Contro ebrei, barbari, traditori e rinnegati!

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, in un Paese già duramente provato dal conflitto ed adesso diviso fra contrapposti eserciti stranieri e in gran parte occupato dalle truppe nazisti, i fascisti, facendosi forti proprio della presenza di questi ultimi, tornano ad assumere il governo dei territori e intendono riaffermare il proprio dominio e controllo sugli italiani sotto la guida del proprio Duce. Ex squadristi emarginati nel Ventennio ed in cerca di riscatto, giovani forgiati dalla retorica del regime, funzionari dello Stato, militari e civili, uomini spinti da interessi, condizionati da paure, mossi da passioni e ideali formano le leve del partito fascista repubblicano e del nuovo stato: la Repubblica sociale italiana (RSI).
Uno degli obiettivi immediati diviene la conquista del consenso degli italiani e la stampa e gli altri strumenti di propaganda affidati al Ministero della Cultura popolare ne sono lo strumento principali, dimostrando che la RSI rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’Italia, di riscatto dell’onore perduto con il “tradimento” dell’armistizio, di vittoria della guerra a fianco dei nazisti. Si tratta di una propaganda di guerra tesa a contrastare quella degli Alleati e degli antifascisti, che si esprime in una vera e propria guerra di parole dai toni sempre più duri e truci. Una sfida difficile per gli eredi del regime che aveva portato il Paese alla sconfitta, resa di fatto impossibile, con il passare dei mesi, dall’andamento della guerra. Anche in Toscana, già culla del fascismo delle origini, così come in tutto il territorio della repubblica, si assiste ad una fioritura di testate: quotidiani, periodici, numeri unici che danno voce a tutte le anime della RSI, da quelle nazionaliste a quelle più radicali, espresse dai “fogli” delle federazioni del partito (come “Repubblica” di Firenze, “L’Artiglio” di Lucca, “Il Ferruccio” di Pistoia, “Giovinezza repubblicana”), tutte comunque circoscritte nell’identità del fascismo repubblicano e nell’alleanza con il nazismo.

Per cercare di acquisire i consensi degli italiani, uno dei temi essenziali trattai e usati dalla propaganda repubblichina è la rappresentazione dei nemici. Per i fascisti la descrizione degli avversari è funzionale, per contrasto, a delineare e chiarire la propria identità di “puri” ed eroici combattenti e per mobilitare attorno alla repubblica tutti coloro che intendano difendere la Patria. La propaganda deve quindi recuperare stereotipi e slogan del regime, suscitare dubbi e paure, motivare rabbia e risentimento, toccare interessi ed emozioni.

WP_20160705_09_45_27_ProL’idea centrale è che i fascisti, unici veri italiani, siano contrastai da una vera e propria congiura che unendo nemici diversi sotto la regia degli ebrei, quali nemico n. 1, come scrive “Repubblica” il 18 novembre ’43, da contrastare con ogni mezzo, definiti “razza nemica” nel Manifesto di Verona del Partito, carta di identità del fascismo repubblicano. Per “La Nazione” le potenze straniere troverebbero il loro comun denominatore proprio “nel giudaismo unico e vero despota delle cosidette democrazie liberali e di quel regime barbaro e mostruoso che si chiama Unione delle Repubbliche sovietiche” [Inghilterra, bolscevismo e imperialismo americano, “la Nazione”, 3 novembre 1943]; Inghilterra, USA e URSS sarebbero così al servizio dell’oro giudaico. Questa denuncia serve da un lato a sottolineare l’esistenza di una “razza italiana” minacciata da quella ebraica, che tutti devono mobilitarsi per difendere, dall’altra a promuovere e giustificare qualsiasi forma di violenza contro un nemico tanto pericoloso che viene definito “malattia ereditaria dell’umanità” su “la Nazione” del 20-21 febbraio, microbo maligno sul periodico fiorentino “italia e civiltà” e “tumore maligno” da eliminare su “Repubblica”.

Ma il nemico reale con cui fare i conti sono certamente gli eserciti Alleati. Consapevoli della loro forza e dell’appeal che hanno fra la popolazione italiana, la propaganda di Salò cerca di rovesciarne l’immagine da quella di “liberatori” a quella di “oppressori”. Così li descrive il periodico fiorentino “Rinascita”: i “liberatori sarebbero quei barbari volanti che distruggono le nostre città e i nostri villaggi, quei mercenari che depredano le nostre popolazioni dell’Italia meridionale, quei negri che violentano le nostre donne” [27 novembre 1943], recuperando tutti gli stereotipi propri del razzismo coloniale. Tanto che per “Repubblica” i “negri non sono esseri civili” [22 gennaio 1944]. Allo stesso tempo si denuncia che gli angloamericani avrebbero consegnato l’Italia a Stalin in caso di vittoria e per rafforzare questa ipotesi viene diffusa la falsa notizia della partenza dai porti del Mezzogiorno di navi cariche di bambini strappati alle proprie famiglie per essere condotti in Russia e trasformati in perfetti comunisti, automi nelle mani del dittatore bolscevico che li avrebbe poi rimandati in Italia controllare il Paese. Si usa lo spettro del comunismo per mobilitare attorno alla RSI tutti coloro si riconoscono nei valori tradizionali della patria, della religione e della famiglia. Abile nello sfruttare fatti reali (dai bombardamenti alle violenze sulle donne delle truppe coloniali, alle difficili condizioni di vita nell’Italia meridionale “occupata” dagli angloamericani) e nell’alimentare paure ataviche e diffuse, questa propaganda si scontra tuttavia da un lato con il reale andamento del conflitto, dall’altro con la presenza opprimente dei nazisti. L’aspirazione per la fine del conflitto e l’ostilità nei confronti del nazismo pare prevalere su ogni altra considerazione fra la popolazione.

Tuttavia sono i “traditori” i nemici contro cui la propaganda fascista si scaglia con maggiore ferocia. In primo luogo i fascisti che non hanno seguito il nuovo corso, simboleggiati da Galeazzo Ciano e dagli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Quindi il re Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio che avrebbero venduto l’Italia al nemico con l’armistizio. Infine i partigiani: i “rinnegati” che combattono contro la propria Patria. Figure private di qualsiasi dignità e qualificate infatti come criminali, assassini, vigliacchi, sicari. Ma incredibilmente agli occhi dei repubblichini ottengono consenso e sostegno da parte della popolazione.
E così la categoria dei traditori tende ad estendersi coinvolgendo categorie diverse di persone, considerati prima come sostenitori “naturali” o potenziali, ma poi guardate con sempre maggiore diffidenza e quindi con rabbia, per esser infine identificati come “nemici” particolarmente odiosi proprio perché inattesi. Infatti, come scrive “Repubblica” il 26 febbraio 1944: “oltre i sabotatori, i sobillatori, i sicari prezzolati del nemico attenta alla vita della nazione, anche chi in questo momento, non assolve in modo preciso e concreto il compito assegnatoli”, come i giovani che non rispondono alla chiamata di leva, e i loro genitori e parenti che li nascondono, come i disertori e coloro che proteggono gli ebrei, i soldati “alleati”, i partigiani. Particolarmente dure sono le condanne degli intellettuali che si sono ritirati nel silenzio e non sostengono la Rsi, del clero che non segue le direttive della repubblica ed anzi svolge “attività antinazionali”, delle donne che sono invitate ad andare “al di là del Volturno a sollazzare le ore meditative del filosofo Croce o le fatiche guerresche delle truppe angloamericane” [Repubblica, 18 dicembre 1943].

Ma proprio la denuncia di questa crescita esponenziale del numero e della varietà dei nemici rivela emblematicamente l’isolamento dei fascisti di Salò e il fallimento della loro stessa propaganda sconfitta inesorabilmente dalla realtà nella sua disperata guerra di parole condotta con tenacia dalle testate toscane fino al giugno-luglio del ’44 nell’imminenza dell’avanzata nemica e nel dilagare delle azioni partigiane in una regione provata dalla durezza dell’occupazione, della guerra ai civili e del passaggio del fronte, che attende con impazienza i giorni della Liberazione.

Matteo Mazzoni, dal settembre 2014 direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, è dottore di ricerca in Studi storici dell’età moderna e contemporanea. Ideatore e coordinatore di progetti didattici e culturali per la divulgazione scientifica della storia. Consigliere dell’Istituto Gramsci Toscano. Membro della Redazione del Portale di Storia di Firenze, oltre che Responsabile di redazione di ToscanaNovecento. Autore di pubblicazioni e volumi fra cui si ricordano: Livorno all’ombra del fascio, Olschki 2009, vincitore del Premio ANCI-Sissco 2010 e Il passaggio del fronte tra Val di Pesa e Val d’Elsa, Polistampa 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».

Articolo pubblicato nel luglio 2016.




L’orrore dietro un bosco di betulle

Il treno della Memoria è un’iniziativa che la Regione Toscana e il Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato organizzano dal 2009, con cadenza biennale. Nel 2015, quindi, si è svolto il quarto viaggio verso Auschwitz e Birkenau che ha permesso a 750 ragazzi delle scuole superiori e ai loro docenti di visitare i luoghi del genocidio nazifascista ai danni di ebrei, rom, omosessuali. Nel gennaio 2017 si svolgerà il quinto viaggio, in preparazione del quale è stata organizzata per circa sessanta docenti una summer school che si svolgerà dal 21 al 25 agosto presso la Certosa di Pontignano (Siena).

Sono circa 64mila i visitatori che dall’Italia raggiungono il campo di sterminio di Auschwitz, due terzi dei quali sono insegnanti e studenti. L’Italia ha addirittura più visitatori di Israele.

auschwitzPer gli studenti che partecipano al viaggio si tratta di un’esperienza molto diversa dalla gita scolastica canonica, tanto più se fatta negli ultimi due anni di scuola. Le scuole e i docenti referenti del progetto preparano con cura l’esperienza con alcuni incontri preliminari che servono a selezionare chi è realmente interessato a partecipare e a illustrare i contenuti relativi alla Shoah e all’orrore dei campi di concentramento. Al ritorno, poi, ci sono momenti di condivisione, di archiviazione e trasmissione dell’esperienza.

In questo secondo filone si inserisce un’attività che ha coinvolto lo scorso anno scolastico gli studenti dei Licei Volta e San Giovanni Bosco di Colle Val d’Elsa. Nell’ambito di un progetto sulle fonti orali per le quarte classi del Liceo delle Scienze Umane (San Giovanni Bosco), si è pensato di sfruttare la testimonianza degli studenti del Liceo Volta che erano stati ad Auschwitz, facendo così esercitare gli studenti- ricercatori confrontandosi con dei testimoni che erano loro coetanei.

Dopo aver seguito alcune lezioni teoriche su come si prepara e come si gestisce un’intervista secondo i criteri della storia orale (le lezioni sono state curate dai professori Fabio Dei e Antonio Fanelli), per la parte laboratoriale del progetto hanno avuto modo di preparare un questionario, prendere confidenza con gli strumenti e le regole tecniche per intervistare secondo i criteri di base della storia orale e di ascoltare dalla voce di sei ragazzi della loro età il racconto del viaggio, delle sensazioni, del lascito emotivo e di esperienze che il viaggio aveva costituito.

Tra gli elementi che sono emersi dai racconti davvero partecipi e maturi degli studenti, c’è la distanza forse incolmabile tra il sentito dire, l’immaginato e ciò che si vede e si avverte entrando nei campi di concentramento, qualcosa che le parole possono difficilmente descrivere. C’è poi l’immedesimarsi col viaggio delle vittime di allora, un effetto voluto da chi ha pensato l’organizzazione delle visite, un percorso sulle tracce di chi ha intrapreso quel tragitto verso l’annientamento sistematico. Gli elementi più toccanti, però, che i giovani intervistatori hanno notato sono stati i dettagli, apparentemente minimi ma illuminanti, che emergevano man mano dalle parole dei sei studenti che erano stati a Birkenau e Auschwitz; le scarpe, i cappelli, gli oggetti personali tolti ai prigionieri e ammassati insieme, così come il book of names, l’elenco di chi era passato di lì e lì aveva trovato la morte, o quel bosco di betulle placido e ordinato che sembrava stonare e stridere all’eccesso con il contesto circostante. Anche l’incontro coi testimoni, i sopravvissuti che hanno accompagnato studenti e professori nel viaggio del treno della memoria, ha lasciato una importante lezione, quella della speranza e della necessità di ricordare per sopravvivere e per vaccinarsi contro l’odio e la barbarie.

Il progetto realizzato nei licei di Colle Val d’Elsa, come tanti altri, ha quindi raggiunto un obiettivo importante, cioè condividere le esperienze e il ricordo per cercare di comprenderle nel concreto delle storie di vita e quotidianità.

Gli intervistati: Sara Tavarnesi, Sara Giannini, Letizia Forzoni, Andi Hoxhaj , Edoardo Cipriani, Roberta Provvedi.

Gli intervistatori: Maria Laura Angelini, Bianca Borgogni, Guglielmo Salvestrini, Roberta Valentino, Sara Volpini, Chiara Vannucci.

Articolo pubblicato nel giugno del 2016.




Livorno 1944-1945

Il 23 luglio 1944, a quattro giorni dalla liberazione di Livorno, il neosindaco Furio Diaz chiese l’assegnazione di una pattuglia di carabinieri da destinare al municipio, «allo scopo di prevenire disordini e tumulti» che già si stavano manifestando: numerosi cittadini si presentavano infatti all’ufficio annonario per ottenere il rilascio delle carte necessarie al rientro nel comune, «non volendosi adattare al noto divieto stabilito d’accordo col Governo Militare Alleato»[1].

La questione delle migliaia di sfollati che premevano per rientrare in città – nonostante la detestata “zona nera” fosse ancora in vigore – fu uno dei banchi di prova più impegnativi per la gestione dell’ordine pubblico. Dove collocare chi rivendicava una casa? Lo spazio abitativo era ridotto a causa delle ingenti distruzioni belliche e gli alleati stavano requisendo gli edifici già occupati dai tedeschi. Stabili «di alcune diecine di appartamenti» vennero confiscati per alloggiarvi pochi ufficiali o pochi militari di truppa. «Intere numerose famiglie» furono «invitate ad uscire entro poche ore e senza possibilità di una diversa sistemazione»[2]. A metà settembre del 1944 i carabinieri lamentarono come la popolazione fosse stata costretta:

 […] ad abbandonare improvvisamente le proprie case gelosamente custodite persino durante il periodo dei bombardamenti. Ciò senza contare che le requisizioni degli appartamenti (mobili compresi) avvengono senza alcuna garanzia per i proprietari, anzi con modalità tali da far considerare perduto quanto requisito[3].

Non a caso, negli stessi giorni, alcuni militanti del Pci incentrarono la loro propaganda antiamericana sull’argomento che il governo militare alleato continuava ad affamare i cittadini e a derubarli delle loro proprietà, come avevano fatto gli odiati tedeschi[4].

In alcuni casi, per suscitare l’interessamento delle autorità, i cittadini ricorsero al linguaggio tipico del patriottismo e della carità cristiana. Uno di essi scrisse al Cln a nome di «varie famiglie» che si erano trovate senza pane e che pregavano «di far sentire l’accorato loro lamento con la preghiera la più calda che non si rinnovino tali disordini per l’onore di una città che è anche capoluogo di Provincia». Disse di essere «animato da sentimenti d’Italianità, amante del vero ordine, conscio che in questi momenti tutti dobbiamo prodigarci a pro dell’umanità letteralmente martoriata»; forte di questi sentimenti aveva fatto proprio «l’appassionato ricorso di vari cittadini, i quali, presentatisi a vari forni, hanno avuto la sorpresa di vedersi negato il pane quotidiano, perché sprovvisti della nuova tessera» per via della disorganizzazione degli uffici competenti[5].

Ottobre 1944. Sbarco della fanteria USA al porto di Livorno ((Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Ottobre 1944. Sbarco della fanteria USA al porto di Livorno ((Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

In virtù del rilievo militare del capoluogo – prescelto come “Decimo porto” dell’esercito statunitense – nonché per la situazione disastrata della zona, i comandi alleati stabilirono poi che «nessuno sarebbe potuto rientrare nel Comune di Livorno per risiedervi senza la preventiva autorizzazione del Public Safety Officer dell’A.M.G.» e che i contravventori sarebbero andati incontro all’arresto e all’espulsione[6]. Gli alloggi e i viveri furono riservati a chi lavorava per le Forze Armate angloamericane. Gli uomini fra i 16 ed i 60 anni, che non avessero voluto o potuto farlo, che avessero lasciato il posto senza il permesso dell’Amg, o che non si fossero comportati adeguatamente durante lo svolgimento delle proprie mansioni, sarebbero stati considerati «non necessari alla vita attuale di Livorno» e avrebbero potuto incorrere nell’allontanamento forzato dalla città, assieme alle loro famiglie[7]. «Desiderosi di non abbandonare la loro Livorno», alcuni livornesi cercarono un rifugio presso amici o «persone buone» nei dintorni. Così scrivevano:

Facilmente si comprende che la loro sistemazione fu fatta come lo permetteva il momento, (se pensa che in una stanza vivono 8/10 persone) quindi è facile arguire quale sia il desiderio di poter rientrare al più presto nelle loro case, desiderio che viene annullato con l’ordinanza suddetta, perché questi poveri-sfollati [sic] dovranno vedere le loro case occupate da altri e loro restare ancora a mendicare un po’ di alloggio.

Troviamo giusto che gli operai abbino [sic] una sistemazione, ma domandiamo se non fosse il caso prima di far rientrare nelle proprie case questa gente, eseguire poi un censimento molto accurato e nelle case che si verificasse di avere un numero di vani superiore al necessario obbligare a prendere persone in casa.

In questa maniera ci sembra che si potrebbe ugualmente raggiungere lo scopo prefisso dall’Onle Comando Alleato e nello stesso tempo si verrebbe a contentare tante persone lasciando di rientrare nelle proprie case in modo che potessero tutelare i propri interessi evitando di essere maggiormente saccheggiati[8].

Soldati americani al luna park in piazza Grande (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Soldati americani al luna park in piazza Grande (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Per chi riuscì a rimanere o a tornare in città le condizioni di vita furono compromesse anche dall’arbitrarietà dei provvedimenti dell’amministrazione militare. L’Amg, come ogni forma di governo d’occupazione, detenne la facoltà di imporre misure eccezionali e restrittive dei diritti individuali. Alcune preesistenti limitazioni alla libertà personale furono semplicemente mantenute. Ad esempio il coprifuoco fu mantenuto dalle 21.00 alle 5.00, ridotto di un’ora e mezza (22.30-5.00) a partire dal 21 marzo 1945 in tutti i comuni della provincia, eccettuati il capoluogo e Piombino, dove fu conservato l’orario esteso[9]. Pochi mesi dopo, «vista la disponibilità limitata di energia elettrica», fu deciso che chi avesse utilizzato la corrente nella propria abitazione o nel proprio esercizio commerciale senza l’autorizzazione sarebbe incorso nella punizione «a termine di legge»[10].

L’insofferenza popolare si tradusse, come in altri contesti, in manifestazioni a guida e prevalente composizione femminile. [11]Il 20 agosto 1945 il capitano della Public Security, Stanley Beatty, riferì di una «composta e ordinata dimostrazione di donne livornesi sotto la sede dell’A.M.G. (circa 100) nella quale una commissione di sei donne si presentò […] richiedendo che fossero liberate le case occupate dai militari e gli altri locali» dove erano «accantonati i prigionieri tedeschi, allo scopo di far posto a molte famiglie tuttora senza casa, nonché alla assunzione di operai italiani disoccupati in sostituzione di prigionieri tedeschi nei vari lavori, e, raccomandando una maggior distribuzione di generi tesserati e specie dell’olio»[12]. Il compito femminile di accudire la famiglia e la comunità – quel maternage di massa che aveva costituito uno dei tratti fondamentali della “resistenza civile” sotto il regime saloino – si esprimeva qui in una forma organizzata, espressione dell’attivismo politico delle donne maturato durante la guerra. Emblematico dell’intraprendenza acquisita si dimostra un episodio del marzo ’45, riferito in una corrispondenza censurata.

Oggi è successo un casetto [sic]: sono passate una cinquantina di donne cantando “Bandiera Rossa” e un soldato gli ha fatto una pernacchia. Allora gli hanno dato due schiaffi e gli hanno sputato in faccia. I soldati che erano lì presenti hanno detto che domani picchieranno i comunisti[13].

Imboccatura del porto di Livorno bloccata dagli affondamenti tedeschi (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Imboccatura del porto di Livorno bloccata dagli affondamenti tedeschi (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

All’inizio del successivo ottobre il Comando Generale dei carabinieri intervenne presso il governo paventando agitazioni popolari «a causa della rilevante quantità di prigionieri militari tedeschi» ancora impiegata dagli angloamericani per i lavori del porto». Il timore di manifestazioni operaie, o meglio di manifestazioni di operai disoccupati, deve essere inserito nel quadro della più ampia ridefinizione delle relazioni tra datori di lavoro e maestranze a partire dagli scioperi dell’inverno 1943-44, che segnarono lo sviluppo di una matura conflittualità politica e si inserirono a pieno titolo in quella resistenza senz’armi che fu parte essenziale della lotta di liberazione. I capi dei partiti ciellenistici, in linea con le pratiche di concertazione, si impegnarono nel tenere a bada la cittadinanza, mentre il prefetto di Livorno sollecitò ripetutamente l’Amg, chiedendo l’allontanamento dei prigionieri. Nonostante le «promesse», infatti, nulla veniva fatto in tal senso[14].

Nuovi scioperi furono scongiurati, secondo l’Amg, grazie all’abilità dei propri comandi ed al buon senso degli amministratori locali, che seppero fare i propri interessi sottomettendosi sostanzialmente alle direttive militari[15]. Non va però omesso un elemento rilevante: le autorità alleate avevano fatto sapere che, qualora vi fossero stati scioperi, tutti gli italiani da loro impiegati sarebbero stati «licenziati senz’altro e sostituiti con prigionieri germanici»[16]. Probabilmente, più che la risolutezza angloamericana, furono tali minacce a placare gli animi. Il prefetto, dal canto suo, ricondusse il mantenimento della calma all’impegno suo e del presidente del Consiglio[17].

La poliarchia degli organismi del governo alleato aprì inoltre ampi spazi di arbitrarietà d’azione; allo stesso tempo, i poteri locali si relazionarono con i comandi militari assai diversamente a seconda del proprio retroterra ideologico e sociale. La giunta comunale, costituita quasi interamente da professionisti ed imprenditori, si dimostrò moderata e per lo più collaborativa con le gerarchie angloamericane, di simile estrazione borghese e formazione culturale. La solidarietà di classe parve in molti casi prevalere sulla discriminante nazionale. Alla base di questa collaborazione sembrano emergere relazioni effettivamente incentrate sulla stima reciproca, sulla condivisione delle istanze geopolitiche nate dall’alleanza, sulla volontà di muoversi verso la realizzazione di una compiuta democrazia: altro discorso, poi, è se sotto questa etichetta generica si nascondevano diversi – e spesso inconciliabili – modi di intendere la stessa ricostruzione democratica. Prefettura e questura, che rappresentarono gli ambienti di più diretta continuità dello Stato, si rivelarono i soggetti più restii ad una pacifica subordinazione alle direttive “straniere”. Il Cln, a dirigenza comunista, espresse invece un atteggiamento più variegato: pur assumendo un ruolo di mediazione tra le richieste della cittadinanza e le direttive dell’Amg, impegnandosi via via a placare il malcontento popolare, intervenne sugli orientamenti alleati tramite strategie di condizionamento nella scelta del personale[18].

Sullo sfondo dei rapporti istituzionali, dunque, in opposizione all’immagine olografica di una “Repubblica nata dalla Resistenza” con l’amichevole supporto degli Alleati, emerge una zona grigia di collisioni, di rivendicazioni di autonomia, di reciproche appropriazioni di meriti, di insofferenza alla subalternità. La transizione alla democrazia individua così, nelle sue complesse dinamiche sociali e politiche, una storia di oscillazioni tra passato e futuro, tra pianificazione dall’alto e particolarismi dal basso, tra forza della tradizione e progresso, tra mito dell’internazionalismo e retaggio – ancora vivo ed incisivo – del nazionalpatriottismo.

Articolo pubblicato nel giugno del 2016.




Contro la guerra e la povertà

Nel pistoiese l’opposizione popolare alla guerra prima del maggio 1915 fu forte, anche qui più nelle aree rurali che nel centro urbano. L’onda della protesta sociale era iniziata a montare già nella primavera del 1914, con due manifestazioni in occasione del 1° maggio promosse rispettivamente dai socialisti e dai sindacalisti anarchici dell’USI (i secondi subirono anche alcuni arresti) fino alla Settimana rossa, nel giugno del ’14, con uno sciopero generale cittadino, lievi scontri intorno alla stazione – con il danneggiamento dei binari nella zona della Vergine – e parecchi arresti. Durante lo sciopero si tenne un comizio dove intervennero i socialisti Taddeoli e Cipulat, gli anarchici Eschini e Lombardelli e Agostini per i repubblicani. I manifestanti si recarono anche in corteo alla Sottoprefettura dove chiesero il rilascio di alcuni arrestati nei giorni precedenti per la diffusione di materiali antimilitaristi.

Come nel resto d’Italia quindi, lo scoppio della prima guerra mondiale andò a inserirsi all’interno di uno scenario già teso, caratterizzato da un inasprirsi della protesta popolare contro le cattive condizioni di vita. Queste circostanze contribuirono a radicalizzare il locale partito socialista, nel quale alcune componenti progressivamente si spostarono su motivazioni sempre più classiste e su argomentazioni di “guerra alla guerra” molto vicine a quelle sostenute in quel momento dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici. L’area di Lamporecchio, in particolare, era divenuta la prima zona “rossa” del circondario, con l’elezione a sindaco di Idalberto Targioni nel 1914, come risultato della sua intensa attività di propagandista e organizzatore degli anni precedenti, e il Consiglio comunale si era pronunciato per la neutralità assoluta già nell’agosto.

Dal gennaio del 1915 la corrente di opposizione intransigente alla guerra divenne maggioritaria nel socialismo pistoiese, e le manifestazioni andarono intensificandosi. A Candeglia fu indetta un’assemblea per illustrare i disagi che la guerra avrebbe provocato, a cui partecipò numerosa la popolazione delle campagne circostanti, mentre a Lamporecchio circa 300 disoccupati scendevano in piazza al grido di “pane e lavoro”. Con l’avvicinarsi dell’ingresso nel conflitto, la situazione non si normalizzò. Tra aprile e maggio furono indetti comizi e manifestazioni a Casalguidi, Spazzavento, Candeglia e ancora a Lamporecchio, con la partecipazione di centinaia di persone. Il 1° maggio nel capoluogo si teneva un comizio, seguito da iniziative dello stesso tenore a Bonelle, Spazzavento e nel quartiere di Porta Lucchese. Nei giorni immediatamente a ridosso della dichiarazione di guerra, il livello della conflittualità si innalzò. A Pistoia ci furono scontri alla stazione ferroviaria contro la partenza dei richiamati alle armi, a cui non furono estranei alcuni dei soldati dei reggimenti che dovevano partire. La tensione e l’opposizione popolare rimasero forti nei mesi successivi, nonostante il bavaglio imposto alla stampa di opposizione e l’ambigua posizione ufficiale dei socialisti, attestatisi intorno al “né aderire né sabotare”, che frenò le componenti più radicali del socialismo pistoiese. Sempre nella zona di Lamporecchio una manifestazione si trasformò in rivolta con l’occupazione del paese per alcune ore, durante le quali avvenerò atti di ostilità verso i facoltosi del luogo. Furono arrestate 5 persone, condannate poi a pene severe. In diverse circostanze il movimento popolare superò e radicalizzò le parole d’ordine iniziali degli organizzatori delle proteste, soprattutto nel mondo rurale, che vedeva come una vera e propria sciagura il conflitto, e che si caratterizzò per una massiccia partecipazione della componente femminile.
Furono infatti sempre le donne a riaccendere il fuoco della protesta nelle campagne.

Fino al 1916-’17 nel pistoiese regnò la calma, ma i giovani socialisti, radicalizzati rispetto al loro stesso partito, ed un innovativo movimento di socialiste, ripresero la propaganda contro la guerra e le pessime condizioni di vita, aggravatesi durante il conflitto. Fu lanciata la parola d’ordine del rifiuto del sussidio per protestare contro l’assenza degli uomini e dei figli. L’attività di propaganda funzionò a tal punto da riuscire a penetrare anche nelle zone tradizionalmente cattoliche, dove probabilmente l’ostilità popolare all’inutile strage, come l’aveva definita lo stesso Papa, non doveva essere minore. Nel gennaio 1917 la protesta, a guida femminile, esplose. A Larciano le donne rifiutarono il sussidio e dettero vita a una manifestazione antimilitarista, seguita da altre due manifestazioni analoghe a Quarrata. Anche in occasione della giornata internazionale dell’8 marzo, si tenne una manifestazione nel capoluogo, legata più a motivi economici. Nella piana cominciarono a svolgersi delle “marce della pace”. Da Tobbiana il 26 giugno 400 donne partirono verso Pistoia per chiedere la pace e rifiutare il sussidio (5 arrestate e 5 denunciate). A Montale il 5 luglio, in 300 cercarono di bloccare il servizio ferroviario e chiesero la fine della guerra, mentre il giorno dopo un’altra manifestazione per la pace, 300 le partecipanti, assumeva toni più minacciosi, con le dimostranti armate di bastoni (18 arrestati, 14 donne e 4 uomini). Sempre il 6 luglio donne di Agliana, Pistoia e frazioni dei due comuni si riunirono insieme e in circa 300 tentarono di arrivare a Pistoia, bloccate dai Carabinieri. A Gello si svolse una manifestazione di circa 400 donne, a Ramini un centinaio di donne costrinsero la maestra a sospendere le lezioni (18 denunciate) ed a Casalguidi avvenne un’altra manifestazione in favore della pace. Le aree erano quelle a diffusa presenza mezzadrile, con centri all’epoca piccolissimi, dove il movimento sindacale dei lavoratori della terra aveva iniziato ad apparire negli anni precedenti. La provenienza sociale legata al lavoro agricolo è testimoniata in un caso dal comportamento delle donne di Vinacciano. Una cinquantina di loro si recò da un proprietario terriero, evidentemente identificato tout court come parte di quello Stato così lontano e opprimente, chiedendo di far cessare il lavoro nei campi dei prigionieri di guerra (alla solidarietà internazionale qui forse si unì il problema pratico che questa era manodopera non pagata che toglieva lavoro ai braccianti) e di adoperarsi per far ritornare gli uomini dal fronte (7 denunciate).

Queste pratiche di opposizione e di conflittualità politico-sociale, difficili da seguire ma nondimeno concrete, lungi dall’essere episodi isolati, si inseriscono dunque all’interno di un malessere di lungo periodo, acuito dalla guerra, che avrebbe poi fornito le basi all’ondata di agitazioni del biennio rosso, con i moti del caroviveri, l’occupazione delle fabbriche e le agitazioni nelle campagne, sconfitto soltanto dalla reazione armata guidata dallo squadrismo fascista tra il 1921 e il ’22.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.

Articolo pubblicato nel giugno del 2016.




La partecipazione degli ebrei livornesi alla Grande guerra

928 è il numero “ufficiale” dei caduti della Grande Guerra della città di Livorno, è il numero che risulta dalla consultazione del Ministero della Difesa. Sicuramente un numero per difetto perché si ricollega direttamente ai dati forniti nel 1928 durante il periodo fascista, relativi alle perdite in combattimento o in prigionia. Che fosse un numero per difetto lo si  può dedurre dal fatto che molti risultano “dispersi”, che di alcuni prigionieri non si sa la fine che possano aver fatto. Pertanto è lecito, ad una disamina accurata, ipotizzare che sia un numero, seppur di poco, più basso del reale. Quando però, per la città di Livorno, proviamo ad incrociare i dati del Ministero con il lavoro analitico svolto da Pierluigi  Briganti sulla partecipazione ebraica al conflitto, questa si rivela più significativa di quella verificabile nell’elenco dei  928 caduti e tale da porre più di un dubbio sulla veridicità della cifra iniziale. Dallo spoglio del primo elenco a nostra disposizione si poteva ricavare, in base al cognome, una presenza ebraica pari a 55 nominativi, non essendoci nessuna notizia relativa alla religione. Utilizzando invece la ricerca di Briganti arriviamo a determinare con sicurezza, poiché di ciascun nominativo compaiono il patronimico, il luogo di nascita e spesso il distretto militare di riferimento, il numero di 62 caduti. Una differenza di 7 individui sul totale pari ad un errore percentuale che sfiora il 9%. Non poca cosa. Caduti, come nella maggioranza dei casi  più per malattia che per il fuoco nemico. Ma lo sfoglio del testo di Briganti ci permette di entrare assai più a fondo nel merito analitico della partecipazione ebraica alla Grande Guerra. Ci troviamo in base alla sua ricerca di fronte ad un quadro di questo tipo:

zio di orefice1

Gastone Orefice, tenente ebreo livornese che morì in battaglia nel 1916 (Fondo privato famiglia Orefice)

Ufficiali generali: 2 (un tenente generale e un contrammiraglio)

Ufficiali superiori: 9

Ufficiali inferiori: 114

Sottufficiali e truppa: 86

Militari reperiti senza determinazione di grado: 8

Riepilogo che ci fornisce notizie  molto dettagliate e precise perché per ogni militare caduto ci dà non solo la paternità, il luogo e la data di nascita, ma anche quasi sempre dove è avvenuto il decesso, ci dice inoltre, per questo particolare campione, pure il distretto militare di riferimento. E’ proprio questo elemento in più che permette di evidenziare come dal distretto di Livorno non passarono soltanto i livornesi qui residenti ma transitarono anche decine di ragazzi, figli di livornesi, residenti all’estero, soprattutto nelle città del nord Africa o della Grecia ma che facevano riferimento a Livorno poiché i genitori e loro stessi non avevano mai rinunciato né alla cittadinanza italiana, né avevano abbandonato l’antico porto labronico. In tutto si tratta di 30 individui, per i quali è lecito ipotizzare che siano pure partiti volontari a conferma di quanto la storiografia sul tema ha da molto tempo accertato, cioè che il 1° conflitto mondiale è stato sentito dalla minoranza ebraica come una grande occasione d’integrazione, una occasione all’interno della quale inserirsi per meglio affermare la propria avvenuta e totale emancipazione. Le località d’origine si distribuivano su quattro diverse zone di partenza. La componente più numerosa arrivava dalla Tunisia (13 militari), al secondo posto si collocava l’Egitto (8 militari) e al terzo e quarto, la Turchia (7 militari) e la Grecia (2 militari). E’ una provenienza che riconferma quanto già sappiamo e sapevamo sulle comunità ebraiche del Mediterraneo. In base difatti alle nostre conoscenze, soprattutto per quanto riguarda la presenza livornese, la Tunisia è la più significativa e tale resta anche fino al secondo dopoguerra; al secondo posto vediamo l’Egitto che fu a lungo il luogo prescelto di molti commercianti che vi si avventurarono per fare affari e intrecciare relazioni. Meno importante sul piano numerico, comunque presente, è poi il caso delle città turche e greche, non specificate.

I dati su cui possiamo ragionare ci dimostrano anche l’alta percentuale dei graduati rispetto al totale a conferma dell’alto livello di alfabetizzazione della popolazione ebraica rispetto a quella italiana nel suo insieme. Percentualmente i graduati di questo campione toccano il 57% del totale degli ebrei livornesi partiti per la guerra, una quota altissima dove spicca un altro sottoinsieme, quello dei graduati: capitani, tenenti, maggiori, impegnati come medici e farmacisti nella Sanità. Continuando le nostre osservazioni sui nostri elenchi possiamo constatare che, come per il caso dei gentili, i nomi più ricorrenti che incontriamo si rifanno alle vicende risorgimentali o agli eroi della lirica e della letteratura. Abbiamo pertanto: Umberto, Carlo, Giuseppe, Giacomo, Athos ma troviamo anche i nomi della tradizione millenaria ebraica come: Moisé, Abramo Salomon, David, Isacco.

Facendo attenzione alle medaglie riportate incontriamo 13 medaglie d’argento, 5 di bronzo e 2 croci al valor militare. In totale 20 riconoscimenti di merito, a significare che, poco meno del 10% dei soldati che parteciparono al conflitto, ne fu insignito.

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

Ma il lavoro di Briganti ci permette anche un’altra lettura. Lo studioso aggiunge, credo anche per ragioni che possiamo definire morali, se l’individuo in esame, sopravvissuto al conflitto, è poi stato deportato. Incrociando la sua informazione con la ricerca di Liliana Picciotto Fargion, siamo anche in grado di scoprire se riuscirono a tornare vivi oppure no dall’esperienza dei campi di concentramento. Possiamo qui ricordare: Montecorboli Augusto, figlio di Vittorio, deportato ad Auschwitz, Ottolenghi Alessandro, figlio di Ernesto, anche lui deportato e ucciso ad Auschwitz, Pace Giacomo Giacobbe di Leone, deportato ed ucciso ad Auschwtiz. Tra i sottufficiali e i militari di truppa incontriamo nella stessa condizione: Luisada Augusto di Vittorio, deportato ed ucciso all’arrivo ad Auschwtiz, Menasci Raffaello di Enrico, deportato ad Auschwitz e morto a Varsavia, Pesaro Gualtiero di Leone, deportato ad Auschwitz e deceduto in località sconosciuta, Piperno Ernesto di Giuseppe, deportato ad Auschwitz, deceduto in località sconosciuta, Tedeschi Gino di Moisé, deportato e deceduto ad Auschwitz. In tutto otto soldati ai quali non servì per scampare alla deportazione, aver combattuto per l’Italia.

Questo elemento aggiunge tragedia a tragedia. Perché non solo la Grande Guerra fu un massacro per tutti e ovunque, ma per la minoranza ebraica essere partiti volontari come fu nella maggior parte dei casi, aver combattuto, aver ottenuto riconoscimenti al valor militare, non costituì  alcun motivo  per salvarsi la vita nel momento più tragico della persecuzione poiché si trovarono di fronte ad uno Stato fascista e smemorato.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Versilia anno zero: sminamento e ricostruzione

Gli strateghi militari nazisti iniziarono a progettare la Linea Gotica nell’estate del 1943, con l’obiettivo di predisporre un secondo baluardo fortificato da contrapporre all’avanzata alleata una volta che la Linea Gustav nel Meridione avesse ceduto: una volta completata, essa avrebbe abbracciato la penisola italiana come una cintura, correndo lungo i crinali dell’Appennino tosco-emiliano. Nel suo settore più occidentale, la grande opera militare avrebbe attraversato in pieno la Versilia, risalendo il percorso dell’omonimo fiume fino a raggiungere le colline attorno al borgo di Strettoia (Pietrasanta, Lu), per poi slanciarsi in alto sulle vette dei monti Canala, Folgorito, Altissimo e Corchia, fino a toccare le Panie e discendere quindi verso la Garfagnana, sfruttando al massimo le naturali doti difensive del territorio.

Genieri nazisti seppelliscono una mina anticarro di tipo Tellermine 42 ("mina a piatto")

Genieri nazisti seppelliscono una mina anticarro di tipo Tellermine 42 (“mina a piatto”), caricata con 5.5 kg di TNT

La costruzione dello sbarramento, affidata all’Organizzazione Todt, prese avvio nella primavera del 1944: squadre di operai italiani, sotto guida e sorveglianza di militari tedeschi, iniziarono a predisporre reticolati, trincee, fossati anticarro, bunker, piazzole per mitragliatrici e postazioni per cannoni e mortai, trasformando le Alpi Apuane in un’unica, imprendibile fortezza. Nel corso dell’estate del ’44, poi, i genieri della Wehrmacht, timorosi di uno sbarco nemico, disseminarono la spiaggia versiliese di ordigni esplosivi di ogni genere: la Versilia, detto altrimenti, si stava trasformando in terra bruciata in attesa della battaglia. Allo scopo di rimuovere gli ostacoli alla linea di tiro delle armi sulle alture dominanti la piana, i nazisti demolirono case, chiese, edifici storici e mulini, anche per non offrire sgraditi ripari alle truppe avversarie in avanzata: abbatterono ponti e pontili, tagliarono al calcio vigne ed oliveti secolari, deviarono torrenti e canali, provocando così l’allagamento di grandi aree.

Militari nazisti stendono lo Stacheldraht ("filo spinato")

Militari tedeschi stendono lo Stacheldraht (filo spinato)

Mentre la gente del posto veniva costretta ad evacuare il territorio con dure ordinanze di sfollamento verso la Pianura Padana, le truppe germaniche facevano saltare in aria interi abitati, come Strettoia, con la sua chiesa dei SS. Ippolito e Cassiano, Ripa, con Sant’Antonio Abate, Corvaia, con Santa Maria Assunta, parte di Querceta, con Santa Maria Lauretana, il rione dell’Annunziata a Seravezza e vaste zone di Forte dei Marmi, poste a breve distanza dalla foce del fiume Versilia.

Giunti in zona, dopo ripetuti ed infruttuosi attacchi gli Alleati furono obbligati ad arrestare la propria avanzata ai piedi della Gotica, come previsto dagli strateghi militari tedeschi: liberarono Forte dei Marmi e Pietrasanta il 19 settembre, ma arrivarono a Seravezza, a pochi chilometri in linea d’aria, il 6 ottobre, e presero il controllo del comune di Stazzema solo nel mese di novembre, con la significativa eccezione di Arni, isolata frazione nel cuore delle Apuane, rimasta in mano nazifascista fino all’aprile 1945.

Macerie della chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta (Seravezza, Lu), distrutta dai nazisti nel luglio 1944

Macerie della chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta (Seravezza, Lu), distrutta dai nazisti nel luglio 1944 per “far spazio” alla Linea Gotica versiliese

Al momento di rientrare alle proprie case, gli sfollati, trascorsi i mesi dell’occupazione e del fronte fermo nascosti su per le montagne, spesso in alloggi di fortuna come soffitte, scantinati, metati abbandonati e perfino grotte umide e malsane, sofferte le conseguenze di rastrellamenti, bombardamenti, fame e malattie, si trovarono di fronte a scenari profondamente destabilizzanti: i paesi, lasciati in tutta fretta sotto la minaccia delle armi, se esistevano ancora, apparivano infatti sconvolti, sfregiati, spesso irriconoscibili, ed i centri di vita di un tempo, come le chiese, le piazze, le scuole e i monumenti, non esistevano più. Molti versiliesi, poi, non ritrovarono più le proprie abitazioni, ridotte in macerie dai nazisti o dai bombardamenti dell’artiglieria alleata nei lunghi mesi della battaglia lungo la Linea Gotica: si doveva ricostruire tutto. In tal proposito, ecco come Maria Lucia Barsi, classe 1928, costretta nel settembre 1944 ad abbandonare Strettoia per Roma Imperiale, frazione residenziale e relativamente sicura di Forte dei Marmi, rievoca il suo primo ritorno al paese natale:

Quando siamo rientrati per la prima volta a Strettoia, nell’aprile del ’45, non siamo passati dalla strada principale, perché era tutta macerie. Le case rurali di una volta erano distrutte. C’era da passare sopra, verso monte, ma c’era da stare attenti alle mine: rientrare a Strettoia era molto pericoloso! […] Eravamo ragazzi. C’erano i corpi degli americani: erano tutti soldati neri. Arrivavano fino in piazza. In piazza di Strettoia, c’era un tedesco, biondo: aveva il naso pieno di sangue. Era un soldato, tutto vestito da militare. Quando lo rividi, la sera stessa, era rimasto nudo: l’avevano spogliato. Gli avevano portato via le scarpe, i calzoni, la camicia, il berretto, il fucile. Sai quanti ce n’era, di tedeschi! Qui a Strettoia, hanno continuato per anni, a raccogliere tedeschi.

Prima di ricostruire, tuttavia, si doveva liberare il territorio dalla terribile piaga delle mine. Durante il conflitto, infatti, allo scopo di rallentare il più possibile l’avanzata alleata, le truppe tedesche avevano sepolto ovunque decine di migliaia di mine anticarro ed antiuomo, che a guerra finita si trasformarono in altrettante trappole mortali per decine e decine di civili, soprattutto bambini, desiderosi di tornare alla vita dopo le gravi privazioni del fronte: nascosti sotto la sabbia, la terra dei campi e l’erba dei prati, i micidiali dispositivi esplosivi colpivano all’improvviso, investendo l’ignaro malcapitato di schegge di ferro, legno e cemento, provocando nel “migliore” dei casi vaste lacerazioni e perdite di arti. Ancora oggi, gli anziani testimoni ricordano con angoscia le urla strazianti udite di tanto in tanto, vicino ai paesi: non di rado, si trattava di contadini tornati ad arare, di madri recatesi sulla spiaggia a prendere un secchio d’acqua di mare, di bambini caduti vittime della loro stessa curiosità e voglia di vivere.

Rastrellatori civili italiani bonificano un terreno nei dintorni della città di Pisa

Rastrellatori civili italiani bonificano un terreno nei dintorni della città di Pisa, ricorrendo alle picche per sondare il sottosuolo

Le complesse operazioni di sminamento del territorio versiliese presero avvio immediatamente dopo il passaggio del fronte, che lasciò la zona a seguito della vittoriosa offensiva americana del 5-8 aprile 1945: non essendo numericamente sufficienti i limitati contingenti di sminatori militari alleati disponibili, furono soprattutto i rastrellatori civili italiani a farsi carico della rimozione degli ordigni lasciati dalla Gotica. Organizzata a livello nazionale in cinque grandi zone operative, facenti capo a Genova, Bologna, Firenze, Roma e Capua, la Bonifica Campi Minati (B.C.M.), attiva fra 1944 e 1948, arrivò a contare più di 3000 giovani volontari, desiderosi di liberare la propria terra dall’infida minaccia delle mine. Istruiti da militari del Genio attraverso specifici corsi di formazione offerti dalle scuole di zona e di sottozona – la Versilia rientrava ad esempio nella sottozona di Pisa, una delle prime attive in Italia -, i rastrellatori erano dotati del più moderno materiale alleato al tempo disponibile e venivano ricompensati con uno stipendio di tutto rispetto, per l’epoca. In soli quattro anni, gli sminatori civili riuscirono a bonificare più di 200000 ettari di suolo nazionale, rimuovendo circa 12 milioni di mine e 3 milioni di bombe e proiettili d’artiglieria inesplosi. I rischi, tuttavia, rimasero sempre elevatissimi, immensamente superiori ad ogni possibile ritorno economico: collegamenti imprevisti fra gli ordigni, deterioramento ed instabilità degli inneschi, e, alle volte, scarsa esperienza degli elementi più giovani, potevano portare infatti a tragiche conseguenze. Fra 1944 e 1948, a livello nazionale, si contarono quasi 400 rastrellatori civili morti e centinaia di feriti e mutilati: nella sola Versilia, furono in sei a cadere in questa insidiosa battaglia combattuta contro un nemico invisibile a guerra conclusa. Ecco i loro nomi: Mafaldo Aladino Coluccini (1913-1946), Romeo Gregori (1897-1946), Antonio Landi (1907-1945), Giovanni Paoli (1907-1945), Armando Masckee Reinke (1927-1946), tutti caduti sul Monte di Ripa, e Guido Manetti (1904-1945), deceduto in località Centoquindici, nei pressi della Palude del Lago di Porta, fra il fiume Versilia ed i colli di Strettoia, uno dei punti più pesantemente minati di tutta la Gotica versiliese. Fra i “Materiali correlati”, il lettore interessato potrà trovare una breve biografia dello sminatore Antonio Landi, ricostruita attraverso la testimonianza del figlio Bruno, nativo di Arni, classe 1932.

Sminatore civile italiano della sottozona B.C.M. di Pisa alle prese con un ordigno anticarro tedesco

Sminatore civile italiano della sottozona B.C.M. di Pisa alle prese con un ordigno anticarro tedesco

Non appena un lotto di terra era dichiarato libero dagli ordigni, si rendeva disponibile per la ricostruzione, un processo intenso e vivace, che i versiliesi vissero con entusiasmo e grande fiducia nel futuro: assistita dai fondi e materiali messi a disposizione dapprima dal programma delle Nazioni Unite U.N.R.R.A. Casas, quindi dal Piano Marshall degli USA, la popolazione intera, spesso contribuendo come poteva allo sforzo collettivo, donando generosamente ore di fatica e duro lavoro in base alle proprie qualifiche e possibilità, cominciò a riedificare partendo proprio da quegli edifici che maggiormente avevano costituito il fulcro della vita sociale anteguerra, innervandone l’identità collettiva: le chiese, metodicamente distrutte dall’esplosivo nazista per “far spazio” alla Linea Gotica. Subito dopo, ma sempre nel giro di pochi anni, ripresero forma le scuole, le fabbriche, gli edifici amministrativi e le abitazioni private, mentre i tecnici dei comuni ripristinavano i servizi idrici e le piazze rinate si punteggiavano di statue e lapidi a memoria dei drammatici avvenimenti del conflitto. Il maestro elementare in pensione Domenico Sacchelli, originario di Strettoia, classe 1936, ricorda con le seguenti parole i dinamici anni della ricostruzione in Versilia:

C’hanno aiutato tanto, con le perizie di guerra, con i risarcimenti per i danni di guerra. Si faceva fare la perizia da un tecnico, si inoltrava la domanda all’ufficio provinciale, poi veniva l’ispettore, e, dopo poco, arrivava il materiale: mattonelle, cemento, ferro, ghiaia – ci fornivano tutto! Mandavano addirittura anche il legno, per fare gli infissi. Naturalmente, prima bisognava dimostrare che la casa era stata distrutta. Era chiamato Unrra, l’Unrra Casas. A Strettoia, fecero anche due o tre baracche, dove abitavano le persone che non avevano proprio più nulla.

Così, nel 1946 rinacque la borgata di Corvaia, mentre fra 1949 e 1951 venne riedificata la chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta: fra 1950 e 1952, al centro di un paese completamente nuovo ricostruito sulle macerie del vecchio abitato, tornò a guidare la comunità di Ripa la nuova chiesa di Sant’Antonio Abate. La Versilia, riplasmata dalla guerra, poteva finalmente rinascere a nuova vita.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.