Il solstizio delle stragi. Bucine, Giugno 1944.

San Pancrazio
“Si vide per l’ultima volta il babbo che ci guardò in silenzio…”. Quanti strati di ricordo si snodano pensando a eventi tragici che hanno lasciato tracce profonde, insieme a veloci dimenticanze. Quella frase è parte della testimonianza di Romano Moretti, nato nel 1932, che all’epoca aveva 12 anni e che con la mamma cercava di andare via da San Pancrazio, per raggiungere case solidali nella campagna aperta. Il babbo di Romano di lì a poco sarebbe stato trucidato con un colpo di pistola alla nuca. Si chiamava Renato Moretti, 33 anni, di professione operaio. Era il 29 giugno del 1944. Un giorno indimenticabile per chi visse le stragi di Civitella e di San Pancrazio nei due comuni di Bucine e di Civitella della Chiana. E anche per me che feci in quei luoghi, nel 1944, a 50 anni dalla strage, una ricerca sul campo e dove conobbi i portatori del ricordo, i testimoni di quelle giornate di fuoco e di sangue. Mi resi conto allora che il 29 giugno del 1944 io avevo due anni e vivevo altrove, sfollato con la famiglia in un paese della Sardegna centrale. Questi pochi dati mi hanno fatto sentire in colpa per il privilegio di essere così lontano ma, allo stesso tempo, anche così vicino perché i giorni di quelle stragi sono anche i giorni del mio compleanno che cade il 27 e del mio onomastico che cade il 29.

La testimonianza di Romano Moretti su suo padre è a pagina 236 del suo libro Il giorno di San Pietro. L’eccidio di San Pancrazio (le memorie e la storia). Il bambino dodicenne, divenuto orfano, segnato per sempre dalla strage, si è fatto storico ed ha dedicato la sua vita, tra maturità e pensione, a raccogliere testimonianze e documenti. Il libro ha come esergo: A mio padre e ai suoi compagni. Sul libro che io posseggo è scritto a mano: Al Prof. Pietro Clemente con la mia stima Romano Moretti. Il libro è uscito nel 2005 e lui me lo donò in occasione di un incontro a San Pancrazio per una iniziativa di Porto Franco e dell’Istituto Ernesto De Martino. In quella occasione fummo ospitati proprio nel palazzo dove la strage era avvenuta. Dove ora c’è un museo. Essere in quello spazio mi toccò molto. Gli spazi, secondo me, restano abitati dai ricordi anche se per lo più si fa come se non fossero altro che muri. Penso ora anche a quegli ospedali psichiatrici dove non è rimasta traccia di memoria delle vite consumate al loro interno.

Incontrai una prima volta Romano Moretti tra Civitella e San Pancrazio per la nostra ricerca del 1994. La ricerca era diretta dallo storico Leonardo Paggi e comprendeva un ampio gruppo di studenti e laureati antropologi di Arezzo (docente Carla Bianco), di Roma (docente Pietro Clemente) e un piccolo gruppo di Siena dove avevo insegnato fino al 1990. La ricerca storica era fortemente rappresentata dal coordinatore Leonardo Paggi e da Giovanni Contini, storico orale, responsabile del settore fonti orali nella Soprintendenza archivistica per la Toscana. Giovanni fu il primo a pubblicare un’opera d’insieme che ebbe grande rilievo e aprì forti discussioni sul tema che era anche il titolo del suo libro La memoria divisa. Per quanto riguarda la ricerca antropologica, insieme ai miei allievi dell’Università di Roma, venne prodotto un dossier rimasto purtroppo inedito. Il ricordo di Civitella fece, in un certo senso, ombra alla strage di San Pancrazio, e fu Civitella ad essere al centro del grande convegno internazionale In Memory al quale anche io avevo lavorato. Il titolo del mio intervento al convegno era Ritorno dall’apocalisse. Un testo molto ‘emozionato’ scaturito dall’esperienza fatta nella raccolta di testimonianze e nell’esperienza di incontro con i sopravvissuti. Un testo che oggi paragono con la fase di uscita dal lockdown dopo la pandemia. In un certo senso oggi è come se fossimo usciti dall’incubo di una strage insensata, che ha colpito esseri umani quasi a caso. Rappresentata dalla visione di camion militari che portano bare anonime per essere cremate. Non per caso, quando ho letto che la pandemia aveva colpito una RSA di Bucine, ho pensato alle stragi. Ma ho anche pensato a quanto è prezioso trasmettere la memoria, e a quanto abbiamo perso della memoria degli anziani nelle stragi delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane.

Di recente Gad Lerner e Laura Gnocchi, con il volume Noi partigiani. Memoriale della resistenza italiana (Feltrinelli 2020) hanno reso evidente la forza di trasmissione e di formazione propria della memoria degli anziani. Anche quando una singola memoria si è logorata e schematizzata, la polifonia è sempre straordinariamente efficace ed ha un forte valore conoscitivo che passa per la narrazione. È un modo diverso di produrre storia. Tutti i 50 testimoni del volume di Lerner e Gnocchi hanno quasi un secolo, età assai gradita al coronavirus, ma ancora ci insegnano, anche per la straordinaria disparità di storie, che la narrazione dell’esperienza è forse l’aspetto più capace di comunicare e dar senso alla pluralità delle resistenze in Italia.

Una storia civile
Di recente ho letto, con grande dispiacere, nella pagina web del Comune di Bucine della morte di Romano Moretti.
“Bucine 11 marzo 2019, è morto nei giorni scorsi Romano Moretti, lo storico che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle stragi… aveva appena terminato il libro sulle stragi di Cornia e di Civitella, libro che uscirà postumo a cura delle amministrazioni comunali di Bucine e di Civitella. I funerali si sono svolti a San Pancrazio alla presenza dei due sindaci che “hanno ricordato entrambi l’opera di Moretti, come testimonianza di una memoria storica che non può essere cancellata ma va tramandata alle generazioni future”.

Una vita per la memoria. Ma anche una paziente presenza nella comunità, dove Moretti tornava da Firenze a fine settimana o d’estate. Discutemmo a lungo con lui dei problemi della memoria antipartigiana che emergevano soprattutto a Civitella. A noi non fu facile mediare le idee generali sulla Resistenza con le scelte di memoria e di lutto che la comunità di Civitella aveva fatto. Ma l’incontro, l’affratellamento, l’accoglienza delle loro memorie, la comprensione furono le esperienze più importanti del nostro stage, e ci condussero alla condivisone del lutto e della storia di quella comunità. Così potemmo capire il loro disagio, il modo di orientare il loro cordoglio nella critica dei partigiani, mentre non si metteva mai in discussione la Resistenza in quanto tale.

Moretti aveva una idea della storia come completezza dei dati e il suo sforzo fu quello di restituire la voce a tutti i protagonisti, e nel libro su San Pancrazio ha raccolto 139 voci di testimoni. Lo ha fatto con pazienza, tenacia e riserbo, tanto che è solo nel suo libro che io ho conosciuto Moretti bambino che, con la mamma, si allontanava dai luoghi della strage poco prima che suo padre fosse assassinato.

In quegli anni avevo teorizzato che tutti i comuni aprissero uno sportello nell’ambito dei servizi alla persona, dedicato all’ascolto e alla registrazione dei racconti delle persone. Lo avevo chiamato ‘la-storia-a-memoria’. Era l’idea di una connessione profonda tra storia della vita quotidiana delle persone e senso della civitas sia locale che planetaria. Una storia civile. Come quelle che ha prodotto Moretti. Mi sono incontrato spesso con gli studiosi locali, qualche volta sono stato critico verso un sapere prodotto per lo più da passione o con metodi non aggiornati, ma la gran parte delle volte ho imparato da loro. Così è stato con Moretti. Uno degli strati della memoria di cui dicevo all’inizio: ricordare Moretti come caso esemplare di storia civica locale, ricordare che Moretti ricordò la memoria delle stragi più atroci dell’aretino. Ricordare i ricordi, ricordarsi di ricordare.

La Fattoria del Pierangeli
Il Comune di Bucine ha 13 frazioni, quella di San Pancrazio (m.511 s.l.m.) oggi ha 177 abitanti. Lo spazio della comunità è descritto dettagliatamente da tutte le fonti orali sulle stragi: un borgo immerso nella campagna, che aveva al centro la Fattoria del Pierangeli, centro anche di vita economica del sistema di mezzadria, bracciantato e piccola proprietà contadina. Per le vicende della guerra e della Resistenza il Comune di Bucine è medaglia d’oro al valore civile:

“Strenuamente impegnato nella lotta di liberazione, sopportava stoicamente, con il sacrificio di tutti i cittadini, crudeli rappresaglie del nemico invasore; offriva alla causa della Patria la vita di molti suoi figli migliori, mantenendo intatta la fede nei supremi valori di libertà”.

Apro il volumetto, stampato a ciclostile, dai miei alunni romani nel 1994. Erano sette giovani, di cui sei donne che lavorarono su San Pancrazio. Altri studenti invece lavorarono su Civitella. Di quasi tutti ho traccia e memoria. La neolaureata che coordinò il gruppo San Pancrazio era Emanuela Rossi che ora insegna Antropologia culturale all’Università di Firenze.

Ecco un altro nodo della memoria: memoria della ricerca, dell’Università, delle vite e delle storie dei ‘miei’ studenti, che ho spesso ritrovato su Facebook, cercando di sentirli ancora parte di una comunità di studi che era anche incontro umano. Organizzarono per temi le loro ‘fonti orali’: L’evento, Vita nei borri, Giudizi sui partigiani, Il tempo successivo, La commemorazione, Come si viveva allora.

Moretti nel suo libro ha organizzato i fatti per ‘soggetti’ e ‘sequenze’. Noi cercavamo memorie ampie, rappresentazioni e racconti. Discutemmo a lungo sulla gente che viveva nei borri, negli spazi nascosti ricavati nel bosco, con scavi e capanne, dove piovevano obici alleati e proiettili della difesa tedesca. Nei borri erano le donne a gestire la comunità provvisoria, dominata dalla paura e dalla fame. Discutemmo allora del ‘tedesco buono’ che compariva in vari racconti e che è poi diventato quasi una delle ‘figure’ della narrazione della guerra vista dalle popolazioni. Un punto di incontro tra il dato di fatto che diversi tedeschi sul fronte non condividevano la guerra e avevano impulsi umani opposti agli ordini dei loro capi, ma anche il desiderio di lasciare speranza sulla umanità delle persone anche nelle situazioni più terribili. Fecero una buona ricerca i miei allievi. Riguardo i cognomi di coloro che intervistarono. Sono gli stessi (un po’ di meno) delle testimonianze raccolte da Moretti. Ma sono soprattutto cognomi che ripetono la dolorosa lista dei morti: 56 tutti maschi a San Pancrazio secondo Moretti. In gran parte contadini proprietari, in minor misura mezzadri. Sono 67, tutti maschi (perché comprendono anche luoghi vicini) i morti nella “List of the people killed at San Pancrazio” fatta dagli inglesi in una rapida ed efficace istruttoria dei fatti. Questa ultima fonte arrivò fresca fresca dalla ricerca negli archivi del Regno Unito proprio nel 1994. I nomi hanno come centro simbolico il sacerdote Don Giuseppe Torelli, che si offrì al posto degli altri, ma che ottenne soltanto di essere ucciso per primo.

“At San Pancrazio seventy men were rounded up and herded into a room of the Fattoria. Between this room and a second room was a narrow passage. One by one the men were taken from one room to the other, questioned as to their knowledge of Partisans, and those failing to give information were shot dead in the second room by pistol fire. All except seven were shot”.

Il rapporto firmato dal capitano N.E. Middleton ricostruisce anche i nomi dei comandanti responsabili di quella operazione pianificata e coordinata che colpì tanti piccoli centri e i due poli di Civitella centro e di San Pancrazio. Erano tutti appartenenti alle Herman Goering Divisionen.

Le testimonianze raccolte dagli inglesi sono state le memorie di fondazione che furono poi all’origine di quelle che raccogliemmo noi e di quelle che raccolse Moretti. A distanza di 50 anni, trovammo testi molto simili.

È una esperienza intensa il trovarmi ancora, a pochi giorni da un nuovo 29 giugno, che segna anche i miei 78 anni, tra le carte dell’esercito inglese, le voci raccolte dai miei alunni, e la voce di Romano Moretti con il suo piccolo monumento alla memoria e alla storia civile. Rileggo le testimonianze dei miei alunni e sento che sono proprio diventate racconti. Quante volte saranno stati ripetuti, ai nipoti, agli estranei, dopo la prima lunga fase del dolore chiuso e tacito. Hanno assunto il ritmo delle leggende e delle fiabe. Fatti narrabili. Sono diventate tradizione, ma è, facendosi tradizione, che il racconto accede alla trasmissione, e così alle nuove generazioni. Sono le domande meno legate ai singoli avvenimenti a produrre risposte più aperte: com’era la vita, come si mangiava, dove si trovava il cibo, soprattutto i racconti vivacissimi della vita nei ‘borri’ o ‘borrate’ sotto capanne (i ‘capanni’), trincee scavate, nascondigli per cibi e persone. Il paese dei sopravvissuti alla strage era sfollato lì, a pochi chilometri, avendo avuto anche le case incendiate dai tedeschi. Raccontano le contese per il cibo, gli egoismi, le solidarietà. Diamo l’ultima parola a Maria Assunta B., una testimone nata in loco nel 1914 (le temporalità delle generazioni si distendono e si intrecciano: questa testimone aveva 30 anni quando Moretti ne aveva 12 e io ne avevo 2).

Ha raccontato:

“C’erano tanti campi allora c’era tanta roba c’erano patate c’erano fagioli. Noi s’andava pe’ campi a prendelli. Pe’ fare il pane s’era fatto una bella buca nel bosco poi una lastra grande così. Ci si faceva fuoco dentro co’ la legna. Si faceva bollire questa lastra e poi si faceva pe’ quando si fa la farinata. Poi si metteva questo lastrone e veniva un po’ di pagnotta. E si campava, si mangiava fagioli patate, un pochino di pane per uno. Ma si era egoisti sa? Si si perché s’aveva tutti paura di morì di fame, qualcuno avea qualcosina un po’ di prosciutto un po’ di salame. Io non l‘avevo. Avevano un po’ di roba un po’ di ova”.

san pancrazio museo




CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.




Il mondo a metà e la storia contadina del Novecento

Negli anni ’70 la mezzadria era al centro dei dibattiti storiografici. In specie la ‘mezzadria classica toscana’ che lungo l’Ottocento aveva fatto discutere, tra granducato e nuova nazione, economisti e politici, liberali e protezionisti. Qualcuno aveva teorizzato di esportarla in Sicilia. L’origine si faceva risalire al XII secolo. Ai primi del Novecento questo contratto-relazione sociale che appariva statico ebbe dei momenti di forte dinamismo sindacale: lo sciopero di Chianciano del 1902 è rimasto esemplare. Nacquero delle Leghe contadine. Il fascismo le sciolse, ma cercò di valorizzare il contratto parziario (il prodotto metà al padrone e metà al contadino) come una sorta di alleanza tra contadini e proprietari. Scintille covavano sotto la cenere, ma gran parte del mondo rurale arrivò alla guerra senza particolari iniziative sociali. La guerra e il passaggio del fronte di podere in podere, l’organizzazione della Resistenza nelle zone di mezzadria più povera della montagna, la diserzione quasi generale dei giovani verso la leva repubblichina fecero entrare i mezzadri nella scena della storia, del sindacalismo e della politica.

Il dopoguerra fu animato da straordinarie lotte sociali, finalizzate soprattutto alla modifica della quota del riparto per passare dalla metà a un rapporto più favorevole al contadino. Vi furono importanti successi, ma la complessità dello scenario del nuovo sviluppo industriale spinse il padronato a non investire sulla terra e i mezzadri a non mettersi in proprio. E fu anche un momento di grandi discussioni interne alla sinistra politica dalla quale molti si sentirono abbandonati, in particolare i mezzadri.

Negli anni’70 era ancora vivo un forte dibattito sulle scelte del Partito Comunista in agricoltura, sulle responsabilità dei singoli leaders, sulla scelta di privilegiare la classe operaia urbana sacrificando i contadini, mentre allo stesso tempo prendeva piede il dibattito storiografico impegnato anche sugli aspetti sociali ed economici. Storici e storici dell’economia e poi anche antropologi culturali diedero vita a studi, discussioni, progetti museografici, raccolte di memorie, libri. Il dibattito riguardava la comprensione della natura sociale della mezzadria, di questo complesso ‘mondo a metà’ che permetteva comunque autonomie e saperi contadini rilevanti. Ci si chiedeva se essa configurasse nel tempo una specie di proletariato rurale sottoposto a una sorta di governo capitalistico autoritario, o se fosse un residuo feudale che frenava le forze produttive di una imprenditorialità contadina forte e vivace. Negli anni ’70  (che coincidono  anche con gli anni dei miei studi di sardo venuto a Siena,  sorpreso e appassionato dalla memoria del mondo contadino, così diverso e particolare)  i miei riferimenti storici furono Giorgio Giorgetti e Carlo Pazzagli,  colleghi all’Università di Siena, ma in uno scenario in cui gli studi di Giorgio Mori, Mario Mirri, Sergio Anselmi, Carlo Poni tra Toscana, Marche, Emilia,  furono importanti e in cui il gruppo degli antropologi senesi con quelli dell’Università di Perugia diedero uno contributo rilevante (Tullio Seppilli, Piergiorgio Solinas, Pietro Clemente). Del 1976 era il film di Bernardo Bertolucci Novecento dedicato alla mezzadria, mentre del 1978 era il film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.  Sta di fatto che tra gli anni ’60 e ‘80 del Novecento questa gigantesca quota di forza lavoro contadina dell’Italia centrale si disgregò in un processo di abbandono a corto raggio che vide il popolo contadino accedere al terziario, alla impresa commerciale familiare, ma anche all’industria. In alcune zone gli ex contadini costruirono aziende produttive e furono uno dei nuclei forti della ‘terza Italia’ che ebbe successi importanti negli ultimi decenni del Novecento. Sul mondo contadino inabissatosi con i suoi straordinari saperi pratici calò il silenzio.

Solo negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 quel mondo riemerse nella memoria di figli e nipoti che prima se ne erano vergognati, accettando la sconfitta e la vergogna dei padri e dei nonni. Già dagli anni ’80 la memoria contadina fu documentata in musei nati in varie parti dell’Italia centrale e con diversi protagonisti. A Siena il Museo della Mezzadria senese del Novecento (Buonconvento) aprì nei primi anni 2000, ma era stato oggetto di collezionismo locale e di studi universitari già dagli anni ’70.  Resta a tutt’oggi forse il più professionale dei musei del settore (Gianfranco Molteni). Nel 1975 era nato il Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio (Bologna) che per molti anni fu rappresentativo di una museografia progettata e insieme partecipata dagli ex contadini del territorio.  Verso gli anni ’80 ebbe riconoscimento in Emilia un museo assai particolare, una sorta di grande installazione creativa sugli oggetti della vita e del lavoro contadino inventata da un ex contadino, Ettore Guatelli. In quegli anni la scoperta del mondo contadino, dei suoi riti, delle sue regole, delle sue politiche della terra, della sua saggezza e subalternità fu importante per una generazione di studiosi che non lo avevano visto attivo, ma che contribuirono a farlo vivere nella memoria e nell’immaginazione del territorio toscano. Il voto comunista nelle aree della mezzadria fu oggetto di riflessioni e considerazioni, e ancora lo è per la crisi della lunga fedeltà che i contadini delle lotte concessero al PCI e alla CGIL

L’economista Giacomo Becattini fu il principale teorico del ruolo della mezzadria come forma originale di plasmazione del territorio, creatrice di saperi locali di lungo periodo e di una formidabile e storica ‘coscienza di luogo’ (Alberto Magnaghi) alla quale è ancora possibile rifarsi per tornare a guardare alla possibilità di un futuro delle aree interne abbandonate e delle campagne.

Negli anni 10 del 2000 il Consiglio regionale della Toscana promosse una iniziativa di valorizzazione della mezzadria. Una deputata del PD fu prima firmataria di una legge per la istituzione della Giornata nazionale in memoria della mezzadria. Venne promosso, anche se con grandi difficoltà, l’Anno dei mezzadri, col patrocinio della Regione Toscana, ma senza investimenti finanziari, coordinato dall’associazione IDAST in dialogo con gli antropologi delle Università toscane e il Museo di Buonconvento. Poi di nuovo il silenzio.

Bibliografia

Giacomo Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, 2015, con la collaborazione di Alberto Magnaghi.
Pietro Clemente, Luciano Li Causi, Fabio Mugnaini, a cura di, Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, Annali Istituto Cervi, n.9, 1987.
Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna: rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, Einaudi, 1974.
Gianfranco Molteni, Buonconvento. Museo della mezzadria senese, Silvana – Fondazione Musei Senesi, 2008.
Carlo Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800. tecniche di produzione e rapporti mezzadrili, Olschki, 1973.

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




Nel 10 di febbraio del 2020

È il sedicesimo anno di una data del calendario civile italiano, il 10 febbraio, non facile, come nulla è facile, nella costruzione della coscienza storica e civile, anche in presenza di leggi che fissano i giorni dell’obbligo di ricordare; rimane “passato che non passa” quello di cui non c’è solida conoscenza storica.

In Toscana si raccoglie l’eredità di un lungo e fertile impegno per la conoscenza e la disseminazione di sapere storico e la creazione di opportunità educative, partito già nel primo anno di istituzione del Giorno del Ricordo. Si sono susseguiti progetti importanti, che hanno incrociato le scelte culturali dell’ISGREC e della rete regionale di Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea con la volontà della Regione Toscana di applicare questa ed altre leggi nazionali o europee di memoria con interventi non occasionali.

La storia del confine alto-adriatico di cui parla la legge istitutiva del Giorno del ricordo era già stata scritta, non in piccola parte, ma non era ancora compiutamente patrimonio collettivo, prima del 2004. Se ne erano assunti il compito per primi storici appartenenti o originari dell’area giuliana. Sono lontane le opere di Ernesto Sestan, o gli studi di Teodoro Sala, per citarne alcune. È vero che nell’ultimo quindicennio si è fatta lunga la lista di opere pubblicate. Né era poca la memorialistica, specchio di sofferenze vissute dai sopravvissuti alle violenze degli anni della guerra o alle precedenti, di quando erano slavi e antifascisti ad esserne vittime.

Un piccolo libro, autore lo storico Guido Crainz, aggiunse nel 2005 uno strumento prezioso, per sua ammissione destinato a offrire proprio agli insegnanti un impianto concettuale alla difficile storia del confine “laboratorio della storia del Novecento”, italiana ed europea. Fu un contributo di metodo e merito, utilissimo a dare una dimensione europea alle storie di confine, dove le guerre del Novecento hanno lasciato ferite di violenze e, nell’Europa centrale, determinato spostamenti epocali di popolazione, milioni di profughi. Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa1 costituì un breviario per molti insegnanti di storia. È una storia che guarda di qua e di là dalla linea del “confine mobile”, fino all’ultimo, definitivo tratto di penna sulla carta geografica, tirato nel 1975 dalle diplomazie italiane ed europee. Queste parlavano un linguaggio diverso da quello delle memorie della gente di confine, che racconta storie di sofferenze e di abbandoni, di spaesamenti vissuti altrove, nell’esilio. Sono stati spesso i poeti e gli scrittori a dare voce ai loro sentimenti. Anche qui potremmo comporre una lunga lista, da toscani richiamare alla memoria il legame storico fra Trieste e Firenze, alleanze fra intellettuali, che sono state evocate in opere importanti. Allo straniamento di una lunga incertezza sul futuro, che per tanti precedette il dolore dell’abbandono e dell’esilio, dava forma poetica – solo un esempio scelto fra tanti – Giani Stuparich, nel 1948:

Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia, quando i potenti del mondo giocavano col ostro piccolo destino. Speranze e delusioni si alternavano, si passava dall’esasperazione all’abbattimento, dall’abbattimento alla rivolta. I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, o guardando da ogni parte, se non fosse per sopraggiungere qualche sorpresa che li scotesse, o li annientasse per sempre. I fuggiaschi di Pola e dell’Istria sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie.2

Una gran parte di quelle masserizie è ancora ammassata nelle stanze di Padriciano, uno dei centri profughi triestini. Una delle guide di Padriciano raccontò agli studenti toscani nel viaggio di studio del 2018 il senso dello sguardo sbigottito, che ci mostrò, nella foto di una donna che stringeva una sedia, fuori dall’edificio del campo. D’improvviso aveva riconosciuto qualcosa che le apparteneva, visitando quel luogo, e dopo aver urlato: “La mia sedia!” , l’aveva afferrata, stretta come per paura di perderla di nuovo e portata via.3

copertinaQuando alla progressiva crescita di conoscenza della storiografia si aggiunse la somma fra le suggestioni della letteratura, la scoperta delle testimonianze di gente comune, l’esperienza dei luoghi, per il lavoro dell’ISGREC e di altri istituti toscani, iniziò la stagione della produzione di strumenti utili non a coprire un vuoto, ma a farsi carico della scarsità di risorse per la scuola. In pochi anni: un primo viaggio di studio, un libro di strumenti didattici, una mostra e il primo fra i documentari4. Vale la pena di ricordare – lo abbiamo fatto poche settimane fa con Raoul Pupo – un convegno grossetano che risale al 1996 (Guerre civili nell’Europa del Novecento, i cui atti furono pubblicati a cura di due insegnanti5). Nel tempo a Grosseto è nata la curiosità per una storia che ci riguardava: quanto e come la storia di quell’esilio aveva toccato la comunità grossetana?

Così ha avuto inizio l’esplorazione di archivi locali e nazionali di Laura Benedettelli, insegnante-ricercatrice, che prima e più di altri frequentò letture importanti, appassionandosi in particolare alla scrittura femminile: Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori…

Le carte dell’Ufficio affari di confine, a Roma, quelle dell’Archivio di Stato e della Prefettura, a Grosseto, la ricognizione sulla stampa locale andarono per anni di pari passo con lo studio. Non è stata impresa facile per la complessità che ognuno riconosce alle vicende del Novecento giuliano-dalmata e istriano. Abbiamo imparato da subito che era un terreno complicato, a ogni passo con il rischio di malintesi e contestazioni. È accaduto e accade, ora più che mai, con le ombre del Novecento, di cui sono una rappresentazione gli accadimenti affrontati dalla ricerca di Laura Benedettelli, impossibile da racchiudere nei limiti degli anni della seconda guerra mondiale.

Sono stati trovati numeri e nomi dei profughi arrivati a Grosseto, spesso dopo viaggi in più tappe, tra cui i campi profughi disseminati in tutto il territorio nazionale. Ogni storia personale e familiare ha similitudini e singolarità, rivelate dalle interviste. La ricerca ha riportato alla luce i dibattiti, sorti nelle sedi istituzionali e testimoniati dalle cronache della stampa locale. Fino alla definitiva accoglienza, alla costruzione del “palazzo dei profughi”, dove molti trovarono infine casa.

La prima edizione è stata un e-book6, che oggi si è deciso di stampare, anche se le risorse disponibili hanno consentito solo un piccolo numero di copie. Allegati all’e-book erano documenti sulla storia generale, dai trattati alle norme di legge, alle circolari applicative emanate nel corso degli anni, che rimangono consultabili on line, nel sito web dell’ISGREC Questi dati sono utili a comprendere il contesto di questo frammento di una storia che ha messo l’Italia, in analogia con il più vasto contesto europeo, di fronte a scelte politiche. I popoli, e dunque gli individui coinvolti, sono stati messi di fronte a scelte personali. Le guerre del Novecento hanno prodotto, anche se in forme diverse, il fenomeno della profuganza, dell’esilio, della migrazione, volontaria o forzata.

esodo pola

L’esodo da Pola, 1947

È una lezione per ogni tempo, anche se per i nuovi profughi del XXI secolo il distacco dalla patria ha una fenomenologia diversa e più estesa, da quando il mondo è diventato di fatto globale e le distanze si sono accorciate. Nella “letteratura di confine” del Novecento, che abbiamo letto insieme agli studenti, il viaggio sembra il sostrato di ogni vicenda narrata, in una accezione non certo turistica. Come ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris7, dove si parla di spaesamenti per chi si allontana dal proprio luogo e anche di ritorni. Per lo scrittore triestino, che ha dedicato gran parte della sua scrittura al tempo della guerra e alle sue conseguenze, al tema del viaggio corrisponde l’idea di frontiera. Magris evoca, richiamando i ricordi della sua infanzia, il paesaggio che gli era stato familiare, guardato dal Carso. Quello stesso paesaggio era diventato la “Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due”, dietro alla quale c’era “…l’ignoto…il mondo dell’est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato”8  Col tempo, altri mutamenti hanno dato altri significati agli stessi luoghi, portando alla scoperta che si è sempre sia di qua che di là dalle frontiere.

Non è stato facile decifrare fino in fondo i ricordi degli esuli ascoltati da Laura Benedettelli, capire se hanno percepito la comunità grossetana come estranea e sentito una frontiera fra loro e “gli altri”. Gli atti concreti sembrano configurare una comunità accogliente, anche se non è scontato che non ci fosse traccia di indifferenza o diffidenza. Le nuove, attuali migrazioni hanno origini e motivazioni inedite, ma hanno una similitudine con quelle degli esuli istriano-fiumano-dalmati, perché esito di viaggi analogamente tortuosi, di attraversamenti di frontiere.

Fra i caratteri originali della Maremma c’è il suo essere terra di migrazioni, di inserimento nel lunghissimo periodo di nuclei di popolazioni, che sono state indispensabili e l’hanno resa migliore. Grosseto è diventata città solo grazie a migrazioni dalle provenienze più diverse; qui si ha la consapevolezza di avere origini “oscure”. Pensando a questo dato storico, probabilmente quell’accoglienza, dal secondo dopoguerra in poi, è stata reale.

Perché conviene ricostruire un itinerario noto, più volte documentato in queste stesse pagine? Ce lo suggerisce quel che era sperato e non è avvenuto: la presa d’atto di una uscita dal silenzio della storia del “confine difficile”, della disseminazione di sapere e coscienza critica nella scuola, di un impegno finalizzato a sottrarre a diatribe politiche vicende complesse e dolorose. Il 2020 sembra essere l’annus horribilis per i tentativi di annullare l’eredità di tanto lavoro. Il presente è fotografato da lapidi in memoria di crimini razzisti imbrattate, dalle stolpersteine (le pietre d’inciampo con cui l’artista tedesco Gunter Demnig sta riportando a casa, almeno con la memoria, i deportati europei nei lager nazisti) deturpate. I segni di antisemitismo crescono con un razzismo a tutto campo. Episodi di discriminazione e rifiuto, fino alle aggressioni fisiche ai diversi, per colore della pelle, culture e credo religioso sono quasi quotidiani.

In questo clima, il racconto del dolore delle vittime delle foibe o di altre forme di violenze e di perdite – l’abbandono di luoghi della propria vita e la profuganza, che vecchie e nuove memorie testimoniano, è scagliato come un proiettile, in un dibattito pubblico che ha come protagonista la politica. Rischia di entrare in crisi il dialogo avviato da tempo fra popoli e Stati del confine – Italia, Croazia e Slovenia – se si spingono le memorie personali verso il rancore. Quanto alla memoria collettiva, è ancora in corso la faticosa elaborazione del lutto per le vicende del confine alto-Adriatico, dopo troppo lunghi silenzi. Silenzi erano seguiti anche alla persecuzioni di ebrei e alla deportazione politica, da poco si sta recuperando quella degli internati militari italiani nei campi del III Reich. La legge istitutiva della Giornata della memoria precede solo di quattro anni la fissazione del 10 febbraio per ricordare foibe ed esodo.

esodo 2

Profughi si imbarcano a Pola, 1947

Le memorie, individuali e collettive, sono situate nel tempo, del mutare del clima sociale e politico. Sono verità mutevoli, fonti accanto ad altre. Ora che l’era del testimone sta finendo, a maggior ragione dovrebbe prevalere la voce della storia, lo sguardo al passato con il filtro di domande, che servono a superare il semplice racconto con la spiegazione. È devastante, rispetto al bisogno di verità storica, la confusione fra eventi e fenomeni diversi, la frammentazione di racconti che rimangono inspiegabili cronache, se rifiutano la stratificazione dei tempi lunghi e brevi, dei diversi livelli di responsabilità individuali e collettive. Non è per sminuire le violenze di confine, opera dei partigiani titini, che si pretende di interpretare foibe ed esodo nel tempo lungo del Novecento, o di fare luce sulle responsabilità italiane per le violenze taciute dei Balcani, o ricordare che non furono solo gli italiani ad essere infoibati.

Da un esule, Predrag Matvejevich, riceviamo una lezione di cogente attualità, seppure tratta da uno scritto datato 2005, all’indomani del primo giorno del ricordo:

…esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono9.

Quello scritto metteva in guardia da strumentalizzazioni e storie monche, generatrici di rivendicazioni rancorose, se fondate su fissazioni identitarie di tipo nazionalista e rigide ideologizzazioni. Se ne comprende meglio il senso pensando alla sua storia di vita. Padre ucraino, madre croata, eredità linguistiche plurime, che lo spingono a un destino di cosmopolita, a lui congeniale, ma duro da sostenere, “peccato originale” che, dice “non sarebbe piaciuto né ai nazionalisti né ai comunisti [e] ha avvelenato la [sua] infanzia”, fin quando ha scelto l’esilio10.

Scrive Walter Barberis a proposito della Shoàh che “l’abuso della memoria non è meno dannoso del cattivo uso della storia”11. Non è l’oblio la soluzione, ma l’uso critico delle memorie, un ripensamento alla luce del tempo presente degli appuntamenti con il passato, nei giorni stabiliti per legge. Il rumore di orazioni pubbliche celebrative, spesso retoriche, se non strumentali, non dovrebbe coprire i discorsi della storia, che procedono con lentezza e a voce più bassa.

Se sarà così, scrive in questi giorni lo storico Luca Bravi, non tutto sarà perduto.

____________________

NOTE:

1 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. Le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

2 G Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Grazanti, Milano 1948, cit. ivi, p. 78-79.

3 L’episodio è avvenuto a Padriciano, nel febbraio 2018, durante il viaggio di studio degli studenti toscani. È stato il primo dei due progetti educativi promossi dalla Regione Toscana (Storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento) ed attuati grazie agli Istituti storici toscani sopra citati, giunti come impegno sistematico, dopo numerosi progetti minori, sostenuti fin dal 2007. Il prossimo 11 febbraio partiranno nuovi studenti, accompagnati da nuovi insegnanti, resi esperti da una formazione intensiva sulla storia del confine nel Novecento, con la summer school di Rispescia (Grosseto, agosto 2019).

4 Al primo documentario del 2010 – La nostra storia e la storia degli altri – , è seguito La conoscenza scaccia la paura, ambedue produzione Regione Toscana-ISGREC, regia di Luigi Zannetti.

5 C. Albana, P. Carmignani (a cura di), Guerre civili nell’Europa del Novecento, Editrice Il mio amico, Roccastrada (GR), 1999. Contiene il saggio di Raoul Pupo: Guerra civile e conflitto etnico: italiani, croati e sloveni.

6 In www.isgrec.it

7 C. Magris, L’infinito viaggiare, Grazanti, Milano 2005.

8 Ivi, p. XIII.

9 P. Matvejevic, in “Novi list”, 14 febbraio 2005 (traduzione di L. Zanoni per “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”) in https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-i-crimini-che-le-hanno-precedute

10 P. Matvejevic, Mondo “ex”. Confessioni, identità, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 1996, p. 24.

11 W. Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Letteratura e lavoro di cura

Mentre seguivo la ricerca promossa dall’Istoreco sulle badanti nella provincia di Livorno e finanziata dallo Spi-Cgil e terminata con un bel volume pubblicato con l’Ediesse[1], mi sono volontariamente imbattuta in tre romanzi, fortemente autobiografici che mi hanno suggerito riflessioni e suggestioni assai significative. Si tratta di opere apparentemente molto lontane l’una dall’altra, scritte da donne di età diversa e anche di nazionalità diversa, ma che in qualche modo cercano, attraverso la scrittura, di elaborare un pensiero che riesca a mettere ordine nel loro difficile rapporto, in due casi con le altre donne che entrano nelle loro case per prendersi cura di loro stesse, o dei loro genitori, e in un caso, quella della scrittrice più giovane, la statunitense Stephanie Land, a dare senso al lavoro durissimo, di pulizie, nelle case degli altri, per riuscire a sopravvivere con la piccola figlia alla situazione di indigenza nella quale era precipitata[2].

Ma proviamo a procedere libro per libro, ovviamente in maniera molto sintetica e anche approssimativa perché non si tratta qui di proporre nessuna analisi testuale, né tanto meno una lettura critica comparata. Il mio intervento parte dalla constatazione della grande capacità ermeneutica che traspare dalla scrittura letteraria che può divenire, uno strumento in più, una lente in più, da accostare alla lettura storica o sociologica che i nostri istituti sono in grado di mettere in atto. In qualche modo, il mio, è un invito ad uno sguardo multidisciplinare.

1Infatti mentre Sandra Burchi e Caterina Satta stavano costruendo i loro due saggi sul lavoro delle badanti, questi romanzi sul mio tavolo mi hanno consentito di apprezzare di più i risultati delle stesse sociologhe e mi hanno suggerito alcune riflessioni che qui provo a proporre. Sia nel primo romanzo, che noi lettori sappiamo fortemente autobiografico, della grande scrittrice ungherese, Magda Szabò[3], così come in quello della nostra autrice e giornalista Tutti Marrone, siamo di fronte ad un rapporto fortemente conflittuale, le cui radici stanno nella ammissione, ob torto collo, della loro assoluta necessità di un aiuto domestico per dedicare, nel primo caso, le energie alla ricerca e alla scrittura creativa, nel secondo caso per non vedere sconvolta completamente la propria esistenza dalla malattia della madre. Eppure in entrambi i casi questa scelta di ricorrere ad un’altra donna per portare avanti le incombenze quotidiane, risulta pesante e anche disadattante. É come se agisse nelle scrittrici e anche in noi donne che ci troviamo immerse nella lettura, una specie di abito mentale ancestrale che ci vorrebbe all’altezza di far fronte a tutto. Come se quella necessità segnasse anche il confine delle nostre capacità. O, meglio, mettesse a nudo i nostri limiti. Come se quell’aiuto ci ricordasse che non riusciamo ad “essere all’altezza” dei nostri compiti, perché accudire il padre e la madre è una forma di rispetto antichissimo che ci coinvolge anche se non credenti. Non riusciamo a osservare uno dei comandamenti: “onora il padre e la madre”.

Nel primo caso, quello di Szabò, il marito della protagonista, anche lui scrittore, si chiude nel suo spazio e non si lascia coinvolgere, o così perlomeno sembra, dalla presenza di questa estranea. La casa è più pulita, il cibo è migliorato, la moglie meno stanca fisicamente. Ma la donna in questione che si occupa dentro il quartiere dove la coppia abita anche di tenere pulite altre case, che lavora con una resistenza disumana, costringe tutti i suoi interlocutori ad un rapporto che non può essere quello di una routine anonima. Emerenc, così si chiama, entra nella loro vita, occupa un territorio e lo gestisce di testa sua e il datore di lavoro si trova così costretto a non essere solo il soggetto neutro che elargisce una paga a fine lavoro. Quel rapporto comporta una continua rinegoziazione, la costruzione di una trama che non è indolore, né insignificante. In questo caso il libro è qualcosa di più di un libro sul rapporto fra una signora borghese e istruita finalmente giunta alla notorietà e una donna delle pulizie. Nel testo entrano avvenimenti lontani e recenti di un paese, l’Ungheria, con un passato difficile e complesso, un percorso di storie che si dipanano nella loro unicità e che generano anche molte difficoltà per riconoscersi. Di sicuro il romanzo è un romanzo dalla scrittura finissima che impropriamente, in questa occasione, sto utilizzando al suo livello più basso.

E poi abbiamo il racconto molto autobiografico di Titti Marrone[4]. Il contesto qui è più familiare. Siamo in Italia, siamo a Napoli. La nostra protagonista è una donna impegnata, di sinistra, un intellettuale che quando si trova a gestire l’improvvisa malattia della madre ricorre quasi subito ad un aiuto esterno. La donna che assume, una giovane donna moldava è una signora che – si scoprirà avanti nel testo – è laureata e parla benissimo l’italiano ma finge di non saperlo per adattarsi alle aspettative della sua committente. Il libro procede con i capitoli contrapposti, dove il soggetto che parla è ora la badante, ora la signora italiana. Questa modalità di procedere che risulta anche un po’ spiazzante è estremamente utile per entrare nelle letture capovolte che le due protagoniste danno degli stessi episodi. La scrittrice-autrice entra quasi subito in conflitto con la signora dell’est che gestisce sua madre e in automatico anche suo padre, perché è lei che ci vive insieme. Occupa degli spazi anche affettivi con i due vecchi genitori, spazi che vengono avvertiti sia come liberazione che come usurpazione e innescano sensi di colpa. La nostra intellettuale è come se cominciasse a rimproverarsi della sua impotenza ad occuparsi della vecchia madre, ad aver trasferito questo compito su una estranea, e per di più straniera. Questo nucleo duro con il quale tutte le donne fanno i conti, quello che ti comanda di pensare ai tuoi cari, questo “dover essere” che giace dentro la nostra cultura della famiglia e dalla quale non è facile uscire, bussa alla porta. Non basta la consapevolezza che il quadro di riferimento è cambiato; che la vecchia famiglia patriarcale è scomparsa, che viviamo in piccoli appartamenti dove non ci possiamo inserire nessun estraneo, che le nostre abitudini lavorative, relazionali, affettive sono cambiate.

2È come se anche in noi, donne europee emancipate, parlasse una voce sotterranea quella che, nel mio percorso mi giunse tramite una donna originaria del Marocco la quale, in un incontro al Centro Donna di Pisa, disse che dopo poco che era approdata in Spagna prima, e poi in Italia, era rimasta sconcertata dal fatto che noi, inteso come ”noi europei”, affidassimo i nostri vecchi alle badanti. Da loro, raccontava, sarebbe stato impensabile.[5]

E credo non sia assolutamente casuale che quelle parole mi ritornino alla mente mentre sto scrivendo queste pagine. Tutte le nostre acquisizioni non bastano a sedare un sottile ma onnipresente senso di colpa. Questo sembrano raccontare insieme a tante altre cose, questi romanzi, in gran parte autobiografici.

Il romanzo di Land, invece vede la prospettiva del lavoro di cura dalla parte opposta, dalla parte di colei che è costretta per necessità, in un’America divenuta un paese per soli ricchi, a pulire i cessi per dare qualcosa da mangiare ad uua figlia piccola nella quasi totale assenza di strutture di welfare. Per le famiglie per le quali lavora, spedita attraverso una agenzia oggi da una parte e domani da un’altra, lei e il suo lavoro sembrano non esistere. É come se il suo corpo, la sua fatica, diventassero trasparenti. La propria condizione non interessa a nessuno. Del resto l’incipit del libro lascia poche illusioni: “Mia figlia imparò a camminare in un rifugio per senzatetto.”.[6] Così come lascia poche speranze sulla condizione del vuoto contemporaneo che la maggior parte degli abitanti delle case dove lei si reca a pulire, cercano di riempire con oggetti e con corse allo shopping. Sempre nel suo testo troviamo:

Molte volte mi ci voleva un’ora solo per guadagnare i soldi che spendevo in carburante per arrivare al primo lavoro della giornata. Invece i miei clienti lavoravano fino a tardi per comprarsi auto di lusso, barche, divani, che tenevano coperti con un lenzuolo.[7]

In Italia affidiamo i nostri anziani e ci affidiamo per le cure domestiche, anche al di fuori dei ceti alto borghesi, ad aiuti esterni, da diversi decenni. Questo atteggiamento ci ha messo in contatto con un universo quasi per intero femminile, che proviene soprattutto, ma non solo, dai cosiddetti paesi dell’est. Come raccontano sia Tiziano Distefano[8] con la sua indagine statistica che Sandra Burchi nel suo intervento[9] e Caterina Satta[10], con un approccio sociologico, e come in parte era stato messo in luce anche in un’altra ricerca che si concentrava sul territorio di Lucca di Liliana Da Ponte e Daniela Simi,[11] il rapporto con queste figure è un rapporto complesso e per niente lineare.

Scrive S. Burchi:

Trovare un punto di equilibrio fa parte del lavoro stesso e si gioca nello spazio di tensione e negoziazione che le lavoratrici riescono ad aprire con i datori (più spesso le datrici) di lavoro. In queste vite domestiche globalizzate, le differenze culturali si annullano e la maggior parte dei casi sono prese in carico dalle lavoratrici, che si preoccupano di imparare una lingua, di adeguarsi alle abitudini dei loro assistiti, di assumere i codici, anche della cura, che il contesto si aspetta da loro.[12]

Ma trovare un punto di equilibrio costa fatica e dolore e quando alcune di loro vengono intervistate, come scrive C. Satta:

… sembrano accettare con rassegnazione il loro lavoro di badanti come se fosse un destino contro il quale si può fare poco. Non si arrabbiano, al massimo si commuovono e fanno dei sospiri molto lunghi che dicono più di tante parole. Poi ti guardano di traverso per coprire leggermente gli occhi lucidi e dicono “è andata così”.[13]

Vi si scontrano differenze di atteggiamenti, di culture dell’abitare e dell’alimentazione, di sensibilità verso gli anziani che non sono né peggiori, né migliori ma sono diverse. Mentre il lavoro degli storici e dei sociologhi cerca un approccio neutro e scientifico al tema, l’approccio letterario ovviamente cala dentro la problematica tutta la soggettività della scrivente. Notare che i testi dei quali mi sono occupata sono tutte scritture femminili, sia quelli di finzione che quelli scientifici. Ma nella tradizione dei testi di invenzione potremo, volendo risalire molto indietro, a veri e propri capolavori del passato, tutte opere maschili. Non a caso.  Anche se un capolavoro, non possiamo rinviare, per questa nostra disamina, al rapporto tra Robinson e Venerdì,[14] inventato da Daniel Defoe la cui prima uscita si colloca nel lontano 1719, così come possiamo rinviare al racconto di Denis Diderot, Jacques le fataliste, comparso in Francia nel 1796. Possiamo anche ricordare come molti secoli dopo un autore francese, scomparso da poco, Michel Tournier provò a rovesciare l’ottica di Defoe con il suo, azzeccatissimo, Venerdì o il limbo del Pacifico[15].  Posso citare anche il caso, assai positivo della scrittura di Valerie Martin[16] che racconta del dottor Jekyll e di mister Hyde dalla prospettiva della sua cameriera. Una scrittura femminile che prova a destrutturare il punto di vista del capolavoro di Stevenson comparso nel 1886 a Londra. Posso concludere che mentre le scritture maschili stanno dentro una visione del mondo che si rapporta alla antica tematica: servo-padrone, che rinvia alle concettualizzazioni di Diderot e di Hegel, quelle femminili sono meno duali, le autrici dei testi sui quali ho cercato di soffermarmi, sono pienamente coinvolte nella trama, sono loro stesse parte della trama. Questo anche nel caso delle ricerche scientifiche perché l’angolo di lettura è sempre quello di una donna. E questo ci rinvia a prendere atto di contraddizioni che non si possono risolvere, di oscillazioni di punti di vista che stanno dentro la trama del vissuto di ciascuna di noi, perché la specificità della scrittura femminile e dello sguardo femminile costituisce, per fortuna, una differenza irriducibile.

[1] Il mondo in casa. Indagine sulle badanti in provincia di Livorno, (a cura di Catia Sonetti), Ediesse, Roma, 2019

[2] Stephanie Land, Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre, astoriaedizioni, Milano, 2019.

[3] Magda Szabò, La porta, Einaudi, Torino, 2016

[4] Titti Marrone, La donna capovolta, iacobellieditore, Roma, 2019

[5] Raccolsi questa testimonianza durante un corso sulle fonti orali che svolsi alla Casa della Donna di Pisa, nel marzo 1998.

[6] S. Land, Donna delle pulizie.., cit., p.3

[7] Ibidem, p 167.

[8] Tiziano Distefano, Il mondo in casa. Indagine sulle badanti in provincia di Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp. 19-52.

[9] Sandra Burchi, Vite domestiche globalizzate. Percorsi migratori, cura e lavoro nei racconti di alcune badanti a Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp. 53-129.

[10] Caterina Satta, Le lavoratrici domestiche e di cura migranti tra percorsi migratori, senso di casa e “capacità di aspirare”. Il caso di Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp.131-188.

[11] Liliana Da Ponte, Daniela Simi, “Il mio paese adesso sono due”. Storie di badanti, Ets, Pisa, 2017.

[12] S. Burchi, Vite domestiche.. cit., p. 57.

[13] C. Satta, Le lavoratrici domestiche.., cit. p. 157.

[14] Faccio riferimento all’edizione del 1992 di Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Garzanti, Milano, 1992.

[15] Michel Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, Einaudi, Torino, 2010.

[16] Valerie Martin, La governante del dottor Jekyll, Bompiani, Milano, 1990.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Per una storia del movimento politico cattolico livornese

Pierangelo Zari (1917-2006) ha avuto un ruolo importante nella storia del movimento politico cattolico livornese, ma non ha avuto certamente una posizione di primissimo piano. Lo troviamo tra il ristretto gruppo di livornesi che il 22 luglio 1944, tre giorni dopo la liberazione della città dal nazifascismo, diede vita alla prima sezione della Democrazia Cristiana livornese. Fu poi segretario amministrativo della DC livornese negli anni ’50, consigliere provinciale dal 1956 al 1960, assumendo un ruolo pubblico defilato, ma mosso da interessi variegati, che lo mise in contatto con tanti ambienti della cultura e del potere cattolico: lavorò per lunghi anni alla Cassa di Risparmi di Livorno, fu governatore dell’Arciconfraternita Misericordia, consigliere dell’Istituto Case Popolari, console del Touring Club italiano. Eppure, oggi possiamo dire che quella di Zari è una figura fondamentale per la storia della Democrazia Cristiana livornese, e in generale, per la storia della cultura cattolica a Livorno. Perché Zari nel corso della sua vita è stato una sorta di archivista autodidatta conservando tra le mura domestiche un patrimonio documentario molto interessante relativo non solo alla storia del partito democristiano e della cultura cattolica livornese, ma più in generale alla storia politica e sociale, locale e nazionale a partire dagli anni del fascismo.

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Le carte appartenute a Zari fanno luce in particolare sull’attività del partito democratico cristiano tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50: oltre alla corrispondenza con la sede centrale e con le varie sezioni zonali, tra i suoi documenti si trovano anche dettagliate relazioni sulla gestione economia del partito e dati e commenti relativi alle varie tornate elettorali. La famiglia Zari ha poi conservate carte riguardanti l’attività dell’associazionismo cattolico livornese degli anni ’30 e ’40 e degli anni del dopoguerra. Ma la passione di Zari per libri, giornali, riviste lo ha portato ad accumulare un patrimonio che va ben oltre il movimento cattolico: si va dalle pubblicazioni e riviste della propaganda fascista, relative all’attività politica, alla politica scolastica, ai costumi sociali, all’attività dell’Ovra, alla propaganda di guerra. Fino alla pubblicistica varia prodotta dalla Democrazia Cristiana (riviste, opuscoli, materiali di propaganda) e ad alcune collezioni di riviste locali molto rare come il settimanale diocesano livornese “La Domenica” di fine anni ’30.

Il patrimonio di Pierangelo Zari, grazie alla disponibilità della sua famiglia, è stato oggi raccolto e depositato presso l’Istoreco Livorno, come parte fondamentale di un fondo archivistico dedicato al movimento politico cattolico livornese costruito con la collaborazione dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Il progetto ideato dall’Istoreco e dall’Istituto Sturzo ha inteso rispondere ad una problematica di natura archivistica molto comune per quanto riguarda la storia della Democrazia Cristiana: come è accaduto in molte parti d’Italia, la fine non indolore della DC alla metà degli anni Novanta ha significato a Livorno e provincia una dispersione del suo patrimonio documentario: nessuno cioè si è preoccupato di salvaguardare l’archivio del comitato provinciale e comunale della DC di Livorno che dunque si è disperso in mille rivoli. Si è dunque provato a dar vita ad una operazione di “salvataggio” di carte e materiali che documentano la storia politica e culturale dei cattolici di Livorno attraverso una attività di indagine volta a scoprire se e dove questa documentazione potesse ancora trovarsi.

L'insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell'ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

L’insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell’ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

Ciò che ne è risultato è la costituzione di una sorta di archivio provinciale del movimento politico cattolico livornese, depositato all’Istoreco, strutturato come raccolta di tanti piccoli o grandi fondi privati. Si tratta di un progetto che, oltre ad esser parte integrante dell’articolata operazione varata dell’Istoreco sulla conservazione degli archivi politici, si inserisce all’interno di un progetto nazionale di lungo periodo che l’Istituto Sturzo ha dedicato agli archivi locali. Il progetto “Archivi locali in rete”, cominciato nel 2001, consiste nel recupero degli archivi delle organizzazioni periferiche della Dc (al momento sono stati recuperati 18 archivi di Comitati Provinciali e 5 archivi di Comitati regionali) e nella creazione di un sistema nazionale di informazione sulle fonti archivistiche relative alla storia della Democrazia Cristiana. La novità del progetto livornese sta nel fatto che si tratta del primo caso di costituzione di un archivio come raccolta di fondi privati. Un metodo che ha ricevuto anche l’appoggio della Soprintentenza Archivistica della Toscana che lo ha definito «meritevole del più ampio sostegno», sostenendo che «il tipo di intervento è […] scientificamente valido e ben disegnato, ed è probabilmente l’unico modo per arrivare ad un recupero il più possibile ampio di questa memoria storica».

Grazie a questa operazione oggi il fondo archivistico del movimento politico cattolico livornese conservato all’Istoreco ammonta a circa 200 buste, provenienti da 12 fondi distinti. Oltre alle carte Zari, sono in particolare da segnalare i documenti depositati da Enrico Dello Sbarba – che fu segretario della DC livornese alla metà degli anni ’70 e che ha avuto un ruolo essenziale nelle fasi iniziali di ideazione del progetto Istoreco-Sturzo – e il fondo della Sezione DC di Campiglia Marittima (Livorno). Quest’ultimo fondo, in particolare, si distingue, insieme alle carte Zari, per la consistenza e il valore della documentazione conservata: grazie ad una operazione di “salvataggio” particolarmente fortunata è stato infatti possibile recuperare buona parte dei materiali (tutti destinati al macero) che documentano l’attività della sezione campigliese della DC dal 1945 al 1994 e quella relativa all’attività del Partito Popolare e della Margherita (regolamenti, statuti comunali, verbali di sezione, protocolli di sezione, carteggi e manifesti).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.