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Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.




Antifascisti e perseguitati politici nel Chianti

ANTIFASCISTI_5Che cosa hanno rappresentato, per le popolazioni del Chianti, la dittatura e il regime fascista? Domanda non facile a cui la storiografia non ha ancora dato, a tutt’oggi, una risposta soddisfacente. La memoria delle violenze, delle sopraffazioni, delle tragedie provocate dalla dittatura con la suapolitica razzista, imperialista, aggressiva e guerrafondaia nel ventennio, ha sicuramente lasciato una traccia nella memoria della gente ma non ha prodotto ancora risultati significativi sul piano della conoscenza storica.

I dati che si propongono nelle tabelle seguenti sono il risultato di lunghe ricerche effettuate su documenti finora poco studiati ma di grande importanza. Si tratta dei fascicoli del Casellario politico centrale, dipendente dal Ministero degli Interni, direzione generale di pubblica sicurezza, conservate presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Dallo studio e dall’analisi delle migliaia e migliaia di fascicoli intestati ad altrettanti antifascisti, sovversivi o anche semplici cittadini sottoposti alle misure poliziesche del regime fascista, emerge un universo dolorante e represso, un intreccio di storie e di peripezie che hanno caratterizzato il ventennio nel nostro paese e nella nostra regione, ma che finora raramente sono affiorate nelle ricostruzioni di uno dei periodi più drammatici della storia.

I dati che si forniscono richiederebbero una spiegazione ampia e approfondita, ma già nella loro crudezza e immediatezza offrono ampia materia di riflessione. Basti pensare che, in un territorio come il Chianti, popolato da non più di 70-80.000 persone ma con un tessuto urbano rarefatto e diffuso in un’area più ampia a forte connotazione agricola, sono oltre 200 gli schedati come antifascisti, sovversivi e perseguitati politici da tenere sotto sorveglianza e da sottoporre a misure repressive e restrittive della libertà, a provvedimenti che possono privare del lavoro e ridurre in miseria intere famiglie. Già, perché in realtà non si tratta solo di 205 individui, ma di 205 nuclei familiari, ciascuno con le sue reti di parentela e di amicizie. Sono dunque 205 storie di vita, 205 itinerari biografici che si snodano attraverso violenze subite, angherie, miserie, tragedie di vita quotidiana.

ANTIFASCISITI_628 persone saranno deferite al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, quel famigerato tribunale da cui sono passati i Gramsci, i Pertini e tanti altri grandi della nostra storia. Anche una donna nata a Montespertoli, Preziosa Borri, casalinga e comunista, finita sotto le grinfie degli sbirri nel 1929, quando aveva già 65 anni, veniva deferita al tribunale speciale; 19 persone finiranno al confino di polizia, costrette ad abbandonare famiglia, casa, lavoro, amicizie, abitudini, libertà; 18 emigreranno all’estero per motivi politici e finiranno iscritti nella rubrica di frontiera, con la minaccia incombente di venire arrestati non appena si fossero avvicinati a una frontiera nazionale; 14 finiranno nelle maglie della cosiddetta giustizia ordinaria, processati per reati classificati comuni, anche se di natura politica; 45 infine verranno sottoposti a diffida o ad ammonimento, che non erano provvedimenti innocui e senza conseguenze, soprattutto per quel che concerneva la conservazione del lavoro.

Venivano colpite persone delle più diverse appartenenze sociali e di livello culturale assai differenziato: si potevano trovare due possidenti accanto a 5 contadini, 14 coloni e 20 braccianti; o una dozzina di commercianti di vario livello: gestori di ristoranti, vinai, negozianti, salumieri, pizzicagnoli e perfino rappresentanti di commercio; o una settantina di artigiani, 17 calzolai, 11 falegnami, 7 meccanici, 3 fabbri, 3 parrucchieri e tanti altri come scalpellini, sarti, barrocciai, boscaioli, lattai, fornai, legatori di libri e tanti altri. Vi erano anche operai di industria, tipografi, ma anche un industriale e anche rappresentanti delle professioni, un veterinario, un geometra, un pubblicista, maestri e insegnanti e perfino un artista di varietà. Numerosi i ferrovieri, una decina e anche un carabiniere condannato, nel 1941, al confino di polizia. Naturalmente queste poche righe e questi pochi dati danno solo un’idea molto limitata e sommaria di quelle che furono le caratteristiche e le vicende dell’universo, del popolo degli antifascisti, dei perseguitati politici del regime. Ma il filone che si prospetta è particolarmente ricco e, per ognuno dei 205 nominativi è possibile andare a riscoprire e ristudiare, attraverso i fascicoli personali e con un lavoro di ricerca sulle fonti orali, attraverso le testimonianze, storie di vita vissuta e vissuta intensamente, drammaticamente.

L’articolo era stato pubblicato sulla rivista “InChianti” n. 10, 2004.

Ivano Tognarini, docente di Storia moderna all’Università di Siena, è stato Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana dal 2000 fino alla sua recente scomparsa il 15 marzo 2014. Questo piccolo contributo ne vuol ricordare il vasto impegno nello studio della presenza antifascista nell’Italia del Ventennio attraverso l’analisi della documentazione del Casellario politico centrale dello Stato.




Per il divorzio ma contro il referendum.

Sono trascorsi quarant’anni da quel 12 e 13 maggio 1974, quando il paese venne chiamato ad esprimersi per l’abrogazione della legge sul divorzio nel primo referendum della Repubblica. La storia del divorzio in Italia inizia però alcuni anni prima e si intreccia con il più generale e complesso contesto politico degli anni a cavallo della stagione della contestazione e delle riforme, della strategia della tensione e del compromesso storico.

Dopo un’iniziale riflessione sulla questione, apertasi a partire dalla proposta di legge del deputato socialista Sansone nel 1954, poi integrata dalla collega Giuliana Nenni nel 1958, in quello che viene definito il “piccolo divorzio”, il dibattito sull’inviolabilità del matrimonio si riaccende nell’ottobre 1965, quando il deputato socialista Loris Fortuna presenta un progetto di legge sui Casi di scioglimento del matrimonio. Sono però soprattutto le mutate condizioni politiche, il movimento studentesco, l’autunno caldo, i primi movimenti femministi a dare la spinta propulsiva per una maggiore discussione sui temi dei diritti civili, mostrando che si è avviato anche in Italia un processo di secolarizzazione.

Il 1 dicembre 1970, il divorzio diventa legge, con alcune integrazioni rispetto al progetto del 1965, secondo la proposta di legge del 1968 dell’on. liberale Antonio Baslini, e perciò conosciuta come “Legge Fortuna-Baslini”. Intanto è stata varata anche la legge sui referendum e la DC inizia immediatamente a premere affinché si passi alle consultazioni popolari per abrogare il divorzio. La questione è soprattutto politica: riguarda la laicità dello stato e i rapporti tra Stato e Chiesa, ma soprattutto la DC di Fanfani, in conseguenza del maggior consenso raggiunto dal PCI, vuole evitare un’apertura della stanza dei bottoni anche ai comunisti.

NO referendumIl Partito comunista italiano, alla cui guida era passato Enrico Berlinguer, teme invece che lo scontro sul divorzio diventi terreno fertile per lanciare una nuova crociata anticomunista, come era accaduto per le elezioni dell’aprile 1948 e tenta quindi di evitare la guerra di religione, perseguendo una strada di apertura e tolleranza. Il PCI considera la legge sul divorzio “un importante passo in avanti sulla via del progresso democratico e civile del rinnovamento della nostra società”, pur ribadendo l’importanza e la centralità riservata alla famiglia. Il partito si pone quindi a favore del divorzio, ma contro il referendum, poiché teme che dalla campagna elettorale possano derivare spaccature profonde e risvolti negativi nella vita politica italiana, tenendo anche conto del pericolo eversivo di destra che si era aperto nel paese a partire dalla strage di Piazza Fontana. Il PCI si rivolge quindi a un elettorato ampio che comprenda anche il mondo cattolico. Le parole d’ordine che ritornano, e che richiamano la scelta unitaria del PCI di Togliatti del 1947, sono quelle di unità e pace religiosa del popolo italiano per l’avvenire della democrazia italiana.

La Federazione lucchese del PCI accoglie le direttive di apertura, che si adattano pienamente al contesto locale, in cui la Democrazia Cristiana è da tempo il partito maggioritario. A conclusione dei seminari sul referendum che vengono organizzati nelle diverse sezioni del PCI il 16 e il 17 marzo 1974 il gruppo dirigente lucchese constata che sul territorio anche molti compagni sono cattolici praticanti e che devono portare avanti “una battaglia di tolleranza”, evitando di arrivare a uno scontro pro e contro il PCI. A questo fine viene deciso che in nessun volantino debba apparire il simbolo del partito e che dovranno rivolgersi contestualmente “alla classe operaia, ai contadini, alle donne, ai cattolici lucchesi e agli elettori nel suo complesso”.

firma divorzioNonostante la volontà del PCI di evitare il referendum, portata avanti fino quasi alle soglie del voto, il 12 maggio si aprono le consultazioni popolari. Vince il NO con 19.138.300 voti (il 59,26%). Anche nella bianca Lucca, dove alle elezioni del 1972 il fronte dei partiti che si schieravano contro il divorzio disponeva del 53% dei voti, vince il No, con lo scarto maggiore tra le province Toscane tra fronte divorzista e antidivorzista (il 10%) rispetto alle elezioni politiche del 1972. La partecipazione è altissima, il 90,54% dei votanti si reca ad esprimere la propria preferenza e i risultati a livello provinciale vedono il SI al 43,72% e il NO al 56,28%.

Il segretario della federazione del PCI lucchese, Merano Bernacchi, nel suo intervento alla manifestazione per la vittoria del No, che si tiene a Lucca il 18 maggio 1974, sottolinea che “ha vinto la libertà e la democrazia; ha vinto lo stato laico e pluralistico al posto dell’integralismo e dell’autoritarismo del senatore Fanfani; […] ha vinto infine la pace religiosa e il Concilio al posto della rissa e della guerra di religione”. Ribadisce poi che “da questa vittoria emerge ancora con più forza di prima lo stimolo all’unità di tutte le forze democratiche e antifasciste, laiche e cattoliche, per operare subito senza soste e senza attese alla soluzione dei gravi problemi del paese, per garantire giusti e corretti rapporti tra Stato e Chiesa per un nuovo diritto di famiglia, perché sull’onda del successo vada avanti con più speditezza l’esigenza indilazionabile di profonde riforme sociali e civili, per un’Italia più giusta, socialmente più avanzata, nella libertà e nella democrazia repubblicana nata dalla resistenza antifascista”.

Nelle parole di Merano Bernacchi vi è l’eco della linea politica di avvicinamento tra comunisti e cattolici, inaugurata già da Enrico Berlinguer nella relazione introduttiva al XIII Congresso del Partito, nel marzo 1972, e confermata dagli articoli su “Rinascita” con i quali il segretario del Pci commentava la virata antidemocratica e il golpe cileno, e apriva al “compromesso storico”, politica che trova nella vittoria del No al Referendum sul divorzio il primo passo verso la “solidarietà democratica”.

 




Resistere per l’arte

“Mia cara Giusta, così eccomi qui, dove passano la loro misteriosa ora di destino i tesori più preziosi della nostra Galleria e non solo. Penso alle migliaia di custodi, ispettori, direttori, di studiosi che sempre vigilarono la minima di queste cose, giorno e notte, e io non posso fare altro che camminare per queste sale devastate e aperte a tutti”.
È il 23 luglio 1944: dal castello di Montegufoni in val di Pesa Cesare Fasola, funzionario della soprintendenza fiorentina e antifascista, inizia un resoconto appassionato alla moglie. Appena due giorni prima aveva deciso di partire da Firenze a piedi, da solo, alla volta dei rifugi di Montagnana, Montegufoni e Poppiano per sorvegliare i capolavori degli Uffizi e provare ad impedire la distruzione o il furto delle opere da parte dei tedeschi.

Se il tema “arte e guerra” è diventato negli ultimi anni di crescente interesse (anche per il successo mediatico di pubblicazioni e pellicole dedicate al contributo degli Alleati nel recupero dei capolavori europei), meno nota è tuttavia la dedizione commovente alla causa da parte della comunità civile toscana. Dipendenti della soprintendenza, uomini di cultura, partigiani, parroci di campagna rischiarono continuamente la loro vita per mettere in salvo il patrimonio artistico toscano o le collezioni delle famiglie ebree e di nazionalità nemica residenti a Firenze, come quella dell’illustre storico dell’arte Bernard Berenson.

La straordinaria concentrazione in Toscana di opere d’arte disseminate capillarmente in tutto il territorio impose negli anni della guerra l’adozione di misure eccezionali. I soprintendenti e tutto il personale addetto già dal 1940 iniziarono le grandi manovre per l’individuazione di rifugi in campagna, ritenuti in quel momento più sicuri che la città, come ricovero per le opere d’arte di chiese e musei. Tra il novembre del 1942 e il gennaio del 1943 il soprintendente alle Gallerie Fiorentine Giovanni Poggi, coadiuvato dal direttore delle Gallerie Filippo Rossi e dal responsabile del laboratorio di restauro Ugo Procacci, riuscì a far partire da Firenze 174 convogli con 3107 casse contenenti dipinti e altre opere, nonché 4170 fra dipinti e sculture imballate singolarmente. A disposizione aveva solo sei camion e il carburante razionato.

Evacuazione delle sculture degli Uffizi dalla chiesa di Sant'Onofrio a DicomanoLa Primavera del Botticelli salutò gli Uffizi e fu trasportata a Montegufoni; parallelamente la Nascita di Venere prese la via del castello di Poppi e La Venere di Urbino di Tiziano fu rinchiusa in una delle 57 casse alla volta del monastero Camaldoli. Se le porte di bronzo dorato di Ghiberti furono staccate dal Battistero fiorentino e custodite nella galleria ferroviaria abbandonata di Sant’Antonio a Incisa Val d’Arno, le monumentali sculture di Michelangelo della Sagrestia Nuova di San Lorenzo trovarono riparo nella villa a Torre a Cona. La Certosa di Calci fu il rifugio strategico individuato per le opere mobili delle province di Pisa, Apuania, Livorno e Lucca, mentre i Quattro Mori di Livorno furono nascosti nel Cisternino di Pian di Rota.

Tra la fine del 1943 e l’estate del 1944, proprio quando si presentarono i pericoli maggiori per opere note in tutto il mondo, si registrarono alcuni tra gli episodi più commoventi e significativi nella difesa del patrimonio artistico toscano. Nel gennaio del 1944 Ugo Procacci fu sorpreso dai bombardamenti nell’alta val del Tevere mentre trasportava da Borgo San Sepolcro il celebre Polittico della Misericordia di Piero della Francesca: sotto il fuoco alleato, Procacci e il restauratore Edo Masini non se la sentirono di abbandonare il furgone con il capolavoro di Piero e rimasero a sorvegliare il prezioso carico: “Ma io come facevo? Non potevo lasciarle così. Pensai: morirò. Pazienza”, raccontò anni più tardi il funzionario.

Un rischio simile corse il giovane restauratore Leonetto Tintori a Prato, dove il 7 marzo 1944 era stato frantumato il venerato tabernacolo di Filippino Lippi, gioiello della città: mentre incombeva continuo il pericolo degli attacchi aerei e delle deportazioni, Tintori rimase per più giorni sul luogo per ricercare fra le macerie i frammenti di affresco e portarli in salvo nella sua casa di campagna. Se a nulla poté il coraggio del tecnico dell’Opera Primaziale del Duomo di Pisa Bruno Farnesi, che in pieno incendio (causato dal bombardamento alleato) si era arrampicato sul tetto del Camposanto con picconi, bastoni e badili per cercare di spengere inutilmente il fuoco che stava distruggendo gli affreschi monumentali, a Volterra i cittadini riuscirono in extremis a salvare l’etrusca Porta dell’Arco. Destinata ad essere abbattuta dal Comando tedesco per bloccare l’accesso alla città, pur di salvarla i volterrani raccolsero tutte le pietre del circondario e le accatastarono all’interno dell’arco, rispettando l’ultimatum di 24 ore che era stato concesso loro.

Con i tedeschi in ritirata, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili toscane divennero le razzie che i nazisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania. A tali furti si aggiunsero le intere collezioni requisite alle famiglie ebree e il Tesoro della Sinagoga di Firenze, che invano fu nascosto dai Forti negli scantinati della loro villa nelle campagne pratesi.

Solo nel luglio del 1945, grazie a un lavoro congiunto tra Alleati e italiani, dove si distinse in particolare la figura di Rodolfo Siviero, iniziarono a tornare ‘a casa’ i primi capolavori. Tra gli applausi e le lacrime, tutti i cittadini scesero in piazza per salutare il ritorno di un patrimonio che di fatto costituiva l’identità di molte città toscane e in particolare di Firenze. 

Dalla primavera del 2014 la Fondazione CDSE Valdibisenzio e Montemurlo coordina il progetto “Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in Toscana”, sostenuto dalla Regione Toscana. Con cadenza mensile compariranno nel portale di ToscanaNovecento articoli di approfondimento su questo tema, corredati da fonti e materiali di difficile reperibilità.




“Non fare giustizia significa rendersi complici dell’ingiustizia”

Benché la Linea Gotica attraversi la Garfagnana, la valle – al contrario di quanto avviene in altre zone dell’Italia centro-settentrionale occupate dai nazifascisti – già prima del proclama Alexander (13 novembre 1944) non è al centro di attività belliche o partigiane particolarmente importanti. Resta un fronte tutto sommato secondario fino alla Liberazione, che avverrà il 20 aprile 1945.

Nonostante ciò, negli ultimi mesi del 1944 la guerra civile raggiunge da queste parti livelli impensabili soltanto pochi mesi prima. La 36° Legione Brigate Nere “Benito Mussolini”, comandata da Idreno Utimpergher, nelle poche settimane in cui è rimasta di stanza in Garfagnana ha contribuito parecchio a surriscaldare il clima, con soprusi, razzie, rappresaglie contro i civili (il 23 settembre vengono uccise otto persone e saccheggiate diverse abitazioni, in risposta a un attentato nel quale è rimasta ferita una donna, cognata di un ufficiale fascista) e atti di barbarie contro i partigiani catturati e uccisi. Luigi Berni per esempio viene legato con una corda a un autocarro e trascinato sulla strada fino alla sua morte. Racconta in una testimonianza inedita un partigiano garfagnino, Franco Bravi:

«Di eroi tra noi non ce n’era. Però si era presi da questo sistema: “…altrimenti ci portano in Germania, altrimenti ci distruggono, bisogna combattere questa gente”. Non che avessimo idee politiche. L’odio venne dopo i fatti del Berni. A quel punto, triste a chi capitava. Si era saputo di questo fatto, le voci giravano, si sapevano più o meno le cose, si sapeva che avevano trascinato questo Berni sulla strada e quindi l’idea “se si chiappa un fascista gli si fa uguale” c’era».

Nelle settimane successive a questi episodi, nonostante le Brigate Nere abbiano lasciato la Garfagnana, i partigiani della Divisione Garibaldi Lunense, operante nella zona ancora occupata, iniziano una sorta di epurazione. A farne le spese sono alcuni uomini segnalati dai locali CLN comunali come collaborazionisti nazifascisti e accusati di aver organizzato i fasci repubblicani, denunciato i renitenti alla leva fascista, fornito notizie alle truppe nazifasciste o, infine, esser stati dirigenti in aziende impiegate ai fini bellici del nemico. La corte marziale è guidata dal comandante Anthony John Oldham e dal commissario di guerra Roberto Battaglia. Si tratta ovviamente di processi sommari, la cui tragicità è aumentata dall’impossibilità di infliggere pene detentive: chi viene giudicato colpevole viene ucciso (e un errore giudiziario sarebbe irrimediabile), chi viene giudicato innocente viene rilasciato (e anche in questo caso, la rimessa in libertà di un collaborazionista potrebbe rivelarsi esiziale per la formazione partigiana). Lo spirito di queste settimane e di questi processi è ben riassunto in un’ordinanza del 28 ottobre 1944, firmata da Oldham e Battaglia:

“Epurazione

Chiedere ai CLN comunali elenchi di spie e favoreggiatori del nemico tenendo però presente che il giudizio definitivo spetta solo al Tribunale militare di guerra regolarmente costituito presso ogni comando di Brigata. Arrestare solo quando si è sicuri della colpevolezza in modo da poter procedere con la necessaria rapidità al giudizio. Conservare documentazione dell’istruttoria e della sentenza sottoscritta dai membri del Tribunale. Nel caso che una denuncia risulti falsa punire il delatore con la stessa pena che sarebbe stata inflitta al denunciato se riconosciuto colpevole. In ogni caso nessuna pietà, nessun compromesso, nessuna via di scampo per il nemico. Non fare giustizia significa rendersi complici dell’ingiustizia.”

In calce all’ordinanza, un appello del Corpo Volontari della Libertà Comando Settore Garfagnino, che avverte la popolazione dell’arrivo nella zona della Divisione Italiana Monterosa, diffidandola dall’aver qualsiasi rapporto con elementi della suddetta divisione, pena la fucilazione. (Si veda trascrizione del documento allegato).

Questa è la situazione in Garfagnana ai primi di novembre. Il 4 di quel mese, a Foce di Careggine, dove ha sede il comando partigiano, viene fucilato Saul Grandini, accusato di aver collaborato con la Guardia Nazionale Repubblicana.

Due giorni dopo i tedeschi prelevano dalle carceri di Castelnuovo tre uomini, Antonio Bargigli, Ferruccio Marroni, Telmo Simoni, e una donna, Natalina Peranzi: l’accusa è di far parte della Resistenza e di avere istigato alla diserzione soldati repubblicani. I quattro vengono uccisi al cimitero di Castelnuovo Garfagnana.

Il 7 novembre i partigiani uccidono tre uomini, sempre a Foce di Careggine. Uno è un tenente abruzzese della Monterosa, catturato pochi giorni prima, Paolo Carlo Broggi. Gli altri due sono uomini del posto: Aristide Contadini, segretario del fascio di Careggine, e Fedele Bianchi, medico condotto del paese. In questi ultimi due casi, le accuse sono controverse e la loro effettiva attività antipartigiana è più presunta che acclarata. Contadini ha assunto la carica mesi prima forzatamente per ordine dell’ispettore di zona del fascio repubblicano, il medico pare abbia addirittura aiutato qualche partigiano.

Ma, come detto, la guerra civile è all’apice in questa zona d’Italia e un sospetto sottovalutato può risultare decisivo per la vita di una intera formazione partigiana. E anche per Contadini e Bianchi non c’è speranza di salvezza. Sono in totale sedici (quindici civili e il militare Broggi) in poco più di un mese i condannati a morte fascisti dalla Corte marziale della Garibaldi Lunense nella sola Garfagnana.

Oldham, Battaglia e i partigiani che eseguono le sentenze verranno processati negli anni successivi: le esecuzioni verranno considerate azioni di guerra e gli imputati assolti in virtù del Decreto Luogotenenziale 194 del 12 aprile 1945.

 

Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”.




Molina di Quosa e S. Anna di Stazzema, due stragi legate

Tra il maggio e il giugno del 1947, a Padova, un tribunale britannico celebra per conto delle Nazioni Unite un processo per crimini di guerra contro il generale Max Simon, comandante della 16ª Divisione Panzergrenadier «Reichsführer-SS».

Inizialmente il procedimento prevede che i capi d’accusa riguardino cinque grandi eventi di sangue, avvenuti per lo più in territorio toscano: le stragi di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944, oltre 430 vittime), di Bardine di San Terenzo Monti (19 agosto 1944, 159 vittime), eccidi vari avvenuti lungo le Alpi Apuane (23-27 agosto 1944, 171 vittime solo a Vinca), la strage di Bergiola Foscalina (16 settembre 1944, 71 vittime) e il massacro di Monte Sole (29-30 settembre 1944, quasi 800 vittime).

Nel corso dell’estate del 1944 la 16ª Divisione SS comandata da Simon aveva lasciato dietro di sé un’impressionante striscia di sangue, che dalle vette sopra la Versilia era proseguita lungo l’arco appenninico fino ad arrivare ai valichi tra Firenze e Bologna: il processo vuole ora provare la condotta criminale di Simon e dei suoi uomini a partire da questi cinque episodi luttuosi.

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Max Simon

A pochi giorni dall’inizio del dibattimento, il 15 maggio 1947, la Procura militare inglese chiede ed ottiene di aggiungere anche un sesto evento, avvenuto prima degli altri: la strage della Romagna, località montuosa sopra Molina di Quosa, frazione del comune di San Giuliano Terme (Pisa), che aveva contato 69 vittime. Per ragioni di precedenza cronologica (l’episodio è avvenuto l’11 agosto 1944), diventa il primo capo d’accusa nei confronti del generale Simon.

Al processo di Padova vengono quindi ascoltati due sopravvissuti alla strage, Oscar Grassini e Generoso Giaconi, che raccontano di un rastrellamento avvenuto la notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 in località Romagna, dove si erano rifugiate centinaia di famiglie. I tedeschi avevano emanato un bando di sfollamento che obbligava gli uomini adulti a evacuare la zona entro i primi del mese; nella zona inoltre erano stati avvistati dei partigiani. Queste le cause di un’operazione che terminò con la cattura di 300 uomini e di una donna, Livia Gereschi, insegnante di tedesco che si era offerta di mediare con i tedeschi.

Il gruppo era stato diviso in due, tra chi si era dichiarato abile al lavoro e chi no: i primi erano stati inviati a Lucca, per essere smistati nei campi di lavoro; i secondi rinchiusi nella scuola-prigione di Nozzano, poco distante. Dopo alcuni giorni di prigionia, l’11 agosto, i reclusi della Romagna erano stati caricati quattro alla volta su delle camionette e portati in diverse località a qualche chilometro di distanza, verso sud oppure nord-ovest, quindi fucilati. Alla fine furono 69 i morti, uccisi probabilmente per fare posto nelle carceri di Nozzano ai prigionieri dei rastrellamenti che i tedeschi stavano conducendo intorno a S. Anna di Stazzema.

La formulazione del giudizio finale del processo di Padova del 1947 non prende però in considerazione l’episodio della Romagna, forse a causa della povertà dei materiali documentari raccolti in fretta e furia. Più di 60 anni più tardi, il 10 ottobre 2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Roma riapre il procedimento penale a carico della 16ª Divisione Panzer-Grenadier «Reichsführer-SS» per la strage perpetrata l’11 agosto 1944, nella persona del maresciallo Josef Exner. Rovesciando la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, il Gip restituisce alla strage della Romagna la dignità di un percorso giuridico, grazie anche all’Amministrazione comunale di San Giuliano Terme, costituita parte civile.

Il processo si conclude con un’archiviazione, per l’accertato decesso dell’imputato. Intanto però è stato dato un segnale forte e inequivocabile: la storia della guerra non è materia inerte e dimenticata, ma è un periodo che interessa ancora ai cittadini del terzo millennio, da interrogare e sollecitare. È una storia che riguarda il nostro presente.

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




Guerra e sfollamento in Versilia.

Il 18 maggio 1944, mentre le truppe alleate riuscivano a sfondare la Linea Gustav, cadevano le prime bombe americane sulla Versilia storica, dirette a colpire il ganglio stradale e ferroviario di Ponterosso, a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu), allo scopo di ostacolare i movimenti dei reparti tedeschi destinati al fronte sud. I versiliesi, già stremati da quasi quattro anni di lutti e sofferenze, si ritrovarono così direttamente coinvolti nella “guerra guerreggiata”: dopo quel giorno, infatti, le incursioni aeronavali sull’entroterra si sarebbero moltiplicate. Fu allora che le prime famiglie decisero volontariamente di sfollare: uomini, donne, vecchi e bambini, raccolte le poche cose che riuscivano a portare in spalla o su un semplice carrettino, scelsero di lasciare la propria abitazione, divenuta ormai troppo pericolosa per rimanere. Nella maggior parte dei casi, ritenendole più sicure, gli sfollati s’incamminarono verso le montagne, cercando rifugio presso amici e parenti. Più spesso, tuttavia, dovettero accontentarsi di una sistemazione di fortuna: un materasso in una stanza sfitta, un giaciglio di paglia in un metato diroccato, un tetto sotto cui passar la notte, in attesa di tempi migliori.

Nell’estate del ’44, mentre gli attacchi partigiani riuscivano efficacemente a rallentare i lavori di fortificazione della Linea Gotica portati avanti dall’Organizzazione Todt, le SS prendevano il controllo dell’area versiliese, compiendo rastrellamenti e violenze contro la popolazione, al fine di reciderne i legami con le formazioni. Per potersi muovere più liberamente ed isolare le sacche di resistenza, i nazifascisti decisero infine di evacuare completamente il territorio: a partire dal 30 giugno 1944, giorno in cui fu sgomberato il Comune di Forte dei Marmi, gli occupanti emanarono una serie di ordinanze di “sfollamento totalitario”, con le quali, spesso lasciandole soltanto poche ore a disposizione, si costringeva tutta la popolazione ad abbandonare le proprie case. Nel giro di qualche settimana, la medesima sorte toccò ai Comuni di Seravezza, Pietrasanta e Stazzema. Secondo i manifesti, la popolazione avrebbe dovuto incolonnarsi a piedi verso il Passo della Cisa, fino a Sala Baganza (Pr), dove sarebbe stata alloggiata provvisoriamente, in attesa di passare il Po: chiunque fosse stato sorpreso a circolare in zona di evacuazione dopo il termine ultimo senza valido motivo, sarebbe stato arrestato e passato per le armi. Nel frattempo, squadre di genieri nazisti procedevano alla sistematica distruzione di tutte le infrastrutture che ostacolavano la linea di vista dalle alture retrostanti la piana.

Nonostante le minacce, la stragrande maggioranza dei civili decise di rimanere in Versilia, impegnandosi in una dura, massacrante lotta per la sopravvivenza, in condizioni di fame, angoscia, scarsissima igiene e sovraffollamento, in trepidante attesa degli Alleati. Gli anglo-americani arrivarono nell’autunno del ’44, ma gli sfollati versiliesi non poterono subito far ritorno alle proprie case: fino all’aprile del 1945, infatti, l’avanzata alleata restò impantanata ai piedi della Gotica, e tutta la zona rimase terra di battaglia, costantemente battuta dalle opposte artiglierie. Quando i cannoni tacquero, la popolazione poté gradualmente rientrare: di fronte a lei, un paesaggio irriconoscibile, completamente devastato dalle bombe, tutto da ricostruire.

La storiografia ufficiale del Dopoguerra riservò scarsissima attenzione alla tragedia dei civili nel corso del conflitto. Proprio per questo, oggi, ricostruire lo sfollamento con l’ausilio delle fonti orali permette di conoscere quella sofferenza direttamente dalla voce di chi la visse sulla propria pelle: attraverso i racconti dei testimoni, in altre parole, diviene possibile conferire dignità e valore alla quotidiana battaglia per la vita che i civili della Versilia combatterono nei lunghi mesi della Gotica, in nome della solidarietà umana e dell’amore per la propria terra.

Federico Bertozzi si è laureato in storia contemporanea, presso l’Università di Pisa, nel novembre 2013, con una tesi dal titolo “Attaccarono i fogli: si doveva sfolla’!” dedicata alla ricostruzione dello sfollamento in Versilia con l’ausilio delle fonti orali. Attualmente si sta occupando di raccogliere le memorie del passaggio della guerra in Versilia. 




Settant’anni dopo. La guerra in Toscana

L’Italia era in guerra da almeno otto anni. Prima per conquistare l’Etiopia, appoggiare i franchisti in Spagna, occupare l’Albania. Poi, dal 1940, affiancando la Germania nazista nella guerra continentale, invase la Francia meridionale, la Grecia, il Montenegro, la Slovenia, e infine l’Unione sovietica. Fu l’inverno russo a raffreddare gli entusiasmi: chi ne tornava raccontava di una catastrofe. Nel 1943, difficoltà materiali e lutti alimentarono disillusione e presto sfiducia aperta verso il regime che la guerra aveva voluto ed esaltato. E che crollò, come un colosso d’argilla, quando tra giugno e luglio gli Alleati sbarcarono sulle coste meridionali. Sorpresi dalla guerra in casa come da un uragano estivo, gli italiani sperarono che anch’essa – impetuosa, ma rapida –  passasse oltre.

Invece, per venti mesi imperversò nella penisola. In autunno, l’esercito tedesco ne occupò oltre metà, sostenuto dai fascisti, riorganizzatisi nella Repubblica sociale italiana. Il fronte si stabilizzò tra Napoli e Roma fino al maggio 1944, quando gli Alleati avanzarono verso nord, non riuscendo però a impedire che i nazifascisti si attestassero sulla linea Gotica, il sistema difensivo approntato lungo il crinale appenninico, dalle Marche alla Lunigiana, ove resistettero dall’autunno 1944 al termine del conflitto, nell’aprile 1945.
Tra l’autunno del 1943 e quello del 1944 – settant’anni or sono – la Toscana fu investita in pieno dalla guerra. Se dal 1940 aveva lamentato, si stima, oltre 11 mila morti militari e quasi 1500 civili, dal settembre 1943 i caduti per cause belliche furono oltre 22.000.

Per i tedeschi divenne cruciale come serbatoio di risorse e transito di materiali e truppe per il fronte meridionale, oltreché caposaldo da difendere per approntare la Gotica e impedire uno sbarco alle spalle del fronte. Per ragioni speculari, anche gli Alleati aggredirono massicciamente la Toscana, bombardando a tappeto l’area costiera, le vie di comunicazione e le maggiori infrastrutture. Da Arezzo a Livorno, numerosi centri subirono distruzioni ingenti, migliaia di morti e decine di migliaia di famiglie costrette a sfollare. Firenze fu meno colpita, ma i ponti sull’Arno e una vasta area del centro cittadino furono invece distrutti dai tedeschi, per ostacolare l’avanzata degli Alleati nell’agosto del 1944.

Il governo collaborazionista della Repubblica sociale dapprima provò a rialimentare il consenso goduto un tempo dal regime, affiancando ai moderati ispirati da Giovanni Gentile gli estremisti inquadrati da Alessandro Pavolini nelle schiere del fascismo repubblicano. Presto però, fascisti ed occupanti dovettero dispiegare a pieno la violenza per proseguire nello sforzo bellico: ciò significò deportazione nei campi di sterminio di almeno 675 cittadini ebrei, arresti e fucilazioni dei renitenti alla leva, ritorsioni nei confronti dei contadini disobbedienti agli ammassi, arresti, torture e deportazioni (oltre un migliaio di persone) di quanti ostacolavano l’economia di guerra – scioperando o sottraendosi al lavoro obbligatorio –, oltreché di chi aderiva alla resistenza o anche solo favoriva i partigiani.

Provvedimenti efferati quanto vani. Neppure servirono i reparti speciali di polizia, come quello di Mario Carità a Firenze o la prima Brigata nera, costituita a Lucca da Idreno Utimpergher. Ma il prezzo fu altissimo. Alla mancata collaborazione della popolazione e alla crescente offensiva di partigiani  e Alleati, si rispose considerando l’intera popolazione rurale una minaccia per l’esercito germanico: le stragi di civili fecero almeno 3.824 vittime. Di contro, alimentato dai risorti partiti politici e guidato dai Comitati di liberazione nazionale, il movimento di resistenza giunse a mobilitare quasi venticinquemila partigiani – che sostennero audacemente l’offensiva militare alleata e la anticiparono con l’insurrezione dell’agosto 1944 – e avviò la ricostruzione delle istituzioni democratiche.