Per una “casa della memoria al futuro” a Maiano Lavacchio

nella nostra vita di ogni giorno
Albert Camus, 1946

 

Quando, più o meno quindici anni fa, all’ISGREC fu portato un pacchetto con alcuni oggetti, fra cui una tessera forata dal proiettile che aveva ucciso Attilio Sforzi il 22 marzo 1944 – era inimmaginabile quel che oggi sta accadendo: la concreta prospettiva di un luogo di memoria a Maiano Lavacchio.

Attilio è uno degli undici “martiri d’Istia”, vittime di una strage di esclusiva responsabilità fascista. L’episodio, non l’unico o il più sanguinoso nel grossetano, nei nove mesi di sciagurata complicità nella “guerra ai civili” tra il fascismo repubblicano di Salò e l’alleato occupante (esercito e formazioni speciali della Germania hitleriana), creò un sentimento di rivolta nella popolazione locale, che andò oltre la condanna politica. Disumana l’esecuzione sommaria di pochi giovani pressoché disarmati, atroce lo strazio di genitori lasciati ad assistere a una morte insensata. Ne possediamo ricostruzioni e spiegazione storica1, ma è anche alla sensibilità di uno scrittore che conviene ricorrere per far “sentire” il clima di quei momenti:

saforzi_portoarmi Gli ultimi istanti volarono come un vento teso, assordante. Corrado ebbe appena il tempo di abbracciare il fratello Emanuele e baciarlo: caddero di schianto, l’uno sull’altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso a Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto: uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall’angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale. 2

L’evento è stato oggetto di commemorazioni annuali fin dal 1945, con una cerimonia nel tempo più partecipata e solenne, in un luogo che non ha mai cessato di trasformarsi. Dove avvenne l’esecuzione, è stata costruita una cappella. Poco distante, ai ragazzi è stato dedicato un sobrio monumento, dal 2016 affiancato da una targa con codice QR, che rinvia al sito www.cantieridellamemoria.it per la narrazione dell’evento. Accanto a questo, altri segni di memorie sono diffusi nell’area compresa fra la frazione di Istia d’Ombrone e il comune di Magliano. Un bassorilievo e una pietra d’inciampo ricordano le storie contigue di deportati politici, in località Campospillo, mentre fra Maiano Lavacchio e la frazione di Istia è possibile seguire il sentiero percorso dai carretti che trasportarono i corpi dei ragazzi verso la Chiesa di Istia, in violazione del divieto di celebrare funerali e dell’ordine di seppellire i ragazzi in una fossa comune. Fu il parroco, don Omero Mugnaini, a compiere un clamoroso gesto di rivolta. La risposta che gli si attribuisce, alle minacce delle autorità civili e militari italiane e tedesche: “Voi pensate ai vivi, ché ai morti ci penso io”, non rimase una frase: gli undici feretri furono accompagnati al cimitero da una folla, mentre ai lati della strada erano puntate sul corteo funebre le mitragliatrici.

La storia dei ragazzi provenienti da altri luoghi ebbe poi un seguito in quelli. A Cinigiano, i genitori di Alfiero Grazi adottarono il disertore tedesco (dodicesimo del gruppo sorpreso la notte tra 21 e 22 marzo nella capanna delle macchie di Montebottigli e fortunosamente sfuggito alla morte), che affrescò la cappella del cimitero di Cinigiano, dove fu definitivamente sepolto Alfiero. Quando il corpo di Antonio Brancati nel 1967 fu riportato a Ispica, lo accompagnò l’antifascista grossetano Francesco Chioccon3. La lettera ai genitori di questo ragazzo siciliano è una fra le tante pubblicate, dei condannati a morte della Resistenza italiana; analogamente pubblicata, anche se in un volume locale, l’orazione tenuta da Chioccon a Ispica.

È naturale che da una vicenda di tale forza emotiva subito siano nate canzoni in ottava rima, secondo una tradizione locale di musica popolare, ma anche dopo anni, in un continuum, fino ad oggi, la storia dei ragazzi uccisi abbia ispirato scrittori e autori di teatro4.

Hanno avuto una straordinaria capacità mitopoietica la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza (undici “agnelli” in un opuscolo commemorativo scritto a pochi mesi di distanza5), il gesto coraggioso del prete e dei grossetani che sfidarono le mitragliatrici, il racconto della crudeltà dei comportamenti dei fascisti. Nel cosiddetto processone per i crimini dei fascisti repubblicani, la corte d’Assise straordinaria dispose per i responsabili condanne severe, in nessun caso applicate interamente. Se nell’immediato dopoguerra il contesto della guerra civile lasciò che questa comparisse come una fra le tante storie di Resistenza, e i ragazzi, come nel rapporto del Capo della Provincia Ercolani, soggetti “politici”, la completa ricostruzione storica ha messo in luce la particolare complessità di questo, che è un episodio di “guerra ai civili”, ma con vittime che hanno fatto comunque una scelta netta, rifiutando l’arruolamento imposto dal bando Graziani nel costituendo esercito della RSI. Hanno disobbedito6, il loro gesto ha provocato altra disobbedienza, se immediatamente è nata la formazione partigiana della zona, cui ha aderito addirittura una donna testimone dello scempio. Il fine di pulizia del territorio delle politiche duramente repressive del fascismo repubblicano, a Grosseto gestite con il pugno di ferro dell’ex-ufficiale viterbese Alceo Ercolani, dopo il 22 marzo del ’44 sortì l’effetto opposto, allargando l’area del dissenso esplicito della popolazione locale, nelle campagne e in città.

Da qui è necessario prendere le mosse per leggere il passaggio dall’appena ventilata ipotesi di vendita a privati di un edificio-simbolo della strage, nel luogo dove fu consumata, all’attuale progetto di creazione di un luogo di memoria. Non appena il Comune di Magliano in Toscana espresse la necessità di intervenire su un edificio malridotto e inutilizzato, anche alienandolo, una risposta corale dal territorio fu così persuasiva da bloccare ogni intervento a rischio di “inquinamento”. L’edificio è la vecchia scuola elementare, che raccoglieva bambini dell’area rurale, costruito negli anni di urbanizzazione delle campagne maremmane, post-riforma agraria.

L'ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

L’ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

Il valore simbolico non appartiene allo spazio fisico – aula, casa del custode – ma alla sua capacità evocativa; fu nell’edificio del podere, nella stanza adibita ad aula della scuola all’epoca degli avvenimenti, che i ragazzi furono rinchiusi dopo l’arresto, la notte tra 21 e 22 marzo, e processati e condannati a morte. Sulla lavagna i due fratelli Matteini scrissero il messaggio “mamma Lele e Corrado un bacio,”. Quel frammento staccato dal rettangolo d’ardesia a quadretti bianchi e quelle parole tracciate col gesso bianco devono aver pesato come un macigno sulla coscienza di chi, concittadino colpevole o complice, l’ha vista riprodotta tante volte sulle pagine delle cronache locali nei dintorni delle commemorazioni annuali o se l’è trovata di fronte, entrando nella stanza del Sindaco di Grosseto, dove fu collocata nel 1976.

Così è partita una sfida: trasformare lo spazio fisico – la piccola scuola anni Sessanta – in un luogo di memoria. Operazione di per sé culturalmente complessa (come trovare una chiave per dare la giusta misura al rapporto tra significante e significato?), assai impegnativa in un tempo in cui nuovi e inediti contesti impongono un sovrappiù di riflessione sul rapporto con il passato e la storia. A queste si sono sovrapposte, sovrastandole, le difficoltà concrete: risorse, competenze, tempi… Lungi dall’essere questi ostacoli superati, il dato attuale è un percorso avviato e in atto.

 

MAIANO LAVACCHIO LUOGO DI MEMORIA VIVA

Come il pescatore di perle che arriva nel fondo del mare
non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per liberare
staccando dalla profondità le cose preziose e rare, perle e coralli,
e per riportarne frammenti alla superficie del giorno
nuove forme e formazioni cristallizzate, rese invulnerabili contro gli elementi,
sopravvivono e aspettano solo il pescatore di perle
che le riporti alla luce come “frammenti di pensiero”
H. Arendt, Il pescatore di perle

La svolta è arrivata dall’incontro con un architetto, Edoardo Milesi, non nuovo a interessi per temi analoghi – a suo tempo si era occupato del Memoriale italiano di Auschwitz. Da un fitto scambio di idee, sopralluoghi e infine confronti con il Comune ha preso forma l’idea di un luogo di memoria viva, che dal frammento di storia sottratto alla futura dimenticanza possa trarre pretesto per proporre una “partecipazione a esperienze culturali anche su altro”. Il fine: non rinnovare “epoche già consumate”, piuttosto, come il pescatore di perle che evoca la visione della storia di Walter Benjamin, produrre una cultura per il futuro.

area scuolinaScegliere un luogo, riempirlo di cose e simboli, stabilirne l’uso sono operazioni tutt’altro che facili: crocevia di saperi, intenzioni pubbliche, tradizioni e sensibilità individuali. Fuori da sovrapposizioni meccaniche e forzature, serve tenere ferma l’idea che non c’è una corrispondenza facile tra fatti, memorie, significati e valore storico. La partizione degli spazi che il progetto architettonico prevede è rappresentazione del carattere di memoria viva, non schiacciata su un evento, non prospettiva di museo da visitare solo per conoscere o provare emozioni, entro i limiti di un preciso e circoscritto contenuto storico. Il materiale che possediamo comprende i dati fattuali delle storie, le culture di cui portano tracce la fisicità dei luoghi, gli ambienti e persone che li abitano. Ma la scelta condivisa tra l’ISGREC, l’architetto e il Comune è stata quella di andare oltre i limiti di un rapporto esclusivo con il luogo in quanto teatro di un evento, oltre i rischi dell’uso autoreferenziale della memoria.

C’è una relazione sempre più urgente da proporre al nostro lavoro sulla memoria. Fenomeni che si consideravano irripetibili, valori acquisiti una volta per tutte rivelano invece una pericolosa precarietà. Gli anniversari recenti – la Grande Guerra e l’emanazione delle leggi razziali italiane – i prossimi – l’inizio della II guerra mondiale – sono materia viva: xenofobie, razzismi, fino a genocidi e stragi di civili hanno diverse geografie, ma sono tornati ad essere parte del tempo presente. Molte di quelle che sono state a lungo memorie europee condivise sono escluse dal calendario civile in ampie zone dell’est Europa. La pace si è trasformata in tregua armata, carica di tensioni crescenti. Così la cifra della memoria è la sua capacità di guardare al futuro.

L’idea forte, divenuta un vero progetto – tavole e calcoli metrici e preventivo dei costi – è stata quella di Spazi da abitare: le stanze della memoria dei Martiri d’Istia aperte, contenitori di esperienze da fare, che conservino e via via sedimentino tracce del rapido transito o di una più lunga permanenza di persone. Cucina, foresteria, porticato esterno.

Pochi e semplici arredi, una sezione didattica con strumenti essenziali per stages, visite didattiche , laboratori e seminari.

I primi ad abitare quel che potrà essere realizzato nel novembre 2018 saranno gli studenti e gli insegnanti europei dell’Erasmus+ Our memories and I7. Già una trentina di classi di scuole superiori stanno lavorando a monitorare identità personali, familiari, delle comunità di appartenenza, a testare con esperienze personali o di gruppo quel che rimane intorno a loro del passato comune, più o meno vicino a loro (nessuno è nato prima del 2000). Insieme ai loro insegnanti e a un artista8 hanno cominciato ad esplorare musei e memoriali, a sperimentarsi come autori di un’elaborazione del proprio vissuto personale e di gruppo (familiare, etnico…). Gli studenti francesi e spagnoli hanno trovato rispettivamente nel Mémorial di Rivesaltes e nel Museu Memorial de l’exili (MUME) di La Jonquera materia per leggere un passato di fuga di massa dalle violenze di una guerra civile. Spagnoli e brigatisti internazionali hanno lasciato tracce del loro passaggio attraverso i Pirenei; il Museu Memorial de l’exili è stato edificato 10 anni fa sulla frontiera9. Le storie personali di cui sono piene carte, fotografie, registrazioni presenti nel MUME in una settimana di lavori di gruppo sono state materiale di studio, riflessione e comparazione su altre, nuove frontiere, che altri popoli attraversano.

erasmusplus

Il gruppo dell’Erasmus+ nel campo di Rivesaltes

A Rivesaltes sono conservate storie analoghe e diverse. È un campo nato negli anni Trenta del Novecento, ma vi sono stati ristretti anche algerini negli anni Sessanta. Oggi è un modernissimo laboratorio, spazio per studi e progetti culturali. Si sono cimentati in gruppo sull’esperienza del Memoriale gli studenti dei paesi partner, in una babele di lingue e competenze storiche che ha prodotto corti-circuiti interessanti. L’ultima tappa dell’esperimento collettivo sarà Maiano Lavacchio, stavolta a guida grossetana. Servirà a misurare l’efficacia dell’idea progettuale con i destinatari privilegiati, giovani lontani dalle vicende da cui scaturisce la scelta dei luoghi.

Certo, lo spazio piccolo del nostro insediamento rurale non potrà somigliare a luoghi che sono stati oggetto di generosi investimenti pubblici. Del resto, la pur alta capacità rappresentativa della strage di marzo a Maiano Lavacchio non è comparabile alla enormità dei fatti cui rimandano La Jonquera e Rivesaltes: la marea umana che oltrepassò i Pirenei, le decine di migliaia di indesiderabili, gli antifascisti, gli ebrei che a Rivesaltes vissero l’anticipazione del lager, fino ai citati algerini10

Tuttavia, la comparazione tra vicende, il dialogo e il lavoro comune tra persone portatrici di esperienze e saperi diversi sono le condizioni che danno senso lavoro su storia-memoria.

Quelli attuali sono giorni cruciali per questo progetto. È stata appena ufficializzata l’acquisizione da parte dell’ISGREC della scuola, in forza di una convenzione che dà avvio alla ricerca di risorse finanziarie. Il 22 la commemorazione vedrà, come al solito, la presenza delle istituzioni e di cittadini. Ci saranno anche gli studenti del Liceo linguistico Rosmini, reduci dal primo viaggio dell’Erasmus e per i prossimi due anni impegnati in Our memories and I.

Nessun indizio materiale dà evidenza a queste novità, ma per la casa della memoria al futuro di Maiano Lavacchio il primo passo – l’uscita dal regno di utopia – è fatto; non era il più facile.

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Note:

1 Il primo tentativo di ricostruzione della vicenda è in M. Magnani, La strage di Istia d’Ombrone (22 marzo 1944), Il Grifone, Grosseto 1945. In molte pubblicazioni successive esistono riferimenti e qualche sintetica cronaca del fatto. È del 1995 un volume prezioso per le fonti che utilizza: C. Barontini, F. Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi”, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, ANPI, Grosseto. Una completa ricostruzione storica è in M. Grilli, Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, edizioni ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2014.

2 G. Gianni, Nell’ombra delle stelle, Il paese reale, Grosseto 1973.

3 L’orazione di Chioccon è riprodotta in N. Capitini Maccabruni, La Maremma contro il nazifascismo, Provincia di Grosseto, 1984, pp. 143-8.

4 Un primo spettacolo teatrale fu rapppresentato a Grosseto negli anni Sessanta. È Oltre il ponte, autore e regista Mario Sermoni. Recente è AG46, produzione NONE-ISGREC, rappresentato più volte nel 2006.

5 M. Magnani, cit.

6 Cfr. il capitolo La scelta, in C. Pavone, Una guerra civile. Storia della moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-62.

7 L’Erasmus+ Our memories and I ha avuto inizio nel settembre 2017 ed ha durata biennale. I paesi partner sono: Croazia, Francia, Germania, Italia, Spagna. I partner italiani: il liceo linguistico dell’Istituto Rosmini e l’ISGREC. Sedi dei partner stranieri: Split in Croaiza, Perpignan in Francia, Figueres in Spagna, Berlino in Germania.

8 Due gruppi di studenti – i francesi e gli spagnoli – hanno già prodotto manufatti esposti in mostre allestite nei due licei (Monturiol di Figueres e Pagnol di Perpignan). Le performances prodotte dai ragazzi stimolati da Rma Kroke

9 All’ingresso del MUME una targa con loghi grossetani e toscani ricorda il passaggio di antifascisti che dalla Toscana erano andati a combattere come volontari nella guerra di Spagna e da lì entrarono in campi di concentramento. Cfr. in questo sito il database Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. La storia dei campi è in E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini, ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2017.

10 Cfr. F. Bensaci-Lancou, Fille de harki. Éditions de l’atelier, s.d.. Fatima Bensaci racconta la storia quasi sconosciuta, in Francia forse rimossa, della minoranza algerina degli harkis, che furono internati dopo la guerra d’Algeria nel campo di Rivesaltes.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




“Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione”

Il salvataggio e la distruzione del patrimonio artistico pistoiese durante la seconda guerra mondiale sono i protagonisti di questa inedita e singolare ricerca a cura di Alessia Cecconi, storica dell’arte, direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica) della Valdibisenzio, e di Matteo Grasso, storico, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.

La ricerca delle vicende pistoiesi è confluita in una mostra svoltasi a Pistoia nel Chiostro di San Lorenzo, dall’8 al 20 settembre 2017, e in una pubblicazione edita nel novembre 2017 da Pacini Editore.

Dagli archivi storici della Soprintendenza fiorentina, dai numerosi archivi pistoiesi e dall’Archivio nazionale di Washington sono emersi documenti, registri, carteggi e minute che hanno permesso di ricostruire le vicissitudini accadute alle opere d’arte dei musei e degli edifici religiosi, la loro messa in sicurezza, le protezioni in muratura, i trasferimenti nelle ville di campagna e le distruzioni causate della guerra.

Tra le principali novità della ricerca c’è la ricostruzione, per la prima volta, del ruolo della villa di Pian di Collina a Santomato di proprietà Beretta. Nel 1942 la Soprintendenza individuò tra Firenze, Arezzo e Pistoia una ventina di nuovi rifugi per le opere d’arte in modo da proteggerle dalle offese aeree: tra queste la villa di Pian di Collina. Nell’estate 1943 le sale della villa videro arrivare il primo camion di opere con i dipinti, provenienti dagli Uffizi, di Filippo Lippi, Beato Angelico, Luca Signorelli, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Una ventina di capolavori ai quali si erano aggiunte altre casse ritirate dalla villa di Poggio a Caiano contenenti i sette capolavori medievali di Pistoia ricoverati nel 1940 alla Villa Medicea, fra cui il Crocifisso di Giovanni Pisano e l’imponente Crocifissione di Coppo e Salerno di Marcovaldo.

Ampio spazio è stato dedicato ai bombardamenti alleati su Pistoia, colpita pesantemente fra il 1943 e il 1944, a causa della presenza di vie di comunicazione e di numerosi obiettivi industriali e militari, che provocarono oltre centocinquanta vittime, distruzioni pesantissime e il completo sfollamento della città. Nel territorio della Diocesi dodici chiese furono rase al suolo, cinquantuno risultarono gravemente lesionate e sessantatré leggermente danneggiate.

Per la prima volta è stato fatto il punto su tutte le distruzioni del patrimonio monumentale pistoiese, una ferita profonda e da cui però partì un’opera di ricostruzione eccezionale. Nel centro storico fu distrutta la chiesa di San Giovanni Battista e buona parte del Conservatorio, con il suo immenso patrimonio, e furono seriamente danneggiate le chiese di San Domenico e di San Giovanni Fuorcivitas. Alcune bombe cadute sulle città rimasero inesplose, altrimenti oggi non potremmo ammirare in tutta la loro bellezza il palazzo del Tribunale, la chiesa di Sant’Andrea, i faldoni più preziosi dell’Archivio di Stato e il Medagliere Gelli.

Altra importante novità emersa nel corso della ricerca è la requisizione da parte dell’esercito tedesco di importanti opere artistiche fra cui le robbiane dell’ospedale del Ceppo e il quattrocentesco Stemma del Comune che erano state riposte dai funzionari della soprintendenza alla villa di Poggio a Caiano.  Vennero trasferite in Alto Adige insieme a migliaia di opere fra cui alcune sculture di Donatello e Michelangelo custodite nel Museo del Bargello. Furono recuperate nel luglio 1945 grazie al lavoro degli uomini della soprintendenza fiorentina e dei “monuments men”, la task force americana messa in campo per la protezione delle opere d’arte, con l’intervento di vari personaggi tra cui l’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa e monsignor Giovan Battista Montini, segretario di Stato del Vaticano e futuro papa Paolo VI.

Oltre settanta fotografie accompagnano la mostra e il libro. Provengono da collezioni private e dagli archivi fotografici delle Gallerie degli Uffizi, della Soprintendenza di Firenze Prato e Pistoia, dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, della Fondazione Conservatorio di San Giovanni Battista in Pistoia.

Fra le immagini inedite vi sono quelle del trasporto delle opere artistiche dal Palazzo Comunale, dei camion della Soprintendenza a Pistoia, della protezione al pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea, dei danneggiamenti in piazza della Sala con la semi distruzione del pozzo del Leoncino, della distruzione di San Giovanni Battista, delle rovine all’interno di San Giovanni Fuorcivitas, e la Visitazione di Luca della Robbia smembrata per essere portata in sicurezza.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




La guerra aerea in provincia di Lucca 1943-1945

Durante il secondo conflitto mondiale la guerra aerea giunse tardi in provincia di Lucca, concentrandosi prevalentemente tra il novembre del 1943 e il settembre dell’anno successivo. Solo nelle aree rimaste sotto controllo tedesco – alcune porzioni dell’Alta Versilia e della Garfagnana settentrionale – essa sarebbe proseguita fino alla primavera del 1945, quando le forze alleate sfondarono definitivamente la Linea Gotica, dilagando nella Pianura Padana e ponendo fine alla sanguinosa campagna d’Italia. La provincia era a lungo apparsa come un santuario, tanto che fin dal 1940 erano giunti numerosi profughi dalle aree bombardate della penisola, in cerca di una nuova, provvisoria sistemazione o di un luogo più sicuro in cui vivere. Questa illusoria immunità fu dovuta soprattutto al fatto che durante i primi anni di guerra la Lucchesia rimase al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri che decollavano dalla Gran Bretagna. Anche dopo l’ottobre del 1942, quando la strategia britannica virò verso quell’area bombing che veniva già impiegato sul Reich, la provincia continuò a rimanere al sicuro dagli attacchi aerei. In questa fase i bombardamenti non miravano più a bersagli puramente militari, quanto piuttosto al morale dei civili. I vertici della Royal Air Force ritenevano – correttamente – che le difese attive e passive delle città italiane fossero più labili rispetto a quelle tedesche, rendendo quindi la popolazione particolarmente vulnerabile. Lo scopo era quindi soprattutto politico e volto ad accelerare l’uscita italiana dal conflitto, minando, attraverso i bombardamenti, la già traballante fiducia che gli italiani nutrivano nei confronti del regime. In questo contesto la scarsità di obiettivi appetibili – fondamentalmente grandi centri abitati o importanti complessi industriali – giocò a favore della Lucchesia, che riuscì ad evitare anche le pesanti incursioni compiute a partire dall’estate del 1943 nell’ambito dell’Operazione “Pointblank”.
La provincia di Lucca non riuscì però a rimanere completamente estranea alla guerra aerea. A partire dall’autunno del 1943 il suo territorio era ormai nel raggio d’azione dei velivoli alleati ed era inevitabile che la sua rete stradale e ferroviaria venisse inclusa tra i bersagli da colpire. Fin dall’inizio della guerra, anche se a fasi alterne, le ferrovie e gli scali di smistamento erano infatti stati in cima alla lista degli obiettivi, per quanto ad essi fossero stati spesso privilegiati i centri cittadini, quelli industriali o le basi dei sommergibili tedeschi. Dopo almeno 65 allarmi aerei scattati tra settembre e ottobre, e un bombardiere pesante B-24 “Liberator” abbattuto sui cieli di Lucca il 1° ottobre, la prima incursione degna di nota fu compiuta sull’area ferroviaria di Viareggio la sera del 1 novembre 1943. La città era illuminata e la reazione antiaerea quasi nulla, quindi il bombardamento compiuto dai 19 bimotori inglesi Vickers “Wellington” risultò molto preciso. Il raid successivo del 30 dicembre, sempre sullo scalo viareggino, fu eseguito da bombardieri medi B-26 “Marauder” statunitensi ed ebbe conseguenze più tragiche. Il bersaglio non era ben visibile e molte bombe caddero sulle abitazioni adiacenti, causando 19 morti e 51 feriti: il bombardamento risultò così disperso che alcuni ordigni finirono a diversi chilometri di distanza, colpendo il territorio del comune di Massarosa.

8 gennaio 1944: bombe alleate sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

8 gennaio 1944: bombe alleate cadono sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

Il nuovo anno vide invece la stessa Lucca nel mirino delle forze aeree alleate, colpita dai B-26 durante il “bombardamento di Befana” del 6 gennaio e in quello di due giorni dopo. Gli obiettivi erano la stazione ferroviaria e le industrie del vicino quartiere di San Concordio, dove morirono almeno 24 persone, mentre altre decine rimasero ferite. Per molti lucchesi i due bombardamenti del gennaio del 1944 furono la prima esperienza diretta della guerra, nonostante il paese vi fosse impegnato da quasi quattro anni. Non stupisce quindi che quegli eventi si siano fissati nella memoria dei testimoni oculari, come Giovanni Bucci, che durante l’attacco si trovava in casa con il fratello più piccolo:

[…] subito una casa vicino a noi crollò con le macerie che ci sfiorarono. Ricordo cadere giù la macelleria di Fioravante Paoli, detto nel quartiere “Fiore”, che venne estratto dalle macerie e che ebbe problemi alle ginocchia per tutto il resto della sua vita […].

Nei mesi successivi fu soprattutto la Versilia ad essere presa di mira dai velivoli alleati, con Viareggio che da sola, tra gennaio e aprile, subì almeno 17 attacchi sull’area portuale e su quella ferroviaria. Particolarmente distruttivo si rivelò il bombardamento del 13 marzo, quando 27 B-26 colpirono un treno in sosta carico di passeggeri, causando 62 morti e 79 feriti.
L’aprile del 1944 vide l’inizio dell’Operazione “Strangle” (strangolamento), all’interno della quale sono state a volte erroneamente inserite le incursioni avvenute sulla Lucchesia nei mesi precedenti. “Strangle”, come il nome suggerisce, mirava all’interdizione delle vie di comunicazione del Centro e del Nord Italia, così da ostacolare i rifornimenti che giungevano alle forze tedesche in difesa della Linea Gustav, a sud di Roma. Anche se in provincia di Lucca la tipologia delle azioni non subì drastici cambiamenti, in quanto i velivoli alleati si erano sempre concentrati su questi obiettivi, gli attacchi iniziarono ad avere un respiro più ampio. In precedenza erano state soprattutto le stazioni e gli snodi a finire nel mirino, adesso tutta la rete viaria e ferroviaria divenne bersaglio delle incursioni, che in alcuni casi assunsero dimensioni considerevoli. È il caso del bombardamento del 12 maggio su Viareggio, una delle rare occasioni in cui i bombardieri pesanti B-24 della 15ª Air Force statunitense vennero impiegati sui cieli della Lucchesia. Furono sganciate circa 125 tonnellate di bombe, che colpirono lo scalo ferroviario, la linea Lucca-Viareggio e la zona portuale. Fu però nell’accanimento contro il ponte stradale e quello ferroviario di Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, che la Versilia sperimentò appieno l’operazione Strangle. A partire dal 18 maggio 1944 la piccola frazione subì quindici attacchi, che tuttavia fallirono nell’abbattere il doppio ponte sul fiume Versilia a causa delle usuali difficoltà di puntamento e delle dimensioni relativamente piccole dei bersagli. Danni più pesanti subirono invece l’abitato di Ponterosso e le frazioni limitrofe. Ironia della sorte, furono i tedeschi alla fine a far saltare i ponti per ostacolare l’avanzata alleata.

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

La differenza più marcata con i mesi invernali fu però l’impiego relativamente diffuso di piccoli gruppi di cacciabombardieri. La quasi totale assenza di aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale Italiana) permetteva l’utilizzo massiccio dei caccia alleati in missioni di attacco al suolo, armati con bombe e con le armi di bordo, per lo più mitragliatrici pesanti. Impiegati in modo flessibile e senza ordini troppo rigidi, ai piloti veniva data ampia discrezione sull’attacco di “bersagli occasionali” dopo aver portato a termine la missione principale. Queste rapide, spesso improvvise incursioni, causavano danni molto meno gravi rispetto a quelle dei bombardieri medi e pesanti, ma tenevano sotto costante pressione le truppe tedesche in movimento allo scoperto nelle ore diurne. Erano anche fonte di continua preoccupazione per la popolazione civile perché a volte era proprio quest’ultima a farne le spese, o come danno collaterale o per essere stata confusa con i tedeschi. Attacchi di questo tipo resero ogni luogo della Lucchesia potenzialmente a rischio, tanto che diversi territori rimasero del tutto al sicuro dai bombardamenti per essere però saltuariamente oggetto di incursioni da parte di questi agili velivoli. Un caso tipico in Versilia è quello del comune di Massarosa, dove esse causarono la morte di almeno dieci persone – tra le quali un soldato tedesco – e il ferimento di altre cinque. Gli attacchi aerei proseguirono per tutta l’estate fino a ridosso dell’arrivo delle forze alleate, che entro la fine del settembre del 1944 avevano respinto i tedeschi da quasi tutto il territorio provinciale.
Le aree più settentrionali dell’Alta Versilia e della Garfagnana, colpite anch’esse fin dall’estate, rimasero in mano tedesca, continuando di conseguenza ad essere martellate dagli aerei alleati, che miravano, oltre che alle solite vie di comunicazione, a depositi, magazzini e concentramenti di truppe. In una di queste azioni, compiuta su Castelnuovo Garfagnana il 13 febbraio 1945, alcuni cacciabombardieri, probabilmente nel tentativo di colpire una postazione di artiglieria tedesca, centrarono invece un rifugio antiaereo, provocando la morte di 30 persone. Si calcola che tra il luglio del 1944 e l’aprile dell’anno successivo la zona attorno al capoluogo garfagnino fu interessata da circa 70 incursioni. Altre colpirono il territorio del comune di Minucciano, mentre durante l’estate erano state prese di mira le aree di Camporgiano e Piazza al Serchio.
Da questa rapida carrellata è evidente la sproporzione con cui le bombe colpirono il suolo lucchese. Se nell’entroterra la Garfagnana soffrì considerevolmente, i comuni limitrofi a Lucca – su cui però abbiamo meno dati – furono meno interessati dall’offesa aerea. Nel caso specifico della Mediavalle del Serchio, la distribuzione degli attacchi seguì di fatto solo la linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio. La stessa Lucca, fatta eccezione dei già citati bombardamenti del 6 e 8 gennaio 1944, venne attaccata solo sporadicamente e, nelle settimane che precedettero e seguirono l’arrivo degli Alleati, fu danneggiata più dal fuoco dell’artiglieria che dalle bombe aeree. La fascia costiera della Versilia rimase nel centro del mirino a lungo e fu colpita duramente, ma anche nel suo caso la geografia delle incursioni è peculiare della diversa importanza data dagli Alleati a determinati obiettivi. Viareggio, con il suo porto e il suo scalo ferroviario che fungeva da collegamento con Pisa, dove nell’estate del 1944 il fronte rimase fermo per alcune settimane, fu colpita almeno 47 volte – 70 secondo altre fonti -, con la frequenza dei bombardamenti che aumentò a partire dal maggio del 1944. La città ebbe un bilancio finale di 125 morti, a cui si deve aggiungere un numero più alto di feriti. Anche la minuscola Ponterosso, per via del suo doppio ponte, fu interessata da quasi 20 attacchi. Viceversa, Massarosa e Camaiore, avendo infrastrutture meno importanti, subirono solo poche incursioni, anche se quest’ultima fu oggetto di due bombardamenti piuttosto pesanti il 22 e il 28 luglio 1944.

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta durante un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta da un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Si tratta comunque di numeri quasi insignificanti nel contesto generale della guerra aerea, soprattutto se raffrontati con quelli di altre aree della penisola, per non parlare del Nord Europa. Anche i bombardamenti più massicci – quelli di Lucca del gennaio 1944 e quelli di Viareggio – videro l’impiego di poche decine di velivoli e il costo complessivo in vite umane, per quanto tragico, fu tutto sommato contenuto. Tuttavia, per chi si trovò suo malgrado sotto le bombe, l’esperienza non era dissimile da quella di decine di migliaia di altre persone – civili e militari – che subirono attacchi aerei durante la guerra. Al senso di impotenza e di terrore provato durante le incursioni si sostituivano la disperazione e la rabbia una volta appurati i danni e fatta la conta dei morti e dei feriti. Così Silvio Basile ricorda il bombardamento di Camaiore del 22 luglio, uno dei pochissimi subiti dalla città:

Quei criminali avevano fatto strage di povere donne venute lì (nella piazza del mercato) da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall’annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato […].

A fianco di commenti come questo, del tutto comprensibili date le circostanze, vi sono ricordi sorprendentemente favorevoli nei confronti degli aviatori alleati. Così ricorda Giovanna Davini, che si trovò sotto le bombe a San Concordio il 6 gennaio 1944:

[…] La considerazione verso gli Alleati rimase immutata nonostante queste bombe del giorno di Befana. Il fascismo, almeno nella nostra famiglia, dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra, non godeva più di alcun consenso.

Del resto, lasciando in questa sede da parte le lunghe, spesso aspre, diatribe attorno al bombardamento strategico, nate già durante la guerra e proseguite fino ad oggi, da questa disamina appare chiaro come gli obiettivi presi di mira in Lucchesia dai velivoli alleati fossero completamente legittimi. Le azioni aeree mirarono quasi esclusivamente all’interdizione delle vie di comunicazione e, in misura minore, a colpire concentramenti di truppe. Inevitabilmente, a causa della cronica difficoltà nell’identificare i bersagli e dell’intrinseca imprecisione delle bombe e degli strumenti di puntamento dell’epoca, in molti casi a farne le spese fu anche la popolazione civile. Vittima, quest’ultima, di una guerra fortemente voluta dal regime fascista, gestita e combattuta malamente, che portò alla distruzione del paese e alla morte di quasi mezzo milione di italiani, almeno 70.000 dei quali caduti sotto le bombe sul suolo nazionale.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Strumenti antichi per nuovi fini

Tutti conosciamo Ferdinando Martini, giornalista, scrittore di teatro e soprattutto politico liberale, Ministro dell’Istruzione, delle Colonie e viceré d’Eritrea, le cui carte, acquistate e conservate dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e dalla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ci sono giunte fino a noi. Molto meno conosciuta è invece la moglie Giacinta Marescotti, una delle prime suffragiste italiane, il cui coinvolgimento nella battaglia per l’ampliamento del suffragio si coniugò a un altrettanto intenso impegno nella filantropia e nell’assistenza ai bambini con disabilità intellettiva: una figura radicalmente e fieramente autonoma dal marito ma di cui ben poca traccia ci è giunta perché nel 1928, con la morte di Ferdinando Martini, tutte le sue carte andarono distrutte.

Nata a Monsummano nel 1844 da una famiglia di nobiltà antica e consolidata, crebbe insieme ai fratelli minori Alessandro (morto a soli 18 anni) e Teresa. Nel 1866 sposò Ferdinando Martini, che dal padre Vincenzo aveva ereditato tanto il titolo nobiliare quanto le disastrate finanze familiari, vincendo anni di resistenze e preoccupazioni familiari. Nel 1872, al termine di alcuni anni di peregrinazioni (prima a Vercelli, poi a Pisa), la coppia – che aveva ormai due figli: Alessandro e Teresa – si trasferì a Roma, dove già viveva la sorella minore di Giacinta, andata nel frattempo in sposa al principe Ignazio Boncompagni Ludovisi.

Nel suo salotto di Palazzo Simonetti, Giacinta tessé relazioni con ambienti vicini all’Estrema (come allora erano chiamati i gruppi parlamentari ed extra-parlamentari vicini a radicali, repubblicani e socialisti), dando vita a un ambiente ben più radicale di quello di cui si circondò il marito, dal 1878 al 1918 deputato per la Sinistra storica. Nel turbinio dei personaggi convocati e abbandonati dalla vulcanica contessa, i più costanti e assidui furono il meridionalista Giustino Fortunato, il politico socialista Andrea Costa e Sibilla Aleramo.

Si dedicò, insieme alla sorella e all’amica Lavinia Taverna, a patrocinare l’infanzia abbandonata: in questa veste si avvicinò al medico e deputato Clodomiro Bonfigli, prossimo a fondare, nel 1898, la “Lega nazionale per la difesa del fanciullo deficiente”, la prima associazione specificatamente destinata alla tutela e all’educazione dei disabili intellettivi. Membro del consiglio direttivo della Lega, qui conobbe una giovane Maria Montessori, che nel 1899 raccomandò al Ministro Guido Baccelli perché ottenesse la cattedra di Pedagogia generale e speciale nella nuova Scuola magistrale ortofrenica – creata per formare i maestri dei bambini con disabilità intellettiva.

Sociabilità nobiliare e impegno nell’associazionismo benefico, se da un lato potevano configurarsi come un comportamento in linea con un ruolo femminile tradizionale e ampiamente consolidato, dall’altro lato consentirono alla Marescotti di collaudare e strutturare tutta quella rete di relazioni, interessi, contatti che seppe poi riutilizzare nella sua battaglia suffragista. In questo senso, gli strumenti antichi del salotto e della beneficienza trovarono ragione nei nuovi fini dell’emancipazionismo e della costruzione di un “partito femminile”, una formazione politica che riunisse tutte le donne in un’ottica interclassista e interpartitica. Le donne, infatti, tanto per Marescotti quanto per molte altre sue collaboratrici, erano viste come le uniche depositarie di valori – la compassione, l’attenzione verso i più deboli, l’interclassismo – che, con il loro ingresso in politica, avrebbero rinnovato la compagine sociale e nazionale. Questa fiducia quasi palingenetica nel contributo femminile motivò la continua mediazione della contessa monsummanese tra l’anima radical-socialista del femminismo e le correnti moderato-conservatrici, che trovavano il loro riferimento in Maria Pasolini e in Gabriella Spalletti Rasponi, presidente del CNDI (il Comitato Nazionale delle Donne Italiane).

Il coinvolgimento della Marescotti nell’associazionismo femminista, nazionale e internazionale, è documentabile già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando aveva ospitato a Palazzo Simonetti Emmeline Pankhurst, leader delle suffragiste inglesi. La discesa in campo fu però compiuta nel 1904, quando il parlamento decise di discutere il disegno di legge per il suffragio femminile presentato dal deputato dell’Estrema Sinistra Roberto Mirabelli. Nell’ottobre 1905 Marescotti fondò a Roma il Comitato pro-suffragio, che in breve tempo, attraverso il collegamento con la sezione lombarda, attecchì in tutte le principali città italiane. Solito riunirsi nei locali di Palazzo Simonetti, il comitato presentò nel febbraio 1907 al Parlamento una Petizione (già depositatavi nel marzo 1906) per richiedere il diritto di voto alle donne che sapessero leggere e scrivere. Frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le anime più radicali e quelle più moderato-conservatrici del movimento, la petizione sembrava concretizzare la possibilità di un “partito femminista”.

L’allestimento, durante il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane (tenutosi a Roma dal 23 al 28 aprile 1908), di una sessione plenaria sul suffragio femminile, sembrava confermare il rilievo assunto dall’organizzazione e dalla sua presidente, che, nonostante i problemi di salute (i non meglio precisati “mali di petto” che la condussero alla morte il 9 marzo 1912), riuscì a presiedere la seduta. Tuttavia, il tentativo di mediazione della Marescotti e la fiducia nelle istituzioni erano destinati a infrangersi: il primo, sugli scogli delle differenti visioni politiche, sociali e culturali dell’eterogeneo movimento femminista, che, sempre durante i lavori della conferenza romana, si divise durante le discussioni sull’emendamento Malnati per la laicità della scuola elementare; il secondo, nel maggio 1912, poco dopo la morte della contessa, quando la Commissione parlamentare incaricata di studiare l’allargamento alle donne del voto politico diede alla questione un parere negativo.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea, con una tesi sull’istruzione professionale nell’Italia liberale, nel 2015, presso l’Università di Firenze. Ha lavorato alla biblioteca del Consiglio dell’Unione Europea e attualmente insegna a Pescia. Dal 2013 è membro del Consiglio direttivo dell’I.S.R.Pt. Con il Comune di Monsummano e l’ISL Montecatini Monsummano ha curato una mostra documentaria su Italia Donati e Giacinta Marescotti, di cui sta per uscire il catalogo. Tra le ultime pubblicazioni: Da “conquista sociale” a “selezione innaturale”: le illusioni perdute delle classi differenziali in Italia, «Italia contemporanea», 289 (2017); Schools for workers? Industrial and artistic industrial schools in Italy (1861-1914), in P. Gonon, E. Berner (a cura di), History of Vocational Education in Europe, Lang, 2016; Branding of technical Institutes by the State: Italy 1861-1914, in A. Heikkinen, P. Lassnigg (a cura di), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




Lotte sociali e proteste politiche. Il 1917 di una città industriale

Nel settembre del 1917, scrivendo al ministero, il prefetto di Livorno Giovanni Gasperini si mostrava allarmato per i «ripetuti propositi di sovvertimento dell’ordine, la propaganda contro la guerra e quella pel rifiuto della tessera del pane», «tanto più se si poneva mente che nelle ultime, recenti elezioni, la locale Camera del Lavoro, è caduta qui addirittura in balia dei socialisti ufficiali e degli anarchici e che si hanno qui nei molti stabilimenti 14mila operai». Queste poche frasi condensavano in sé alcuni degli aspetti più rilevanti e peculiari del ’17 livornese.

Giuseppe Emanuele Modigliani

In primo luogo, rilevavano l’improvvisa ripresa in quell’anno di proteste su larga scala, dopo oltre un anno e mezzo di sostanziale silenzio dalle ultime manifestazioni neutraliste dei primi mesi del 1915. Un silenzio che aveva indotto il prefetto a sbilanciarsi nell’agosto del 1915 in dichiarazioni sul «risveglio patriottico» ormai diffuso dei livornesi, dopo il prevalente neutralismo prebellico, e sulla perfetta tenuta dell’ordine pubblico cittadino. Ma la situazione, così come le opinioni di Gasperini, erano appunto destinate a cambiare; già nel 1916, secondo una dinamica che attraversa altre aree della Toscana, si era registrato qualche segno di ripresa di proteste di segno economico, non del tutto estraneo a impulsi politici che partendo proprio dai temi della pace e della guerra erano incentivati dal protagonismo del deputato livornese Giuseppe Emanuele Modigliani nelle conferenze internazionali socialiste.

Fra l’aprile e il maggio 1916, all’indomani di un concordato con cui gli operai avevano costretto la Società Metallurgica Italiana a riconoscere il sussidio straordinario integrativo, a fronte del rincaro del caro-viveri, una Commissione del Comitato Regionale della Mobilitazione Industriale (CRMI) dell’Italia Centrale era dovuta intervenire per esaminare le richieste dei lavoratori del grande Cantiere Navale cittadino, imponendo qualche concessione sulle indennità di guerra; ma in ottobre le agitazioni al Cantiere ripresero, con richieste di aumenti per l’accresciuto prezzo dei generi di prima necessità e per la mancanza dei cottimi normali. A fronte dell’atteggiamento dilatorio della direzione dello stabilimento la conflittualità salì di tono, con l’indizione di uno sciopero di mezza giornata (particolare non da poco in uno stabilimento “ausiliario” in cui gran parte della manodopera era militarizzata); gli operai, convinti anche da Bruno Buozzi appositamente giunto in città, decisero infine di fare pressioni sul CRMI che riconobbe miglioramenti salariali segnando una vittoria di Buozzi e della FIOM. Questa protesta si saldò direttamente con le prime settimane dell’anno nuovo, il momento di più acuta crisi sul “fronte interno”, che si aprì pertanto con una netta vittoria del sindacato e degli operai. Proprio in virtù di questi successi, e di altre dinamiche che vedremo, il protagonismo della FIOM nelle grandi fabbriche labroniche si affermò in quei mesi rapidamente (malgrado la riluttanza di diversi industriali, adusi a tradizionali forme di paternalismo, ad accettare il suo ruolo di mediazione nelle vertenze). La città labronica divenne nel corso della guerra una delle sue roccaforti: se nel novembre 1915 la sezione locale aveva 277 iscritti, nel maggio 1917, il rapido incremento dei mesi immediatamente precedenti li portò alla cifra di 3000, salita a ben 14000 nell’agosto 1918.

Per tornare al sintetico intervento del prefetto, la ripresa delle proteste, sospinta da disagi socio-economici, si sarebbe accompagnata nei mesi a una radicalizzazione della classe operaia e del clima politico sui luoghi di lavoro, testimoniata dal passaggio in agosto dell’organismo camerale dal tradizionale controllo dei repubblicani, attestati com’è noto su posizioni interventiste e di collaborazione allo sforzo patriottico, a quello delle componenti libertarie e socialiste rivoluzionarie. Alla guida della locale CdL fin dalla sua fondazione, gli eredi di Mazzini non potevano più eludere il problema di gestire una conflittualità operaia che cresceva di intensità e che avevano cercato di gestire smorzando la politicità delle loro posizioni e tenendo una linea conciliativa fra autorità, imprenditori e lavoratori. Il cambio di mano fu favorito anche dall’illustrato rafforzamento nella rappresentanza sindacale della grande industria, rispetto a un passato egemonizzato fino ad allora da leghe operaie artigiane e di mestiere, più vicine alla tradizione repubblicana ma con scarsi riferimenti alla grande fabbrica. Il passaggio era esemplificato dalla fisionomia del nuovo consiglio direttivo in cui a fianco di 1 membro ciascuno per la lega pastai, fornai, tipografi, spazzini, e due per la lega carbonai stavano ben 45 rappresentanti eletti dei metallurgici aderenti alla FIOM.

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

A favorire tale dinamica sindacale fu peraltro, per una delle tante eterogenesi dei fini innescate  dalla prima guerra mondiale, la creazione della Mobilitazione Industriale, un terzo attore di matrice statale che, con le sue ingerenze nelle controversie fra capitale e lavoro, finì per rinnovare non poco le relazioni industriali. La legislazione speciale di guerra e la Mobilitazione Industriale in particolare, e ancor più una concreta applicazione fatta di temperamenti e aggiustamenti, implicarono, accanto a profili fortemente repressivi, taluni aspetti modernizzanti che a Livorno risultarono assai spiccati. A fronte delle accennate e diffuse resistenze paternalistiche di molti industriali, con un abito mentale di stampo ottocentesco, fu infatti sovente la Mobilitazione a legittimare il maggiore e più organizzato sindacato, forzando la mano agli imprenditori. In una realtà come Livorno, per il suo profilo industriale, e per la tipologia delle sue produzioni, l’introduzione e il regime della Mobilitazione (che abbracciò le maggiori industrie cittadine e molte delle minori), istituito nel luglio 1915 e in seguito rafforzato, ebbero un grande impatto sul quadro socio-politico locale.

Dalle parole del prefetto si intuiva del resto quanto la città potesse considerarsi un’area industriale importante in una Toscana a forte prevalenza mezzadrile, con un numero di occupati nel settore molto al di sopra della media nazionale sospinto ancor più in avanti dalle commesse belliche. Inevitabile che in un tale contesto l’epicentro della conflittualità sarebbe divenuto, negli anni socialmente più caldi del conflitto, la grande industria metallurgica e navale. E fu qui che nel fatidico 1917 le proteste assunsero maggiore frequenza e più espliciti contenuti politici, cominciando a non essere più confinate come nei mesi finali del 1916 entro singoli stabilimenti o categorie e popolandosi di pratiche di resistenza dalla forte valenza simbolica. Quantomai emblematico divenne il caso delle due maggiori industrie cittadine, ossia il Cantiere Navale Orlando e la Società Metallurgica Italiana, facenti capo alla medesima famiglia, che costituiva un vero e proprio gruppo di potere con la sua struttura di clan, la sua rete di clientele, il controllo sulla stampa e un’influenza sulla politica che si ramificava dentro banche ed enti assistenziali.

Nel giugno 1917 sia alla Metallurgica che al Cantiere prese forma un’agitazione contro il d.l. 29 aprile 1917 che prevedeva la ritenuta d’acconto generalizzata di 1 Lira a favore della Cassa nazionale previdenza per tutti gli operai degli stabilimenti ausiliari. Cominciata dalle categorie meno protette e pagate (donne e apprendisti), trovò ampio sostegno in tutte le maestranze. Una solidarietà trasversale favorita anche dal fatto che il 25 giugno alcuni giovani apprendisti erano stati arrestati per i picchetti effettuati all’ingresso del Cantiere; circa 2000 lavoratori fraternizzarono astenendosi dal lavoro, così come fecero in forme più massicce il 4 luglio a fronte dell’arresto di quattro operai esonerati. La fabbrica era pronta per azioni simboliche di più marcato segno pacifista; per protesta contro una trattenuta ai salari per lo sciopero precedente gli operai rientrati al lavoro rimasero fermi alle macchine, e, stando alla ricostruzione del prefetto che parlava di una «massa operaia ormai in continuo fermento», inveirono contro la guerra e la Patria, mentre alcuni lavoranti minorenni cercavano di ammainare la bandiera nazionale dai cantieri per sostituirla con un cartello bianco con la scritta “Viva la Pace”. Giuseppe Orlando giunse a minacciare di chiudere temporaneamente lo stabilimento, mentre in agosto lo stesso Orlando dovette digerire un nuovo accordo per l’aumento dell’indennità di guerra. Il passaggio di mano interno alla Cdl si inserì in questo clima teso e lo alimentò, visto che fra il settembre e il novembre 1917 si susseguirono rivendicazioni e proteste che si estesero ad altri stabilimenti minori.

Giuseppe Orlando

Giuseppe Orlando

Negli ultimi mesi del ’17 le agitazioni si caricarono di un ancor più marcata coloritura politica anche per l’atteggiamento aggressivo assunto dalle istituzioni e dalla direzione delle imprese maggiori egemonizzate dagli Orlando. Il Consiglio comunale nel dicembre 1917 tolse il sussidio camerale di cui da anni la CdL godeva per i suoi indirizzi «di natura antipatriottica».. Attestati su accesissime posizioni filointerventiste, gli Orlando giunsero all’indomani di Caporetto a istituire nei propri stabilimenti un Comitato di propaganda patriottica che dopo la rotta sul fronte orientale e l’accelerazione in senso radicale della rivoluzione russa assunse toni particolarmente forti contro i disfattisti e i pericoli del contagio rosso. L’adesione era obbligatoria per le maestranze, ma alla sua infervorata propaganda nazionalista, sostenuta  mediaticamente da veicoli di diffusione come le conferenze patriottiche e la stampa di manifesti e pubblicazioni periodiche, gli operai opposero forme di resistenza che riuscirono a boicottarne l’azione. Le conferenze si susseguirono per tutto dicembre, ma la scarsa partecipazione andò aumentando, con quasi mille astensioni in occasione della conferenza di fine anno di Paolo Orano; di fronte all’imbarazzante fenomeno il prefetto fece presente la preoccupazione dei vertici militari della Mobilitazione Industriale sconsigliando la prosecuzione di quel genere di iniziative che con ordinanza del Ministero Armi e Munizioni furono di lì a poco ufficialmente sospese.

Si trattò di una sconfitta politica per il mondo industriale livornese, sancita in gennaio-febbraio 1918 dall’esito della sfida da esso lanciata anche sul piano sindacale alla CdL che chiedeva al Cantiere Navale un nuovo aumento dell’indennità di guerra e la riduzione delle trattenute contro il caroviveri, in un momento arroventato da problemi di approvvigionamento alimentare che avevano portato in alcune fabbriche a scioperi e grandi cortei spontanei con le donne in prima fila. Di fronte all’atteggiamento duro e sordo assunto da Giuseppe Orlando, la risposta fu una mobilitazione che dilagò in ben 12 stabilimenti e coinvolse 5.431 operai, mettendo in grande imbarazzo gli organismi della MI. Fu quantomai evidente che quest’ultima trovava non di rado uno dei suoi principali ostacoli non solo, o non tanto, nella classe operaia, quanto nella rigidità degli Orlando. La vertenza ebbe vasta eco e si chiuse con un accordo non del tutto sfavorevole ai lavoratori imposto dal Comitato Centrale della MI. E in giugno-luglio, una nuova protesta avrebbe portato al riconoscimento di una sorta di scala mobile, come solo a Milano e Firenze era stata applicata, a segnare la fine delle lotte del ciclo bellico e una sconfitta definitiva per i metodi paternalistico-autoritari della famiglia Orlando.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




Le falegnamerie nell’Alta Val d’Elsa del Secondo Dopoguerra

La zona nord del territorio senese uscì duramente provata dal Secondo Conflitto Mondiale: pesanti  bombardamenti raseso quasi a zero la città di Poggibonsi danneggiando gravemente le infrastrutture e buona parte delle attività produttive [1]. Proprio su quelle rovine, tuttavia, nascerà in tempi rapidissimi una vivace economia, per molti aspetti con caratteristiche del tutto nuove a quella prebellica che spesso, almeno nella zona, era in gran parte legata al mondo agricolo circostante.

È ipotizzabile che il vigoroso sviluppo della produzione del mobile in Valdelsa sia avvenuto grazie ad una serie di fattori già presenti che andarono a legarsi alla particolarissima congiuntura storica. Innanzitutto la diffusione di botteghe artigiane dedite alla lavorazione del legno (mobili, infissi e attrezzi prodotti per il comparto agricolo e viti-vinicolo) era piuttosto sviluppata nell’area, ma costituiva una realtà che operava su piccola scala, a causa della modestia delle commesse, e soddisfaceva soltanto la domanda locale. Tale presenza era stata favorita dalla facilità di reperire la materia prima a prezzi modesti (il pregiato legno di castagno proveniente dal Monte Amiata e il legname più scadente ricavato dai boschi delle colline circostanti) e dall’essenzialità degli strumenti di produzione che richiedeva investimenti molto modesti.

Un tale tessuto produttivo dovette, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, misurarsi con il fenomeno dell’abbandono di massa delle campagne che stavolse le strutture sociali ed economiche tradizionali. Per chiarire l’entità dell’esodo si tenga presente il caso della città di Poggibonsi, realtà che,  nel 1951, contava 14.387 abitanti (di cui 2278 lavoravano all’industria contro 3396 del comparto agricoltura e 1185 in altre attività); appena dieci anni dopo vivevano nel borgo valdelsano  18.634 persone di cui 8475 lavoratori (ben 4762 erano nel comparto industriale). Il decennio successivo vide un ulteriore incremento di questa tendenza con il definitivo crollo del settore produttivo agricolo (in cui rimasero soltanto 988 addetti su un totale di 10.137 lavoratori) ed il decollo dell’industria (con 6404 addetti) all’interno della quale il settore del mobile faceva la parte del leone (con circa tremila addetti più quelli dell’indotto): nel 1971 Poggibonsi era ormai divenuta una città di dimensioni rispettabili con 25386 abitanti.

images11L4BY0NL’incremento delle attività produttive e demografico della cittadina valdelsana è unico in tutta il territorio senese: la vicina Colle Val d’Elsa, una volta volano industriale dell’area, pur avendo un rilevante incremento demografico nel Secondo Dopoguerra (dai 12063 abitanti del 1951 si passò ai 14812 del 1971) rimase ben lontana dai numeri di Poggibonsi ed il suo sviluppo industriale rimase legato a filo doppio alle attività preesistenti come quella del vetro, del cristallo e dei relativi indotti[2].

Il successo del settore del legno era legato ad una forte domanda ma anche ai buoni profitti legati a vari fattori come le basse retribuzioni delle maestranze di cui una parte rilevante lavorava per ditte artigiane con meno di undici addetti. Nel 1950 un operaio specializzato guadagnava 63,95 lire all’ora, un operaio qualificato 49,75, un manovale specializzato 43,15 lire e un manovale comune 35,45 lire. La manodopera femminile aveva delle retribuzioni più basse mediamente del 20-25% (la parità salariale uomo-donna verrà raggiunta soltanto nel 1962)[3]; facendo un raffronto con i nostri giorni, tenuto conto della contingenza, è possibile calcore che mediamente un operaio valdelsano del comparto legno guadagnava meno degli attuali 500 euro al mese[4].

La contrattazione con gli imprenditori, a partire dagli anni Cinquanta, fu sempre più agguerrita e ben presto, tra le recriminazioni dei lavoratori fece la sua comparsa la richiesta di operare in ambienti più salubri e con idonei dispositivi di sicurezza. Ancora a metà degli anni Ottanta, quando ormai il settore era in piena ristrutturazione, l’83% delle aziende non aveva locali adatti per separare le parti verniciate sottoposte ad essiccazione dagli ambienti di lavoro; disastroso per lo stesso periodo il dato relativo allo smaltimento degli scarti della verniciatura (ritenuti generalmente tossici e nocivi in base al DPR 915 del 1982) in quanto ben l’86%  avveniva in modo incongruo[5]. Le malattie professionali più comuni tra i lavoratori del comparto erano quelle dell’apparato repiratorio e olfattivo (causate dalle polveri del taglio e dell’incisione del legno e dai vapori delle vernici) nonché uditivo (sordità da rumore), mentre gli infortuni (ben 244 nel 1983![6]) erano nella maggior parte dei casi ferite agli arti superiori causate dalla sega circolare e dal  toupie[7].

Il numero di aziende e di addetti salì in modo costante fino ai primi anni Settanta (rispetto a dieci anni prima si era avuto nella sola Poggibonsi un incremento di addetti alle industrie manifatturiere del 9,7% dato superato soltanto da Monteriggioni – 10,7% –   a cui si avvicinava Colle di Val d’Elsa con l’8,5%)[8], per iniziare poi lentamente a calare in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La crisi degli anni Settanta mise a nudo le fragilità del comparto del mobile che subì nel primo trimestre del 1975 un calo della produzione del 10,20%, rispetto al periodo precedente, e del 12,80% rispetto allo stesso periodo del 1974. L’analista Giuseppe Tammaro individuava come ragioni della crisi una serie di fattori esterni come le politiche deflattive del biennio ’66-’67, la fine della domanda internazionale e la contrazione della domanda interna a cui il comparto non aveva saputo rispondere efficacemente per una serie di motivi endogeni; in primo luogo, come unico fattore distintivo del prodotto, era stato conservato il carattere artigianale e questo aveva tenuto alti i prezzi; non erano stati fatti studi di marketing per analizzare i gusti della clientela e per cercare nuovi mercati oltre a quelli tradizionali; inoltre il ricorso sempre più massiccio da parte delle (poche) medie industrie al decentramento per contenere i costi della manodopoera e della produzione aveva causato un abbassamento della qualificazione delle maestranze e nessun rinnovo dei macchinari[9].

Ormai il distretto aveva fatto il suo tempo: nel primo semestre del 1986 le industrie del mobile a Poggibonsi erano 36 e davano lavoro a 800 addetti, gli artigiani 280 con mille addetti; rispetto ai tempi d’oro della metà degli anni Sessanta si erano persi più di mille posti di lavoro senza contare l’indotto. La produzione si contrasse progressivamente a laboratori artigiani che producevano mobili e infissi su misura o piccole manifatture che realizzavano componentistica. Una boccata d’ossigeno al settore, ma solo alle industrie, arrivò a fine anni Ottanta con l’esplosione della camperistica, comparto per il quale un pool di aziende, dopo una serie di studi di mercato, iniziò a produrre mobili componibili per poi mettersi in proprio e creare il distretto del camper della Valdelsa[10].

Riccardo Bardotti è insegnante distaccato presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

[1]ANTICHI COSTANTINO, Poggibonsi, Poggibonsi, Tipografia Artigiana, 1965, p.139.
[2]ISTAT,  Consistenza della popolazione residente e popolazione attiva distinta per settore di attività economica nei comuni della Provincia di Siena, in Toscana e in Italia al 1951, 1961 e 1971.
[3]AMOC, FILLEA a1, paghe in vigore nelle PAS del 01-11-1950.
[4]www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/14/se-potessi-avere-calcola-il-potere-dacquisto-in-lire-ed-euro-con-la-macchina-del-tempo/
[5]CUCINI EMANUELA, Indagine sulle condizioni di lavoro e di salute nelle aziende del legno della Val d’Elsa senese, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Siena, Facoltà di medicina e Choirurgia, a.a. 1987-88, pp.13-14.
[6]AMOC, Zona Valdelsa, VII b1, Unità Sanitaria Locale Alta Val d’Elsa.
[7]CUCINI E., Idem, p.31.
[8]Elaborazione Ufficio Studi dell’Amministrazione Provinciale di Siena su dati ISTAT realizzata nel 1976.
[9]TAMMARO GIUSEPPE, Alcune considerazioni su settore del mobile in Val d’Elsa, lineamenti per un programma di intervento di formazione professionale, Convegno del 28 maggio 1976 organizzato da CGIL CISL UIL.
[10]AISRSEC, Banca delle Memorie, 2017.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.