Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Lo sviluppo delle case “popolari ed economiche”

Evoluzione della cultura dell’edilizia popolare ed economica.
Il concetto di edilizia popolare viene da lontano, con caratteristiche legate alle condizioni contingenti della Repubblica Italiana; si caratterizza, ora come supporto alle condizioni economiche della popolazione, ora come incentivo alla ricostruzione dopo le devastazioni delle guerre, ora come azione integrata nel risanamento e recupero di parti del territorio urbano degradato. La legge del 1942 nasce in periodo bellico e di lì a poco la ricostruzione diventerà un torrente in piena la cui rapidità e diffusione renderà quasi del tutto inefficaci i complessi meccanismi amministrativi previsti, spalancando le porte ad un processo di speculazione inarrestabile.
I primi interventi dopo la legge del ’38 sono i due edifici in via Ferrucci che nel 1946 si chiamava via Campo Marzio. A questi seguono quelli di viale Matteotti e di viale Italia.  Verso la metà degli anni ’40 inizia a formarsi una tipologia insediativa più caratterizzata: quella dei cosiddetti Villaggi. Si rafforza anche una concezione nefasta per la vita delle città: quella degli “alloggi per…” quindi della concentrazione nello stesso ambito urbano di categorie sociali omogenee.
È da rilevare come la cultura architettonica rimanga ancora largamente ai margini di queste realizzazioni. Nel 1956 viene completato il programma per realizzazione dei 41 edifici ai margini della via Pagliucola, le “Casermette”. Negli anni successivi viene realizzato, lungo la via Ombrone Vecchio, il Villaggio di Castel de Luci, per un totale di 37 alloggi. Di seguito saranno realizzati 19 alloggi in località Sei Arcole. Con finanziamento specifico sarà promossa l’eliminazione delle “case malsane”. La realizzazione dei Villaggi prosegue: nel 1958 viene completato il Villaggio di via Sestini, un piccolo quartiere dormitorio costituito da 32 alloggi.
Dopo il completamento delle Casermette, l’IACP, nel 1957, inizia la trattativa per l’acquisto delle aree tra la via Dalmazia e la via di Valdibrana. Con questo complesso residenziale inizia una nuova configurazione dello spazio urbano: non più un sistema residenziale fine a se stesso ma un vero e proprio quartiere, dotato dei servizi e delle attrezzature che caratterizzano i centri urbani. Queste caratteristiche rappresenteranno un
1 Legge n. 640/1964. Provvedimenti per l’eliminazione delle case malsane valore nuovo per la città di Pistoia, che inizierà a manifestare i suoi effetti nel corso degli anni ‘60.
All’opera contribuiscono anche architetti di grande prestigio (Giovanni Michelucci, Leonardo Savioli…) anche se in alcuni casi
peseranno sugli abitanti carenze legate al confort abitativo, alla sicurezza, alla privacy. Ma saranno comunque rapporti umani a trarre da questa esperienza urbanistica i frutti migliori. La consegna di buona parte degli alloggi avviene sostanzialmente in modo simultaneo intorno al 1960-61. Per i giovani risiedere al Villaggio Belvedere rappresenta un tratto identificativo importante. Nel villaggio il tenore di vita non è mai caratterizzato dal disagio ed il lavoro è in valore diffuso, con una buona parte dei residenti occupata alle officine San Giorgio. La stessa caratterizzazione in “villaggio di sopra” e “villaggio di sotto” sarà una delle basi dialettiche per capire i differenti modi e motivi di aggregazione sociale caratteristici degli anni sessanta: patrimonio del quale, nei decenni seguenti, mancheranno una attenta valutazione ed una adeguata valorizzazione.
Dal Villaggio Belvedere sono scaturiti giovani motivati: molti laureati, professionisti, artisti, a riprova del fatto che la diversità, unita al desiderio di integrazione e di comunità, possono produrre quella qualità sociale ed umana che rappresenta l’unico vero supporto alla
convivenza ed allo sviluppo in una società civile.

Maurizio Lazzari, architetto e autore di saggi e articoli di storia dell’architettura, è membro della redazione della rivista “Farestoria” dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Le Ville Sbertoli: un manicomio durante l’occupazione nazifascista

Quando si parla delle Ville Sbertoli, si fa riferimento al manicomio della città di Pistoia. Nate come Casa di Salute nel 1864 per volontà di Agostino Sbertoli e divenute poi Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale nel 1951, le Ville Sbertoli si ergono come monumenti del passato sull’amena collina di Collegigliato, pochi chilometri a nord della città di Pistoia.

Chiuse definitivamente nel 2011 dopo numerosi cambi d’uso, dalla loro fondazione agli anni Quaranta del Novecento, hanno rappresentato un centro di ricovero estremamente raffinato e rivolto ad una clientela internazionale, cosmopolita, aristocratica e alto borghese proveniente dalle principali città italiane e dall’estero. Ancora oggi, nonostante le varie ristrutturazioni operate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e l’abbandono, colpisce la bellezza architettonica del complesso sviluppatosi secondo i desideri dello Sbertoli in una serie di padiglioni disseminati con uno stile liberty ed eclettico.

Malgrado i cambi di gestione, l’andamento della Casa di Salute prosegue senza discontinuità fino all’avvento del secondo conflitto mondiale, in particolar modo fino all’occupazione tedesca di Pistoia iniziata l’11 settembre del 1943 e conclusasi l’8 settembre del 1944.

Così come altre realtà, Pistoia subisce due drammatiche conseguenze derivanti dall’occupazione: i bombardamenti alleati e le persecuzioni contro nemici politici e persone di stirpe ebraica. Entrambe le vicende influiscono direttamente sull’andamento della Casa di Salute. I tre bombardamenti della città, avvenuti tra fine ottobre 1943 ed inizio gennaio 1944, inducono le autorità della Repubblica Sociale Italiana a trasferire i detenuti del carcere cittadino nei Villini della Casa di Salute. Numerosi furono i prigionieri politici, fra cui alcuni ebrei, che furono reclusi dai nazifascisti all’interno del complesso. Tra questi, vi furono anche i giovani renitenti alla leva della Repubblica Sociale Italiana che il 31 marzo del 1944, condotti alla Fortezza Santa Barbara, subirono la fucilazione.

Le notizie più significative riguardo le vicende all’interno delle Ville Sbertoli, emergono direttamente dall’Archivio dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Pistoia, in particolar modo dalla consultazione delle Cartelle Cliniche e dei Registri dei Morti. Nel Registro numero cinque si scopre che il giorno 22 giugno 1944 muoiono cinque uomini originari di Santonuovo per «fucilazione» e che il giorno 16 settembre 1944 viene ucciso, sempre per fucilazione ma con la specifica di «az. guerra», un giovane ragazzo di diciassette anni. Oltre a questi, emergono i casi di T. U., ventinove anni, bracciante, che il giorno 29 luglio 1944, viene «fucilato dai tedeschi» a Tizzana, e di N. E., ventiquattro anni, che il giorno 30 luglio 1944, viene «mitragliato dai tedeschi» nella località di Ponte del Gatto, S. Baronto, Lamporecchio, perendo per «ferite a. d. f. alla testa» (armi da fuoco).

Dalla consultazione delle cartelle cliniche emerge, poi, il fatto che durante il periodo bellico i ricoveri crescono progressivamente e che oltre alle degenze annoverabili pienamente alla malattia mentale, vi sono due ulteriori profili ascrivibili uno alla categoria dei ricoveri derivanti dalla guerra e dai bombardamenti, l’altro a quella dei ricoveri artefatti.

Riguardo i primi, le cartelle ci riportano la vicenda di tre ex combattenti sconvolti psicologicamente dal servizio militare.

Il giovane ventisettenne B. E., fu chiamato il 1° settembre 1938 «sotto le armi e inviato in Libia ove incominciò a soffrire disturbi nervosi tanto gravi che per un mese e mezzo venne ricoverato nell’Ospedale di Bengasi». D. A., ventitré anni, soldato ferito con pensione di guerra «nel 1940 combatté in Russia dove diceva talvolta di sentire delle forze telepatiche. Tornato in Italia rimase per un certo periodo in casa, ma avendo commesso delle stranezze fu internato nell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano (Lucca)». C. G., avendo militato in Montenegro, «ebbe un forte esaurimento in seguito al quale cadde in stato di depressione. Fu rimpatriato con diagnosi di “sindrome depressiva”».

Dall’analisi delle cartelle emergono, poi, numerosissimi casi di ricoveri ascrivibili agli shock da esplosione che testimoniano chiaramente la diretta conseguenza dei tre bombardamenti della città. Le degenze spesso si svolgono nell’arco di pochi mesi e dall’assenza di quasi la totalità della documentazione medica, si comprende come l’allontanamento dalla città in una zona separata dal teatro di guerra, bastasse a lenire la psiche dei ricoverati. Sono persone definite sane la cui condizione di «agitazione» si verifica a seguito dei bombardamenti «vedendo cadere le bombe a poca distanza». Come il caso del commerciante ventunenne T. R., di cui si dice che «a seguito di trauma psichico dovuto allo scoppio di una bomba si cambiò improvvisamente in uno stato di particolare fatuità»; o il caso più dettagliato di P. G., venti anni, che «in uno dei bombardamenti su Pistoia rimase per circa un’ora sotto le macerie dove perirono la madre e i cinque fratellini. Ebbe per questo un forte shock, ma seguitò a lavorare nelle ferrovie. In altro bombardamento fu nuovamente ferito. Da allora egli rimase nel terrore di non poter sfuggire alle incursioni. Durante gli allarmi egli è incapace di qualsiasi iniziativa anche se si tratta di mettersi al sicuro».

Nella categoria dei ricoveri causati dalla guerra sono degni di nota anche due casi di delirio paranoico a sfondo politico e persecutorio, nei quali, a detta dei ricoverati, la persecuzione era messa in atto dai fascisti o dai nazisti.

Come P. M., che «a seguito degli avvenimenti del 25 luglio scorso cominciò ad avere preoccupazione prima, poi addirittura mania di essere arrestato e fucilato. Susseguentemente subentrò autoaccusa, mania persecutiva»; o di B. O. che «subitò un trauma psichico il 2 giugno 1944, per una perquisizione avvenuta in casa sua, cominciò ad avere degli accentramenti ideologici. Poco tempo dopo a causa della morte di un tedesco, profondi rimorsi cominciarono a dar noia al soggetto e dopo, grado a grado, si sviluppò la mania di persecuzione. Dice che è stato condannato a morte e che da un momento all’altro devono venire a prenderlo e giustiziarlo».

Per quanto riguarda i ricoveri artefatti, la figura principale attorno a cui le varie vicende si dipanano è quella del direttore sanitario Marcello Silvestrini. Poche le informazioni che si riescono a ricavare su di lui, ma, grazie al suo silenzioso lavoro di assistenza e solidarietà, firmando ricoveri, tenendo i contatti con le famiglie e allontanando i controlli dei militari dai reparti, permise a molti di eludere l’arruolamento forzato o la deportazione.

Numerose sono le cartelle che al loro interno non presentano alcuna documentazione medica se non i decreti di ammissione e dimissione del tribunale. Ricorre spesso, negli atti del Silvestrini, specie in quelli indirizzati alle famiglie del ricoverato, la formula «al giorno della dimissione Vi terrò informato», o nella cartella clinica, nella sezione destinata ai motivi della dimissione, l’espressione «rilasciato/a per insufficienza titolo». Non è poi casuale il fatto che dei centoundici ricoveri avvenuti durante il periodo d’occupazione nazifascista, ventitré vengano dimessi nei due mesi successivi la liberazione della città, quasi tutti per «insufficienza titolo». Tra questi troviamo il caso di un giovane di ventiquattro anni, R. R, ricoverato con un generico certificato del medico di famiglia, Dott. Aldo Benelli, con l’avallo del comando tedesco datato 1° agosto 1944. Troviamo poi anche alcuni ebrei. Visto l’intento, le cartelle non solo sono prive di qualsiasi documentazione, ma non presentano neppure riferimenti dell’estrazione ebraica degli ospiti; ma, dall’analisi dei cognomi, compare distintamente l’origine ebraica dei ricoverati.

In un caso, quello del paziente D. V., la cartella ci riporta interessantissime e toccanti informazioni. D. V. nato a Charkow, in Ucraina si legge che:

                 Essendo di origine ebraica, le nuove disposizioni di Legge l’hanno obbligato a dimettersi dal posto di Imp. alla Banca e ciò ha influito fortemente sulla sua costituzione nervosa, che non ha mai dato l’impressione di energia. Essendo fortemente esaurito con mania persecutiva, in seguito allo scoppio della guerra (1939-40) viene arrestato come straniero, e le sue condizioni fisiche e psicofisiche ne richiesero il ricovero alla Villa Aprica in Como per circa 2 anni.

 Trasferito alle Sbertoli, gli viene redatta la diagnosi di neuropsicastenia, malattia caratterizzata da stanchezza, malinconia e depressione. Viene rilasciato per impossibilità di sostenere la retta. Una toccante lettera del 1958 da lui scritta indirizzata direttamente al Silvestrini – segno evidente di quanto il suo operato significò per la sua vita – riporta:

                 Io lasciai le Ville Sbertoli nel Luglio 1946 […] in attesa e nella speranza di poter ritrovare la mia famiglia, dalla quale ero stato separato dagli eventi della guerra. Purtroppo però, ciò non è avvenuto, in quanto riuscii a sapere poi che mia madre e mia sorella, deportate dai nazifascisti in Germania ed ivi rinchiuse in un campo di concentramento e sterminio, vi trovarono la morte, dopo infinite sofferenze […]. Recentemente è stata emanata in Italia una legge che concede un sussidio di benevolenza (una specie di pensione) da parte dello stato, a favore di coloro che sono stati vittime di persecuzioni politiche e razziali in regime fascista e a causa di tali persecuzioni hanno contratto malattie, per effetto delle quali hanno perduto o visto menomata la loro capacità lavorativa. Ho presentato la relativa Domanda ed ora mi è stato richiesto di corredarla con un Certificato Medico, della Casa di Cura, dove sono stato ricoverato.

 Nonostante il Silvestrini non fosse più direttore delle Ville Sbertoli, dal manicomio di Perugia, dove si era trasferito, si adopera, ancora una volta, per la situazione di uno dei suoi ex pazienti, facendo richiesta al nuovo direttore. Non rimase inascoltato: dagli incartamenti risulta che il nuovo direttore si adoperò per la produzione del certificato «per uso pensione» riportando fedelmente tutti i dati del paziente. Se, infine, D. V. abbia ottenuto effettivamente il sussidio, questo, purtroppo, non emerge.

Mattia Eleni ha conseguito il Diploma di Liceo Classico presso il Liceo Statale Niccolò Forteguerri di Pistoia, quindi la Laurea Triennale in Storia presso Università degli Studi di Firenze, attualmente è studente di magistrale di storia all’Università di Pisa. 

Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.




Dispersi sì, dimenticati mai.

Ricostruire le vicende del Piroscafo Oria e dei soldati italiani che vi morirono durante la seconda guerra mondiale. È di prossima pubblicazione un’inedita ricerca sulle vicende del Piroscafo Oria, partito da Rodi e affondato il 12 febbraio 1944 presso l’isola di Patroklos in Grecia con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania. A firma di Luisa Ciardi, Michele Ghirardelli e Matteo Grasso, il libro, frutto di un progetto regionale che vede dal 2013 la collaborazione di più enti e istituzioni (Fondazione CDSE, Regione Toscana, Istituto storico per la Resistenza di Pistoia e la Rete dei Parenti delle Vittime del Piroscafo Oria) pone ulteriori sviluppi nella ricostruzione storica e nella ricerca dei singoli caduti del naufragio.

Il progetto nel corso degli anni si è arricchito di nuovi tasselli che hanno portato il Comune di Monsummano Terme a strutturare una collaborazione che portasse le vicende dell’Oria nelle scuole, attraverso progetti didattici, e all’attenzione della cittadinanza, grazie agli studi storici e all’intitolazione di un giardino. Questa fase è incominciata nel 2016, quando il monsummanese Renato Mazzei, nipote del disperso Righetto Pierattini, è entrato in contatto con Elena Sinimberghi, assessore alla cultura di Monsummano Terme; l’incontro ha poi trovato compimento fra il 2017 e il 2019 nell’ambito di un progetto triennale di ricerca.

Righetto Pierattini era un giovane di 21 anni quando, dopo l’Armistizio del settembre 1943, fu fatto prigioniero dalle forze naziste, rifiutando in seguito l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana. Un atto di Resistenza e di fedeltà ai propri ideali: da un lato un giuramento fatto al Re d’Italia, dall’altro un’avversione verso il nuovo regime fascista. Fece parte della schiera di internati militari italiani, ma non riuscì a giungere in un campo di concentramento nazista: trovò la morte all’interno di una nave – appunto, il Piroscafo Oria – che lo stava trasferendo sulle coste greche per la deportazione in Germania.

Partendo da questo episodio, la ricerca ha dato vita ad un volume a più mani, curato dal docente universitario Michele Ghirardelli (nipote del disperso Ugo Moretto, fra i fautori delle prime ricerche sull’argomento una decina di anni fa e fra i sostenitori della nascita della Rete dei parenti delle vittime dell’Oria), dalla storica Luisa Ciardi (Fondazione CDSE, coordinatrice del primo progetto regionale sull’Oria) e dal sottoscritto (direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e autore delle indagini sui dispersi nella provincia pistoiese).

Nell’introduzione, Luisa Ciardi traccia un bilancio del percorso che in questi anni ha coinvolto l’Oria, partendo dalla sua memoria collettiva e giungendo al riconoscimento pubblico. La prima ricerca è affidata a Ghirardelli che si sofferma su alcuni aspetti fondamentali, nei quali fornisce un quadro storico molto approfondito e passa in rassegna la bibliografia sulla vicenda. Il suo testo non si limita a considerazioni di carattere generale e a pure riflessioni storiografiche, ha il merito di entrare nel dettaglio delle singole memorie e di intrecciare microstoria e macrostoria.

La seconda parte della ricerca interessa i caduti pistoiesi ed è strutturata su tre livelli, secondo il metodo scientifico dell’incrocio fra fonti diverse: archivistica, orale e bibliografica. Partendo dall’indagine a cura della Fondazione CDSE iniziata nel 2013, ho ripreso i nominativi riconducibili alla Provincia di Pistoia e li ho confrontati prima con i fogli matricolari conservati all’Archivio di Stato di Firenze, dove è possibile consultare le carriere militari dei soldati, poi con gli atti di nascita e di morte registrati presso gli archivi comunali. Solamente in una seconda fase e con queste informazioni in possesso, sono riuscito a rintracciare i familiari. Alcuni di loro erano già a conoscenza dell’Oria ed erano entrati a far parte della Rete delle famiglie dei dispersi. Altri, invece, non avevano avuto informazioni sufficienti riguardo il proprio caro, né in passato né di recente: le dichiarazioni di irreperibilità, quando arrivarono, nel caso pistoiese furono emesse fra il 1946 e il 1953, quindi con un ritardo minimo di due anni e massimo di nove rispetto alla tragedia, dati che confermano la tendenza nazionale. Vennero tutti liquidati dal distretto militare di Pistoia con la dichiarazione di irreperibilità e una frase rituale generica e ripetitiva che non rendeva giustizia alle loro storie: “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra”.

Il contatto con i parenti ha permesso di attingere a un’ampia parte di patrimonio documentario, costituito da fotografie, lettere dal fronte, documenti e oggetti personali. In questa maniera la memoria privata delle singole persone si lega indissolubilmente –e contribuisce- alla grande storia dell’Oria. L’indagine locale ha una caratteristica determinante che può essere punto di forza: nonostante temi, fonti e metodi restino sostanzialmente quelli della storia generale, essa vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra fondi archivistici inediti e talvolta sconosciuti, come quelli comunali e familiari.

Sono state così ricostruite le biografie militari di 16 pistoiesi dispersi nella tragedia, corredate di lettere, immagini e testimonianze che andranno ad arricchire i caduti già rintracciati dalla grande famiglia dell’Oria.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.




La città in guerra. Cittadini e profughi tra il 1915 e il 1918

La mostra La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918, allestita a cura dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e dell’Associazione “Storia e Città” di Pistoia, è nata dall’unione di due distinti progetti per soddisfare molteplici obbiettivi. Sull’onda del “Centenario della Grande Guerra” e della nomina di Pistoia a “Capitale italiana della Cultura 2017”, La città in guerra è stata un tassello cardine di un ciclo divulgativo pluriennale su Pistoia durante il primo conflitto mondiale, inaugurato nell’autunno 2015 dall’Associazione “Storia e Città” con la mostra Pistoia 1914-1915. Dalla neutralità all’intervento e che si concluderà nel 2019, con un allestimento dedicato alla memoria e all’eredità culturale, sociale e politica della Grande Guerra.

L’allestimento ha cercato di fare una divulgazione esteticamente efficace e scientificamente rigorosa, con l’obbiettivo di indurre una riflessione su un momento storico di fondamentale importanza, raccontando il conflitto bellico in tutta la sua complessità, in un continuo dialogo tra il piano generale e locale. In ragione di questo, si è sottolineato come il conflitto abbia causato profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali anche a Pistoia, nonostante la città si trovasse distante dalla zona di guerra. La città e i suoi spazi hanno avuto un ruolo centrale nel percorso espositivo, rimarcando gli snodi dell’esperienza bellica pistoiese: le difficoltà dell’approvvigionamento annonario, l’ospitalità ai profughi, la gestione dell’apparato economico, il ritorno dei feriti dal fronte, l’organizzazione degli spazi culturali e di propaganda, le lettere e i diari dei soldati, l’opera dei comitati di mobilitazione civile, il comportamento del clero e delle forze politiche.

I due enti organizzatori hanno scelto di concentrare l’attenzione su Caporetto e sulla fase successiva, in modo da concedere ampi spazi alla vicenda dei profughi veneti e friulani, provenienti dai territori invasi: un fatto storico di grande interesse. Gli esuli riparati nel fronte interno diventarono un segno concreto di una guerra vicina e incombente. Inoltre, l’accoglienza si rivelò problematica, non soltanto a causa della situazione interna italiana, ma pure per difficoltà d‘integrazione tra le popolazioni ospitate e ospitanti. Tenendo sempre in considerazione le vicende nazionali, il progetto si è focalizzato sui profughi ospitati a Pistoia, provenienti in buona parte da Belluno e Treviso, con le rispettive amministrazioni comunali e vari enti economici delle due città. A riprova di questo legame, le amministrazioni comunali della due città hanno concesso il loro patrocinio e il Comune di Belluno ha presentato i materiali già esposti nella mostra didattica “An de la fan. Belluno invasa, 10 novembre 1917 – 1 novembre 1918”, tenutasi nelle scuole superiori di Belluno nel biennio 2015-2017 e curata dall’Archivio storico del Comune di Belluno. Parlare del caso di Pistoia era importante anche per osservarne alcune peculiarità, poiché – secondo lo storico Giampaolo Perugi – il fenomeno causò meno problemi che altrove, sebbene la complessità del tema e varie lacune nelle fonti non permettano di giungere a un giudizio storico adeguatamente comprovato.

L’incontro tra diverse sensibilità storiche ha poi fatto sì che la mostra avesse un approccio multidisciplinare, affrontando tematiche di storia culturale, storia politico-istituzionale, storia sociale, storia militare e storia dell’esperienza. L’allestimento si dipanava lungo quattro sale tematiche, rispettivamente dedicate al conflitto combattuto al fronte, al rapporto tra Cinema e Grande Guerra, ai profughi e, infine, alle vicende di Pistoia durante il conflitto. La narrazione storica è stata fatta soprattutto attraverso pannelli divulgativi a parete, con testo e immagine o una testimonianza diretta d’accompagnamento. A fianco di questa soluzione, la mostra ospitava vari supporti multimediali, interattivi e non, e sagome di soldati e civili, ricavate da foto dall’Archivio storico del Comune di Belluno e parte della mostra An de la fan. La mostra esponeva anche  documenti e oggetti d’uso comune, sia bellici che civili, provenienti da archivi pubblici e collezioni private, con l’idea di fare un’operazione di “archeologia viva”, ossia far conoscere la storia attraverso il manufatto e l’oggetto.

I molteplici dispositivi divulgativi hanno permesso di raggiungere un vasto pubblico, grazie anche a una campagna promozionale fatta tramite volantinaggio, social network e passaparola. Infatti, sono stati registrati più di 5.000 visitatori. Sono state attratte varie fasce d’età, in particolare persone tra i 40 e i 50 anni, anche se ha sorpreso vedere sparuti gruppi di giovani visitare l’allestimento negli orari extra-scolastici e soffermarsi a lungo sulle vicende raccontate. Visitatori non soltanto pistoiesi, ma anche di altre città italiane ed europee, che sono passati in visita alla mostra richiamati a Pistoia per la sua nomina a Capitale italiana della Cultura.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




Dirty dancing: balli “peccaminosi” alla Casa del popolo di Tobbiana

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, una novità esplosiva irruppe sulla scena musicale dell’Italia del Boom: il rock’ n’ roll faceva infatti la sua comparsa nella Penisola, dove avrebbe trovato un’intera generazione pronta a scatenarsi al suo ritmo dirompente.

Questa tendenza musicale proveniente dagli Stati Uniti andò subito diffondendosi nell’Italia del Miracolo: infatti, i giovani del Boom prediligevano, nei loro gusti musicali, suoni dai tratti “esotici” che, almeno all’inizio, provenivano da cantanti statunitensi (come Neil Sedaka e Paul Anka). Il rock’ n’ roll trovò di lì a breve un equivalente locale nei cosiddetti “urlatori”- Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Mina e molti altri – che sfidarono a colpi di grida e note musicali i cantanti melodici tradizionali. Questi nuovi ritmi contribuirono fortemente a definire l’identità di una generazione che considerava la sfera ricreativa come un luogo essenziale per la creazione della propria identità.

È dalla campagna che analizzerò il rapporto che si creò fra le Case del popolo e la diffusione, fra la generazione del Miracolo, della passione per la musica e per il ballo. Prendendo infatti come esempio la Casa del popolo di Tobbiana (posta nel comune di Montale, in provincia di Pistoia), vedremo come queste istituzioni ebbero un ruolo decisivo nell’accompagnare la gioventù di allora nei suoi “balli peccaminosi”.

Era il 1965 quando fu inaugurata la grande sala della Casa del popolo di Tobbiana. Adesso anche in paese c’era un luogo dove ritrovarsi per convegni, conferenze e… ballare!  La domenica, dalle 21.00 in poi, i giovani danzavano sulle note di Jimmy Fontana, di Don Backy, di Little Tony. La serata di inaugurazione fu un grande evento per il paese: nasceva così il Dancing La Roccia.

Molti amori sono nati sulle canzoni suonate al Dancing La Roccia, dove i cuori dei giovani palpitavano a ritmo di musica. Vi è da fare però un’importante precisazione. Ancora alla metà degli anni Sessanta, il paese di Tobbiana restava diviso fra lo schieramento comunista e quello democristiano. I democristiani evitavano di recarsi alla Casa del popolo, e proibivano ai loro figli di frequentarla: infatti, i giovani provenienti da famiglie democristiane non andavano al Dancing La Roccia. In particolare, erano le ragazze a non recarsi a ballare alla Casa del popolo del paese.

Ciò non accadeva solo a Tobbiana: infatti, le ragazze di provenienza democristiana non ballavano in generale. Ancora nel secondo dopoguerra, il ballo era visto dalla Chiesa cattolica come un “diabolico trattenimento”. I balli sono sempre dannosi, a maggior ragione per le donne. È l’essenza stessa del ballo che mette a repentaglio la virtù delle giovani: la vicinanza dei corpi avrebbe infatti portato a uno scoppio dei “bassi istinti” e, di conseguenza, a una relazione sessuale. Per le adolescenti, a cui è richiesta la salvaguardia delle verginità, la cosa migliore sarebbe perciò evitare i balli. Chi, al contrario, si reca a ballare, sa già di poter perdere l’illibatezza e, con essa, la possibilità di un matrimonio soddisfacente. Ma, anche se la verginità non dovesse essere perduta, anche la sola “compromissione coi balli” precluderebbe alla donna la possibilità di trovare un uomo disposto a sposarla: questo spiega il gran numero di sermoni cattolici che insistevano sul tema del ballo peccaminoso, destinato a condannare le impenitenti ballerine alla condizione di sedotte e abbandonate o inevitabili zitelle.

Certamente, alla metà degli anni Sessanta, il condizionamento della Chiesa sulla morale era ancora molto forte, soprattutto nei riguardi del sesso femminile. Del resto, la maggior parte della popolazione italiana avrebbe condiviso ancora a lungo la tradizionale mentalità maschilista e misogina, che prescindeva dal colore politico di appartenenza. Ma vi è da dire che, nei confronti della musica e del ballo, i comunisti potevano vantare, rispetto ai democristiani, una mentalità più aperta e un’esperienza ventennale, iniziata nell’immediato secondo dopoguerra.

Infatti, dopo la fine del conflitto, i primi locali danzanti “popolari” nacquero proprio nelle Case del popolo: e quella di Tobbiana non fece eccezione. Già nel 1947, la dirigenza prese in affitto un piccolo appezzamento di terreno dove costruire una pista da ballo all’aperto. Nacque allora il Dancing Fico Verdino, grazie al quale i paesani giovani e meno giovani poterono riscoprire la loro capacità di divertirsi dopo una guerra particolarmente dura e sanguinosa. Osservando i tobbianesi ballare al Fico Verdino, possiamo notare come la dirigenza della Casa del popolo non fosse mai stata chiusa nei riguardi della dimensione ricreativa – ma che, anzi, avesse creato essa stessa dei momenti di svago per tutta la popolazione. Il Dancing La Roccia pare essere la naturale evoluzione del piccolo Dancing Fico Verdino.

La direzione della Casa del popolo sapeva bene che la grande sala sarebbe divenuta il luogo dove i giovani avrebbero finito per ballare “a ritmo di rock”. Sebbene i ragazzi e le ragazze, al Dancing La Roccia, non restassero mai da soli senza gli adulti (gli attivisti “anziani”, i genitori che accompagnavano a ballare i loro figli), è indubbio che, in generale, da parte dei comunisti vi fosse una maggiore apertura riguardo ai “balli peccaminosi” che tanto preoccupavano la controparte democristiana e la Chiesa cattolica.

Insomma, possiamo dire che, per il paese di Tobbiana come per tante altre realtà simili, fu proprio la Casa del popolo a costituire il primo e più importante luogo di diffusione, fra i giovani, dell’amore per il ballo (peccaminoso!). Di lì a breve, ognuno di loro avrebbe preso la propria strada. Ma, nonostante il fatto che la vita li avrebbe poi portati verso altri luoghi ed esperienze, quei ragazzi e quelle ragazze non avrebbero mai dimenticato quei giorni spensierati trascorsi ballando alla Casa del popolo di Tobbiana.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60. Attualmente è consigliere dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




Il conflitto di Cecina

Sul finire del gennaio 1921 Cecina, modesta ma vivace cittadina allora facente parte della provincia di Pisa, fu teatro di un duro scontro che coinvolse squadristi livornesi e socialisti locali, tra i quali il sindaco e alcuni membri della giunta comunale. Lo scontro, in cui venne ferito mortalmente il fascista Dino Leoni, si colloca al centro di intricate vicende che portarono alla prematura fine della neoeletta amministrazione socialista.

Gli anni che separano il primo conflitto mondiale dall’avvento del fascismo sono per l’Italia una fase di grande instabilità politica e agitazione sociale. Sulla scena pubblica del Paese si affacciano movimenti di massa contrapposti, impegnati fin da subito in una lotta violenta a tal punto da ricordare i toni di una guerra civile. Ai frequenti scioperi e disordini di piazza agitati dalle rivendicazioni delle classi lavoratrici rispose ben presto un fenomeno del tutto nuovo ma destinato a condizionare profondamente la storia italiana degli anni successivi: lo squadrismo fascista. La tensione sociale raggiunse il suo apice a seguito delle elezioni politiche del 1919 e, specialmente, di quelle amministrative del 1920, che videro una netta affermazione del Partito Socialista in numerosissimi comuni. In Toscana, su un totale di 290 comuni, ben 151 andarono ai socialisti, seguiti a grande distanza dai conservatori. Questo risultato elettorale portò a un intensificarsi delle azioni squadriste in tutta la regione, volte a colpire le amministrazioni passate agli odiatissimi “nemici rossi”.

Anche a Cecina le amministrative del 1920 segnarono l’affermazione di una maggioranza socialista. La nuova giunta era guidata da Ersilio Ambrogi, personalità di spicco della scena politica tirrenica, deputato nella Circoscrizione Livorno-Pisa e successivamente aderente al neonato Partito Comunista d’Italia. Il 9 dicembre 1920, in una delle sue prime sedute, l’amministrazione comunale votò una deliberazione con cui si decideva di rimuovere dalle sale del municipio la targa in bronzo che riportava il celebre Bollettino della Vittoria, ovvero il documento ufficiale con cui il generale Armando Diaz aveva annunciato la resa dell’Impero austro-ungarico e la fine delle ostilità sul fronte italiano. Le ragioni che spinsero la giunta a prendere questa decisione non sono totalmente chiarite dalle fonti, ma il gesto – forse dovuto all’euforia seguente il trionfo elettorale – non è certamente un caso isolato nelle turbolente cronache di quegli anni. Un indizio si può trarre dalle parole dello stesso Ambrogi il quale, interpellato in più occasioni al riguardo, dichiarò sempre che le motivazioni della rimozione della targa furono politiche, così come politica era stata, a suo dire, l’affissione della stessa. Lasciando da parte le considerazioni sulla felicità del gesto, quel che è certo è che questo costituì il casus belli dei disordini successivi.

•Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova) (img2).

• Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova).

Un primo scontro, seppur a parole, fu cominciato dall’articolo Intelligenti pauca, uscito sul settimanale cecinese Vita Nuova il 12 Dicembre 1920. L’articolo, firmato «C.», molto probabilmente è da attribuirsi a Renato Cambellotti, esponente di spicco del fascismo locale che guiderà la 23° Legione Maremmana nella Marcia su Roma. Con un tono decisamente aggressivo, l’autore intima ai membri della giunta comunale – i «signori bolscevichi» – di non procedere con la loro deliberazione e promette che la targa sarà comunque rimessa al suo posto da «coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea». La risposta della controparte arrivò il 26 dicembre sulle pagine de La Fiamma, settimanale della Federazione Socialista di Pisa. Nel suo articolo intitolato CONIGLI!!!, Pierino Cateni, personaggio vicino al sindaco Ambrogi, difende vigorosamente la rimozione della targa – vista come simbolo della guerra in cui «si spinse il proletariato al macello» – e conclude provocando il suo anonimo interlocutore, senza risparmiarsi: «È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!».

La promessa controffensiva ebbe luogo un mese più tardi: nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921, un gruppo di fascisti penetrò nel municipio e rimise al suo posto la targa. Non si conoscono con certezza i nomi dei componenti del gruppo, si sa solo che a prendere parte alla spedizione furono fascisti locali supportati da squadristi appartenenti ai Fasci di combattimento di Livorno, Pisa e, forse, Firenze. La partecipazione di fascisti provenienti da città, come il capoluogo toscano, anche piuttosto distanti da Cecina, non deve sorprendere. I Fasci operavano in stretta collaborazione ed erano organizzati in una ben definita struttura gerarchica; le azioni venivano decise nelle sezioni dei centri maggiori, dove erano definite anche forze e strategie da mettere in campo, mentre quelle dei centri minori rappresentavano una sorta di presidi, utili a fornire supporto durante le incursioni nella provincia. La mattina del 25, il sindaco e gli assessori vennero a conoscenza dei fatti della notte precedente e, dopo aver ordinato che la targa fosse nuovamente rimossa, proclamarono lo sciopero generale. La tensione era altissima.

La sera stessa, con il pretesto di difendere i commercianti – che a loro dire erano stati costretti con la forza a tenere chiusi i negozi – giunse a Cecina una seconda spedizione di fascisti, stavolta provenienti da Livorno. I leader della spedizione richiesero al vicecommissario di polizia che le autorità tutelassero gli interessi degli esercenti e rimettessero definitivamente al suo posto la targa. Dall’altro lato, ricevuta la notizia dell’arrivo dei fascisti, il sindaco Ambrogi si recò dal maresciallo dei carabinieri per sincerarsi che lo stesso avesse forze sufficienti alla tutela dell’ordine pubblico. Entrambe le parti furono rassicurate dalle autorità, così gli squadristi dissero che sarebbero tornati indietro col primo treno mentre il sindaco, atteso da numerosi compagni nella locale sezione socialista, decise di far rincasare tutti. Gli eventi successivi non sono definiti con assoluta chiarezza dalle fonti. Sicuramente i fascisti non tornarono subito a Livorno – pare per un ritardo del treno – e si avviarono sulla via Emilia, la strada principale del paese, strappando dai muri i

•Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

• Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

manifesti rossi affissi per lo sciopero e improvvisando una parata. Giunti i fascisti sotto il balcone della sezione socialista, dove ancora si trovavano il sindaco e altre persone, scoppiò uno scontro a fuoco tra i due gruppi, terminato solo dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Nello scontro – non è possibile dire con certezza quale delle due fazioni abbia sparato per prima – rimasero feriti Arsace Bertelli, un giovane cecinese colpito accidentalmente, e Dino Leoni, capitano della Marina Mercantile e fascista livornese, che morirà il 19 febbraio seguente a causa delle ferite riportate.

Le indagini vennero avviate negli istanti immediatamente successivi ai fatti. Una perquisizione della sezione socialista, alla presenza del vicecommissario di polizia e del maresciallo dei carabinieri, rinvenne nei locali e sul balcone numerose pietre, dei bossoli di rivoltella e alcune munizioni inesplose. L’unica arma sequestrata fu trovata addosso a uno dei fascisti. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e alcuni amministratori – tra i quali spicca Alfredo Bonsignori, colui che aveva proposto la rimozione della targa – vennero arrestati e subito trasferiti nelle carceri di Volterra. La fase istruttoria si concluse un anno più tardi e portò alla sentenza del 1923 presso la Corte di Assise di Padova, che condannò quasi tutti gli imputati a scontare diversi anni di carcere. Il sindaco Ambrogi venne condannato in contumacia in quanto, eletto alla Camera dei deputati per il PCd’I, era stato scarcerato nel giugno 1921 ed era espatriato pochi mesi dopo. A nulla valse il ricorso in Cassazione dei rimanenti imputati, che risultò semplicemente in alcuni aggiustamenti della pena.

Il procedimento penale, pur giungendo alle sentenze di condanna, non servì a gettare definitivamente luce sui fatti del 25 gennaio. La difesa lamentò varie irregolarità sia nel corso delle indagini sia durante il processo, ottenendo pressoché nessuna risposta. Dalle fonti appare evidente l’accanimento delle autorità nei confronti degli imputati. Gli atti, infatti, sembrano far trasparire un piano – impossibile dire se anteriore o posteriore ai fatti – volto a rovesciare la giunta. In questo senso, è utile ricordare le vicende immediatamente successive. Dopo la rimozione dalla carica del sindaco Ambrogi, stabilita con decreto reale il 30 gennaio 1921, prese il suo posto l’assessore anziano Dante Vannozzi. Quest’ultimo scrisse ripetutamente al prefetto di Pisa e al sottoprefetto di Volterra per denunciare le minacce di morte a lui indirizzate dai fascisti locali, senza ottenere dalle autorità nessun provvedimento concreto. Perciò, il 25 aprile successivo Vannozzi si dimise assieme a tutti gli assessori e i consiglieri di maggioranza. L’episodio, come numerosi altri emergenti dagli atti, avvicina le vicende di Cecina a quelle dei tantissimi comuni italiani nei quali l’azione fascista rappresentò il perno su cui rovesciare quelle amministrazioni comunali ritenute “scomode”.

Tommaso Barsotti, laureando in Storia dell’Università di Firenze, svolge il servizio civile regionale presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ciclo 26 giugno 2018 – 25 febbraio 2019).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




Destini di emigrati: Yves Montand

La fama può avere mille volti e mille possono essere i motivi che spingono una persona a tentare di uscire dall’anonimato. Yves Montand (1921-1991) fu senz’altro un artista a cui la fama arrise in più di un’occasione. Il suo talento, il fervore che riversava nelle esibizioni a teatro furono la cifra di un’epoca. Artista eclettico, seppe spendersi al meglio tanto nel mondo del cinema quanto in quello della musica. Fu proprio in quest’ultimo che mosse i suoi primi passi.

Chi lo ricorda di fronte alle migliaia di persone dell’Olympia o dell’Étoile di Parigi, stenterà a credere che tutto possa aver avuto inizio sulle assi sconnesse di un vecchio granaio di Marsiglia. Eppure, nel 1938, appena diciassettenne, Yves Montand fece il suo debutto proprio di fronte a una cinquantina di operai sfiaccati da una lunga giornata di lavoro che, mentre lui si sforzava di conquistarli con brani di Charles Trenet e Maurice Chevalier, masticavano sfacciatamente arachidi e semi di girasole. Fu il primo grande successo.

Del resto lo stesso Montand proveniva dall’ambiente proletario e ne rivendicava orgogliosamente l’appartenenza. Con una particolarità: era uno sradicato. Ivo Livi, così si chiamava veramente, era italiano, figlio di emigrati italiani. Nacque a Monsummano, al tempo provincia di Lucca, oggi Pistoia. Il padre, convinto antifascista, a seguito di una spedizione punitiva che, in una sola notte lo fece cadere sotto il peso dei manganelli e assistere alla distruzione del laboratorio di scope di cui era proprietario, dato alle fiamme per ritorsione, fu costretto a partire per la Francia. Poco dopo anche Ivo, che di quella notte conserverà a lungo i bagliori del fuoco e le grida, lo raggiunse col resto della famiglia. Ma dell’attaccamento all’Italia resterà traccia nel film del regista Giuseppe De Santis Uomini e lupi e in un disco del 1963 interamente composto da brani della musica popolare italiana, tra i quali Bella ciao.

Marsiglia avrebbe dovuto essere la tappa di un lungo viaggio verso l’America. Divenne l’ultimo approdo. Qui i Livi vissero in quartieri squallidi, abitati da povera gente. Ivo, che assunse il suo nome d’arte proprio in omaggio all’origine toscana – quando la madre lo chiamava per cena, gli gridava: “Ivo, monta!”, cioè “sali in casa” – dovette adattarsi a svolgere qualsiasi tipo di mestiere: operaio di un pastificio, saldatore, persino parrucchiere.

Poi l’esibizione nel granaio e da lì l’inizio di una faticosa e brillante carriera. Dall’Alcazar di Marsiglia, il più importante teatro cittadino, ai teatri di Parigi e del mondo. Ci furono nella vita del Montand cantante incontri che indirizzarono il suo percorso artistico. Quello nel luglio 1944 con Édith Piaf, che lo volle ad aprire un suo concerto al Moulin Rouge, inizio di una collaborazione che sarebbe durata tre anni. Per lui la regina della canzone francese avrebbe scritto tre brani: La grande Cité, Mais qu’est-ce que j’ai e Il fait des…

Nel 1946 l’interpretazione di Les feuilles mortes, capolavoro del suo repertorio, tratto da una poesia di Jacques Prévert che sarebbe stata messa in musica per il film Les portes de la nuit (“Mentre Parigi dorme”). E, nello stesso anno, l’inizio del sodalizio col cantautore Francis Lemarque che per Montand scriverà testi indimenticabili come À Paris e Quand un soldat. Quest’ultimo in particolare, uscito nel 1952, in piena guerra d’Indocina, e diventato fin da subito inno all’antimilitarismo, sarà censurato per anni dalle radio francesi e farà di Montand il bersaglio prediletto dei più accaniti nazionalisti.

A rinvigorire le polemiche ci si metterà lo stesso Montand che nel 1956, a seguito della repressione in Ungheria, non rinuncerà a partire per una tournée nei paesi sovietici, più per comprendere le ragioni di un simile gesto che per mero tornaconto personale. Ritornerà deluso e amareggiato, non più disposto a battersi per un comunismo cieco e autoritario.

Infine il ritiro dalle scene nel 1968, salvo un breve ritorno negli anni Ottanta, che segnerà la fine della sua carriera di cantante. Continuerà a fare film, ma non tornerà più ad esibirsi in pubblico, se non per cause benefiche.

I gusti cambiano e pure Montand ne era consapevole quando in un’intervista del 1972 a Danièle Heymann diceva: “Un tempo esistevano compositori che si limitavano a comporre canzoni, senza interpretarle. Oggi, grazie ai congegni elettronici e ai mezzi audiovisivi, chiunque è in grado di cantare, anche chi non ha una voce particolarmente bella o chi si muove in maniera inelegante. […] Mi rendo conto, però, che doveva essere frustrante per un autore vedersi costretto ad affidare sempre le proprie canzoni ad un interprete: forse la nuova situazione è più onesta. Ma i pochi interpreti sopravvissuti non hanno più materiale su cui lavorare. Questo è il motivo fondamentale per cui ho smesso di registrare dischi e di fare spettacoli”.

Massimo Vitulano si è laureato in Lettere presso l’Università di Firenze nel 2015 con una tesi su Roberto Vecchioni. Collaboratore per “Il Tirreno” dal 2009 al 2016, è stato docente presso l’Università dell’età libera di Firenze e attualmente è insegnante di italiano presso l’Istituto tecnico “Marchi” di Pescia.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.