L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

vernet

Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Per una “casa della memoria al futuro” a Maiano Lavacchio

nella nostra vita di ogni giorno
Albert Camus, 1946

 

Quando, più o meno quindici anni fa, all’ISGREC fu portato un pacchetto con alcuni oggetti, fra cui una tessera forata dal proiettile che aveva ucciso Attilio Sforzi il 22 marzo 1944 – era inimmaginabile quel che oggi sta accadendo: la concreta prospettiva di un luogo di memoria a Maiano Lavacchio.

Attilio è uno degli undici “martiri d’Istia”, vittime di una strage di esclusiva responsabilità fascista. L’episodio, non l’unico o il più sanguinoso nel grossetano, nei nove mesi di sciagurata complicità nella “guerra ai civili” tra il fascismo repubblicano di Salò e l’alleato occupante (esercito e formazioni speciali della Germania hitleriana), creò un sentimento di rivolta nella popolazione locale, che andò oltre la condanna politica. Disumana l’esecuzione sommaria di pochi giovani pressoché disarmati, atroce lo strazio di genitori lasciati ad assistere a una morte insensata. Ne possediamo ricostruzioni e spiegazione storica1, ma è anche alla sensibilità di uno scrittore che conviene ricorrere per far “sentire” il clima di quei momenti:

saforzi_portoarmi Gli ultimi istanti volarono come un vento teso, assordante. Corrado ebbe appena il tempo di abbracciare il fratello Emanuele e baciarlo: caddero di schianto, l’uno sull’altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso a Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto: uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall’angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale. 2

L’evento è stato oggetto di commemorazioni annuali fin dal 1945, con una cerimonia nel tempo più partecipata e solenne, in un luogo che non ha mai cessato di trasformarsi. Dove avvenne l’esecuzione, è stata costruita una cappella. Poco distante, ai ragazzi è stato dedicato un sobrio monumento, dal 2016 affiancato da una targa con codice QR, che rinvia al sito www.cantieridellamemoria.it per la narrazione dell’evento. Accanto a questo, altri segni di memorie sono diffusi nell’area compresa fra la frazione di Istia d’Ombrone e il comune di Magliano. Un bassorilievo e una pietra d’inciampo ricordano le storie contigue di deportati politici, in località Campospillo, mentre fra Maiano Lavacchio e la frazione di Istia è possibile seguire il sentiero percorso dai carretti che trasportarono i corpi dei ragazzi verso la Chiesa di Istia, in violazione del divieto di celebrare funerali e dell’ordine di seppellire i ragazzi in una fossa comune. Fu il parroco, don Omero Mugnaini, a compiere un clamoroso gesto di rivolta. La risposta che gli si attribuisce, alle minacce delle autorità civili e militari italiane e tedesche: “Voi pensate ai vivi, ché ai morti ci penso io”, non rimase una frase: gli undici feretri furono accompagnati al cimitero da una folla, mentre ai lati della strada erano puntate sul corteo funebre le mitragliatrici.

La storia dei ragazzi provenienti da altri luoghi ebbe poi un seguito in quelli. A Cinigiano, i genitori di Alfiero Grazi adottarono il disertore tedesco (dodicesimo del gruppo sorpreso la notte tra 21 e 22 marzo nella capanna delle macchie di Montebottigli e fortunosamente sfuggito alla morte), che affrescò la cappella del cimitero di Cinigiano, dove fu definitivamente sepolto Alfiero. Quando il corpo di Antonio Brancati nel 1967 fu riportato a Ispica, lo accompagnò l’antifascista grossetano Francesco Chioccon3. La lettera ai genitori di questo ragazzo siciliano è una fra le tante pubblicate, dei condannati a morte della Resistenza italiana; analogamente pubblicata, anche se in un volume locale, l’orazione tenuta da Chioccon a Ispica.

È naturale che da una vicenda di tale forza emotiva subito siano nate canzoni in ottava rima, secondo una tradizione locale di musica popolare, ma anche dopo anni, in un continuum, fino ad oggi, la storia dei ragazzi uccisi abbia ispirato scrittori e autori di teatro4.

Hanno avuto una straordinaria capacità mitopoietica la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza (undici “agnelli” in un opuscolo commemorativo scritto a pochi mesi di distanza5), il gesto coraggioso del prete e dei grossetani che sfidarono le mitragliatrici, il racconto della crudeltà dei comportamenti dei fascisti. Nel cosiddetto processone per i crimini dei fascisti repubblicani, la corte d’Assise straordinaria dispose per i responsabili condanne severe, in nessun caso applicate interamente. Se nell’immediato dopoguerra il contesto della guerra civile lasciò che questa comparisse come una fra le tante storie di Resistenza, e i ragazzi, come nel rapporto del Capo della Provincia Ercolani, soggetti “politici”, la completa ricostruzione storica ha messo in luce la particolare complessità di questo, che è un episodio di “guerra ai civili”, ma con vittime che hanno fatto comunque una scelta netta, rifiutando l’arruolamento imposto dal bando Graziani nel costituendo esercito della RSI. Hanno disobbedito6, il loro gesto ha provocato altra disobbedienza, se immediatamente è nata la formazione partigiana della zona, cui ha aderito addirittura una donna testimone dello scempio. Il fine di pulizia del territorio delle politiche duramente repressive del fascismo repubblicano, a Grosseto gestite con il pugno di ferro dell’ex-ufficiale viterbese Alceo Ercolani, dopo il 22 marzo del ’44 sortì l’effetto opposto, allargando l’area del dissenso esplicito della popolazione locale, nelle campagne e in città.

Da qui è necessario prendere le mosse per leggere il passaggio dall’appena ventilata ipotesi di vendita a privati di un edificio-simbolo della strage, nel luogo dove fu consumata, all’attuale progetto di creazione di un luogo di memoria. Non appena il Comune di Magliano in Toscana espresse la necessità di intervenire su un edificio malridotto e inutilizzato, anche alienandolo, una risposta corale dal territorio fu così persuasiva da bloccare ogni intervento a rischio di “inquinamento”. L’edificio è la vecchia scuola elementare, che raccoglieva bambini dell’area rurale, costruito negli anni di urbanizzazione delle campagne maremmane, post-riforma agraria.

L'ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

L’ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

Il valore simbolico non appartiene allo spazio fisico – aula, casa del custode – ma alla sua capacità evocativa; fu nell’edificio del podere, nella stanza adibita ad aula della scuola all’epoca degli avvenimenti, che i ragazzi furono rinchiusi dopo l’arresto, la notte tra 21 e 22 marzo, e processati e condannati a morte. Sulla lavagna i due fratelli Matteini scrissero il messaggio “mamma Lele e Corrado un bacio,”. Quel frammento staccato dal rettangolo d’ardesia a quadretti bianchi e quelle parole tracciate col gesso bianco devono aver pesato come un macigno sulla coscienza di chi, concittadino colpevole o complice, l’ha vista riprodotta tante volte sulle pagine delle cronache locali nei dintorni delle commemorazioni annuali o se l’è trovata di fronte, entrando nella stanza del Sindaco di Grosseto, dove fu collocata nel 1976.

Così è partita una sfida: trasformare lo spazio fisico – la piccola scuola anni Sessanta – in un luogo di memoria. Operazione di per sé culturalmente complessa (come trovare una chiave per dare la giusta misura al rapporto tra significante e significato?), assai impegnativa in un tempo in cui nuovi e inediti contesti impongono un sovrappiù di riflessione sul rapporto con il passato e la storia. A queste si sono sovrapposte, sovrastandole, le difficoltà concrete: risorse, competenze, tempi… Lungi dall’essere questi ostacoli superati, il dato attuale è un percorso avviato e in atto.

 

MAIANO LAVACCHIO LUOGO DI MEMORIA VIVA

Come il pescatore di perle che arriva nel fondo del mare
non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per liberare
staccando dalla profondità le cose preziose e rare, perle e coralli,
e per riportarne frammenti alla superficie del giorno
nuove forme e formazioni cristallizzate, rese invulnerabili contro gli elementi,
sopravvivono e aspettano solo il pescatore di perle
che le riporti alla luce come “frammenti di pensiero”
H. Arendt, Il pescatore di perle

La svolta è arrivata dall’incontro con un architetto, Edoardo Milesi, non nuovo a interessi per temi analoghi – a suo tempo si era occupato del Memoriale italiano di Auschwitz. Da un fitto scambio di idee, sopralluoghi e infine confronti con il Comune ha preso forma l’idea di un luogo di memoria viva, che dal frammento di storia sottratto alla futura dimenticanza possa trarre pretesto per proporre una “partecipazione a esperienze culturali anche su altro”. Il fine: non rinnovare “epoche già consumate”, piuttosto, come il pescatore di perle che evoca la visione della storia di Walter Benjamin, produrre una cultura per il futuro.

area scuolinaScegliere un luogo, riempirlo di cose e simboli, stabilirne l’uso sono operazioni tutt’altro che facili: crocevia di saperi, intenzioni pubbliche, tradizioni e sensibilità individuali. Fuori da sovrapposizioni meccaniche e forzature, serve tenere ferma l’idea che non c’è una corrispondenza facile tra fatti, memorie, significati e valore storico. La partizione degli spazi che il progetto architettonico prevede è rappresentazione del carattere di memoria viva, non schiacciata su un evento, non prospettiva di museo da visitare solo per conoscere o provare emozioni, entro i limiti di un preciso e circoscritto contenuto storico. Il materiale che possediamo comprende i dati fattuali delle storie, le culture di cui portano tracce la fisicità dei luoghi, gli ambienti e persone che li abitano. Ma la scelta condivisa tra l’ISGREC, l’architetto e il Comune è stata quella di andare oltre i limiti di un rapporto esclusivo con il luogo in quanto teatro di un evento, oltre i rischi dell’uso autoreferenziale della memoria.

C’è una relazione sempre più urgente da proporre al nostro lavoro sulla memoria. Fenomeni che si consideravano irripetibili, valori acquisiti una volta per tutte rivelano invece una pericolosa precarietà. Gli anniversari recenti – la Grande Guerra e l’emanazione delle leggi razziali italiane – i prossimi – l’inizio della II guerra mondiale – sono materia viva: xenofobie, razzismi, fino a genocidi e stragi di civili hanno diverse geografie, ma sono tornati ad essere parte del tempo presente. Molte di quelle che sono state a lungo memorie europee condivise sono escluse dal calendario civile in ampie zone dell’est Europa. La pace si è trasformata in tregua armata, carica di tensioni crescenti. Così la cifra della memoria è la sua capacità di guardare al futuro.

L’idea forte, divenuta un vero progetto – tavole e calcoli metrici e preventivo dei costi – è stata quella di Spazi da abitare: le stanze della memoria dei Martiri d’Istia aperte, contenitori di esperienze da fare, che conservino e via via sedimentino tracce del rapido transito o di una più lunga permanenza di persone. Cucina, foresteria, porticato esterno.

Pochi e semplici arredi, una sezione didattica con strumenti essenziali per stages, visite didattiche , laboratori e seminari.

I primi ad abitare quel che potrà essere realizzato nel novembre 2018 saranno gli studenti e gli insegnanti europei dell’Erasmus+ Our memories and I7. Già una trentina di classi di scuole superiori stanno lavorando a monitorare identità personali, familiari, delle comunità di appartenenza, a testare con esperienze personali o di gruppo quel che rimane intorno a loro del passato comune, più o meno vicino a loro (nessuno è nato prima del 2000). Insieme ai loro insegnanti e a un artista8 hanno cominciato ad esplorare musei e memoriali, a sperimentarsi come autori di un’elaborazione del proprio vissuto personale e di gruppo (familiare, etnico…). Gli studenti francesi e spagnoli hanno trovato rispettivamente nel Mémorial di Rivesaltes e nel Museu Memorial de l’exili (MUME) di La Jonquera materia per leggere un passato di fuga di massa dalle violenze di una guerra civile. Spagnoli e brigatisti internazionali hanno lasciato tracce del loro passaggio attraverso i Pirenei; il Museu Memorial de l’exili è stato edificato 10 anni fa sulla frontiera9. Le storie personali di cui sono piene carte, fotografie, registrazioni presenti nel MUME in una settimana di lavori di gruppo sono state materiale di studio, riflessione e comparazione su altre, nuove frontiere, che altri popoli attraversano.

erasmusplus

Il gruppo dell’Erasmus+ nel campo di Rivesaltes

A Rivesaltes sono conservate storie analoghe e diverse. È un campo nato negli anni Trenta del Novecento, ma vi sono stati ristretti anche algerini negli anni Sessanta. Oggi è un modernissimo laboratorio, spazio per studi e progetti culturali. Si sono cimentati in gruppo sull’esperienza del Memoriale gli studenti dei paesi partner, in una babele di lingue e competenze storiche che ha prodotto corti-circuiti interessanti. L’ultima tappa dell’esperimento collettivo sarà Maiano Lavacchio, stavolta a guida grossetana. Servirà a misurare l’efficacia dell’idea progettuale con i destinatari privilegiati, giovani lontani dalle vicende da cui scaturisce la scelta dei luoghi.

Certo, lo spazio piccolo del nostro insediamento rurale non potrà somigliare a luoghi che sono stati oggetto di generosi investimenti pubblici. Del resto, la pur alta capacità rappresentativa della strage di marzo a Maiano Lavacchio non è comparabile alla enormità dei fatti cui rimandano La Jonquera e Rivesaltes: la marea umana che oltrepassò i Pirenei, le decine di migliaia di indesiderabili, gli antifascisti, gli ebrei che a Rivesaltes vissero l’anticipazione del lager, fino ai citati algerini10

Tuttavia, la comparazione tra vicende, il dialogo e il lavoro comune tra persone portatrici di esperienze e saperi diversi sono le condizioni che danno senso lavoro su storia-memoria.

Quelli attuali sono giorni cruciali per questo progetto. È stata appena ufficializzata l’acquisizione da parte dell’ISGREC della scuola, in forza di una convenzione che dà avvio alla ricerca di risorse finanziarie. Il 22 la commemorazione vedrà, come al solito, la presenza delle istituzioni e di cittadini. Ci saranno anche gli studenti del Liceo linguistico Rosmini, reduci dal primo viaggio dell’Erasmus e per i prossimi due anni impegnati in Our memories and I.

Nessun indizio materiale dà evidenza a queste novità, ma per la casa della memoria al futuro di Maiano Lavacchio il primo passo – l’uscita dal regno di utopia – è fatto; non era il più facile.

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Note:

1 Il primo tentativo di ricostruzione della vicenda è in M. Magnani, La strage di Istia d’Ombrone (22 marzo 1944), Il Grifone, Grosseto 1945. In molte pubblicazioni successive esistono riferimenti e qualche sintetica cronaca del fatto. È del 1995 un volume prezioso per le fonti che utilizza: C. Barontini, F. Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi”, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, ANPI, Grosseto. Una completa ricostruzione storica è in M. Grilli, Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, edizioni ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2014.

2 G. Gianni, Nell’ombra delle stelle, Il paese reale, Grosseto 1973.

3 L’orazione di Chioccon è riprodotta in N. Capitini Maccabruni, La Maremma contro il nazifascismo, Provincia di Grosseto, 1984, pp. 143-8.

4 Un primo spettacolo teatrale fu rapppresentato a Grosseto negli anni Sessanta. È Oltre il ponte, autore e regista Mario Sermoni. Recente è AG46, produzione NONE-ISGREC, rappresentato più volte nel 2006.

5 M. Magnani, cit.

6 Cfr. il capitolo La scelta, in C. Pavone, Una guerra civile. Storia della moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-62.

7 L’Erasmus+ Our memories and I ha avuto inizio nel settembre 2017 ed ha durata biennale. I paesi partner sono: Croazia, Francia, Germania, Italia, Spagna. I partner italiani: il liceo linguistico dell’Istituto Rosmini e l’ISGREC. Sedi dei partner stranieri: Split in Croaiza, Perpignan in Francia, Figueres in Spagna, Berlino in Germania.

8 Due gruppi di studenti – i francesi e gli spagnoli – hanno già prodotto manufatti esposti in mostre allestite nei due licei (Monturiol di Figueres e Pagnol di Perpignan). Le performances prodotte dai ragazzi stimolati da Rma Kroke

9 All’ingresso del MUME una targa con loghi grossetani e toscani ricorda il passaggio di antifascisti che dalla Toscana erano andati a combattere come volontari nella guerra di Spagna e da lì entrarono in campi di concentramento. Cfr. in questo sito il database Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. La storia dei campi è in E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini, ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2017.

10 Cfr. F. Bensaci-Lancou, Fille de harki. Éditions de l’atelier, s.d.. Fatima Bensaci racconta la storia quasi sconosciuta, in Francia forse rimossa, della minoranza algerina degli harkis, che furono internati dopo la guerra d’Algeria nel campo di Rivesaltes.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Tirar su una città non è cantare una canzone.

Forse esagerava Luciano Bianciardi, nelle prime pagine de Il lavoro culturale, a scrivere che la Grosseto dell’immediato dopoguerra «non somigliava … a nessuna città italiana». Lo sostenevano, insieme a lui, i giovani, entusiasti di «un fenomeno assoluto ed eccezionale»: la “marcia vittoriosa” della città che cresceva.

Noi andavamo spesso a vedere crescere la nostra città, vederla avanzare vittoriosa dentro la campagna, contro la campagna, a conquistare altro terreno. Si muoveva, si muoveva sensibilmente, a vista d’occhio, la nostra città; lanciava, come un drappello ardito, un gruppo di case nuove, che si lasciavano alle spalle, in una sacca, orti e prati, un po’ di verde odoroso di campagna e di letame, che rapidamente si intristiva e si seccava1.

Certo è che il fenomeno della crescita delle periferie urbane, ordinario in Italia a partire dagli anni Quaranta del Novecento, per Grosseto è stato qualcosa di eccezionale. Già dalla prima metà del secolo il volto della città era cambiato: erano sorti edifici pubblici importanti, fuori dalle Mura medicee, costruite nel Cinquecento e fino ad allora quasi non scavalcate dall’abitato. Ma era stata l’impennata della crescita demografica nel secondo dopoguerra a provocare la marcia vittoriosa contro la campagna di cui si dichiaravano orgogliosi quei giovani grossetani.

Cantiere della Chiesa del Sacro Cuore, anni Cinquanta (Archivio ISGREC, fondo Egisti)

Cantiere della Chiesa del Sacro Cuore, anni Cinquanta (Archivio ISGREC, fondo Egisti)

Il senso della singolarità non sta solo nel dato statistico della demografia e nel confronto fra le mappe che mostrano il reticolo delle nuove strade, i quartieri che avanzano verso l’interno e verso la costa, limitati a sud-est dal fiume Ombrone, che la lambisce, ma è quasi raggiunto, malgrado i rischi idro-geologici. La storia economica e sociale di Grosseto non si identifica con quella della Maremma rurale, tra latifondo, riforma fondiaria, distretto rurale, né dell’entroterra segnato dalla ricchezza prima e dal crollo poi delle miniere, ma a questo ampio comprensorio appartiene. Non si identifica neppure con quella della costa tirrenica tra Follonica e Capalbio, che – ancora Bianciardi nel suo Ritorno a Kansas City del 1964 – «spera negli svizzeri, negli svedesi, negli attori del cinema, nelle mogli dei presidenti»2.

Grosseto, civitas dal trasferimento della diocesi da Roselle nel XII secolo, borgo rurale rimasto a dibattersi fra crisi demografiche ricorrenti fino al XVIII secolo, capoluogo di provincia dal 1861, da questa data ha vissuto come centro di servizi. Dal secondo dopoguerra ha visto modificarsi la sua economia in gran parte proprio intorno al fenomeno della crescita, smentendo però, con il suo particolare modello di espansione, le tesi più accreditate, che spiegano «il progressivo incremento della popolazione urbana [come] prodotto tipico delle forze economiche scaturite dalla rivoluzione industriale». Infatti, sostiene un sociologo urbano e testimone eccellente, il grossetano Gian Franco Elia, negli anni del boom «Grosseto si avvia ad essere un comune industriale in senso culturale, ma salta a piè pari l’esperienza costituita da una vera a propria rivoluzione industriale»3.

Cena di fine costruzione Sacro Cuore, 26 aprile 1958 (Archivio ISGREC, f. Egisti)

Cena di fine costruzione Sacro Cuore, 26 aprile 1958 (Archivio ISGREC, f. Egisti)

Dell’urbanistica grossetana si conoscono le direttrici di espansione e si apprezzano le opere realizzate anche da importanti architetti. Sta anche in questo la peculiarità della crescita di Grosseto nel Novecento: grandi opere pubbliche, in qualche caso di notevole valore architettonico; piani regolatori progettati da urbanisti eccellenti4.

Ma è altrettanto interessante capire come e per quali processi il verde della campagna, seguendo la descrizione bianciardiana, si sia tanto rapidamente seccato, spiegare «gli sterrati, gli orti ed i poderi via via rosicchiati dai nuovi quartieri di abitazione»5. Intanto, l’industria che è il segno della modernità per Grosseto e le sue frazioni è quella delle costruzioni. La parabola dell’industria edile e del suo indotto è una fotografia dell’economia grossetana, ma anche un indizio per una periodizzazione generale – persistenze e mutamenti – dal secondo dopoguerra.

La secondo metà degli anni Quaranta è stata quella della ricostruzione postbellica, dopo i bombardamenti che avevano lasciato morti e cumuli di macerie. Nella corrispondenza tra il primo Sindaco della città liberata, Lio Lenzi, e il Prefetto De Dominicis, già a pochi mesi dal passaggio del fronte si leggono le cifre delle abitazioni distrutte – novantaquattro – e gravemente danneggiate – centotrenta –, con la conseguente emergenza alloggi6. Per qualche famiglia più in difficoltà sopperirono le baracche (una zona periferica fu identificata con la triste categoria dei nuovi occupanti: si chiamò “gli sfrattati”). In alternativa ci fu l’occupazione della “fortezza” (definizione corrente del Cassero Mediceo) e di una struttura militare fuori città: il “Casermone”. Precocemente prese il via il piano di ricostruzione: dal 1948 al 1954 furono costruiti o ampliati 396 alloggi, in prevalenza in direzione sud, ma i dati sull’indice di affollamento mostrano ancora una condizione abitativa assai precaria. La normalizzazione viene dal primo piano regolatore (Sabatini, 1959), dopodiché prende forma quello che sarà lo sviluppo urbanistico di una Grosseto, cui successive varianti, sovrapponendosi alla legislazione nazionale sulla casa, imprimeranno cambiamenti sostanziali7.

Renato Pollini, Sindaco di Grosseto1951-1970 (Archivio ISGREC, f. Pollini)

Renato Pollini, Sindaco di Grosseto1951-1970 (Archivio ISGREC, f. Pollini)

Rimanendo ancora entro i confini del Comune di Grosseto, non meno importanti sono la costa e l’entroterra. Comincia negli anni Sessanta e prosegue con un’accelerazione costante la fortuna della costa tirrenica a sud delle stazioni di villeggiatura toscane già celebri. L’entroterra è interessato dagli anni Cinquanta al processo di urbanizzazione della campagna derivante dalla riforma fondiaria. Malgrado una vasta cementificazione, il paesaggio urbano si è salvato dalle grandi speculazioni edilizie, nei dintorni – tra Parco della Maremma, costa e frazioni dell’interno – l’equilibrio naturale non è stato sconvolto.

È importante lo sguardo sui soggetti che hanno agito e cooperato allo sviluppo.

Protagonista politico della modernizzazione della città, quando dovette misurarsi con la prepotente immigrazione, fu il sindaco Renato Pollini. Un’economia basata sul terziario – servizi, pubblico impiego, in tempi più recenti turismo – stava in un territorio provinciale a vocazione rurale, prevalente da quando la dismissione delle miniere l’aveva privato di questo particolarissimo tipo d’industria. A Grosseto sono protagonisti sociali imprenditori dell’edilizia e dell’indotto, cooperative, operai.

La classe operaia è quella delle costruzioni. Muratori e manovali sono gli eredi dei terrazzieri cui si deve la enorme fatica delle opere di bonifica. Il risanamento della Maremma è stato un processo lungo secoli, ma le ultime zone umide sono state prosciugate nel corso del Novecento. Nella storia del lavoro della Maremma una delle imprese più longeve è stata la Cooperativa terrazzieri, nata nel 1899. Il linguaggio della motivazione di un pubblico riconoscimento oggi può apparire retorico, ma esprime la verità della gratitudine per le fatiche dei protagonisti della trasformazione della Maremma, conquistata «erigendo argini, scavando fossi e canali, tracciando strade…con badili, carriole e barelle, nelle fanghiglie palustri e fra le zolle inaridite». La Cooperativa esisteva ancora, con settanta soci, nel 1978, data dell’attribuzione del “Grifone d’oro”, e fu liquidata solo negli anni Duemila8.

A chi oggi entra in città da nord appare, bene in vista per la sua altezza, la scultura in rame del monumento al badilante. Opera dello scultore grossetano Antonio Lazari, fu collocata lì nel 2008, «proprio dove passava il canale diversivo, una delle opere più significative del lavoro dei badilanti»9. Lasciando ad altre sedi un giudizio estetico, l’uomo chino sul badile, spalle cadenti e volto severo, rappresenta un uomo piegato dai sacrifici, senza orgoglio della vittoria su una natura ostile. Un poeta – Nazim Hikmet – ha celebrato il mestiere del muratore, a ragione considerato erede di quello del badilante, condensando il bene e il male di un lavoro duro in due versi «tirar su un edificio non è cantare una canzone». Tuttavia, ancora Hikmet, «i muratori cantano, cantando sembra più facile», anche se «c’è polvere e terra, fango e neve» nel cantiere e poi «l’edificio vien su, vien su, magnifico, cresce nel sague e nel sudore»10.

Fa riflettere la carenza di ricerche sulla condizione operaia e le relazioni sindacali rispetto alla categoria degli edili in una realtà con i caratteri di quella grossetana, a fronte di una grande ricchezza di studi sul tema del lavoro, soprattutto dei minatori e dei lavoratori della terra e dei boschi, indiscutibili primi attori della storia del territorio. A ben vedere, una parte della classe operaia che ha “tirato su” tanti edifici è fatta di ex agricoltori, boscaioli, vetturini che hanno abbandonato la campagna, colline e aree montane per la città negli anni della ricostruzione o del declino dell’agricoltura della Riforma fondiaria.

Numerosi scatti ora nell’archivio dello studio fotografico Gori mostrano cantieri al limite della campagna che si fa città, i luoghi vivi della città che si espande11. Nella narrazione bianciardiana delle passeggiate dei giovani usciti dalla guerra in «periferia, verso la campagna piatta e buia», sono descritti anche i «bassi casotti dove i muratori ripongono gli attrezzi, le cataste dei mattoni, le fosse rettangolari bianche di calcina, un rullo compressore, alto e scuro», sullo sfondo delle nuove costruzioni iniziate12.

Un gran numero di foto sono parte dell’archivio dell’impresa di costruzioni Egisti, che ha avuto commesse pubbliche rilevanti dal dopoguerra in poi. Documenta le periferie: il quartiere popolare per eccellenza, Barbanella, insieme a Gorarella, dove si sperimentò la costruzione di case popolari accanto alle ville che erano state le prime costruzioni oltre la ferrovia, con un centro commerciale, all’avanguardia fra anni Settanta e Ottanta. Accanto agli esercizi commerciali la sede della Circoscrizione, il Centro anziani, una grande sala polivalente.

Centro sociale Gorarella, anni Ottanta (Archivio ISGREC, f. Egisti)

Centro sociale Gorarella, anni Ottanta (Archivio ISGREC, f. Egisti)

Gli imprenditori, accanto ai lavoratori dell’edilizia e dell’indotto, sono i soggetti-chiave dell’economia industriale grossetana. Grandi imprese e piccoli artigiani, le cooperative: il fulcro dello sviluppo. Nelle interviste più recenti, archiviate dall’ISGREC, c’è la descrizione di una parabola che segue in parte quella nazionale, ma ha caratteri originali per essere l’unica industria e uno dei motori fondamentali per l’economia di Grosseto. In ascesa fino agli anni Ottanta, poi in declino e con una serie di fallimenti importanti, fino alla crisi. Un giudizio corrente sulle differenze fra la Maremma grossetana e il resto della Toscana enfatizza i benefici della tradizione mezzadrile per lo slancio industriale di aree toscane precocemente progredite; dov’è arrivata tardi, come in Maremma, è stato più debole lo spirito imprenditoriale.

Un discorso particolare riguarda le cooperative. Al di là della citata Cooperativa Terrazzieri, ne sono nate altre, nell’immediato dopoguerra la Martiri d’Istia, il cui nome si colloca nel clima dell’uscita dal fascismo e dalla guerra. I martiri d’Istia assursero a simbolo della Liberazione, della fine di un fascismo responsabile della strage più feroce: undici ragazzi inermi, renitenti alla leva, condannati a morte e uccisi il 22 marzo 1944. Tra gli operai è esistita una tradizione di antifascismo. I cantieri nel Ventennio erano luoghi sempre tenuti sotto l’occhiuto controllo del regime. Nei mesi dell’occupazione tedesca e della repubblica sociale alcuni entrarono nelle formazioni partigiane o collaborarono con le bande della zona.

Con un balzo dal passato remoto a oggi, interroghiamo sulla crisi, la sua durata e le sue fasi Mauro Carri, direttore dell’ANCE, partner di una ricerca dell’ISGREC su lavoro e imprese nella città dal dopoguerra in poi. «Si cominciano a vedere segni di uscita dalla crisi», risponde. Il suo è un discorso esperto che parte dal presente e prefigura un mondo di costruzioni 4.0, dopo aver disegnato le profonde metamorfosi dell’impresa tra anni Quaranta del Novecento e terzo millennio.

foto aeree di Grosseto (1985), in Atlante Barbanella Gorarella, Comune di Grosseto

Foto aerea di Grosseto (1985), in Atlante Barbanella Gorarella, Comune di Grosseto

Abbiamo capito che siamo ormai oltre il passaggio tra generazioni nelle grandi imprese, lontani dal tema della propensione al rischio che ha coinvolto troppo pochi imprenditori. Si cercano nuove forme di modernità per governare la parcellizzazione del processo produttivo e dei mestieri, in un sistema di appalti e subappalti.

Come su ogni argomento, la storia non risove problemi, si limita a cercar di spiegare i processi e aiuta a comparare per meglio interpretare. Su Grosseto-Kansas city, il passato ce la racconta come città-cantiere per dare un tetto a nuovi abitanti, luogo d’innesti, se nei trent’anni tra 1951 e 2001 il numero degli abitanti è cresciuto dell’86,60%. Un melting pot tutto nazionale, se si vuole, che dà ragione alle impressioni del tenente Bucker, reso famoso da Carlo Cassola prima, Luciano Bianciardi poi, per il celebre paragone.

Oltre l’immagine, per decenni luogo comune della cultura grossetana, della città di «spazi aperti, al vento e ai forestieri, come Kansas City»13, c’è la verità storica di una comunità locale che in questi spazi aperti e riempiti dai forestieri ha le ragioni del suo essere.

NOTE:

1 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 1957, pp. 14-15.

2 Ivi, p. 111.

3 G. F. Elia, Dinamica urbana di un’area rurale, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1971, p. 27. Gian Franco Elia, grossetano, sociologo urbano, ha analizzato il “borgo rurale” trasformatosi di colpo in città, ma ha anche fatto esperienza di scelte politiche negli anni Sessanta, in quanto amministratore (assessore alla cultura del Comune di Grosseto).

4 “I sindaci e le giunte hanno docuto fare sempre i conti con progettisti così autorevoli che alle loro idee era difficile dire no” (intervista a Mario Nencioni, funzionario dell’Ufficio urbanistica del Comune di Grosseto dagli anni Settanta in poi, 10 giugno 2017).

5 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, cit., p. 15.

6 ASGr, f. Prefettura.

7 L. Rocchi, La città cresce. Grosseto tra secondo dopoguerra e anni Novanta, in Provincia di Grosseto, Scuola Superiore Sant’Anna, Conoscenza, innovazione e sviluppo, Edizioni ISGREC, Grosseto 2009, p. 222.

8 www.prolocogrosseto.it/anno-1978-.html

9 M.G. Celuzza, M. Papa, Grosseto visibile, Effigi, Arcidosso (GR) 2013, p. 147.

10 Nazim Hikmet, Nel sangue e nel sudore

11 M. Baragli (a cura di), Professione fotografi, edizioni ISGREC, Grosseto 2009.

12 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, cit., p.14

13 Ibidem, p. 15

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.




Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




“L’Ombrone affitta ma non vende”: il patto antico tra Grosseto e le acque.

Le piene dell'Ombrone

Livello delle piene dell’Ombrone

In occasione delle celebrazioni legate al Cinquantenario della drammatica alluvione del 4 novembre del 1966, alluvione che non vide solo Firenze al centro della epocale vicenda, ma innumerevoli altre realtà tra le quali Grosseto e la sua Maremma, emerge con chiarezza la necessità di una riflessione storica di lungo periodo che ci consenta di cogliere le peculiarità di un complesso problema storico e geografico.

La realtà grossetana, infatti, presenta alcuni spunti per definire una prospettiva che nasce da incroci di punti di vista disciplinari e da sensibilità diverse giocate nell’intento di restituire l’organicità complessa del sistema uomo-ambiente nel tempo.

Grosseto non è solcata dal fiume, ma dal fiume è stata segnata per intero la sua esistenza, sin dalla sua origine. Dal legame stretto con l’acqua, buona o cattiva, sgorga la sua stessa essenza e la sua identità, che dà forma alle cose, disegna i contorni del paesaggio, forgia le vite delle generazioni che vi dimorano: un connubio da indagare nelle sue radici profonde e da insegnare a chi sta crescendo in questo luogo, perché impari a rispettare il patto della città con il suo ambiente, lo accolga e lo difenda.

Da questa riflessione nasce l’idea dell’urgenza e della necessità di un lavoro didattico organico e mirato per avvicinare i ragazzi alla storia dei luoghi, intesi come nodo problematico nato dall’ambiente e dall’uomo che vi si insedia nella prospettiva storica di lungo periodo. In questo contesto la caratteristica precipua della didattica proposta dagli istituti storici, che risiede nella impostazione del lavoro su base laboratoriale, consente di avvicinare i ragazzi al testo delle fonti storiche: siano quelle classiche o quelle archivistiche, archeologiche o iconografiche, non trascurando le fonti materiali ancora presenti sul territorio né un’organica e strutturata lettura del paesaggio urbano e fluviale, né la copiosa messe di studi editi sulla città e il territorio.

Ci viene incontro a questo proposito la mostra organizzata presso l’Archivio di Stato di Grosseto, “L’Ombrone ed altri fiumi. Breve storia delle alluvioni in Maremma” presentata il 24 settembre 2016, che ci restituisce il panorama storico documentario, offrendoci preziosi spunti per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono la complessa vicenda delle acque e la città, estratti dai documenti conservati nei fondi archivistici grossetani, quali l’Uffizio de’ Fossi e Coltivazioni, Il Genio Civile, l’Ingegnere Ispettore del Compartimento, il Commissario della Provincia Inferiore, La Sottoprefettiura di Grosseto, L’Uffizio di Buonificamento delle Maremme, Il Catasto, la Prefettura Granducale, la Provincia di Grosseto, il Comune di Grosseto.

Ilario Casolani (Siena 1588 - 1661) Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  Olio su tela cm.274x160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d'Arte della Maremma e Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Ilario Casolani (Siena 1588 – 1661)
Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  |   Olio su tela cm.274×160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e Museo Diocesano d’Arte Sacra.

A sintetizzare mirabilmente le vicende che legano la città all’ambiente fluviale e palustre in cui è immersa, l’antica immagine iconografica forse più suggestiva della città di Grosseto. Si tratta del particolare tratto dalla pala d’altare conservata presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Madonna con Bambino e i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano di Ilario Casolani del 1630, immagine cara agli storici della città, che l’hanno indagata più è più volte per poter immaginare un ambiente storico lontano nel tempo, ormai totalmente modificato, tanto da risultare irriconoscibile. È la vista a volo d’uccello di una piccola città chiusa nelle sue mura stellate, ancora circondate da un fossato, immersa nella luce dorata riflessa da un paesaggio di terra e d’acqua che si perde in lontananza e sfuma i contorni di una natura che si intuisce ostile indomita e selvaggia, sublimata in una struggente bellezza.

Questa bellezza aspra, che riesce a commuovere chi vive e ama la Maremma, e ne vuole indagarne il segreto, percepirne le forza e la sostanza, costituisce la radice identitaria di un territorio che va capita e fatta capire anche a chi è giunto da poco, a chi è giovane oppure che l’ha dimenticata, perché è qualcosa di delicato e fragile, un equilibrio secolare che ogni tanto si infrange e chiede quindi attenzione, cure, nuove fatiche e ancora riflessione.

Sin dall’antichità le fonti più importanti sono quelle di Tito Livio, (Ab urbe condĭta libri, XXVIII, 45, 18) che parla di contributi in legno d’abete e grano destinate a Scipione che raggiungono Roma forse per vie d’acqua (fluitazione), di Plinio, (Naturalis Historia, III 51 ) che definisce l’Ombrone “Navigiorum capax” o del citatissimo Rutilio Namaziano, (De Reditu suo) che nel 417 ripara la notte presso la foce dell’Ombrone, “Non ignobile flumen” definendo la foce un attracco sicuro ed esprimendo il desiderio impossibile di potervi rimanere più a lungo.

Ma forse l’indizio che ci fa maggiormente intuire il legame d’affetti tra gli antichi abitatori della Maremma con le acque del suo fiume è il frammento con iscrizione ritrovato presso lo Scoglietto (all’interno del Parco della Maremma non distante dalla foce dell’Ombrone) con dedica a Diana Umbronensis e restituitoci dagli studi di Studi di Sebastiani e Cygielman.

Molte questioni rimangono aperte, come la presunta navigabilità dell’Ombrone: per molti studiosi certa per l’ultimo tratto, discussa a fondo con posizioni diverse e contrastanti riguardo al tratto nei pressi di Grosseto.

Certo è che in epoca altomedievale il fiume scorreva vicino alla città: esiste un legame imprescindibile tra l’Ombrone e l’origine della città. Essa infatti compare verso la fine del VI secolo, dopo la decadenza della villa di San Martino accanto al tracciato della Via Emilia Scauri (II sec. a.c.) che aveva percorso più interno rispetto alla vecchia Aurelia (III sec. A .c) e guadava il fiume nei pressi di Grancia. Vi era forse un approdo fluviale: nella direttrice fiume – saline – mare- è da rinvenire la cifra dell’esistenza di questo minuscolo centro abitato nascente sulle rovine di un’antichità che aveva visto fiorire città importanti e potenti come Roselle e Vetulonia. Così il piccolo centro prende vita su piccole alture o su un pianoro sommitale nell’area dell’ attuale Piazza della Palma e via Garibaldi -come ci restituiscono recenti scavi urbani- forse per scongiurare il pericolo delle piene dell’imminente fiume.

Ma Grosseto è città fluviale? Non certo in senso classico, come le grandi città italiane, Roma Firenze o Pisa: non è attraversata dal fiume. Ma in forma simile a Grosseto altre città sono lambite da fiumi, basti pensare ai casi di Casale Monferrato sorta accanto al Po, a Cuneo nata vicino ai fiumi Stura e sul Gesso, a Vicenza, lambita dal Bacchiglione, al caso toscano di Prato sorta a sfiorare il Bisenzio. Una possibile pista di analisi conoscitiva potrebbe nascere dalla comparazione delle realtà storico- geografiche simili, valutando analogie e differenze per meglio comprenderne gli equilibri passati e le prospettive future.

Uno spunto importante, poi, su cui concertare una riflessione è la storia delle alluvioni in Maremma nella documentazione e nella letteratura: se poco si sa delle alluvioni in età altomedievale è facile intuirne la presenza nelle caratteristiche legate alla struttura urbana di Grosseto, come si è detto sviluppatasi su piccole alture nei pressi del corso del fiume, ma anche nella mancanza di locali ipogei e di cantine. Documentate sono invece le alluvioni nel basso Medioevo soprattutto nel 1318 (G. Venerosi Pesciolini, Mura e casseri di Grosseto nell’Evo Medio, Siena 1925) e la grande alluvione del 1333 descritta nella Cronica di Giovanni Villani, libro undecimo:

“negli anni di Cristo 1333, il dì di calen novembre, […] onde quel dì della Tussanti cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti […] dovunque ha fiumi o fossati in Toscana e in Romagna crebbero in modo che tutti i loro fiumi ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume Tevero e copersono le loro pianure d’intorno con grandissimo dammaggio del contado del Borgo a San Sepolcro e di Castello, di Perugia, di Todi d’Orbivieto e di Roma; e ‘l contado di Siena e d’Arezzo e la Maremma gravò molto.”

Alluvioni imponenti, quasi un flagello divino, un preludio dell’apocalisse tanto che il fiume Ombrone cambiò il suo corso e si allontanò dalla città di oltre un chilometro e mezzo: il toponimo Fiume morto a designare un ampio territorio che va dalla Porta Vecchia della città di Grosseto all’attuale argine in fondo a Via de’ Barberi, ne è la testimonianza più evidente. Il toponimo è altresì attestato sin dal 1258 nei pressi di Istia-San Martino, segno evidente che il fiume tendeva a variare il suo corso con andamento progressivo (G Prisco, Atlante storico topografico)

In Età moderna si segnalano man mano che ci avviciniamo al presente, moltissime alluvioni: la documentazione si fa più ricca e più indagata risulta la storia più vicina a noi. Ci basti ricordare le disastrose alluvioni del 1557 del 1758 e del 1813. Epoche difficili segnate da guerre, crisi, carestie. La prima ha una probabile connessione con il conflitto Franco-Spagnolo in cui è inserita la guerra di Siena, che tanto coinvolse da vicino le sorti della Maremma, consegnata, con tutta la Repubblica di Siena, come premio al nascente stato regionale dei Medici; la seconda è al culmine di quello stato di prostrazione demografica ed economica che ispirò a Sallustio Bandini il Discorso su la Maremma di Siena (scritto probabilmente nel 1737); la terza da mettere probabilmente in relazione con le guerre napoleoniche che avevano insanguinato tutta l’Europa. Epoche in cui, dunque, il patto col fiume viene meno? Difficile dimostrarlo con certezza. Sappiamo solo che alla fine dell’età moderna si inizia veramente in maniera seria e strutturata a pensare di intervenire per mettere finalmente a regime le acque maremmane: è del 1815 un bellissimo progetto di sistemazione dell’argine mediceo dell’Ombrone onde scongiurare il pericolo dell’alluvione per la città (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio de’Fossi 609). Di lì a poco iniziarono i grandi lavori che trasformarono in maniera radicale e irreversibile in senso moderno l’ambiente intorno alla città, con il Motuproprio di Leopoldo II di Lorena del 27 novembre 1828, che dispose l’inizio della bonifica e l’avvio dell’opera di colmata prospettata da Vittorio Fossombroni, deviando all’altezza dell’attuale Steccaia il corso del fiume e dirottando le sue acque torbide all’interno della piana di Grosseto e del Padule di Castiglione.

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Purtroppo, però, malgrado le maggiori attenzioni e l’immane lavoro svolto, i documenti ci parlano di continue tracimazioni delle acque dell’Ombrone: il 28 dicembre del 1821, nel settembre del 1848, il 30 novembre 1864, il 4 e 5 ottobre 1868, nel novembre e dicembre del 1869, nel 1874, il 7 agosto del 1880, il 7 novembre 1896. Si moltiplicano documenti e notizie, le stime dei danni, le parole delle popolazioni colpite soprattutto nelle abitazioni, nei lavori agricoli, nella morte del bestiame.

Singolare è poi un progetto di una chiusa mobile a Porta Vecchia di ferro fuso per contenere le piene del 1868 (Archivio di Stato di Grosseto, Comune X 98) di cui ancora leggiamo all’interno dell’arco di Porta Vecchia la scanalatura in cui era inserito il meccanismo, proprio accanto al bastione che riporta le iscrizioni lapidee dei livelli delle piene: un vero e proprio luogo della memoria delle ultime alluvioni storiche della città.

Tra queste, l’alluvione del 2 novembre del 1944 è ancora tutta da studiare e da riscoprire. La città liberata da pochi mesi dall’Esercito alleato, ancora dolente per le profonde ferite inferte al tessuto urbano e sociale dai bombardamenti e dalla guerra, stava lottando per tornare ad una difficile e precaria normalità, quando, secondo le testimonianze dei vecchi grossetani, le sirene d’allarme antiaereo suonarono di nuovo, stavolta annunciando un flagello diverso più antico e familiare, ma non meno inquietante. Scarseggiano i documenti e le immagini, si tratta di una storia tutta da ricostruire. Ci vengono in aiuto importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio dell’Isgrec nel fondo del CPLN di Grosseto. A ridosso dell’alluvione, il 9 novembre, si riunisce il Comitato provinciale di Liberazione nazionale per discutere i numerosi problemi di una città che sta ancora in bilico tra la guerra e la pace, tra istanze di democrazia, di ritorno ad un’agognata normalità, e il desiderio di giustizia per le violenze subite. Trova spazio al n.5 dell’ordine del giorno, la voce “aiuti pro sinistrati dell’inondazione del 2 corrente mese” che sviluppa l’idea di creare una commissione formata dai rappresentanti dei sei partiti che formano il CLN unitamente al tenente Rush per la distribuzione degli aiuti. Viene poi stesa una circolare da inviare ai maggiori proprietari della zona per sollecitare donazioni di danaro per i sinistrati.

Fa seguito un nutrito fascicolo di documenti, costituito, tra le altre cose, da una lista di proprietari e persone abbienti di Grosseto, dalle lettere di risposta di alcuni di questi con la comunicazione della cifra donata. Si tratta di uno spiraglio per restituire alla città una memoria che rischia di andare perduta, imprescindibile anello di una catena che ci conduce al presente dando un senso diverso anche all’alluvione di cinquant’anni fa.

In ultima analisi, ciò che ci suggerisce questo breve excursus è l’impellente necessità di conoscere, di studiare il passato per mantenere in futuro un sano equilibrio tra gli uomini ed il loro ambiente che può trasformarsi in qualcosa di temibile e minaccioso se l’avidità, l’immediato interesse la sconsiderata ricerca di profitto prevarranno a oscurare la natura insieme difficile e gentile della Maremma: “L’ Ombrone affitta ma non vende”, dicevano un tempo i vecchi grossetani, gli stessi che per San Lorenzo, patrono della città, giocavano la Giostra del Saracino in via dei Barberi fino ai primi del Novecento. (La Nazione, 10 agosto 1980, Roberto Ferretti). Era una gara tra la città degli uomini e la natura che la accoglieva, sotto gli occhi benevolmente ironici del Santo con la graticola.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.