Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca

Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca (Lucca, Pacini Fazzi, 2018, Collana Storie e comunità dell’ISREC Lucca).

Fulvetti, che è è stato direttore per 5 anni dell’ ISREC LU, è professore associato di storia contemporanea presso il dipartimento di Civiltà e forme del Sapere dell’Università di Pisa e si occupa principalmente della seconda guerra mondiale. Recentemente impegnato nel progetto dell’Atlante nazionale delle stragi naziste e fasciste durante l’occupazione della penisola nel 1943-1945, Fulvetti è protagonista della stagione di studi che ha indagato la “guerra ai civili” in Italia e in Toscana. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, al quale aderiscono gli Istituti Toscani della Resistenza e dell’Età Contemporanea che ne avevano promosso e sostenuto la candidatura.

Ventura, attuale direttore, succeduto a Fulvetti del quale prosegue la linea di condotta dell’istituto, è assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa ed è specializzato negli anni dell’avvento del fascismo in Italia e in provincia.

Fulvetti e Ventura hanno coordinato un gruppo di ricerca composto da 14 studiosi che si sono divisi le schede sia su base territoriale che in accordo con i loro interessi.

Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISREC LU, è stato docente e preside ed ha al suo attivo numerosi libri e saggi sulla storia politica e culturale del Novecento. Per questo volume si è occupato degli schedati viareggini. Sempre i viareggini sono stati curati da Filippo Gattai Tacchi, perfezionando presso la SNS di Pisa, e da Roberto Rossetti, che si occupa di didattica della storia ed è distaccato presso l’ISGRE LU, dove ricopre il ruolo di responsabile delle attività didattiche.

Marta Giusti, dottoranda presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Ateneo Pisano, ha ricostruito la vita di di 8 donne, mentre la nona è stata oggetto di studio da parte di Teresa Catilla, che collabora con l’ISREC LU, lavorando in particolare alla sistemazione del fondo archivistico. Catinella ha curato la scheda anche di Arturo Chelini, popolare bastonato dai fascisti lucchesi.

Rachele Colasanti, laureata in Storia contemporanea, sta seguendo a master in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna e per il volume ha curato le schede dei Versiliesi. Carlo Giuntoli, laureato con una tesi sulla violenza fascista e membro del direttivo dell’ISREC, si è occupato della Garfagnana. Su Massarosa ha lavorato Jonathan Pieri, dottorando in Scienze politiche presso l’Università di Pisa con un progettoche studia storia militare e storia dell’occupazione tedesca in provincia di Lucca. Gianluca Fulvetti si è concentrato su alcuni significativi percorsi esistenziali di antifascisti lucchesi.

Francesco Lucarini, che sta lavorando ad una tesi sulla storia del PCI in provincia di Lucca, si è occupato delle drammatiche vicende di due volontari antifranchisti.

Pietro Finelli, direttore scientifico della Domus Mazziniana, collaboratore con l’ISREC LU di cui è stato responsabile della didattica, ha studiato gli schedati repubblicani, mentre Armando Sestani, attualmente Vice Presidente dell’ ISREC LU ha curato le schede biografiche degli anarchici.

Infine alcuni casi particolari e significativi sono stati studiati da Andrea Ventura e da Federico Creatini, cultore della materia in storia contemporanea all’Università di Pisa e dottorando in Storia contemporanea all’Università di Bergamo.

Circa due anni fa, l’ISREC di Lucca ha avviato un progetto di ricerca sulla storia dell’antifascismo e della resistenza in provincia di Lucca. L’idea era -ed è- di colmare una lacuna di conoscenza storica e civile.

Il libro è nato da un progetto di ricerca svolto dall’ISREC Lucca sull’antifascismo  nel periodo in cui fu più intensa l’azione repressiva dell’autorità centrale verso tutte le voci di dissenso nei confronti del regime fascista, e ha come tema centrale i fascicoli relativi a uomini e donne della Provincia di Lucca conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Il lavoro è partito con una fase di raccolta e riproduzione sistematica dei fascicoli del Casellario Politico Centrale (ex Schedario dei sovversivi), lo strumento di controllo e repressione dei “sovversivi” inaugurato con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, insieme alla Polizia Politica e al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.

Il Casellario politico centrale è stato lo strumento di controllo e schedatura dei “sovversivi” che, inaugurato nel 1894 nell’Italia liberale, venne ripreso dal fascismo e integrato con i suoi organi repressivi nell’ambito della sua legislazione eccezionale. Era gestito dal personale del Ministero dell’Interno in raccordo con le prefetture e le questure e i Consolati per ciò che concerne coloro che lasciavano l’Italia, ma poi fu incrementato dagli strumenti repressivi entrati in atto con le cosiddette “leggi fascistissime”.

 Il casellario politico centrale porta, nel corso degli anni, all’apertura di oltre 150mila fascicoli personali. Tra di essi sono state individuate 1374 persone nate o residenti in provincia di Lucca. Rispetto a questo dato, operando aggiustamenti e integrazioni, è attualmente a disposizione una banca dati di circa 1600 nominativi, i cui fascicoli sono stati riprodotti presso l’ACS e sono adesso depositati su supporto digitale e consultabili presso l’archivio dell’ISREC LU. Il database, oltre alle generalità e ai dati anagrafici dello schedato, ne riporta il colore politico, il mestiere esercitato, gli estremi cronologici della sua schedatura, le condanne riportate, la sua eventuale emigrazione, l’eventuale partecipazione alla Guerra di Spagna, riferimenti della sua rete parentale, altre osservazioni notevoli. La funzione “CERCA” permette ricerche incrociate e la selezione di elenchi di schedati uniti da comuni caratteristiche.

Tuttavia le carte del casellario riportano poco o niente dell’antifascismo cattolico che appare invece una delle caratteristiche del territorio lucchese e una delle variabili che spiegano qui fra il 1943 e il 1945 l’ampia presenza di pratiche di resistenza civile.

Oltre cento tra i “sovversivi” dello schedario sono poi stati selezionati per la pubblicazione di Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario Politico Centrale. Per un dizionario:: biografico della provincia di Lucca.

Nel libro si trovano le informazioni sulla vita di 120 di questi antifascisti, 111 uomini e 9 donne, le cui parabole esistenziali sono restituite in forma biografica, in un linguaggio piano, lineare, mai retorico: individui rimasti troppo a lungo “anonimi”, ma anche personaggi noti, come Luigi Salvatori, il “padre” del socialismo versiliese; Giuseppe Del Freo, insegnante viareggino, maestro di generazioni di democratici e antifascisti e Guglielmo Pannunzio, avvocato e giornalista; il futuro onorevole e ministro Armando Angelini. Vi troviamo anche quattro sindaci del dopoguerra e quattro costituenti.

Variegato l’universo che confluisce fra i “sovversivi” nel periodo in cui la dittatura  inizia a fare i conti con gli anarchici, i socialisti, le Leghe e le Società di Muto Soccorso, i moti, gli scioperi e le sommosse, le Camere del lavoro, la violenza sociale e quella politica.

Tra i partigiani affluirono giovani renitenti alla leva e disertori,  donne e uomini spinti dall’insofferenza verso la guerra; sfollati dai bombardamenti che avevano sperimentato sulla propria pelle l’inefficienza, la corruzione, la prepotenza, i favoritismi, la violenza delle amministrazioni locali fasciste. La fame e le difficoltà quotidiane furono rilevanti per la “scelta” di molti. Il resto, in modo determinante, lo fecero l’occupazione tedesca, i repubblichini, i bandi draconiani della Repubblica di Salò e la brutale repressione degli oppositori.

Il campione degli antifascisti lucchesi -come la storia dell’antifascismo- pende dalla parte della Versilia (44%), l’area che possiede tradizioni più solide a sinistra, con diversi comuni che già prima del conflitto mondiale sono stati guidati da coalizioni di democratici, repubblicani, socialisti.

L’età media è di 33 anni. La più anziana è Maria Isolina Amantina, nata ad Altopascio nel 1858, colpita nel 1927 dalla repressione per aver imprecato pubblicamente contro la monarchia e Mussolini e per questo confinata poi in manicomio. Lei è una delle vittime di un fascismo che rafforza la tendenza a medicalizzare il dissenso politico e il ribellismo sociale.

Spesso le donne infatti erano considerate “la costola di Adamo”, di mariti, fratelli e padri e quindi non meritevoli di attenzione da parte della polizia, composta esclusivamente da uomini. Questo spiega perché molte di loro venissero mandate in manicomio e non subissero altri tipi di condanna.

Nonostante questa scarsa considerazione da parte fascista delle donne, il loro ruolo emerse con forza: raccoglievano soldi, sostenevano le famiglie colpite dalla repressione, conservavano e nascondevano documenti e materiale a stampa. Le donne, molte delle quali prive di preparazione politica, erano pronte a lasciare le mura domestiche e ad assumersi responsabilità nella sfera pubblica, mai conosciute prima.

Fra gli antifascisti lucchesi prevalgono le professioni proletarie (67,5%), il 18,1% sono commercianti e sopratutto artigiani che fanno delle loro botteghe il crocevia di attività, riunioni, racconti, e luoghi nei quali spesso si alimenta una alterità “esistenziale” del regine. Infine il 16,2 % appartengono a quello che possiamo chiamare antifascismo borghese e umanitario intellettuale e delle professioni.

Tra gli antifascisti sono maggioritari i comunisti, di cui la metà resta militante nel PCDI anche dopo le “leggi fascistissime”, in prevalenza all’estero. Inferiore e pari il numero di socialisti e di anarchici. Solo due i cattolici, una decina i repubblicani e i socialisti liberali che si legano alle attività di giustizia e libertà, in prevalenza all’estero. Per sopravvivere, infatti, molti sono costretti a lasciare l’Italia. Si sfruttano percorsi e reti di solidarietà spesso preesistenti, legati all’emigrazione per motivi di lavoro. E’ una vita difficile quella da clandestini ed emigrati. Sui 120 lucchesi, sono 39 (quasi uno su tre) coloro che per periodi più o meno lunghi transitano dalla Francia e frequentano i “fuochi comunitari antifascisti” (Parigi, Nizza, Marsiglia) nei quali molti proseguono il proprio impegno.

Da quando nell’ottobre 1936 nascono le Brigate Internazionali al marzo 1937 troviamo 16, dei 120 antifascisti lucchesi, che sono stati in Spagna. La loro età media è di 31 anni. Ma anche là non mancarono le difficoltà materiali e psicologiche legate alla sconfitta e alla “retirada”, con l’esperienza nei campi francesi, il disorientamento di fronte allo scoppio della seconda guerra mondiale, la pressione crescente dell’occupazione nazista, il tentativo di rientrare in Italia, sinonimo di detenzione.

Tra i 120 biografati di questo volume, troviamo 10 persone che combattono nella Resistenza e 9 che fanno parte dei comitati di liberazione nazionale. La maggior parte  prosegue il suo impegno anche alla fine della guerra, ad esempio come sindaci nominati dal CNL, e comunque nella ricostruzione e nella ripresa democratica.

E’ nel decennio prebellico che si colloca il picco delle “radiazioni”. Nel nostro campione sono 27 le persone inviate a Favignana, Ponza, Ventotene, Ustica, Pisticci, alle Isole Tremiti etc.

Il picco degli schedati lucchesi si raggiunge il 31 dicembre 1933, quando “sovversivo” era ormai da tempo considerato chiunque fosse appartenuto ai partiti disciolti o avesse manifestato, con l’azione o con la parola, dei convincimenti non allineati con le direttive e gli obiettivi del regime.

Questo dato lucchese è in linea con le statistiche nazionali. Secondo Renzo De Felice alla fine del 1930 in media venivano condotte 20.000 operazioni di polizia politica alla settimana in tutto il paese: arresti, sequestri di materiali a stampa, iscrizione negli schedari provinciali o in quello centrale, chiusura dei luoghi di ritrovo. I metodi utilizzati dalle forze dell’ordine spaziavano dagli interrogatori alle torture, dai pestaggi alle pressioni psicologiche e ai ricatti personali.

I 120 “schedati” lucchesi sono un esempio di come si può e si deve resistere ad una dittatura, nonostante la paura, e di quanto diversi, ma tutti ugualmente validi, sono i motivi e i mezzi per lottare per la democrazia, che, a differenza di quanto ingenuamente o semplicisticamente pensiamo, non è un possesso per sempre ma una conquista quotidiana.

Il lavoro non è concluso, anzi. Il prossimo passo, riguarderà lo studio, la riproduzione e l’acquisizione del fondo RICOMPART, relativo alle attività dell’Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (depositato nel 2012 sempre all’ACS).

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955)

“Sento ancora dentro, impressa per sempre, la gioia del primo 8 marzo che festeggiammo in campagna, con tutte le altre.
Partecipavamo agli infuocati ed interminabili dibattiti del PCI. Eravamo giovani, ma avevamo tanto entusiasmo e senso di responsabilità.
Venivamo dalla Resistenza, avevamo visto gli orrori della guerra e volevamo un mondo migliore.”
[Didala Ghilarducci in occasione della morte dell’amica Wanda Breschi, «Il Tirreno», Viareggio 3 gennaio 2007.]

Negli anni del secondo conflitto mondiale in Italia, quando lo stravolgimento sociale divenne insostenibile, le donne si fecero perno e collante di ciò che restava del nucleo familiare, continuando a svolgere i compiti di cura ai quali erano state designate, lavorarono nelle fabbriche, nei servizi pubblici, si fecero staffette senza indugio, nonostante i rischi e i molti pericoli.

Dopo anni di dittatura e guerra, furono protagoniste prima silenziose e poi appassionate dell’alba democratica, in un mondo ormai caratterizzato dalla distruzione, morale e materiale. Ma proprio in quegli anni cruciali in cui vennero decisi i criteri dello sviluppo economico e la ricostruzione del paese, che tipo di scelta compirono quelle donne che con il voto erano ormai cittadine a pieno titolo?

Queste le premesse che hanno dato vita a Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955), il volume di Alessandra Fulvia Celi e Simonetta Simonetti in uscita nella collana Quaderni della Commissione Regionale per le Pari Opportunità della Toscana. “Ricostruire”, perché l’Italia era un paese annientato nelle sue strutture tangibili, ma anche nel tessuto relazionale. Moltissimi gli orfani che vivevano per strada, i profughi, i reduci esausti. Le prime donne che si impegnarono nella ricostruzione furono quelle che erano uscite dall’azione partigiana o dalla militanza cattolica. Ma a queste pioniere tante altre si unirono, spesso agendo dalle associazioni, che divennero luoghi di crescita e formazione: le donne che provenivano da piccole realtà furono spronate alla lettura, perché alcune erano digiune su argomenti quali i diritti e il significato di essere cittadine. Tante, dopo l’associazionismo, entrarono in politica, arricchite dell’esperienza di condivisione di ideali e obiettivi con le compagne. Le cattoliche, le partigiane, le donne dell’UDI, quelle del CIF in un primo momento unirono le forze e riorganizzarono scuole, asili, mense, punti di riferimento per gli sbandati e per le famiglie che cercavano di ripensare a una normalità.

Celi e Simonetti, con un vasto lavoro di ricerca negli archivi (Prefettura; Archivio del Partito comunista italiano; archivi nazionali e locali di UDI e CIF; archivi storici comunali) nonché presso l’archivio privato di Maria Eletta Martini, e ancora attraverso interviste e raccolta di materiale iconografico, hanno tratteggiato in modo incisivo le storie di donne delle province toscane e ne hanno raccolto le preziose testimonianze.
Le realtà locali, quindi, appaiono come un laboratorio di verifica, spesso di criticità, delle strategie decise a livello nazionale da associazioni e partiti ed emerge chiaramente quanto fossero diversi gli approcci, ma comuni gli obiettivi, nelle diverse zone della nostra regione. Nei territori di montagna, ad esempio, le associazioni si impegnarono in diverse campagne che consistevano nel dare possibilità ai bambini orfani o che vivevano in estrema povertà, di passare l’inverno presso famiglie che avevano mezzi sufficienti. Questo tipo di esperienza, come molte altre di tipo assistenziale, era percepita dalle donne come urgentissima, «Erano le cose spicciole che necessitavano: cibo e vestiti e riparo per vivere, e noi riuscivamo, attraverso le nostre reti, a procurarli».

I partiti, invece, sembravano non andare al cuore del problema, «Dovevamo sensibilizzare prima gli uomini […]. Incontravamo resistenze che venivano dai compagni. Gli asili nido, la maternità, erano argomenti che loro ritenevano di poca importanza. Da lì discussioni a non finire e, naturalmente, ciò significava arrestare o almeno rallentare il nostro lavoro».
Il paese aveva grande bisogno di cambiare il modo di fare assistenza e concepire un moderno Stato sociale. All’indomani della pace, invece, era fermo alle riforme tentate dal passato regime. L’infanzia, ad esempio, veniva per lo più gestita dall’OMNI o dagli istituti religiosi, ma le donne combatterono affinché l’assistenza sociale divenisse un’attività democratica e lo fecero attraverso le associazioni e la politica.

Molte furono le delusioni: la passione si scontrò, nella pratica dell’agire politico, con modelli culturali radicati e rigidi. I compagni uomini non si dimostravano del tutto convinti della presenza femminile nelle file dei partiti: persino all’interno della Costituente, le donne trovarono ostacoli e ostilità da parte di alcuni. Mancavano prove concrete di fiducia, eppure molte di loro avevano partecipato attivamente alla Liberazione. «Credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi consultrici invitando a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole […] ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica e giustizia sociale».

Celi e Simonetti delineano con grande cura la realtà contraddittoria e dura nella quale dovettero muoversi le donne impegnate in politica e nelle associazioni negli anni del dopoguerra e negli anni Cinquanta. Ma dal loro lavoro emerge soprattutto la grande passione, la dedizione, la consapevolezza e la forza che ha dato vita alle grandi battaglie delle donne italiane.

Articolo pubblicato nel settembre del 2018.




“Any battle and bombardment against the town is nonsense”.

Dopo la liberazione di Pisa le truppe americane procedono verso Lucca, attraverso la bassa valle del Serchio. Il 2 settembre infatti il 3° battaglione della 92° Divisione “Buffalo”, dopo aver superato l’Arno, nei pressi di Cascina, costeggia il versante occidentale del Monte Pisano e giunge, prima a Pappiana poi a Ripafratta, dove si scontra con le truppe tedesche.

Le retroguardie tedesche della 65° divisione e della 16° divisione SS arretrano nel settore costiero e nei dintorni meridionali di Lucca. Anche i distaccamenti e i presidi della 36° Brigata nera Mussolini, dopo essere stati fatti convergere su Lucca a partire dal 31 agosto, nelle prime ore del 2 settembre, lasciano la città e si trasferiscono a Bagni di Lucca. Nonostante il ripiegamento nazista e fascista repubblicano però, proprio in questi giorni concitati, si consuma nel territorio lucchese un grave rastrellamento, quello dei monaci della Certosa di Farneta. Nella notte tra il 1 e il 2 settembre infatti un gruppo di soldati della 16° Divisione SS irrompe nel convento, dove, da diversi mesi, i monaci, con il sostegno dell’arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, offrono assistenza e ospitalità a ebrei, partigiani e perseguitati politici. La guerra messa in atto dai nazisti, non si rivolge dunque solo ai civili e agli oppositori politici, ma anche al clero. Il rastrellamento conferma i sospetti tedeschi, e dunque sia i civili accolti nella Cerosa, sia i monaci, vengono catturati e trasferiti a Nocchi, dove vengono sottoposti a torture e sevizie. Il primo massacro dei rastrellati a Farneta si consuma il 4 settembre, a Pioppeti, dove vengono fucilati 21 civili. Il 6 settembre invece due certosini, mentre vengono trasferiti al carcere di Massa, per avere lamentato di non riuscire a proseguire nel percorso, vengono freddati. Infine il 10 settembre vengono uccise a colpi di arma da fuoco 37 persone, tra cui 10 certosini e 7 civili rastrellati a Farneta.

Nonostante la presenza tedesca si faccia ancora sentire attraverso la politica del terrore, l’impossibilità di una seria difesa di Lucca e il ripiegamento verso le prime alture della città e la Linea Verde, allontanano lo spettro di consistenti combattimenti intorno al capoluogo. Gli alleati continuano ad avvicinarsi e, conquistato il Monte Pisano, si appostano intorno a Vorno, poco distante dalla linea difensiva tedesca sull’Ozzeri, a pochi chilometri a sud di Lucca, e dispongono per il cannoneggiamento della città.

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Il ponte a Monte S. Quirico approntato dagli alleati (Fonte Archivio ISREC Lucca)

La sera del 3 settembre i partigiani della formazione “Bonacchi” approntano dunque un piano d’azione: circa duecento uomini sono mobilitati e, mentre alcuni sono impegnati a piegare gli ultimi baluardi nazisti, anche nel centro storico, altri stabiliscono un contatto con i reparti alleati. Il commissario del Cln Vannuccio Vanni e il comandante della brigata Mario Bonacchi decidono di inviare una squadra di uomini con un messaggio che invita a non bombardare la città. All’alba del 4 settembre i partigiani avviano uno scontro a fuoco con i nazisti, asseragliati sull’Ozzeri, e presso il ponte di Frati, riescono a piegare l’ultimo baluardo tedesco e a passare. Raggiunto il comando alleato, consegnano il messaggio di Vanni al colonnello J.R. Schermann, che decide di inviare un gruppo di soldati alleati in esplorazione l’indomani mattina presto, assieme ad alcuni partigiani, per verificare la situazione in città.

La Relazione sull’attività svolta dalle squadre d’azione patriottica appartenenti alla formazione “M. Bonacchi” riporta che “le squadre che avevano operato sull’Ozzeri, inquadrate e con bandiera in testa, alle 8 del 5 settembre entrarono per Porta S. Pietro e, tra le acclamazioni della folla, si portarono al Palazzo del Governo, già occupato e presidiato dalle squadre rimaste in città”. Appurata quindi la veridicità del messaggio di Vanni, le truppe americane possono avanzare liberamente e alle 11.45 del 5 settembre, la prima pattuglia americana del 370° Combat team, al comando del capitando C.F. Gandy, entra in città da Porta S. Pietro. I tedeschi si ritirano definitivamente verso la Garfagnana, spinti anche dalle truppe alleate e partigiane che utilizzano un ponte provvisorio sul Serchio a Monte San Quirico.

In città il Cln tiene la sua prima assemblea libera, alla presenza di Renato Bitossi e Giuseppe De Gennaro per il Pci, Aldo Muston per il Pda, Ferdinando Martini per la Dc, Frediano Francesconi e Giulio Mandoli per il Pri, e Enea Melosi per il Pli e in quell’occasione il socialista Gino Baldassari viene nominato sindaco di Lucca. Inizia così una nuova fase della storia della città: quella della pacificazione e della ricostruzione.

Articolo pubblicato nel settembre del 2014.




La “belva della provincia”

Il 18 dicembre 1948, ad oltre tre anni e mezzo dalla fine del secondo conflitto mondiale in Europa, la Sezione speciale della Corte d’assise di Lucca poneva la parola fine al travagliato processo contro Bruno Messori, Camillo Cerboneschi ed Erminio Barsotti, vertici e aguzzini dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana di Lucca. Accusati di collaborazionismo, spionaggio politico-militare, arresti arbitrari, aver preso parte a rastrellamenti e inflitto a numerosi prigionieri «sevizie particolarmente efferate» – nonché, nel caso della «belva della provincia» Cerboneshi e di Messori, aver cagionato con la propria azione la morte di diversi partigiani e favoreggiatori – gli uomini dell’Upi di Lucca avevano operato in tutta la provincia (e non solo) tra il settembre 1943 e il giugno 1944, per poi seguire nel Nord Italia il trasferimento delle strutture repubblicane in ripiegamento dalla Toscana.

Solo in minima parte conosciuta, anche per l’oggettiva scarsità e in alcuni casi difficoltà di accesso alle fonti, la storia violenta di questo purtroppo efficace strumento repressivo nelle mani della Repubblica sociale italiana merita invece, in un panorama storiografico sempre più attento alla dimensione specifica e ai “molti territori” cui si sarebbe articolata la violenza fascista durante gli anni della guerra civile, un seppur breve approfondimento.

All’indomani delle convulse vicende armistiziali e dell’occupazione tedesca della Penisola, mentre il fascismo lucchese rialzava con fatica la testa, tornava infatti sulla scena l’Ufficio politico investigativo dell’86ª legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, riorganizzato dal capo manipolo Camillo Cerboneschi. L’ufficiale, perugino di nascita (classe 1908) ma milanese d’adozione, reduce dal fronte montenegrino, era infatti sorpreso l’8 settembre 1943 in Lucchesia durante una breve licenza di convalescenza; impossibilitato a rientrare al proprio reparto, nelle settimane immediatamente successive si poneva a disposizione del locale comando germanico, riuscendo ben presto ad aggregare attorno a sé un piccolo nucleo di collaboratori e informatori avvicinati tra le fila della Milizia stessa, molti dei quali ex-squadristi o a loro volta reduci dal fronte balcanico, tragica “scuola di formazione” per alcuni tra i più violenti protagonisti della guerra civile.

Capace di accattivarsi la fiducia dell’alleato-occupante grazie alla «notevole attività nella collaborazione» e la fattiva opera delatoria, la squadra politica di Cerboneschi poteva quindi condurre nell’autunno del 1943 le prime operazioni sul campo: se da un lato le indagini si concentravano nel rilevare la presenza di prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di concentramento, nonché soldati sbandati del Regio Esercito rifugiatisi sulle colline lucchesi – segnalando nel caso l’aiuto prestato dalla popolazione civile – dall’altro i militi riuscivano a fornire le prime informazioni sul nascente movimento resistenziale, denunciando parimenti la collusione e l’azione di sabotaggio di molti carabinieri.

Targa commemorativa apposta all'ingresso della ex-caserma di S.Agostino (Lucca), sede dell'UpiSolo con la crescente organizzazione e strutturazione sul territorio lucchese della Gnr – il cui comando, relativamente alla componente della Milizia, veniva affidato al seniore Bruno Messori – l’Upi poteva però dirsi pienamente operativo, imponendosi rapidamente quale punto di riferimento per il capo della provincia Mario Piazzesi, fautore di una dura politica di contrasto nei confronti dell’antifascismo organizzato. Nel tentativo di estorcere informazioni e confessioni altrimenti difficili da ottenere, a partire dal gennaio del 1944 i locali dell’Ufficio politico investigativo lucchese annessi alla sede del comando della Gnr presso l’ex-convento di Sant’Agostino divenivano quindi sede di efferate sevizie, inflitte con odiosa professionalità durante estenuanti interrogatori. Nei mesi successivi, dalla camera di tortura appositamente allestita, transiteranno infatti diversi favoreggiatori del movimento resistenziale e alcuni esponenti di vertice del Cln lucchese, nonché semplici cittadini accusati di dar rifugio a militari alleati o di essersi espressi sfavorevolmente nei confronti di militi repubblicani, in un crescendo di violenza – riscontrabile non solo a livello locale – coincidente con l’intensificarsi dell’attività partigiana e la conseguente erosione della capacità di controllo del territorio da parte della Repubblica fascista.

Grazie a questi brutali metodi e alle indagini condotte attraverso una fitta rete di informatori locali, l’azione dell’Upi riusciva a raggiungere importanti successi operativi: numerosi saranno infatti gli arresti direttamente imputabili all’azione dei militi dell’Ufficio, tra cui la cattura di Vittorio Monti e di Domenico Randazzo, accusati di far parte del movimento resistenziale e fucilati a Massarosa il 19 aprile 1944, nonché il ferimento a morte del partigiano Roberto Bartolozzi, caduto il successivo 29 giugno.

Con lo sfollamento delle strutture politico-militari fasciste dalla regione a seguito dell’avanzata alleata, l’Upi lucchese raggiungeva l’Emilia Romagna, sciogliendosi pochi giorni più tardi; il Comando generale della Gnr, nel tentativo di non veder dispersa la preziosa “esperienza” accumulata dagli agenti durante i mesi precedenti, ne disponeva quindi il trasferimento in altre squadre politiche attive nelle province settentrionali.

Già nei mesi successivi la liberazione di Lucca, le denunce presentate dalle numerose vittime dell’Upi innescavano il lungo procedimento giudiziario intentato contro gli uomini di Cerboneschi: appesantito da una complessa fase istruttoria e dalla contemporanea apertura, nei confronti dello stesso Cerboneschi, di ulteriori filoni di indagine a Pistoia e Como (sua ultima sede di attività), il processo poteva inaugurarsi solo il 14 dicembre 1948, colpo di coda di una stagione giudiziaria ormai al tramonto. Nei locali oggi occupati dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, Erminio Barsotti – milite accusato delle più atroci torture – sarà l’unico a sedersi al banco degli imputati: a seguito di alcuni decessi e per l’intervenuta amnistia, le posizioni di molti imputati minori erano infatti stralciate, mentre Cerboneschi (evaso nell’aprile del 1946 dalle carceri di Como) e Messori (espatriato in Spagna) risultavano latitanti. Lo stesso Barsotti, condannato a otto anni di reclusione, vedeva interamente condonata la pena inflitta ed era immediatamente scarcerato.

Lorenzo Pera è laureato in scienze storiche presso l’Università di Pisa, ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, Squadrismo in grigioverde. I battaglioni squadristi nell’occupazione balcanica (1941-1943), I.S.R.Pt, 2018.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




La guerra aerea in provincia di Lucca 1943-1945

Durante il secondo conflitto mondiale la guerra aerea giunse tardi in provincia di Lucca, concentrandosi prevalentemente tra il novembre del 1943 e il settembre dell’anno successivo. Solo nelle aree rimaste sotto controllo tedesco – alcune porzioni dell’Alta Versilia e della Garfagnana settentrionale – essa sarebbe proseguita fino alla primavera del 1945, quando le forze alleate sfondarono definitivamente la Linea Gotica, dilagando nella Pianura Padana e ponendo fine alla sanguinosa campagna d’Italia. La provincia era a lungo apparsa come un santuario, tanto che fin dal 1940 erano giunti numerosi profughi dalle aree bombardate della penisola, in cerca di una nuova, provvisoria sistemazione o di un luogo più sicuro in cui vivere. Questa illusoria immunità fu dovuta soprattutto al fatto che durante i primi anni di guerra la Lucchesia rimase al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri che decollavano dalla Gran Bretagna. Anche dopo l’ottobre del 1942, quando la strategia britannica virò verso quell’area bombing che veniva già impiegato sul Reich, la provincia continuò a rimanere al sicuro dagli attacchi aerei. In questa fase i bombardamenti non miravano più a bersagli puramente militari, quanto piuttosto al morale dei civili. I vertici della Royal Air Force ritenevano – correttamente – che le difese attive e passive delle città italiane fossero più labili rispetto a quelle tedesche, rendendo quindi la popolazione particolarmente vulnerabile. Lo scopo era quindi soprattutto politico e volto ad accelerare l’uscita italiana dal conflitto, minando, attraverso i bombardamenti, la già traballante fiducia che gli italiani nutrivano nei confronti del regime. In questo contesto la scarsità di obiettivi appetibili – fondamentalmente grandi centri abitati o importanti complessi industriali – giocò a favore della Lucchesia, che riuscì ad evitare anche le pesanti incursioni compiute a partire dall’estate del 1943 nell’ambito dell’Operazione “Pointblank”.
La provincia di Lucca non riuscì però a rimanere completamente estranea alla guerra aerea. A partire dall’autunno del 1943 il suo territorio era ormai nel raggio d’azione dei velivoli alleati ed era inevitabile che la sua rete stradale e ferroviaria venisse inclusa tra i bersagli da colpire. Fin dall’inizio della guerra, anche se a fasi alterne, le ferrovie e gli scali di smistamento erano infatti stati in cima alla lista degli obiettivi, per quanto ad essi fossero stati spesso privilegiati i centri cittadini, quelli industriali o le basi dei sommergibili tedeschi. Dopo almeno 65 allarmi aerei scattati tra settembre e ottobre, e un bombardiere pesante B-24 “Liberator” abbattuto sui cieli di Lucca il 1° ottobre, la prima incursione degna di nota fu compiuta sull’area ferroviaria di Viareggio la sera del 1 novembre 1943. La città era illuminata e la reazione antiaerea quasi nulla, quindi il bombardamento compiuto dai 19 bimotori inglesi Vickers “Wellington” risultò molto preciso. Il raid successivo del 30 dicembre, sempre sullo scalo viareggino, fu eseguito da bombardieri medi B-26 “Marauder” statunitensi ed ebbe conseguenze più tragiche. Il bersaglio non era ben visibile e molte bombe caddero sulle abitazioni adiacenti, causando 19 morti e 51 feriti: il bombardamento risultò così disperso che alcuni ordigni finirono a diversi chilometri di distanza, colpendo il territorio del comune di Massarosa.

8 gennaio 1944: bombe alleate sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

8 gennaio 1944: bombe alleate cadono sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

Il nuovo anno vide invece la stessa Lucca nel mirino delle forze aeree alleate, colpita dai B-26 durante il “bombardamento di Befana” del 6 gennaio e in quello di due giorni dopo. Gli obiettivi erano la stazione ferroviaria e le industrie del vicino quartiere di San Concordio, dove morirono almeno 24 persone, mentre altre decine rimasero ferite. Per molti lucchesi i due bombardamenti del gennaio del 1944 furono la prima esperienza diretta della guerra, nonostante il paese vi fosse impegnato da quasi quattro anni. Non stupisce quindi che quegli eventi si siano fissati nella memoria dei testimoni oculari, come Giovanni Bucci, che durante l’attacco si trovava in casa con il fratello più piccolo:

[…] subito una casa vicino a noi crollò con le macerie che ci sfiorarono. Ricordo cadere giù la macelleria di Fioravante Paoli, detto nel quartiere “Fiore”, che venne estratto dalle macerie e che ebbe problemi alle ginocchia per tutto il resto della sua vita […].

Nei mesi successivi fu soprattutto la Versilia ad essere presa di mira dai velivoli alleati, con Viareggio che da sola, tra gennaio e aprile, subì almeno 17 attacchi sull’area portuale e su quella ferroviaria. Particolarmente distruttivo si rivelò il bombardamento del 13 marzo, quando 27 B-26 colpirono un treno in sosta carico di passeggeri, causando 62 morti e 79 feriti.
L’aprile del 1944 vide l’inizio dell’Operazione “Strangle” (strangolamento), all’interno della quale sono state a volte erroneamente inserite le incursioni avvenute sulla Lucchesia nei mesi precedenti. “Strangle”, come il nome suggerisce, mirava all’interdizione delle vie di comunicazione del Centro e del Nord Italia, così da ostacolare i rifornimenti che giungevano alle forze tedesche in difesa della Linea Gustav, a sud di Roma. Anche se in provincia di Lucca la tipologia delle azioni non subì drastici cambiamenti, in quanto i velivoli alleati si erano sempre concentrati su questi obiettivi, gli attacchi iniziarono ad avere un respiro più ampio. In precedenza erano state soprattutto le stazioni e gli snodi a finire nel mirino, adesso tutta la rete viaria e ferroviaria divenne bersaglio delle incursioni, che in alcuni casi assunsero dimensioni considerevoli. È il caso del bombardamento del 12 maggio su Viareggio, una delle rare occasioni in cui i bombardieri pesanti B-24 della 15ª Air Force statunitense vennero impiegati sui cieli della Lucchesia. Furono sganciate circa 125 tonnellate di bombe, che colpirono lo scalo ferroviario, la linea Lucca-Viareggio e la zona portuale. Fu però nell’accanimento contro il ponte stradale e quello ferroviario di Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, che la Versilia sperimentò appieno l’operazione Strangle. A partire dal 18 maggio 1944 la piccola frazione subì quindici attacchi, che tuttavia fallirono nell’abbattere il doppio ponte sul fiume Versilia a causa delle usuali difficoltà di puntamento e delle dimensioni relativamente piccole dei bersagli. Danni più pesanti subirono invece l’abitato di Ponterosso e le frazioni limitrofe. Ironia della sorte, furono i tedeschi alla fine a far saltare i ponti per ostacolare l’avanzata alleata.

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

La differenza più marcata con i mesi invernali fu però l’impiego relativamente diffuso di piccoli gruppi di cacciabombardieri. La quasi totale assenza di aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale Italiana) permetteva l’utilizzo massiccio dei caccia alleati in missioni di attacco al suolo, armati con bombe e con le armi di bordo, per lo più mitragliatrici pesanti. Impiegati in modo flessibile e senza ordini troppo rigidi, ai piloti veniva data ampia discrezione sull’attacco di “bersagli occasionali” dopo aver portato a termine la missione principale. Queste rapide, spesso improvvise incursioni, causavano danni molto meno gravi rispetto a quelle dei bombardieri medi e pesanti, ma tenevano sotto costante pressione le truppe tedesche in movimento allo scoperto nelle ore diurne. Erano anche fonte di continua preoccupazione per la popolazione civile perché a volte era proprio quest’ultima a farne le spese, o come danno collaterale o per essere stata confusa con i tedeschi. Attacchi di questo tipo resero ogni luogo della Lucchesia potenzialmente a rischio, tanto che diversi territori rimasero del tutto al sicuro dai bombardamenti per essere però saltuariamente oggetto di incursioni da parte di questi agili velivoli. Un caso tipico in Versilia è quello del comune di Massarosa, dove esse causarono la morte di almeno dieci persone – tra le quali un soldato tedesco – e il ferimento di altre cinque. Gli attacchi aerei proseguirono per tutta l’estate fino a ridosso dell’arrivo delle forze alleate, che entro la fine del settembre del 1944 avevano respinto i tedeschi da quasi tutto il territorio provinciale.
Le aree più settentrionali dell’Alta Versilia e della Garfagnana, colpite anch’esse fin dall’estate, rimasero in mano tedesca, continuando di conseguenza ad essere martellate dagli aerei alleati, che miravano, oltre che alle solite vie di comunicazione, a depositi, magazzini e concentramenti di truppe. In una di queste azioni, compiuta su Castelnuovo Garfagnana il 13 febbraio 1945, alcuni cacciabombardieri, probabilmente nel tentativo di colpire una postazione di artiglieria tedesca, centrarono invece un rifugio antiaereo, provocando la morte di 30 persone. Si calcola che tra il luglio del 1944 e l’aprile dell’anno successivo la zona attorno al capoluogo garfagnino fu interessata da circa 70 incursioni. Altre colpirono il territorio del comune di Minucciano, mentre durante l’estate erano state prese di mira le aree di Camporgiano e Piazza al Serchio.
Da questa rapida carrellata è evidente la sproporzione con cui le bombe colpirono il suolo lucchese. Se nell’entroterra la Garfagnana soffrì considerevolmente, i comuni limitrofi a Lucca – su cui però abbiamo meno dati – furono meno interessati dall’offesa aerea. Nel caso specifico della Mediavalle del Serchio, la distribuzione degli attacchi seguì di fatto solo la linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio. La stessa Lucca, fatta eccezione dei già citati bombardamenti del 6 e 8 gennaio 1944, venne attaccata solo sporadicamente e, nelle settimane che precedettero e seguirono l’arrivo degli Alleati, fu danneggiata più dal fuoco dell’artiglieria che dalle bombe aeree. La fascia costiera della Versilia rimase nel centro del mirino a lungo e fu colpita duramente, ma anche nel suo caso la geografia delle incursioni è peculiare della diversa importanza data dagli Alleati a determinati obiettivi. Viareggio, con il suo porto e il suo scalo ferroviario che fungeva da collegamento con Pisa, dove nell’estate del 1944 il fronte rimase fermo per alcune settimane, fu colpita almeno 47 volte – 70 secondo altre fonti -, con la frequenza dei bombardamenti che aumentò a partire dal maggio del 1944. La città ebbe un bilancio finale di 125 morti, a cui si deve aggiungere un numero più alto di feriti. Anche la minuscola Ponterosso, per via del suo doppio ponte, fu interessata da quasi 20 attacchi. Viceversa, Massarosa e Camaiore, avendo infrastrutture meno importanti, subirono solo poche incursioni, anche se quest’ultima fu oggetto di due bombardamenti piuttosto pesanti il 22 e il 28 luglio 1944.

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta durante un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta da un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Si tratta comunque di numeri quasi insignificanti nel contesto generale della guerra aerea, soprattutto se raffrontati con quelli di altre aree della penisola, per non parlare del Nord Europa. Anche i bombardamenti più massicci – quelli di Lucca del gennaio 1944 e quelli di Viareggio – videro l’impiego di poche decine di velivoli e il costo complessivo in vite umane, per quanto tragico, fu tutto sommato contenuto. Tuttavia, per chi si trovò suo malgrado sotto le bombe, l’esperienza non era dissimile da quella di decine di migliaia di altre persone – civili e militari – che subirono attacchi aerei durante la guerra. Al senso di impotenza e di terrore provato durante le incursioni si sostituivano la disperazione e la rabbia una volta appurati i danni e fatta la conta dei morti e dei feriti. Così Silvio Basile ricorda il bombardamento di Camaiore del 22 luglio, uno dei pochissimi subiti dalla città:

Quei criminali avevano fatto strage di povere donne venute lì (nella piazza del mercato) da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall’annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato […].

A fianco di commenti come questo, del tutto comprensibili date le circostanze, vi sono ricordi sorprendentemente favorevoli nei confronti degli aviatori alleati. Così ricorda Giovanna Davini, che si trovò sotto le bombe a San Concordio il 6 gennaio 1944:

[…] La considerazione verso gli Alleati rimase immutata nonostante queste bombe del giorno di Befana. Il fascismo, almeno nella nostra famiglia, dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra, non godeva più di alcun consenso.

Del resto, lasciando in questa sede da parte le lunghe, spesso aspre, diatribe attorno al bombardamento strategico, nate già durante la guerra e proseguite fino ad oggi, da questa disamina appare chiaro come gli obiettivi presi di mira in Lucchesia dai velivoli alleati fossero completamente legittimi. Le azioni aeree mirarono quasi esclusivamente all’interdizione delle vie di comunicazione e, in misura minore, a colpire concentramenti di truppe. Inevitabilmente, a causa della cronica difficoltà nell’identificare i bersagli e dell’intrinseca imprecisione delle bombe e degli strumenti di puntamento dell’epoca, in molti casi a farne le spese fu anche la popolazione civile. Vittima, quest’ultima, di una guerra fortemente voluta dal regime fascista, gestita e combattuta malamente, che portò alla distruzione del paese e alla morte di quasi mezzo milione di italiani, almeno 70.000 dei quali caduti sotto le bombe sul suolo nazionale.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Il “trenino dei marmi” versiliese: ascesa, gloria e caduta di un “servizio utile”

Lavorò per più di 35 anni e, oltreché una mirabile opera d’ingegneria, rappresentò per l’intera Versilia storica un formidabile strumento di sviluppo nei decenni chiave d’inizio Novecento che ne decisero la vocazione economica: fu la “Tranvia della Versilia”, ricordata ancora oggi dagli anziani della zona come “marmifera”, o semplicemente “trenino dei marmi”.
Le prime iniziative volte a promuovere la costruzione di moderne infrastrutture per mettere in collegamento le cave dell’entroterra con il litorale, naturale sbocco commerciale per il prezioso marmo bianco delle Apuane, risalgono in realtà alla seconda metà dell’Ottocento: del resto, all’epoca, non molto lontano, il bacino estrattivo di Carrara si era dotato di una rete ferroviaria propria già nel 1876, via via accresciuta e di notevole utilità per la movimentazione dei blocchi verso il porto di Marina di Carrara e la linea ferrata Genova-Pisa.
Fu soltanto nel 1903, che un comitato locale versiliese decise di dar vita ad una società di diritto britannico denominata “The Carrara Versilia Electric Railway and Power Limited”, che, presentato alla Provincia di Lucca il progetto per una ferrovia a scartamento ridotto che soddisfacesse le richieste logistiche dell’area, otto anni dopo ottenne l’autorizzazione alla posa in opera della rete, denominata “Tranvie Elettriche Versiliesi” (TEV). A causa del trasferimento delle competenze in merito dagli enti locali al governo centrale, però, i lavori di costruzione dovettero attendere ancora un poco, e presero il via soltanto nell’agosto 1913.

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, situata appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

Le prime sezioni ad essere inaugurate, il 15 gennaio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, furono quelle comprese fra Querceta, Seravezza e Pietrasanta, per una lunghezza complessiva di quasi 11 km: pensato eminentemente per il trasporto merci, il tracciato offrì fin da subito anche un apprezzato servizio passeggeri. Di particolare rilevanza, oltre al deposito-officina per il materiale rotabile edificato presso la frazione di Ripa di Seravezza appena a monte del ponte Foggi, su cui passava la diramazione che conduceva a Pietrasanta, era la grande opera di scavalco della ferrovia tirrenica eretta a Querceta: lunga quasi 180 metri, realizzata in metallo e cemento armato, costituiva di fatto una fermata sospesa in pieno stile americano, con tanto di scale da cui era possibile scendere al paese. Sempre a Querceta, la TEV disponeva poi di uno speciale binario di collegamento con il grande piazzale della società marmifera Henraux, sfruttato per il caricamento dei blocchi sui pianali della ferrovia Genova-Pisa.

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Rara cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Pochi anni dopo, la rete raggiunse Forte dei Marmi, e, solo per le merci, la località di Trambiserra, presso Malbacco di Seravezza, centro di raccolta dei marmi della valle del Serra e del monte Altissimo: con l’allungamento dei binari fino alla costa, si completò così il primo collegamento ferrato fra i bacini estrattivi dell’entroterra ed il punto d’imbarco del materiale, lo storico ponte caricatore del Forte, posto a breve distanza dal capolinea TEV di piazza Garibaldi, proprio affianco al Fortino.

Di fronte alle crescenti richieste del mercato, poi, l’infrastruttura si espanse verso il cuore delle Apuane, risalendo l’angusta valle del torrente Vezza: l‘inaugurazione della tratta Seravezza-Pontestazzemese si tenne il 31 maggio 1922, e, oltre ad un pregevole risultato ingegneristico, per la natura geografica delle aree attraversate, costituì pure un notevole passo avanti sulla via della modernizzazione dell’arcaica montagna versiliese.
Perché la nuova rete potesse davvero dirsi capillare, tuttavia, mancava ancora un tassello: un collegamento con le frazioni più remote della montagna stazzemese e con i ricchi bacini marmiferi dell’area di Arni. Un’opera complessa e assai dispendiosa, in termini di uomini, mezzi e risorse finanziarie necessarie, che, dopo l’apertura di una prima tratta fra le località di Iacco e Pollaccia nel 1923, vide finalmente la luce nel 1926, quando la strada ferrata, che in questa sezione di quasi 16 km aveva tutte le caratteristiche di una vera e propria linea di montagna, con tanto di rifornitori d’acqua e binari di salvamento per eventuali convogli fuori controllo in discesa, raggiunse Tre Fiumi, vasta spianata compresa fra le vette del Freddone, del Sumbra, del Sella e dell’Altissimo. Per superare il colle del Cipollaio, fra l’altro, che separava la conca di Arni dal resto della Versilia, si rese necessaria la realizzazione dell’opera d’arte più impegnativa dell’intera ferrovia dei marmi: l’escavazione di un lungo tunnel nel ventre della montagna, che, lungo 1.135 metri, mise in comunicazione due versanti fino a quel momento completamente isolati, e, sfruttata ancora oggi dalla Strada Provinciale 13, che ripercorre esattamente l’antico tracciato della marmifera, prese il appunto nome di galleria del Cipollaio. Nel 1927, anche quest’ultima sezione della linea venne aperta ai passeggeri, mentre fu definitivamente abbandonata l’intenzione iniziale di prolungare il tracciato fino a Castelnuovo di Garfagnana.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per 37 km.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per ben 37 km.

A quel punto, l’avveniristica infrastruttura della TEV, nata come una visione e completata in 14 anni di lavori, raggiunse il suo aspetto finale: una rete efficiente, che quotidianamente movimentava uomini e materiali attraverso le gole ed i pendii di un territorio aspro e meraviglioso, slanciandosi attraverso borghi, strade, torrenti, valli, strettoie e crepacci, coprendo, dal mare alla montagna, un impressionante dislivello di 850 metri di altitudine, con punte di pendenza del 60‰ nei pressi del valico del Cipollaio.
Assai gradito da imprese e residenti, nel giro di pochi anni il nuovo trenino cambiò per sempre il volto della Versilia storica, conferendole l’aspetto di un territorio moderno e al passo coi tempi, connesso alle principali arterie di comunicazione del Paese. A farsi carico del grosso volume di merci e passeggeri, oltre a diverse decine di vagoni, erano sei piccole locomotive a vapore, che ogni giorno sbuffavano vistosamente i propri fumi sferragliando fra gli olivi della piana o su per le rocce delle Apuane (l’idea originaria, ricordata anche nel nome della rete, di elettrificare l’intera struttura, era stata infatti accantonata nel 1921): tre a due assi, di fabbricazione britannica, chiamate Z1, Z2 e Z3, meno potenti e pertanto riservate alle tratte più dolci, e tre a tre assi, tedesche, più capaci e quindi destinate al servizio lungo l’impegnativa “linea di Arni”. Oltre ad una sigla, quest’ultime ricevettero pure un soprannome, che riprendeva la denominazione di alcuni toponimi della montagna versiliese: Z4 Arni, Z5 Sumbra e Z6 Corchia.

Pietrasanta, 1924: coincidenza tra un convoglio a vapore della marmifera, riconoscibile sulla sinistra, ed una vettura elettrica del tram SELT per la marina, visibile sulla destra. Siamo in piazza Carducci, proprio di fronte a Porta a Pisa e alla Rocchetta Arrighina. [Enrico Botti, Saluti dalla Versilia, p. 48]

Nel corso degli anni Venti, la TEV visse il proprio momento di splendore: frequentata da un gran numero di turisti, che presso i capolinea di Forte dei Marmi e Pietrasanta potevano trovare anche le fermate del tram elettrico della SELT (Società Elettrica Litoranea Tramviaria) che portava lungo la costa fino a Viareggio, la nuova ferrovia entrò pian piano nell’immaginario collettivo ed iniziò a comparire su un gran numero di fotografie e cartoline (alcune delle quali sono visibili nel corpo del presente articolo, mentre altre sono consultabili in allegato fra i Documenti dalle fonti).

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

I contraccolpi della crisi del 1929, tuttavia, combinati alcuni anni dopo con gli effetti nefasti della politica estera aggressiva del fascismo sugli scambi commerciali internazionali, influirono negativamente sulle attività estrattive della Versilia, riducendo la domanda e generando un sensibile aumento della disoccupazione. Parallelamente, rimanendo elevati i costi di manutenzione, i margini di profitto della ferrovia iniziarono a diminuire.
Con gli anni Trenta, poi, il trenino dovette cominciare a fare i conti con una nuova, inattesa minaccia al proprio ruolo egemone nella movimentazione locale dei passeggeri: quella del trasporto su gomma, quella dei torpedoni della società Fratelli Lazzi, che, a fronte di un’elevata flessibilità di utilizzo e di costi d’esercizio davvero ridotti, offrivano spostamenti a prezzi concorrenziali, raggiungendo anche le più remote località della montagna apuana. Come risultato, il 20 gennaio 1936 il servizio viaggiatori della tranvia venne soppresso.
A sancire il definitivo tramonto della marmifera dal panorama versiliese, tuttavia, fu la Seconda Guerra Mondiale: le distruzioni operate dai nazisti in vista della ritirata sulla Linea Gotica, infatti, non risparmiarono neppure le strutture della TEV, infliggendo loro un colpo mortale. Nel 1944, assieme all’adiacente chiesa di Santa Maria Lauretana, il ponte di scavalco di Querceta fu minato e fatto saltare in aria, crollando sulla via Aurelia e sulla ferrovia tirrenica: contestualmente, per impedire un pratico passaggio agli Alleati, la linea d’Arni fu danneggiata in più punti e l’accesso lato mare della galleria del Cipollaio distrutto con l’esplosivo. Nel corso dei bombardamenti americani sulle posizioni tedesche, poi, andò quasi completamente in macerie anche il deposito-officina di Ripa.

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Quando i fumi della guerra si diradarono, la Versilia giaceva in ginocchio, devastata da sette mesi di feroci battaglie combattute nel cuore delle sue contrade. Con grande sforzo, nonostante la povertà diffusa e la penuria di materiali, la ferrovia dei marmi poté essere riattivata il 2 luglio 1946, eccettuata la tratta Querceta-Forte dei Marmi, per l’impossibilità di ricostruire il costoso scavalco della Genova-Pisa. Del resto, in quel terribile 1944, era saltato in aria anche il ponte caricatore del Forte: l’epoca dei blocchi calati a valle dalle locomotive e caricati sui bastimenti dai buoi e dalla “Mancina” era ormai finita.

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, che sarebbe stato fatto saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, fatto poi saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Di fronte a guadagni sempre più declinanti e ad una sempre più agguerrita concorrenza del trasporto su gomma, che permetteva di raggiungere direttamente i piazzali delle cave in quota, nella prima metà del 1950 il braccio Iacco-Pontestazzemese fu chiuso. Il 30 giugno dell’anno successivo, il trenino dei marmi fece il suo ultimo viaggio e l’intera rete della TEV chiuse i battenti: senza dare troppo nell’occhio, usciva così di scena un generoso protagonista della vita quotidiana versiliese del primo Novecento, che, oltre ad aver reso possibile il grande sviluppo economico del territorio, ne aveva contribuito a radicare il senso di appartenenza comunitaria, riducendo sensibilmente le distanze fra pianura e montagna.
Ancora oggi, la memoria degli anziani locali riserva un posto speciale al vecchio “trenino dei marmi”, uno spazio affettuoso, intriso di sincera nostalgia per un mondo ormai percepito come irrimediabilmente perduto. A tal proposito, in chiusura, valga su tutte la testimonianza di Concettina Bertonelli. Classe 1935, nativa di Arni, ricorda:

Me lo ricordo sempre il trenino, il trenino che dico io: era chiamato anche la tramvìa. Partiva dal Forte, da piazza Garibaldi, e pò andava sù sù sù, Seravezza… Portava i marmi, quelle robe lì, ma anche i passeggeri: era un servizio utile. A Querceta c’era un doppio ponte, perché c’era la ferrovia e poi questo trenino. Poi andava in su, sulla via d’Arni. Fino a Tre Fiumi, però, è! Da Tre Fiumi in poi, niente: a piédi! Sicché quel poco di roba che si portava su, c’era da caricassela sulle spalle e via. Dopo, allora, son venuti i pullman.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2017.




Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.