rosso, lo scontro con i membri delle squadre fasciste è divenuto molto forte. Numerose sono infatti le violenze e le uccisioni che gli squadristi realizzano nel 1921. La prima è quella di Enrico Ciampi, fondatore a Barca di Noce della prima sezione pisana del Partito comunista, che il 4 marzo viene ucciso da un colpo di pistola sparato da Domenico Serlupi, fascista locale, proprio mentre Ciampi si sta dirigendo verso la sua villa a San Casciano, in una dimostrazione antifascista. Domenico Serlupi è protagonista di un’altra delle vicende cascinesi di questo periodo. Il giorno successivo ai fatti di Sarzana del 21 luglio infatti impone a tutte le famiglie della zona di esporre la bandiera a lutto per i morti fascisti. Entrato nella trattoria di Luigi Benvenuti impone la stessa operazione ma, di fronte al fermo rifiuto dell’esercente, gli spara. Ne nasce uno scontro tra i presenti, in seguito al quale sia il Benvenuti, sia il Serlupi rimangono uccisi. La stessa notte quindi gli squadristi di San Frediano si recano alla Chiesanuova, dove si è costituito un gruppo antifascista composto da alcuni giovani. I fascisti hano l’obbiettivo di sfogare la loro rabbia contro il consigliere comunale Bartoli. Non trovandolo però ripiegano verso il figlio Archimede, che viene ucciso con quattro pugnalate e viene gettato nell’acqua, nei pressi del fosso Emissario, mentre è intento ad attaccare le bestie al carro. Il 19 settembre sono invece Corrado Bellucci e Paris Profeti, Segretario della sezione giovanile del Partito socialista di Pontedera, ad essere freddati a bruciapelo, assaliti da squadristi mentre si recano a Cascina ad una manifestazione contro l’arresto del sindaco Guelfi. Le uccisioni dei rappresentanti dei partiti socialisti e dei sindacalisti hanno l’intento di controllare il territorio e portare alla distruzione dell’intera rete associativa proletaria.

Comaschi

Comasco Comaschi

In questo contesto di scontro e violenza politica, Comaschi aveva avuto un ruolo di primo piano, poiché era stato tra gli organizzatori degli Arditi del popolo a Cascina che, secondo Eros Francescangeli, contavano almeno 200 componenti alla metà di agosto 1921, che scendono però presto a una cinquantina, in seguito al giro di vite della fine dello stesso mese, che provoca l’arresto di molti di loro. È proprio in agosto che Comaschi, assieme ad altri compagni, irrompe alla cerimonia di fondazione del Fascio di Cascina, salendo su un palchetto del teatro comunale, sventolando la bandiera nera del gruppo anarchico. Alcuni mesi dopo inoltre difende alcuni suoi studenti dalle minacce fasciste.

L’omicidio di Comaschi era stato inoltre preannunciato da un’altra azione punitiva di cui era stato vittima: circa 40 giorni prima della sua uccisione infatti era stato inseguito da circa 100 fascisti e bastonato. Il fratello Vasco, compreso il pericolo propone a Comasco di emigrare, ma questi rifiuta, rispondendo che non avrebbe voluto lasciare la scuola e che inoltre sarebbe stato da vigliacchi allontanarsi.

Le violenze erano divenute molto gravi, e i fascisti tra 1921 e 1922 si erano molto rafforzati anche grazie alla connivenza con i carabinieri, che consentivano l’illecito porto d’armi dei fascisti, con i quali, come denunciava il capo del gabinetto del Ministero degli Interni il 22 gennaio 1922, in un telegramma al Prefetto di Pisa, “fraternizzerebbero”. [Bertolucci, 2003] Nonostante Comaschi avesse denunciato l’aggressione che aveva subito due mesi prima della notte del 19 marzo, infatti, niente era stato fatto dalle autorità e dal pretore di Cascina.

L’omicidio di Comaschi ebbe un vasto eco nella cittadina, tanto che il giorno successivo Cascina intera è in lutto: viene organizzato uno sciopero spontaneo e i negozi chiudono per lutto cittadino. Il funerale di Comasco è un momento di grande partecipazione, tanto che è stato anche definito l’ultima libera manifestazione prima dell’avvento definitivo del fascismo.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per insufficienza di indizi e successivamente, l’8 novembre 1922 la Corte di Appello di Lucca dichiara non dover procedere per insufficienza di prove.

L’affaire Comaschi doveva però riaprirsi molti anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, quando si apre la stagione dei conti con il fascismo e quando ai processi per collaborazionismo si affiancano spesso accuse sui crimini dello squadrismo degli anni ’20.

Il 10 maggio 1945 intorno alle ore 19, di ritorno dal Nord, dove aveva fatto parte della GNR a Malarno (Brescia) fino alla liberazione di Bologna, Orfeo Gabriellini viene percosso dalla folla sul Corso Vittorio Emanuele, perché riconosciuto come uno dei responsabili dell’omicidio Comaschi. Il Maresciallo Adolfo Mascolo, di servizio per la vigilanza di sicurezza, sottrae quindi Orfeo Grabriellini alla furia popolare e lo porta in caserma, dove il fascista confessa la propria colpevolezza. In seguito alla nuova denuncia deposta da Vasco Comaschi, fratello della vittima, si apre quindi una nuova istruttoria. Alla fine del processo Orfeo Gabriellini, Dante Bertelli (fino ad allora rimasto fuori dall’elenco degli imputati) ed altri vengono condannati a pene tra i due e i dieci anni, ma ben presto, a seguito della fase di pacificazione siglata con l’amnistia Togliatti, godranno di larghi sconti di pena e dunque saranno scarcerati.

L’uccisione di Comasco Comaschi è una vicenda che è rimasta impressa nella memoria pubblica cascinese: è presente infatti in Piazza dei Caduti per la libertà una statua che lo celebra, un busto in bronzo in cui Comaschi è rappresentato a braccia conserte con atteggiamento risoluto a simboleggiare la decisa scelta antifascista. In occasione del 70° della liberazione saranno inaugurati i “Sentieri della libertà e della Resistenza” con i quali il Comune di Cascina, insieme all’ISREC Lucca, vuole ricordare i luoghi e le persone, tra cui Comasco Comaschi, che si sono opposte al fascismo, sacrificando la propria vita, e permettendo di aprire la strada alla libertà e alla democrazia.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.

 




L’occupazione nazista di Monsummano, 1943-1944

I giorni successivi all’Armistizio furono terribili per l’Italia e per i suoi abitanti: anche Monsummano, paese pistoiese di 9647 abitanti nel 1944, fu profondamente sconvolto con l’immediato arrivo di colonne motorizzate naziste.

Durante la guerra furono più di 800 i monsummanesi richiamati alle armi e a settembre la maggior parte di loro fece ritorno a casa fra pericoli e difficoltà. I meno fortunati vennero catturati dai tedeschi e sfruttati come forza lavoro o imprigionati nei lager con la qualifica di Internati Militari Italiani: nell’archivio locale sono presenti ben 26 domande di liberazione redatte dalle famiglie o dai datori di lavoro.

Un fenomeno nato con l’occupazione nazista fu quello degli helpers, persone che dettero protezione agli ex-prigionieri militari alleati in fuga dai campi d’internamento italiani: assicurarono loro vitto, vestiti e alloggio. A Monsummano le richieste di riconoscimento nel dopoguerra furono soltanto due, da parte di Matteo Mattei e Ulderigo Giovannelli, ma non siamo a conoscenza dell’esito; tuttavia, sappiamo che Mattei, residente a Montevettolini, dopo aver dato riparo ad alcuni soldati alleati ed esser stato denunciato dai repubblichini locali, fu arrestato e rinchiuso in un campo di lavoro, riuscendo poi a fuggire.

Casa del fascio di CintoleseIn tutta la RSI furono organizzate retate dai tedeschi e dai repubblichini per la cattura e la deportazione degli ebrei. Il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata dal fascio monsummanese portò al fermo di sei ebrei: Giulio Melli (74) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39), figlio di Giulio, e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3), figli di Elio. Un altro uomo, Carlo Levi (72), fu imprigionato il 14 febbraio 1944. I sette furono internati nel campo di concentramento di Fossoli e da lì partirono con i treni in direzione Auschwitz: nessuno tornò più a casa.

Il comando provinciale nazista era collocato a Pistoia mentre leggi e ordinanze venivano divulgate nei comuni dal commissario prefettizio, ruolo ricoperto prima da Gildo Rubino poi dal professore Italo Giampieri. Fra i numerosi decreti emanati occorre ricordarne alcuni: la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna di tutte le armi; le speciali disposizioni sulla circolazione dei veicoli; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; il coprifuoco dalle 22 alle 5; le norme sull’oscuramento; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Un grave problema che afflisse la comunità fu quello degli sfollati, persone provenienti dai luoghi più disparati che cercavano rifugio e protezione. Nella città valdinievolina furono ospitati in case libere o abbandonate, negli edifici scolastici, in locali di fortuna, spesso sprovvisti di sufficienti condizioni sanitarie e alimentari.

Quotidiani allarmi risuonavano nell’abitato, soprattutto nelle ore notturne: la sirena era installata in casa del capo guardia Nazzareno Pieri presso il palazzo comunale. A Montevettolini, Giuseppe Francini suonava le campane della chiesa per informare la popolazione. Durante gli allarmi, gli abitanti solevano scappare nella campagna e nei rifugi; già dal febbraio ‘44 gli enti comunali avevano provveduto a costruire trincee e difese antiaeree. La città termale non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata diverse volte dagli alleati che causarono 12 vittime.

In paese fu attiva l’organizzazione nazista Todt con sede nello stabilimento termale e hotel della Grotta Giusti, reclutando personale civile in parte aderente e in parte obbligato: innalzarono un fortino in cemento armato, edificarono varie baracche in legno e scavarono una galleria a forma di ferro di cavallo nella Cava Rossa. Un distaccamento dell’amministrazione tedesca fu alloggiato alla Grotta Parlanti e le due grotte vennero collegate telefonicamente con un filo volante spesso sabotato. Inoltre, da inizio giugno fino al 14 luglio, il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu situato alla Grotta Giusti.

Nel corso della stagione estiva i nazisti in ritirata furono colpevoli di una scia di massacri perpetuati ai danni della popolazione civile ed esportarono, senza nessun accorgimento giuridico, bestiame, cibo, vestiti e beni di qualsiasi valore. Ben 7 civili monsummanesi persero la vita prima dell’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti) avvenuto il 23 agosto 1944: Sereno Romani (45), colpevole di aver difeso una parente vittima di un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio) accusati di essere partigiani; Brunero Giovannelli (22), colpito nel tentativo di fuga durante un rastrellamento; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18 anni), accusati di effettuare segnalazioni luminosi.

Le formazioni partigiane dell’area si distinsero per attività di sabotaggio, di raccolte armi e informazioni. Erano tre: la Stella Rossa, comunista, la Corallo, partito d’azione e la Faliero. I partigiani monsummanesi furono almeno 17, i patrioti 15. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi.

Il potere politico fu assunto a partire da fine agosto da Aurelio Pestelli, proprietario della Grotta Giusti. Il C.L.N. locale cominciò la propria attività nel giugno 1944 aiutando, in ambito economico e politico, la cittadinanza e al 5 settembre risaliva la prima riunione post-liberazione nella sala podestarile del comune.

Il 9 settembre il comunista Fulvio Zamponi fu nominato all’unanimità primo sindaco di Monsummano mentre il democristiano Giulio Bendinelli divenne vicesindaco.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendo il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato una monografia dal titolo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Inoltre ha partecipato a presentazioni di libri, tra i quali Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi storici sia a livello comunale sia in ambito provinciale. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.