Febbraio 1920: Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta

«Tombolo! Lo ricordiamo più? Nitti tentò il colpo. Ma dovette rendere gorge. Fu nel febbraio del 1920. Erano appena due mesi che era in Italia. Quella piccola borgata presso Livorno, dove un commissario con qualche poliziotto lo dichiarò in arresto divenne presto celebre. Tombolo! Le maggiori città della Toscana scioperarono in segno di protesta» (Armando Borghi)

L’importante sciopero a Livorno del 2 e 3 febbraio 1920 – cento anni fa – attuato per reclamare la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta, difficilmente si trova ricordato nei libri di storia locale; ma soprattutto è scomparso dalla memoria cittadina, nonostante la rilevanza della figura di Malatesta nella storia del movimento operaio. Le prime, e probabilmente uniche, ricostruzioni di tale sciopero risalgono al 1990, con il saggio di Paolo Finzi (La nota persona), dedicato alla biografia di Malatesta in Italia tra il dicembre 1919 e il luglio 1920, e il fondamentale lavoro di Tobias Abse,“Sovversivi” e fascisti a Livorno, 1918-1922.

Per cui, oltre a questi due libri e alle informazioni contenute nel fascicolo del Casellario politico centrale intestato a Malatesta, per scrivere le seguenti note sono state utilizzate soprattutto le notizie estrapolate dalla stampa dell’epoca, in particolare dalla testata cittadina «La Gazzetta Livornese» e dai giornali «Avanti!», «L’Avvenire anarchico» e «Il Libertario».

«La Gazzetta Livornese», con classico spirito liberale, racconta i fatti persino con un certo rispetto nei confronti di Malatesta, allora sessantasettenne, definito «vecchio rivoluzionario», «irriducibile ribelle» e «noto agitatore», ma altresì tendendo a mettere in cattiva luce lo sciopero e a ridicolizzare gli scioperanti.

Errico Malatesta, rientrato clandestinamente dall’esilio londinese sul finire del 1919, aveva iniziato un impegnativo tour di propaganda e agitazione in mezza Italia, accolto da una grande partecipazione popolare.

A Livorno giunse in treno alle 9,20 di domenica 1° febbraio 1920, proveniente da Pisa dove il giorno precedente aveva  partecipato ad una manifestazione organizzata dalla locale Camera del lavoro sindacale (aderente all’USI) e conclusasi con un comizio in Piazza dei Cavalieri, dalla scalinata della Scuola Normale. Il prefetto di Pisa aveva informato della partenza il Ministero dell’Interno, precisando che «è partito per Livorno seguito funzionario Ps e segnalato quella questura e quella Sicurezza ferrovia».

Alla stazione di Livorno, oltre agli agenti, ad accoglierlo trovò  un centinaio di amici e compagni informati da poche ore del suo arrivo. Le ultime sue visite nella città labronica risalivano al 1913 e al 1914, prima del suo esilio in Inghilterra, quando era stato ospite del noto anarchico ardenzino Adolfo – anche se da tutti conosciuto come Amedeo – Boschi col quale aveva condiviso il soggiorno coatto a Lampedusa nel 1898 .

Dopo avergli offerta una colazione al Caffè della Posta (poi Teatro Lazzeri), i compagni livornesi accompagnarono Malatesta al Teatro S. Marco. «Già intanto si era propagata – riportava il cronista de «La Gazzetta Livornese – la voce del suo arrivo e di un comizio popolare nel quale  Malatesta avrebbe parlato al pubblico», tanto che molta folla fu costretta a rimaner fuori del Teatro.

Il comizio iniziò attorno alle 10,30 con la partecipazione di lavoratori e oratori anarchici, socialisti repubblicani e sindacalisti. Seguì infine, «salutato da clamorose acclamazioni», l’atteso intervento di Malatesta: «La borghesia non sa più come risolvere le cose e gli eventi che precipitano ed il governo, il quale si trova a difesa di questa borghesia ormai pericolante sui piedistalli corrosi non è più sicuro della propria forza: neppure di quella dell’esercito che al momento della lotta decisiva, certamente non rivolgerebbe le armi contro la forza soverchiante rivoluzionaria […] il proletariato produttore sente che è l’ora di sovvertire il sistema capitalistico borghese: l’unica  forza che sostiene la borghesia è basata sulla disgregazione delle forze proletarie: occorre perciò la concordia. Anarchici, socialisti, repubblicani tendono ad un fine unico, sebbene per vie diverse: l’intendimento è unico […] È quindi necessaria la collaborazione sincera e concorde delle varie tendenze al fine unico: la rivoluzione […] La Rivoluzione non si fa però coi rosari…(a questo punto il cannone annunzia mezzogiorno. Tra le risa generali, per la conferma del cannone intelligente, dal pubblico, un ignoto, dal basso, grida di rimando: «Si fa col cannone!»). Ora la Rivoluzione è possibile. Soltanto bisogna prepararvisi militarmente e economicamente. Nitti dice agli operai: “Producete! Producete!…”. Gli operai hanno ragione di produrre poco e male, oggi, in regime capitalista, e di esigere salari più alti […] Così per le abitazioni. Ci son cave, pietre, sabbia, cemento, muratori e tecnici, e non ci son case e abitazioni. Il male è nel regime capitalista, che bisogna abbattere…».

Terminato il comizio, continua la cronaca su «La Gazzetta Livornese», un folto gruppo di anarchici e socialisti con le bandiere in testa si avviarono verso il centro della città e per via del Porticciolo e Piazza Vittorio Emanuele, cantando l’«Internazionale» e altre canzoni… affini, si diressero alla Camera del Lavoro, e deposti i vessilli rossi e neri subito si sciolsero.

Intanto Malatesta, assieme ad alcuni compagni, si diresse in carrozza ad Ardenza Terra, a casa dell’amico Boschi, in attesa del comizio che tenne nel pomeriggio. In quella che «L’Avvenire anarchico» ebbe a definire «cittadella dell’Anarchia», il secondo comizio iniziò alle ore 16 in un vasto cortile in via del Litorale, alla presenza di un migliaio di persone (lo afferma «La Gazzetta Livornese»).

Dopo l’introduzione di Natale Moretti, seguito dagli interventi di Renato Siglich, Primo Petracchini e Dante Nardi per i giovani socialisti di Ardenza, Malatesta, si rivolse infine ai convenuti, dichiarandosi contrario ad ogni azione di parlamentarismo e chiamando a raccolta anarchici, socialisti e repubblicani e tutte le masse del proletariato, ormai insofferenti di ogni sfruttamento economico e politico. Il comizio terminò senza il minimo incidente e un corteo attraversò via del Litorale al canto di inni rivoluzionari.

Dopo una breve visita a casa di Boschi, secondo la minuziosa cronaca de «La Gazzetta Livornese», Malatesta «e i maggiorenti prendono posto in due vetture che fiancheggiate da agenti ciclisti riprendono alle 18 la via della città». Dopo le fatiche dell’intensa giornata, i compagni offrirono una cena conviviale a Malatesta.

All’indomani, lunedì 2 febbraio, alle ore 5 circa Malatesta, accompagnato dall’anarchico ardenzino Ferdinando Bacci  prendeva il treno per Milano, ma poco dopo la partenza – attorno alle 5,25 – mentre era in sosta presso la piccola stazione di Tombolo, tra Livorno e Pisa, alcuni carabinieri e funzionari in borghese della Questura di Livorno guidati dal commissario di Ps, dott. Dino Fabbris, salivano sul treno e traevano in arresto l’anarchico. Prima di essere fatto salire su un’auto che l’attendeva nei pressi, Malatesta – mostrando la massima calma – nel salutare l’anarchico Bacci gli chiedeva di avvertire i compagni dell’accaduto.

Quindi l’auto partì alla volta di Firenze; secondo una successiva testimonianza dello stesso Malatesta, durante il tragitto, al passaggio d’ogni paese, i questurini gli coprivano il viso, affinché qualcuno non lo riconoscesse e l’auto fosse bloccata a furor di popolo. Giunti nel capoluogo toscano, entrando da Porta S. Frediano, dopo un breve interrogatorio in Questura, Malatesta venne rinchiuso nel carcere delle Murate nella cella n. 32 destinata normalmente ai detenuti per reati comuni dove, attorno alle ore 14, venne interrogato dal giudice istruttore cav. Casentino.

Su Malatesta, infatti, pendeva una denuncia «per eccitamento all’odio di classe e all’insurrezione armata» presentata dal deputato liberale Dino Philipson presso l’autorità giudiziaria fiorentina, con riferimento al comizio tenuto da Malatesta a Firenze, in piazza Cavour, il 19 gennaio che aveva visto la partecipazione di circa temila persone, ma conclusosi con  incidenti in cui era stati ucciso un manifestante.

Appreso della denuncia dello zelante parlamentare, il governo aveva perentoriamente telegrafato al Prefetto di Firenze: «Pregasi far conoscere massima urgenza se Malatesta fu denunciato autorità giudiziaria per parole pronunciate comizio ieri costituenti reato. Se non ancora denunciato dovrà esserlo subito sollecitando autorità giudiziaria emettere immediatamente mandato cattura che vorrà comunicarmi».

Per motivi di ordine pubblico – dato che la situazione sociale era già estremamente tesa per lo sciopero dei ferrovieri – il mandato era rimasto chiuso in qualche cassetto per una decina di giorni, tanto da indispettire l’assai poco liberale on. Philipson che peraltro, pochi anni dopo, avrebbe ammesso di aver finanziato lo squadrismo fascista con «varie centinaia di migliaia di lire».

Conclusosi lo sciopero dei ferrovieri che lo aveva bloccato a Roma, il  31 gennaio Malatesta aveva ripreso il suo giro di propaganda anarchica e agitazione sociale, partecipando alla citata manifestazione a Pisa.

Il 1° febbraio il governo giunse quindi alla decisione d’arrestarlo e tramite il Ministero dell’Interno l’aveva comunicata con telegrammi ai prefetti di Livorno e Firenze, non senza preoccupazione per le prevedibili reazioni.

A quello di Livorno veniva consigliato di procedere al fermo in una  «piccola stazione intermedia lungo tragitto», mentre a quello di Firenze si raccomandava «vivamente» di interrogarlo e scarcerarlo in giornata. Così infatti avvenne e il giudice istruttore incaricato dispose la libertà provvisoria, con l’obbligo di rimanere «a disposizione dell’autorità giudiziaria di Firenze».

Appena uscito dalle Murate, Malatesta incontrava gli anarchici fiorentini coi quali si intrattenne in un caffè di piazza Santa Maria Novella per festeggiare la liberazione ma anche per fare il punto della situazione; la sera stessa parlò presso la Camera del Lavoro sul tema «Il proletariato nel momento attuale».

Di certo, anche se la sua scarcerazione era stata decisa in anticipo, il governo aveva dovuto registrare una risposta istantanea e di massa: nel giro di poche ore scioperi e manifestazioni si erano allargati da Livorno a Piombino, a Pisa, alla provincia di Massa-Carrara e alla Versilia, a La Spezia, sino a Perugia dove i lavoratori senza attendere la riunione serale della Camera del Lavoro confederale erano entrati in sciopero.

A Livorno, la notizia dell’arresto di Malatesta si sparse velocemente, diffusa sia dall’anarchico Bacci che dai ferrovieri. La prima notizia era stata data al mattino dal quotidiano «Il Telegrafo», ma i particolari  dell’arresto furono forniti da «La Gazzetta Livornese» che «andò a ruba». Fin dalla tarda mattinata, riferisce quest’ultima: «Gli elementi anarcoidi erano in gran fermento […] Buona parte dei lavoratori del Porto, che non sono ascritti alla Camera del Lavoro, volle disertare subito il lavoro. Nelle officine e negli stabilimenti corse la parola d’ordine e  le staffette ebbero in gran da fare». In pratica lo sciopero generale era già stato deciso, ma la Camera del lavoro convocò il Consiglio generale delle Leghe per la sera stessa, in cui prevalse la linea più combattiva sostenuta da massimalisti e anarchici.

Attorno alle 22, i vice-commissari della Questura Ruggero e D’Ambrosio si recarono nei pressi della Camera del lavoro portando la notizia della scarcerazione e quindi accompagnarono una commissione, capeggiata dall’anarchico Bacci e seguita dai giornalisti della stampa locale, dal Prefetto Gasperini che confermò ufficialmente la notizia. La commissione fece quindi ritorno alla Camera del lavoro, mentre fuori, in via Vittorio Emanuele, sostava una folla impaziente di lavoratori; da una finestra della sede sindacale intanto un giovane sventolando una bandiera «inneggiò allo sciopero generale, a Errico Malatesta e gridò abbasso alla polizia e al Niccoletti» funzionario della squadra politica presente sul luogo.

La notizia della liberazione non fu ritenuta abbastanza credibile, d’altra la maggioranza (e non certo una «minoranza turbolenta» come ebbe a scrivere «La Gazzetta Livornese») del Consiglio evidentemente ritenne necessario dare comunque un segnale politico forte al governo, quale monito contro la sua politica repressiva. Quando il segretario della Camera del lavoro Zaverio Dalberto annunciò la proclamazione per l’indomani dello sciopero «suscitò tra la folla molto entusiasmo e gran clamore di applausi».

Il 3 febbraio lo sciopero risultò compatto e la città apparve pressoché paralizzata: «niente trams, niente carrozze, botteghe aperte nelle strade secondarie e botteghe e negozi sprangati nelle vie del centro», registrava «La Gazzetta Livornese». Nel pomeriggio si tenne un comizio nella piazza davanti al Palazzo Comunale, dalla cui scalinata parlarono Dalberto, l’anarchico Augusto Consani – particolarmente applaudito – e il repubblicano Gualtiero Corsi.

La manifestazione e lo sciopero si conclusero alle 17. Il giorno seguente, 4 febbraio, Malatesta decise di tornare a Livorno, per sottolineare l’importanza della mobilitazione dei lavoratori  livornesi a favore della sua libertà. Partito da Firenze in automobile – la stessa con cui la polizia l’aveva sequestrato – e accompagnato da alcuni compagni, si diresse alla volta del porto tirrenico; lungo la strada dovette fermarsi a Signa, Empoli, Santa Croce sull’Arno, Pontedera e Fornacette per tenere, in piedi sull’auto, brevi discorsi a quanti lo stavano aspettando per festeggiarlo.

GazzettaLivorneseFinalmente giunto nel pomeriggio a Livorno, accolto dal segretario camerale Dalberto, da Bacci e da altri compagni, dopo una breve visita a Boschi e un “ponce” presso il Caffè della Posta, verso le 17,30 uscendo dal Caffè su via del Fante s’incamminò verso piazza Goldoni, seguito da numerosi manifestanti e poliziotti, dove era previsto un suo comizio presso la palestra “Sebastiano Fenzi”. Dato che i presenti nella piazza erano migliaia, il comizio fu tenuto sotto il loggiato del Regio Teatro Goldoni; il commissario di Ps presente, da parte sua, ritenne saggio non impedire tale manifestazione pubblica.

In piedi su un tavolo accanto a una delle colonne del loggiato, l’anarchico livornese Natale Moretti aprì il comizio sottolineando che il proletariato livornese aveva mantenuto «l’impegno manifestato domenica al teatro S. Marco di opporsi con ogni mezzo all’arresto di Malatesta». Toccò quindi a Malatesta salire sul tavolo, salutato da intensi applausi e da grida d’entusiasmo; l’anarchico esordì quindi dicendo «Non viva Malatesta, ma viva Livorno, viva l’Unione Sindacale anarchica».

Il suo discorso – annotato in modo sommario nei rapporti di polizia  – risulta attendibilmente riportato su «La Gazzetta Livornese»: «Ed il Malatesta entra in argomento sostenendo che la sua scarcerazione fu grande vittoria non per lui ma per l’idea. Vittoria di grande importanza,  poiché gli anarchici premendo collo sciopero salvarono – come i ferrovieri –  la libertà di propaganda ed ogni volta che si arresterà qualcuno reo solo sia pure di propaganda, il proletariato lo appoggerà […] Certo che Modigliani con tutto il suo parlamentarismo non avrebbe ottenuto quello che in poche ore collo sciopero immediato il proletariato ottenne». Malatesta soggiunse che però, per quanto animato da idealità anarchiche, simpatizza pure per le masse dei socialisti che sono lavoratori, ma non per i deputati che seggono a Montecitorio.

Cessati gli applausi, intervenne il segretario camerale Dalberto, che si scagliò «ferocemente contro la stampa borghese, di quella borghesia pavida che da quando Malatesta rientrò in Italia fu invasa dalla tremarella». Aggiunse pure che Malatesta era «di tutta la gente che lavora» e «disopra di ogni partito» in quanto era «il campione della emancipazione del popolo».

Parlarono quindi Pratali dell’Unione anarchica fiorentina, e Gentili a nome dei comunisti fiorentini. Dopo un applauso accompagnato dal canto di «Bandiera rossa», il comizio si andò sciogliendo, mentre Malatesta tornò in carrozza ad Ardenza a casa Boschi; «più tardi rientrava in città per una bicchierata al Circolo repubblicano in via Pellegrini».

L’indomani mattina Malatesta riprendeva il suo giro di propaganda, partendo alla volta di Bologna, dove lo attendevano Armando Borghi e gli anarchici bolognesi. Nella stessa serata tenne un comizio presso la Vecchia Camera del lavoro di Porta Lame durante il quale, riferendosi a quanto avvenuto, affermò che l’articolo 246 del Codice Penale, all’origine del suo arresto a Tombolo, era stato di fatto cancellato grazie all’azione diretta del proletariato e alla forza dimostrata dalle forze sindacaliste. In tale valutazione apparentemente trionfalistica, c’era invece molta più verità di quanto potrebbe apparire; lo dimostrano le motivazioni del Direttore generale della Ps in una comunicazione del 7 febbraio al Sottosegretario degli Interni, attorno al ritardo di dieci giorni con cui era stato effettuato l’arresto di Malatesta. L’alto funzionario di polizia sostenne infatti che ciò era stato determinato dalle «continue peregrinazioni» di Malatesta, quando questi invece, a causa dello sciopero ferroviario, in tale periodo era sempre rimasto a Roma, partecipando a una festa di finanziamento per il giornale «Umanità Nova» il 25 gennaio e ad altre iniziative pubbliche, tra le quali un grande comizio presso la Casa del Popolo alla presenza di settemila persone.

Evidentemente quindi, le autorità di governo e di polizia, anche se non potevano ammetterlo, prima avevano rimandato e poi deciso di procedere all’arresto prevedendo già un rapido rilascio, nel timore delle conseguenze per l’ordine pubblico che tale provvedimento avrebbe innescato.

A distanza di un anno, nel 1921, davanti alla Corte di Assise di Milano, Malatesta, nuovamente accusato di istigazione all’odio di classe, avrebbe risposto ironicamente: «Ora, signori giurati e signori della corte, dirvi che io ammetto la lotta di classe, è come dirvi che io ammetto il terremoto o l’aurora boreale».

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Detenuti jugoslavi nelle carceri italiane: la casa di pena di Volterra

Durante la seconda guerra mondiale, alcune carceri italiane furono utilizzate come luogh di detenzione per i civili – donne e uomini – condannati dal sistema militare e civile che amministrava la giustizia nei territori occupati o annessi della Jugoslavia. Ci riferiamo al Tribunale militare di guerra della II armata che aveva sedi a Fiume, Lubiana e Sebenico; al Tribunale militare di guerra di Cettigne in Montenegro; e al Tribunale speciale per la Dalmazia, istituzione civile voluta dal governatore Giuseppe Bastianini ma affidata alla gestione di giudici militari.

La funzione di questi apparati – in particolare all’interno del sistema repressivo –, il loro funzionamento, il numero e le tipologie delle condanne, ecc. sono argomenti che solo negli ultimi anni stanno diventano oggetto di studio da parte degli storici italiani.

L’associazione Topografia per la storia, che cura il progetto campifascisti.it, sta portando avanti un lavoro di mappatura dei luoghi di detenzione per i quali sono passate centinaia e centinaia di donne e uomini jugoslavi tra il 1941 e il 1944.

In genere, i detenuti politici in attesa di giudizio erano ristretti nelle carceri prossime alle sedi dei tribunali, quindi nei territori annessi dopo l’occupazione. Successivamente alla condanna definitiva – i processi non duravano a lungo sia perché non esisteva di fatto la possibilità di difesa sia perché era previsto un solo grado di giudizio –, i detenuti erano trasferiti, di solito dopo un passaggio nel carcere di Capodistria che funzionava quindi come luogo di transito e smistamento, in istituti dove i prigionieri avrebbero scontato la pena inflitta.

Tra i molti luoghi che stiamo censendo c’è anche il carcere di Volterra.

Grazie alla direzione del carcere che ci ha autorizzato a consultare il suo archivio storico inedito ancora custodito all’interno della fortezza medicea, e alla Regione Toscana che ha cofinanziato la ricerca, siamo stati in grado di ricostruire le brevi biografie (con la data e il luogo di arresto, il reato commesso, il tribunale giudicante, la pena comminata e il percorso di detenzione) di 436 detenuti politici sloveni, croati e montenegrini. Biografie che si possono consultare in un nuovo data base, in continuo aggiornamento, di recente aggiunto agli altri strumenti disponibili sul sito campifascisti.it.

 Di seguito riportiamo la scheda sul carcere di Volterra pubblicata sul sito.

Il carcere di Volterra e i detenuti jugoslavi 1941-1944

 Dal dicembre 1941 fino alla fine del mese di maggio 1944, la casa di reclusione di Volterra fu uno dei luoghi in Italia destinato alla detenzione dei civili jugoslavi condannati in via definitiva dai Tribunali militari di guerra. I registri del carcere toscano, ancora oggi conservati presso la storica fortezza medicea, riportano i nomi di 436 montenegrini, croati e sloveni che, per periodi più o meno lunghi, furono detenuti nel carcere.

 I primi ad arrivare, nel corso del mese di dicembre 1941, furono 24 montenegrini condannati dal Tribunale militare di guerra che aveva sede a Cettigne (Cetinje), oltre a un detenuto sloveno proveniente dalle carceri di Trieste. Sempre dal Montenegro, il 19 aprile 1942 giunse a Volterra il secondo trasporto composto da altri 47 detenuti.  Da quel momento in poi, gli arrivi alla fortezza si susseguirono con regolarità. Così, alla fine del 1942 si contavano 151 detenuti jugoslavi; alla data dell’8 settembre 1943 il loro numero era salito a 358. Il mese con il maggior afflusso di detenuti fu il marzo 1943, quando giunsero a Volterra 64 jugoslavi, tutti provenienti per sfollamento dal carcere di Capodistria.

Quanto alla provenienza geografica, il maggior numero di detenuti arrivava dal Montenegro (137 condannati dal Tribunale militare di Cettigne). Pochi di meno erano i dalmati (115 condannati dal Tribunale speciale della Dalmazia e altri 18 dalla sezione di Sebenico del Tribunale militare di guerra della II armata) e gli sloveni (111 condannati dalla sezione di Lubiana del Tribunale militare della II armata). Ultimi, in termini numerici, i croati provenienti della provincia di Fiume (53 civili condannati anch’essi dal Tribunale militare della II armata che aveva la sede principale proprio a Fiume).

I reati per i quali erano stati imputati e giudicati colpevoli sono quasi sempre gli stessi: “partecipazione a banda armata”, “associazione sovversiva”, “attentati contro appartenenti alle forze armate italiane”, “detenzione abusiva di armi e munizioni”. Diverse invece sono le condanne comminate: dai pochi anni di carcere previsti per chi ha commesso il solo reato di detenzione abusiva di armi o di concorso in attentato alle forze armate, fino alla pena di morte (poi commutata in carcere a vita) per gli accusati di appartenenza a banda armata e associazione sovversiva.

Nel carcere di Volterra sembrano però concentrarsi i soli detenuti che hanno ricevuto le condanne più pesanti. In genere, i detenuti arrivati a Volterra per scontare pene relativamente leggere (da 1 a 10 anni di carcere) vengono poi trasferiti in altri luoghi. È il caso, ad esempio, di 30 montenegrini trasferiti nel giugno 1942 alla casa di lavoro all’aperto della colonia penale dell’Asinara, tutti condannati a pene che andavano dai 3 ai 10 anni. Oppure dei 13 detenuti inviati a Castiadas, di nuovo in Sardegna, presso una struttura analoga, anch’essi condanni a pene inferiori ai 10 anni. Così, alla data dell’8 settembre 1943, dei 358 detenuti presenti a Volterra, ben 264 sono gli ergastolani (69 dei quali originariamente condannati a morte) e 33 quelli con condanne comprese tra i 20 e i 30 anni.

Conosciamo poco delle condizioni di vita dei detenuti jugoslavi nel carcere di Volterra. L’unica testimonianza diretta fino ad oggi reperita è quella di Filip Pavešić. Nato a Kraljevica (Croazia) nel 1902, arrestato dagli italiani e condannato alla pena di morte, successivamente commutata in ergastolo, per il reato di appartenenza a banda armata, Pavešić arrivò a Volterra il 17 maggio 1942 dopo essere passato per le carceri di Fiume e di Padova. Nel dopoguerra dichiarò alla Commissione distrettuale per l’accertamento dei crimini di guerra di Sušak (Fiume) che: “il carcere di Volterra era noto per essere uno dei più brutali, specialmente per la nostra gente”. Pavešić ricorda anche che uno sciopero dei detenuti organizzato per chiedere condizioni igieniche migliori era stato represso con durezza.

Durante il periodo di detenzione a Volterra morirono sei civili jugoslavi, tutti per tubercolosi polmonare. Un altro detenuto, Milan Mićunović, morì all’ospedale di Trieste subito dopo la liberazione. L’epidemia di tubercolosi portò anche al trasferimento di alcuni detenuti da Volterra al sanatorio giudiziario di Pianosa.  Due furono i casi di detenuti trasferiti al manicomio giudiziario di Montelupo fiorentino.

Da alcuni registri, peraltro incompleti, utilizzati dai carcerieri per segnalare alla direzione gli episodi di insubordinazione da parte dei detenuti, sappiamo che gli jugoslavi in più di un’Ioccasione si rifiutarono di fare il saluto fascista, così come di fare silenzio nelle camerate, o di interrompere canzoni e cori nelle proprie lingue. Episodi che di solito erano puniti con uno o più giorni di cella di isolamento.

Dopo il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, i rapporti delle guardie registrano oltre ai consueti canti e proteste, anche diverse altre iniziative – passaggi di fogli, frasi urlate da una camerata all’altra, ritrovamento di pezzi di latta a forma di coltello, tentativi di manomettere una serratura – alla luce delle quali è lecito immaginare qualche forma di organizzazione dei detenuti in vista o in preparazione della propria liberazione. Questo genere di atti continuerà anche nei mesi di ottobre e novembre 1943, senza però sortire alcun effetto.

L’occupazione tedesca e l’insediamento della Repubblica sociale italiana non influiscono quindi in alcun modo sullo status di prigionieri politici dei detenuti jugoslavi. A decidere la loro sorte sarà invece l’intervento dello Stato indipendente di Croazia (NDH) guidato dal collaborazionista Ante Pavelić.  Su suo incarico il sacerdote Krunoslav Stjepan Draganović arriva in Italia anche come rappresentate delle croce rossa croata, per chiedere la liberazione degli internati e detenuti croati. Con un analogo obiettivo, giunge in Italia un certo dottor Lukan in qualità di rappresentate della croce rossa slovena. Ha inizio così una trattativa per la liberazione dei detenuti cui la RSI prova inizialmente ad opporsi.

Le prime liberazioni dal carcere di Volterra avvengono alla fine del novembre 1943, quando su ordine del comando tedesco vengono scarcerati dieci detenuti sloveni e croati. La gran parte degli jugoslavi sarà liberata nel corso del gennaio successivo, quando lasceranno Volterra 284 detenuti, quasi tutti sloveni e croati. A restare in carcere saranno quindi una cinquantina di Montenegrini. Una parte di loro sarà liberata a marzo, gli ultimi il 31 maggio 1944, poco prima della liberazione di Volterra.

Tra gli ultimi detenuti jugoslavi a lasciare il carcere c’è anche il rabbino Isidor Finci. Nato a Sarajevo nel 1918, Finci – identificato nei documenti italiani come Finzi – era stato arrestato a Spalato il 24 aprile 1942 e condannato dal Tribunale speciale per la Dalmazia a 20 anni di reclusione per il reato di propaganda sovversiva. Nelle note della sua cartella biografica si può leggere: “È un pericoloso comunista, diffusore dell’idea sovversiva, e siccome è colto riesce con facilità ad avvelenare gli animi. È molto astuto e sa dissimulare con abilità sorprendente nello stesso modo come sa spudoratamente mentire. Del resto è un ebreo! Parla italiano”.

Il 31 maggio 1944 Finci, a quanto risulta unico tra tutti i detenuti jugoslavi di Volterra, viene trasferito a Firenze in via Bolognese 67 per essere messo a disposizione del comando militare tedesco. Isidor Finci sarà successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli e da qui inviato ad Auschwitz dove morirà alla fine di agosto 1944.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

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La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




La protesta delle donne contro la guerra

Durante l’intero periodo bellico, in tutta l’Europa continentale si registrarono fenomeni di opposizione al conflitto; tuttavia, per intensità e frequenza le proteste in Italia evocano gli scenari della Russia che tanto scossero la classe politica nazionale del tempo. Nell’estate 1917, infatti, la vicenda russa costituì un vero e proprio spettro per le autorità italiane. Le ‘terribili’ proteste furono spesso avvertite dai prefetti del Regno come il prologo di una rivoluzione o di gravi sconquassi che di lì a poco avrebbero condotto a uno sconvolgimento del paese. Il prefetto di Pisa non fece eccezione rispetto a queste sentire diffuso. Il giorno prima dell’inizio della famosa rivolta di Torino (22 agosto 1917), aveva scritto al ministero dell’interno una relazione in cui denunciava che da mesi in provincia si verificavano praticamente ogni giorno dimostrazioni di donne contro la guerra. Pur non avendo un quadro nitido delle dinamiche nazionali, riteneva che le dimostrazioni fossero «coordinate ad un unico scopo […] d’impressionare e premere sul Governo centrale pel pronto raggiungimento di una pace qualsiasi». Tuttavia, continuava, non era da escludersi che servissero «di allenamento alle masse per la loro partecipazione ad un eventuale movimento generale rivoluzionario». In questo senso, ammoniva il ministero dell’esistenza di un piano regionale per «la proclamazione di uno sciopero generale con finalità rivoluzionarie». In realtà non solo lo sciopero generale non si verificò, ma di lì a poco la lunga stagione delle proteste del 1917 si sarebbe esaurita anche nella provincia pisana.

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Documeno che attesta la mobilitazione di 1360 operaie degli stabilimenti Pontecorvo (27 luglio 1917, Archivio Centrale dello Stato)

Il prefetto Gaspare Focaccetti non esagerava quando lamentava la reiterazione pressoché quotidiana di forme protestatarie anche se la parabola fu contrassegnata da due cicli di particolare intensità che si verificarono l’uno tra il dicembre 1916 e il marzo 1917 e l’altro in estate. In sintonia con il resto del paese, con le offerte di pace avanzate dal cancelliere tedesco al pontefice (12 dicembre 1916), nel territorio pisano si aprì una stagione densa di lotte intraprese da donne appartenenti alle classi popolari. L’epicentro delle proteste fu la bassa valle dell’Arno (Pisa, San Giuliano, Cascina e Pontedera), dove si concentrava la produzione tessile che rappresentava il più importante comparto industriale di una provincia dotata di un forte settore secondario anche per la presenza di Piombino, nei suoi confini fino al 1925. Il ciclo fu inaugurato dalle operaie tessili degli stabilimenti cotonieri Pontecorvo che, dislocati tra il capoluogo e San Giuliano, contavano 2.420 unità costituite quasi per intero da manodopera femminile. Nella stagione giolittiana, le tessitrici della Pontecorvo avevano rappresentato un soggetto chiave della mobilitazione popolare economica e politica con profondi addentellati con l’anarchismo locale; mentre nei mesi della neutralità, si erano affacciate prepotentemente sulla scena nel corso dei principali appuntamenti contro la guerra. A conferma del dato nazionale sull’elevatissima combattività del settore,  tra il 14 e il 17 dicembre 1916,  le operaie della Pontecorvo, ma non solo, paralizzarono il capoluogo. La pubblicazione sui giornali della profferta tedesca indusse le operaie appena uscite dagli stabilimenti a organizzare una dimostrazione «al grido di abbasso la guerra-vogliamo la pace» in piazza Vittorio Emanuele II, dove il 21 febbraio 1915 si era svolto l’evento cruciale del ciclo di manifestazioni neutraliste. L’intervento della forza pubblica provocò l’arresto di 4 persone, tra cui un’operaia. Il giorno dopo la situazione degenerò: «le operaie di quasi tutti gli stabilimenti più importanti […], in numero di oltre tremila, accentuarono la loro agitazione contro la guerra, e la maggioranza di esse non solo abbandonava il lavoro ma cercava di provocare uno sciopero generale». Ne seguì la militarizzazione della città con violenti scontri, la repressione di forme di radicalizzazione della solidarietà operaia verso l’arrestata,  la conseguente carcerazione per altre donne e lo sgombero di forza dei dimostranti per la pace giunti al Lungarno Mediceo. Tuttavia, al cambio di turno, lo sciopero si riaccese in quasi tutti gli stabilimenti, mentre il 17 a sostegno delle arrestate «le operaie si astennero quasi tutte dal riprendere il lavoro». Trascorsa tranquilla la domenica, il 18 restava in piedi la protesta di una fabbrica Pontecorvo dislocata nel comune di San Giuliano. Il protagonismo di queste lavoratrici risulta tanto più significativo se si tiene conto che donne e uomini della famiglia Pontecorvo erano campioni della prima ora nell’attivismo patriottico e guidavano i comitati di mobilitazione civile del capoluogo; inoltre le fabbriche Pontecorvo, nel quadro della mobilitazione industriale, rientravano nel novero delle ausiliarie dal dicembre 1915. Né la militarizzazione di questi stabilimenti, né il recentissimo decreto di ampliamento del ventaglio repressivo avevano agito da deterrente.

La vicenda cittadina rimase un unicum nel panorama industriale locale. Piombino e i suoi stabilimenti siderurgici non offrirono esempi simili anche se va detto che le sue vicende  meritano una trattazione a parte, considerato che proprio in dicembre il comune «fuori legge» amministrato dai socialisti era dato per spacciato dal sottoprefetto. L’unica altra astensione dal lavoro di opifici di importanti proporzioni si verificò a Pontedera nel febbraio 1917, ma ebbe breve durata anche per il durissimo intervento delle autorità. Il 2 febbraio una dozzina di donne della frazione La Rotta, insieme ad alcuni sovversivi, convinsero le lavoranti delle 2 maggiori fabbriche tessili e dell’impresa alimentare Crastan a lasciare il lavoro e a recarsi al municipio. Il tentativo di invaderlo al grido di «abbasso la guerra, vogliamo i nostri mariti a casa» fu all’origine di colluttazioni con carabinieri e militari. Di fronte al dilagare della violenza si ricorse alla militarizzazione e alla denuncia di 75 persone. La durezza della reazione paralizzò la città e non si verificarono altri scioperi industriali. Di questi ultimi non si ha traccia in altri comuni; in altre aree calde come il volterrano e la costa tirrenica le dimostrazioni assunsero fisionomie diverse. In gennaio, nella zona estrattiva di Volterra e nel distante borgo di Sassetta il rifiuto di riscuotere i sussidi, che rappresentava una modalità di protesta diffusa nel centro-nord, approdò in rivolte ad altissima partecipazione destinate a sfregiare i luoghi e le persone della dirigenza municipale interventista e della mobilitazione civile, che spesso in Toscana coincidevano. “Contagiate” da Volterra, il 18 gennaio circa duecento donne di Montecatini Val di Cecina riuscirono ad accreditare presso il sindaco una loro rappresentanza femminile che avanzò richieste per il ritorno degli uomini e per l’adozione di provvedimenti economici, riuscendo ad ottenere qualche miglioramento sotto il profilo distributivo. Un mese dopo, nell’area della costa retrostante Livorno, le modalità di pressione sui poteri locali assunsero tratti differenti, ma non meno significativi. Di fronte alle dimostrazioni per la pace, a Fauglia il sindaco formulò la falsa promessa di inviare un telegramma al ministero a nome delle donne per fermare il conflitto. Una parte di esse si convinse a riproporre questo esempio persuasivo a Collesalvetti. Se si eccettua  Montecatini, in tutti questi casi la repressione fu ancora una volta durissima.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La relativa calma che seguì al mese di marzo fu interrotta in luglio. Anche il ciclo di luglio è caratterizzato da una concentrazione di eventi nella bassa Valle dell’Arno lungo l’asse Pisa-Pontedera, spesso attivati dal malcontento per l’aumento del prezzo del pane. A differenza della fase antecedente, si registra una parabola temporale inversa rispetto a Pisa, che chiude il mese caldo aperto da Cascina. In quest’ultimo comune, dove forte era la presenza di fabbriche alimentari e dell’industria rurale tessile a domicilio, il 17 e il 21 luglio si registrarono le agitazioni di centinaia di donne per il pane e la pace, che seguirono la direttrice dell’attacco alla fabbrica di proiettili Cecchetti, da poco fornitrice del Ministero delle armi e delle munizioni. Almeno una parte delle stesse donne, il 20 e il 21 si concentrò su un altro opificio di proiettili nella vicina Calcinaia. Nei giorni seguenti, inoltre, la cintura di Cascina fu attraversata da un’ondata di protesta variegata con epicentro a Vicopisano. Al contempo, lungo la traiettoria tirrenica e in prossimità di Pisa si consumavano episodi simili e altrettanto partecipati. Piombino, Castellina Marittima, Castagneto Carducci furono teatro di rivolte che si andarono a sommare alla vertenza dei coloni campigliesi in atto da tempo. L’apogeo delle agitazioni si toccò però a Pisa. Il 26 e 27 luglio le tessitrici di tutti e tre gli stabilimenti Pontecorvo e quelle della Pitigliani e Cameo, la seconda fabbrica tessile cittadina per occupati, iniziarono uno sciopero per il salario sfociato in rivendicazioni di pace. L’alto numero delle partecipanti e alcune informative lasciarono temere che si trattasse di un appuntamento in vista di uno sciopero generale. In realtà la città tacque, anche in virtù delle misure preventive, mentre in agosto fu l’area delle colline pisane a infiammarsi con le agitazioni di centinaia di donne di campagna a Terricciola, Chianni, Peccioli e Buti. In quest’ultimo borgo, in due giorni consecutivi (15-16 agosto), si ripeterono dimostrazioni pro-pace con numeri incredibili rispetto al totale della popolazione.

Con la discesa in piazza delle campagne nessuna area provinciale si prospettava immune da movimenti contestativi. I tempi, la geografia, la diffusione degli avvenimenti e la ripresa delle forze politiche regionali allarmarono a tal punto le autorità locali da convincerle, come accennato, dell’esistenza di un piano rivoluzionario. Le agitazioni invece quasi si arrestarono dopo le proteste di Buti. La campagna chiuse la calda stagione del 1917 ben prima di Caporetto. All’epilogo contribuirono probabilmente il giro di vite repressivo locale e nazionale, la crescita dei poteri dei comitati regionali della mobilitazione industriale e la legislazione speciale di pubblica sicurezza. Peraltro, un certo miglioramento economico nelle industrie e lo svuotamento delle speranze in una prossima fine dovettero allo stesso tempo deprimere lo spirito generale. Il riaccendersi dell’insofferenza si sarebbe verificato in inverno, ma con modalità diverse anche in virtù delle nuove norme repressive e del clima post Caporetto.

 *Emanuela Minuto è ricercatrice di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.




La Grande Guerra lontano dal fronte. Mobilitazione e assistenza civile in una provincia toscana

Per tutto il periodo della neutralità italiana la provincia di Pisa era stata attraversata da numerose proteste e sia nel capoluogo che nelle campagne non erano mancate manifestazioni di segno antimilitarista, sfociate non di rado in episodi di violenza verso gli interventisti. A una decina di giorni dall’ingresso ufficiale in guerra, il prefetto di Pisa, scrivendo a Antonio Salandra, descriveva tuttavia in termini rassicuranti la realtà di un territorio guardato ancora con preoccupazione. Alla fine di maggio del 1915 la partenza delle truppe era stata infatti salutata ovunque da cortei e da dimostrazioni di giubilo e, stando alle sue stesse parole, «la mobilitazione non fu turbata da alcun incidente» e le «manifestazioni contrarie alla guerra […] furono tutte anteriori alla dichiarazione di guerra e non si rinnovarono dopo».

Ma accanto a queste espressioni simboliche di solidarietà verso l’esercito combattente, si infittirono fin da subito anche una serie di attività ben più tangibili. Nel processo di mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico un ruolo di primo piano fu giocato da un tessuto di comitati e organizzazioni in parte riconvertiti alle esigenze imposte dagli eventi ma in larga parte costituitisi ad hoc. Fra le iniziative di nuovo conio, alcune avevano in realtà già preso campo fin dalle settimane precedenti alla rottura della neutralità. In linea con quanto accaduto in diversi centri della penisola, ciò vale soprattutto per la formazione di appositi Comitati di preparazione e mobilitazione civile destinati a svolgere un ruolo di spicco in relazione a diversi ambiti di intervento.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale dell'Amministrazione Civile, b. 36.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile, b. 36.

Tali organismi furono chiamati a svolgere un’azione integratrice dei compiti del governo e degli enti locali, acquisendo un grande peso nel tessuto sociale delle città durante il conflitto. La spinta iniziale alla loro costituzione fu quella di preparare e organizzare i cittadini non soggetti a obblighi militari a garantire la continuazione di tutta una serie di attività nei pubblici servizi e nel campo dell’assistenza in caso di eventuali vuoti da colmare per effetto dello stato di guerra. I Comitati furono poi chiamati a un compito unificante per cercare di raccogliere attorno a sé, con propositi di coordinamento, le altre realtà assistenziali già operanti, prevenendo eventuali dissidi ed evitando gli effetti negativi della dispersione di mezzi ed energie negli aiuti propagandando allo stesso tempo un’immagine di profonda unità e compattezza della nazione impegnata nel sostenere i suoi soldati. L’unanimismo politico, da cui risultano attraversati i loro messaggi e appelli, divenne in effetti uno dei motivi più qualificanti della loro retorica.

Con una tempistica rapida rispetto alla dinamica generale del paese, il primo Comitato di preparazione e mobilitazione civile della provincia sorse a Pisa il 22 marzo 1915 nella sala del Consiglio comunale; la riunione istitutiva fu tuttavia solo il punto di arrivo di un percorso avviato da settimane da un apposito gruppo di cittadini promosso dal professore di chimica agraria Italo Giglioli, sostenitore nei suoi studi di una politica estera fortemente colonialista e fautore di posizioni accesamente nazionaliste, nonché dall’attivismo dell’industriale Giacomo Pontecorvo che, attraverso alcune conferenze, cercò di propagandare le ragioni del movimento a favore della mobilitazione civile raccogliendo al contempo i primi fondi a sostegno dell’iniziativa che il 26 marzo fu presentata alla cittadinanza con un grande manifesto pubblicato.

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Nato come un’associazione di privati, il Comitato ricevette fin dagli esordi un occhio di riguardo da parte delle istituzioni locali, esemplificato dalla presidenza onoraria al sindaco Vittorio Frascani e dalla fissazione della sua sede nel palazzo municipale. A infondergli poi una maggiore ufficialità sarebbe venuta in agosto la decisione di trasformarsi in ente morale, al pari di quanto fatto in seguito da altri comitati del territorio, avvalendosi della facoltà del riconoscimento giuridico ammesso da una specifica legge del 25 luglio. Se un po’ ovunque la mobilitazione civile fu una delle principali forme di manifestazione dell’interventismo delle classi dirigenti, che nella gestione dello stato di guerra videro pure un’occasione inaspettata di controllo di mezzi e risorse utile a ribadirne il ruolo di egemonia sociale messo in dubbio dalle crescenti spinte dal basso, ciò che parve connotare il caso del capoluogo fu però la funzione direttiva riconosciuta in essa al mondo universitario, con la larga presenza tanto delle autorità accademiche quanto degli studenti più accesamente interventisti. Un protagonismo che tendeva a rispecchiare la mobilitazione del periodo della neutralità, localmente imperniata su un Ateneo che, in virtù delle sue benemerenze risorgimentali, aveva costituito il nerbo cittadino della campagna per l’intervento. Agli universitari si affiancarono le autorità cittadine, e, ancor più che le casate di origine nobiliare, l’élite borghese locale (ossia agiati appartenenti alle professioni liberali e al mondo degli affari e dell’industria), in cui un ruolo di spicco fu rivestito dalle famiglie della comunità ebraica pisana (i Pontecorvo, i Supino, i Nissim, i Pardo Rooques, i Di Nola), il cui  impegno fattivo per il Comitato ne certificò l’intensa partecipazione allo sforzo patriottico.

Nelle aree della provincia il profilo sociale dei comitati assunse invece un tratto più notabilare, e a egemonizzarlo furono effettivamente gli uomini e le famiglie tradizionalmente più illustri dei ceti dirigenti locali. A testimoniare infatti un livello di penetrazione diffuso, e a certificare il grado di coinvolgimento dell’intero paese entro le maglie dello sforzo bellico, il movimento a favore della mobilitazione civile giunse in maniera capillare fin nelle aree più remote dello stesso territorio pisano. Secondo una dinamica in cui a modalità in prevalenza spontanee si unirono rilevanti spinte dall’alto, come quella venuta a inizio giugno da una specifica adunanza di numerosi sindaci della provincia, fra aprile e la fine del mese sia i comuni maggiori, come Volterra o Pontedera, che le realtà meno popolose del vasto contado pisano, come la piccola Orciano Pisano, non mancarono di un proprio attivo comitato.

Frontespizio dell'opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

Frontespizio dell’opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

La gran parte dei loro fondi vennero da fonti diverse, in varia misura legate alla solidarietà; della somma di 73.842,21 lire raccolta ad esempio nei primi mesi di guerra dal Comitato pisano più della metà giunse da sottoscrizioni occasionali, un restante 40% da contributi regolari mensili e 4.880,55 da soldi provenienti da varie iniziative. Per quanto minoritaria quest’ultima forma di finanziamento ebbe una sua notevole valenza perché raccolta tramite una serie di iniziative che consentivano di abbinare all’attività assistenziale anche quella di propaganda, offrendo all’opera di mobilitazione una visibilità esterna in chiave di forte intonazione patriottica attraverso serate pubbliche in teatri e cinematografi cittadini o con la vendita di oggetti di consumo di larga circolazione (medagliette, distintivi o cartoline). Se passiamo dal piano delle entrate a quello delle uscite, le attività da essi svolte finirono per concentrarsi in primo luogo nella concessione di sussidi in denaro a favore delle famiglie più bisognose dei richiamati, destinata peraltro a crescere esponenzialmente fino a occupare stabilmente i due terzi della spesa complessiva. Le famiglie sovvenzionate, a dispetto di oltre  tremila richieste, si attestarono nella sola Pisa a un migliaio, per un esborso di oltre 9.000 lire mensili e con un’obbligata riduzione degli importi. In tale quadro non restavano molte risorse da destinare ad altri ambiti dell’«assistenza civile». Fra i campi di intervento che meritano di essere segnalati vi è tuttavia quello assai importante, per la necessità di attivarsi in sostituzione della dimensione famigliare, dell’assistenza ai figli minori dei richiamati e in cui l’azione principale divenne la gestione dei servizi ricreativi, con la realizzazione di molti ricreatori divenuti un po’ ovunque la seconda voce di uscita dei comitati dopo i sussidi. Altri compiti non irrilevanti furono infine la gestione degli uffici notizie, la confezione degli indumenti militari e, perlomeno nei principali centri, quello dell’assistenza ai soldati degenti negli ospedali e ai profughi.

Ma la citata esplosione dei sussidi e la crescita di di tali compiti resero sempre più evidente col trascorrere dei mesi l’insufficienza delle energie locali, e soprattutto, a dispetto delle attese e delle retoriche solidaristiche che la accompagnavano, della beneficenza privata. Ciò costrinse sempre più tanti comitati a rivolgersi alle istituzioni, e soprattutto al governo, anche perché l’aumento costante del numero dei richiamati produceva un paradosso: se le iniziative assistenziali venivano private delle oblazioni occasionali e in particolare di quelle mensili di molti partenti, le nuove chiamate sotto le armi accrescevano le richieste di intervento di famiglie private del rispettivo capofamiglia. Nel 1917, l’anno più nero della guerra europea, nel quadro dello scambio continuo fra spontaneismo di base e sollecitazioni governative realizzatosi in precedenza, le attività di sostegno al fronte interno dovettero confidare sempre più nell’aiuto di un soggetto erogante come lo Stato, che peraltro già gestiva una propria onerosa politica di sussidi ai richiamati.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La quantità di uomini al fronte, le molteplici necessità di una guerra moderna e la natura di molti dei compiti affidati ai comitati, che rimandavano a tradizionali lavori di cura, fecero infine dell’elemento femminile un altro soggetto decisivo del fenomeno della mobilitazione civile.  Diverse donne legate alle classi dirigenti e ai notabilati locali, al pari dei rispettivi mariti, ebbero parte attiva nelle vicende della patria in armi, giocando un ruolo rilevante nelle iniziative di sostegno al fronte interno. Appositi comitati femminili sorsero in diverse realtà, come nel caso del comitato Pro-Patria sorto già alla metà di febbraio del 1915 a Pisa per impulso di 23 promotrici quale emanazione del Consiglio nazionale delle donne, espressione di un associazionismo liberale mobilitatosi con grande anticipo all’immediato scoppio della guerra europea. Esso agì in strettissima collaborazione operativa e finanziaria con il Comitato pisano fungendo in sostanza da sua sezione femminile, mentre in alcune realtà figure di donne notabili giunsero persino a presiedere il locale Comitato, come avvenne ad esempio nel caso della piccola comunità di Lajatico per la nobildonna Enrichetta Brenno Gotti Lega.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




“Tombolo paradiso nero”, il film che gli Usa non volevano vedere

«Un sabato scorso aprimmo il televisore – channel 7 – e sentimmo annunciare, come una primizia, il film Incontri della fatalità. Primo attore quell’Aldo Fabrizi che fu l’eroico Prete di Città aperta. Vediamo. Un film nostrano è sempre, un po’, un “bagno di italianità”. Ma trasecolammo. Quegli Incontri della fatalità non erano altro che il rimaneggiamento dell’ignobile film Tombolo. Non c’era altro “documentario” da presentare a quegli eterni “contenti e gabbati” che sono gli italo-americani? Evidentemente no». Con questo articolo del 27 febbraio 1954 il giornale dei cattolici italo-americani Il Crociato-The Crusader sferrava il suo attacco al film Tombolo, paradiso nero, prodotto qualche anno prima, nel 1947, dalla Incine. Edito a Brooklyn e collegato alla National Catholic Welfare Conference (la conferenza episcopale statunitense), il settimanale dei cattolici newyorkesi era solo una delle molte voci che Oltreoceano si erano alzate duramente contro la pellicola italiana.

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una "segnorina"

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una “segnorina”

Del resto il film del regista Giorgio Ferroni scoperchiava una realtà che, in patria come al di là dell’Atlantico, non poteva non dar fastidio nelle stanze dei bottoni del potere politico. Nell’immediato dopoguerra, il caso Tombolo, località che identifica la vasta pineta tra Livorno e Pisa, era assurto a emblema nazionale delle conseguenze più deleterie dell’occupazione americana. Dall’ultimo anno di guerra lo scalo portuale livornese aveva assunto una centralità logistico-strategica per le operazioni belliche nello scacchiere Mediterraneo: dopo essere divenuta una ghost town per i massici bombardamenti e il forzato sgombero del cento imposto dai tedeschi (12 novembre 1943), con la liberazione (19 luglio 1944) la città si era dunque ripopolata immediatamente soprattutto di soldati angloamericani. In un rapporto alleato del luglio 1945 si affermava che in quei mesi tra i 50mila e gli 80mila militari si erano ammassati in città (su una popolazione residua, al momento della liberazione, di appena 20mila livornesi). La massiccia presenza di truppe, che si protrasse fino al dicembre 1947 e che portò Livorno a divenire anche un immenso magazzino-emporio di materiale bellico di ogni tipo, richiamò dal Sud del paese già liberato migliaia di individui in cerca di fortuna.

In tale contesto, la pineta di Tombolo divenne il simbolo del degrado prodotto dalla “lunga liberazione”. Una sorta di terra di nessuno – spesso al di fuori del controllo perfino della Military Police (MP) – in cui stanziavano disertori, trafficanti, contrabbandieri, prostitute. Nell’estate 1948, un delegato della Santa Sede in visita alla città la descriveva come «una piccola Napoli» e «sotto alcuni punti di vista, peggio di Napoli», denunciando specialmente le conseguenze che la realtà di Tombolo provocava sull’infanzia. «Le truppe alleate (bianchi e neri) – scriveva il rappresentante pontificio – soltanto da pochi mesi hanno lasciato la zona! E i giovani, i ragazzi, i bimbi? Hanno formato la legione degli sciuscià. […] Sono stati ladri a sette anni, ruffiani nell’età delle favole, contrabbandieri nell’età dell’asilo».

Intorno a Tombolo si creò ben presto una leggenda, alimentata da romanzi (come Dopo l’ira di Silvano Ceccherini e Tombolo città perduta di Gino Serfogli, cronista di «nera» del quotidiano social comunista «La Gazzetta di Livorno») e inchieste giornalistiche che contribuirono a dare della pineta un’immagine tetra, di luogo di perdizione. Nel novembre 1946 era ad esempio la popolarissima «La Domenica del Corriere» a dedicare una copertina al rastrellamento delle «segnorine», sciuscià e disertori della Quinta Armata operato dalla MP a Tombolo. Inchieste apparvero su «L’Europeo» o su «Crimen».

La copertina della "Domenica del Corriere" dell'ottobre 1946

La copertina della “Domenica del Corriere” dell’ottobre 1946

Non stupisce che, con un tale concentrato di ingredienti paradigmatici, Tombolo e Livorno attirassero le attenzioni di registi e produttori cinematografici. La “pineta proibita” regalava lo scenario letterario e traslato della discesa agli inferi delle miserie del dopoguerra. Lo spazio avventuroso che questo contesto offriva, permetteva al cinema neorealista di attingere alla cronaca «per riadattare al nuovo orizzonte del dopoguerra vecchi codici di genere: gangster movie, spy story, noir, western e, soprattutto, commedia e melodramma». Non a caso l’intreccio di Tombolo, paradiso nero trasse spunto da un fatto di cronaca raccontato da Indro Montanelli sul “Nuovo Corriere della Sera” del 10 aprile 1947 nell’articolo Vive a Tombolo un uomo che si fa ricco con l’onestà. Il giornalista toscano figurò perfino tra gli sceneggiatori del film di Ferroni, prestandosi ad acconciare al grande schermo la storia di Giovanni R., ex vicebrigadiere che, tornato a casa, in Ciociaria, dopo aver servito tre anni in Libia, aveva trovato la propria abitazione distrutta da una bomba, la moglie morta sotto le macerie e l’unica figlia dispersa. Nel film Aldo Fabrizi impersonava l’ex brigadiere che nel suo viaggio nella «selva oscura» di Tombolo alla ricerca della figlia perduta (Adriana Benetti) riusciva – sacrificando la sua stessa vita – a salvare la figlia, riportandola sulla retta via e assicurandole un avvenire di amore e onestà.

Ma questa sorta di mito omerico moderno fu, come detto, osteggiato dalle alte sfere di governo. Approdato nel maggio 1947 a capo dell’ufficio che aveva in mano le chiavi della cinematografia nazionale, Giulio Andreotti aveva del resto fatto capire in poco tempo quale sarebbe stata la sua linea di governo. Il giovane Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo si sarebbe battuto, in un raccordo stretto con gli uffici vaticani, per «un cinema politicamente e sessualmente innocuo». Tombolo, paradiso nero faceva luce su certe conseguenze dell’occupazione alleata che non erano per niente in linea con la virata atlantica a cui, proprio nei mesi dell’uscita del film, stava lavorando il governo De Gasperi. Nel film di Ferroni non c’era alcuna celebrazione del ruolo salvifico degli americani: anzi veniva in rilievo l’impatto violento della cultura americana con i valori della tradizione italiana, la corruzione delle «segnorine», la degradazione a cui giungevano molti soldati statunitensi, soprattutto neri, che sceglievano la diserzione. Non a caso un altro film ambientato a Tombolo l’anno successivo, Senza pietà di Alberto Lattuada, non trovò calda accoglienza nelle stanze del potere democristiano e presso il pubblico statunitense. Qui oltre a presentare i topoi classici della disgregazione di valori del dopoguerra imposti dalla “lunga liberazione”, si proponeva la storia d’amore tra un soldato nero (John Kitzmiller, protagonista anche di Tombolo, paradiso nero) e una bianca (Carla Dal Poggio) che era ancora ritenuto un tabù nella società americana.

Il manifesto del film riadattato per l'estero

Uno dei manifesti che accompagnò l’uscita del film

Il film di Ferroni non trovò particolari ostacoli (salvo qualche taglio di poco conto imposto dalla censura) a ricevere il nulla osta alla proiezione in patria (concesso da Andreotti il 24 ottobre 1947), ma assai più complesso fu l’iter per la sua esportazione. Nel corso 1950 la Incine fu costretta a ripresentare il film alla Direzione generale della cinematografia in versione rivista «ai soli fini dell’esportazione avendone mutato il titolo in “Verso la vita”» e apportando «alcuni tagli e modifiche al montaggio del film». Le prime proiezioni negli Stati Uniti del film nella sua versione integrale avevano suscitato un esplicito malcontento sulla stampa Usa.

Nel gennaio 1950 il ministero degli Affari Esteri aveva inviato al Servizio informazione e spettacolo della Presidenza del Consiglio dei ministri una nota con oggetto Film “Tombolo” a New York in cui si riferiva sulla cattiva accoglienza della prima visione del film nei cinema della Grande Mela da parte della stampa: il New York Herald Tribune pur riconoscendo i meriti di Fabrizi («ottimo attore») bollava il film come un povero dramma giallo male ideato e peggio congegnato. Sulla stessa linea il più influente New York Times, sulle cui colonne però ci si soffermava anche su altri aspetti: a far problema non era tanto la mediocre qualità del film quanto la non onorevole parte che in esso avevano «i negri americani soldati in uniforme». «Non ci può essere scusa per così allegro travisamento dei fatti – commentava il critico del quotidiano americano -, ma è ancora più difficile comprendere come il sig. Kitzmiller e gli altri negri consentirono a partecipare a un così aperto e scurrile attacco non solo alla loro razza ma anche all’uniforme del loro paese».

Eppure anche nella sua versione “epurata” il film, come si è visto, continuò a trovare una pessima accoglienza al di là dell’Atlantico. Non stupisce quindi che a poche settimane dall’attacco del giornale cattolico Il Crociato-The Crusader il deputato Odo Spadazzi, si premurasse di rivolgere un’interrogazione al Presidente del Consiglio che aveva per oggetto la versione televisiva di Tombolo. Nel suo intervento del maggio 1954 Spadazzi chiedeva se non fosse «urgente e doveroso – a tutela della dignità della Nazione e degli italiani – disporre l’immediato ritiro del film in questione, anche nelle edizioni rielaborate ed accertare le responsabilità dell’ente e dei funzionari che, con colpevole leggerezza, autorizzarono l’esportazione del film, rassicurando l’opinione pubblica che non sarà ulteriormente permessa la denigrazione della Patria ad opera degli stessi italiani».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2015.