Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




L’assistenza agli ebrei a Firenze durante la Shoah

L’opera di soccorso e di protezione verso la popolazione ebraica presente a Firenze fra il settembre 1943 e l’estate del 1944 attuata dalla curia arcivescovile e dalle istituzioni cattoliche locali per impulso del cardinale Elia Dalla Costa è l’oggetto di una ricerca che ora vede i propri risultati illustrati in un volume edito dalla casa editrice Viella, La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei, 1943-1944.

Particolare attenzione è stata dedicata al ruolo della Chiesa fiorentina e del suo vescovo, nella costruzione di una rete clandestina che nascose i perseguitati ebrei presso istituti religiosi disseminati in vari quartieri della città. Queste strutture risposero in vario modo alle direttive impartite dal vertice, rifiutando o accettando di accogliere nuclei familiari o singoli individui dentro le proprie mura.

Elia Dalla Costa affidò il compito di coordinare l’attività di soccorso ad alcuni suoi collaboratori, fra i quali il suo segretario Giacomo Meneghello e don Leto Casini, parroco di Varlungo, che ebbero fra l’altro il compito di distribuire sussidi agli ebrei nascosti. I risultati della ricerca hanno permesso di comprendere meglio i rapporti fra il vertice e la base dell’istituzione ecclesiastica e di conseguenza hanno evidenziato le diverse modalità di salvataggio attuate dalle singole strutture di religiosi e di religiose. L’analisi della realtà fiorentina è stata condotta senza perdere mai di vista le posizioni assunte tanto dall’episcopato nazionale quanto dalla Santa Sede, con lo scopo di sottolineare sia le affinità che le differenze intercorse fra la Chiesa fiorentina e altri contesti locali. Nel caso di Firenze un ruolo decisivo ebbe il coinvolgimento dello stesso vescovo nell’attivazione della rete dei soccorsi fin dall’autunno del 1943, che in altri casi mancò o non fu così tempestiva.

Un ulteriore nucleo tematico dell’indagine ha riguardato la Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei, meglio conosciuta con il suo acronimo: Delasem. Questo organismo, nato nel 1939 in ambito ebraico, in principio era stato creato per aiutare gli ebrei profughi dall’Europa centro-orientale in fuga dalle persecuzioni naziste. All’indomani dell’8 settembre la Delasem entrò in clandestinità e si attivò per aiutare anche gli ebrei italiani a sfuggire alle deportazioni. Le mansioni della Delasem erano quelle di assicurare agli ebrei – italiani e stranieri – l’emigrazione attraverso la produzione di passaporti e documenti falsi, o di trovare luoghi di rifugio dove potersi nascondere e dunque salvarsi. Della Delasem fiorentina facevano parte, insieme ad altri, il rabbino Nathan Cassuto e Raffaele Cantoni, una delle figure più rappresentative del mondo ebraico italiano.

Raffaele-Cantoni

Raffaele Cantoni. Autorevole personalità dell’ebraismo italiano e membro attivo della Delasem fiorentina.

Nel libro di memorie scritto da uno dei principali protagonisti della Delasem romana, Settimio Sorani, il contesto fiorentino viene descritto come particolarmente unito nel prestare soccorso ai perseguitati tramite l’emigrazione ma anche attraverso la rete delle strutture di accoglienza, religiose e non, presenti nella città. Dopo l’arresto di quasi tutti i responsabili ebrei del comitato di soccorso fiorentino, avvenuto fra il 26 ed il 29 novembre 1943 a causa di un delatore, l’assistenza passò nelle mani della sola componente cattolica; continuarono a prestare la loro collaborazione la giovane Matilde Cassin ed Eugenio Artom, dirigente della Comunità e membro del Comitato toscano di liberazione nazionale.

L’indagine ha allargato i suoi confini temporali all’immediato secondo dopoguerra, allorché la Delasem continuò ad operare in favore dei sopravvissuti ai campi di concentramento assistendoli in termini sia morali sia materiali. Inoltre l’indagine sul periodo “post-Shoà” ha fatto emergere anche le diverse memorie che i protagonisti di quell’esperienza hanno elaborato intorno al biennio ’43-’45 e intorno alle differenti attività svolte in favore dei perseguitati.

Contestualmente a questo lavoro di scavo archivistico e di interpretazione storiografica basata su ciò che i documenti hanno mostrato, è stata avviata una ricerca sistematica sui singoli istituti religiosi che hanno lasciato un qualche tipo di traccia documentaria relativa alle loro attività di aiuto: si tratta di circa 40 fra conventi, convitti, istituti scolastici e parrocchie presenti nelle varie zone della città. Tali istituti sono stati individuati grazie alla lettura di una ricca memorialistica e grazie anche ai documenti custoditi presso gli archivi dell’Arcidiocesi e della Comunità ebraica di Firenze.

Questo lavoro ha portato a risultati di un certo rilievo poiché è stato possibile verificare i tempi e le modalità di accoglienza dei perseguitati, che spesso dovettero passare da un luogo di rifugio all’altro nel timore di razzie o perquisizioni da parte delle forze di polizia. E’ possibile avanzare una stima di circa 400 persone aiutate in vario modo, attraverso la fornitura di rifugi, la distribuzione di sussidi o l’organizzazione di viaggi verso la Svizzera o verso l’Italia meridionale. L’affresco che ne è emerso si è rivelato originale perché ha sottolineato aspetti inediti dell’organizzazione dei soccorsi e dati finora sconosciuti sui percorsi della sopravvivenza degli ebrei presenti in città e sull’operato dell’istituzione ecclesiastica locale.

Francesca Cavarocchi, dottore di ricerca in discipline storiche all’Università di Bologna, è collaboratrice dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Ha svolto studi sulla propaganda fascista, sulla persecuzione antiebraica, sull’occupazione nazista della Toscana e sull’attività di soccorso della Chiesa a favore degli ebrei. Tra le sue pubblicazioni si ricordano il volume “Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero” (Carocci, 2010) e vari saggi contenuti in E. Collotti (a cura di), “Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana. 1938-1943” (Carocci, 1999) e Id. (a cura di) “Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione. 1943-1945” (Carocci, 2007).

* Elena Mazzini, dottore di ricerca in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze, è stata post-doctoral fellow al Deutsche Historische Institut di Roma. Nei suoi studi si è occupata di varie tematiche inerenti l’ebraismo, l’antisemitismo, la Shoah e la storia  della Chiesa. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “L’antiebraismo cattolico dopo la Shoah. Culture e tradizioni nell’Italia del secondo dopoguerra” (Viella, 2012); “Ostilità convergenti. Stampa diocesana, razzismo e antisemitismo nell’Italia fascista. 1937-1939” (ESI, 2013); e (con G. Viann) “La Chiesa di Pio XI e le minoranze religiose” (Clueb 2013).

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




Se a parlare sono gli studenti: un percorso di democrazia attiva per i 70 anni della Costituzione

Quest’anno, grazie al prezioso sostegno della Regione Tosca­na, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea ha voluto celebrare il 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione con un progetto importante e ambizioso, che si è concluso questo 12 novembre. È passato già un anno dall’avvio della fase organizzativa: non è facile pensare un percorso che coinvolga tante persone e si esplichi in fasi così diverse; sono fondamentali il gioco di squadra e molto brainstorming. Se da una parte è difficile, dall’altra, come tutte le grandi scommesse, è incredibilmente coinvolgente. Già la scelta del nome, Costituzione: la nostra carta d’identità 1948-2018, voleva racchiudere tutto questo: una sfida, un progetto importante, cui avrebbero partecipato infine centinaia di persone: studenti, insegnanti, docenti universitari, collaboratori ISRT, …

Con la convinzione profonda che la scuola sia un luogo di crescita, anche emotiva, abbiamo ritenuto fondamentale che gli insegnanti si appassionassero per poi appassionare i loro studenti. Quindi, la prima fase si è svolta tra febbraio e marzo 2018, con un corso di formazione aperto a insegnanti di scuole secondarie di secondo grado, dal titolo Costituzione e storia dell’Italia repubblicana. I percorsi degli italiani in un Paese in trasformazione. Tre incontri presso Le Murate PAC, sulla storia della Repubblica alla luce del testo costituzionale, durante i quali vari relatori hanno illustrato le trasformazioni culturali, economiche e politiche della penisola dall’uscita dal secondo conflitto mondiale a oggi. Il corso è stata la prima tappa del progetto che fin da subito aveva come scopo quello di fare degli studenti i veri protagonisti, al centro di un lavoro di approfondimento e riflessione sui valori costituzionali e sulla più recente storia nazionale. Durante il corso, tutti i docenti sono stati invitati a svolgere attività sulla Costituzione e sui grandi princìpi in essa contenuti, a partire dalla primavera e poi al rientro per il nuovo anno scolastico, secondo le loro inclinazioni e possibilità.
L’obiettivo finale: una giornata, il 12 novembre, dedicata interamente agli studenti, un convegno didattico, durante il quale i ragazzi avrebbero presentato il lavoro fatto.

Grande è stata la soddisfazione nel ricevere un elevato numero di adesioni e proposte da molti di loro, che stimolati dal corso hanno voluto continuare in classe. A partire dalla fine di marzo, ho assunto il ruolo di tutor e mi sono occupata di fornire agli insegnanti materiali utili e spunti per lavorare con i ragazzi; coordinare le informazioni, gestire i tempi di lavoro, dare il mio supporto. È stato importante per me creare con ogni singolo docente un rapporto di dialogo e scambio di idee e opinioni, incoraggiare i loro progetti.
Sono stati mesi intensi, talvolta tutti insieme in corsa con i tempi della scuola e dei ragazzi: ci sono stati dubbi e perplessità ed è stato in quei momenti che ho capito davvero l’importanza della collaborazione, del fare rete, di stabilire relazioni, per far funzionare al meglio il progetto. Nove le classi coinvolte, 15 docenti, quasi 300 studenti. Con l’arrivo dell’estate ci siamo dati tutti dei compiti per le vacanze e a settembre, al rientro a scuola, i ragazzi avevano lavorato davvero al progetto, avevano intervistato le loro famiglie, raccolto fotografie, materiale documentario di vario tipo.
A ottobre sono stata chiamata da alcuni insegnanti ad andare nelle classi: ho chiesto ai ragazzi di raccontarmi il percorso fatto e ho dato loro dei consigli su come raccontarlo alle quasi 300 persone, coetanei e non, che li avrebbero ascoltati il giorno del convegno. Ho percepito la loro emozione ma anche la voglia di dimostrarmi che ci avevano messo la testa in quel percorso.

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Il 12 novembre, al cinema-teatro La Compagnia di Firenze, tutte le classi che in quei mesi avevo seguito più o meno da vicino si sono presentate in sala, accompagnate dagli insegnanti. Anche quel giorno il mio ruolo era quello di supportarli, di rendere tutto un po’ più semplice. Come ho già detto, per me è stato un cammino soprattutto emotivo: sentire la passione degli insegnanti mi ha dato grande positività, e le ragazze e i ragazzi che ho conosciuto hanno confermato l’importanza di un percorso come quello, dimostrandomi la loro voglia di far bene.
Il giorno del convegno seguivo i loro interventi dalla regia e li vedevo salire sul palco pieni di emozione, ma soprattutto di senso di responsabilità. Si rendevano conto che nei venti minuti a loro concessi per dire il lavoro fatto, erano rappresentanti e testimoni di un percorso importante. Rappresentanti della loro classe e, forse, della loro intera generazione. Hanno avuto modo di parlare ed esprimere le loro idee su temi fondanti come l’uguaglianza, l’uguaglianza di genere, il lavoro, l’ambiente, a partire dalla Costituzione fino all’oggi, al mondo in cui vivono immersi, del quale sono custodi in prima linea.
Alla fine della giornata ho provato molta soddisfazione, perché nonostante i tempi stretti, e le tante piccole preoccupazioni tipiche di quando si organizzano eventi così grandi, tutto è andato nel modo migliore. I ragazzi sono stati davvero i protagonisti, come avevamo voluto all’inizio di tutto, quando il progetto era ancora agli albori. Hanno parlato da un palco, persino cantato una canzone sull’articolo 36 della Costituzione; ci hanno fatto vedere video montati da loro e interviste; hanno mostrato fotografie e statistiche con dati da loro raccolti. Si sono emozionati ma hanno continuato a parlare, sostenuti dagli applausi di incoraggiamento dei loro compagni.

In quel cinema, per una giornata, 300 persone compresa me hanno vissuto un’esperienza un po’ unica: quella di ritrovarsi con intenti comuni e ideali comuni, a parlare insieme, ascoltarsi con pazienza e confrontarsi.
Un vero modello di democrazia.
Il bilancio della mia esperienza non può che essere positivo e di incoraggiamento a continuare a coinvolgere prima di tutto i giovanissimi, che hanno il diritto di conoscere la loro Storia e il dovere di tramandarla.

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca

Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca (Lucca, Pacini Fazzi, 2018, Collana Storie e comunità dell’ISREC Lucca).

Fulvetti, che è è stato direttore per 5 anni dell’ ISREC LU, è professore associato di storia contemporanea presso il dipartimento di Civiltà e forme del Sapere dell’Università di Pisa e si occupa principalmente della seconda guerra mondiale. Recentemente impegnato nel progetto dell’Atlante nazionale delle stragi naziste e fasciste durante l’occupazione della penisola nel 1943-1945, Fulvetti è protagonista della stagione di studi che ha indagato la “guerra ai civili” in Italia e in Toscana. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, al quale aderiscono gli Istituti Toscani della Resistenza e dell’Età Contemporanea che ne avevano promosso e sostenuto la candidatura.

Ventura, attuale direttore, succeduto a Fulvetti del quale prosegue la linea di condotta dell’istituto, è assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa ed è specializzato negli anni dell’avvento del fascismo in Italia e in provincia.

Fulvetti e Ventura hanno coordinato un gruppo di ricerca composto da 14 studiosi che si sono divisi le schede sia su base territoriale che in accordo con i loro interessi.

Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISREC LU, è stato docente e preside ed ha al suo attivo numerosi libri e saggi sulla storia politica e culturale del Novecento. Per questo volume si è occupato degli schedati viareggini. Sempre i viareggini sono stati curati da Filippo Gattai Tacchi, perfezionando presso la SNS di Pisa, e da Roberto Rossetti, che si occupa di didattica della storia ed è distaccato presso l’ISGRE LU, dove ricopre il ruolo di responsabile delle attività didattiche.

Marta Giusti, dottoranda presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Ateneo Pisano, ha ricostruito la vita di di 8 donne, mentre la nona è stata oggetto di studio da parte di Teresa Catilla, che collabora con l’ISREC LU, lavorando in particolare alla sistemazione del fondo archivistico. Catinella ha curato la scheda anche di Arturo Chelini, popolare bastonato dai fascisti lucchesi.

Rachele Colasanti, laureata in Storia contemporanea, sta seguendo a master in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna e per il volume ha curato le schede dei Versiliesi. Carlo Giuntoli, laureato con una tesi sulla violenza fascista e membro del direttivo dell’ISREC, si è occupato della Garfagnana. Su Massarosa ha lavorato Jonathan Pieri, dottorando in Scienze politiche presso l’Università di Pisa con un progettoche studia storia militare e storia dell’occupazione tedesca in provincia di Lucca. Gianluca Fulvetti si è concentrato su alcuni significativi percorsi esistenziali di antifascisti lucchesi.

Francesco Lucarini, che sta lavorando ad una tesi sulla storia del PCI in provincia di Lucca, si è occupato delle drammatiche vicende di due volontari antifranchisti.

Pietro Finelli, direttore scientifico della Domus Mazziniana, collaboratore con l’ISREC LU di cui è stato responsabile della didattica, ha studiato gli schedati repubblicani, mentre Armando Sestani, attualmente Vice Presidente dell’ ISREC LU ha curato le schede biografiche degli anarchici.

Infine alcuni casi particolari e significativi sono stati studiati da Andrea Ventura e da Federico Creatini, cultore della materia in storia contemporanea all’Università di Pisa e dottorando in Storia contemporanea all’Università di Bergamo.

Circa due anni fa, l’ISREC di Lucca ha avviato un progetto di ricerca sulla storia dell’antifascismo e della resistenza in provincia di Lucca. L’idea era -ed è- di colmare una lacuna di conoscenza storica e civile.

Il libro è nato da un progetto di ricerca svolto dall’ISREC Lucca sull’antifascismo  nel periodo in cui fu più intensa l’azione repressiva dell’autorità centrale verso tutte le voci di dissenso nei confronti del regime fascista, e ha come tema centrale i fascicoli relativi a uomini e donne della Provincia di Lucca conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Il lavoro è partito con una fase di raccolta e riproduzione sistematica dei fascicoli del Casellario Politico Centrale (ex Schedario dei sovversivi), lo strumento di controllo e repressione dei “sovversivi” inaugurato con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, insieme alla Polizia Politica e al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.

Il Casellario politico centrale è stato lo strumento di controllo e schedatura dei “sovversivi” che, inaugurato nel 1894 nell’Italia liberale, venne ripreso dal fascismo e integrato con i suoi organi repressivi nell’ambito della sua legislazione eccezionale. Era gestito dal personale del Ministero dell’Interno in raccordo con le prefetture e le questure e i Consolati per ciò che concerne coloro che lasciavano l’Italia, ma poi fu incrementato dagli strumenti repressivi entrati in atto con le cosiddette “leggi fascistissime”.

 Il casellario politico centrale porta, nel corso degli anni, all’apertura di oltre 150mila fascicoli personali. Tra di essi sono state individuate 1374 persone nate o residenti in provincia di Lucca. Rispetto a questo dato, operando aggiustamenti e integrazioni, è attualmente a disposizione una banca dati di circa 1600 nominativi, i cui fascicoli sono stati riprodotti presso l’ACS e sono adesso depositati su supporto digitale e consultabili presso l’archivio dell’ISREC LU. Il database, oltre alle generalità e ai dati anagrafici dello schedato, ne riporta il colore politico, il mestiere esercitato, gli estremi cronologici della sua schedatura, le condanne riportate, la sua eventuale emigrazione, l’eventuale partecipazione alla Guerra di Spagna, riferimenti della sua rete parentale, altre osservazioni notevoli. La funzione “CERCA” permette ricerche incrociate e la selezione di elenchi di schedati uniti da comuni caratteristiche.

Tuttavia le carte del casellario riportano poco o niente dell’antifascismo cattolico che appare invece una delle caratteristiche del territorio lucchese e una delle variabili che spiegano qui fra il 1943 e il 1945 l’ampia presenza di pratiche di resistenza civile.

Oltre cento tra i “sovversivi” dello schedario sono poi stati selezionati per la pubblicazione di Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario Politico Centrale. Per un dizionario:: biografico della provincia di Lucca.

Nel libro si trovano le informazioni sulla vita di 120 di questi antifascisti, 111 uomini e 9 donne, le cui parabole esistenziali sono restituite in forma biografica, in un linguaggio piano, lineare, mai retorico: individui rimasti troppo a lungo “anonimi”, ma anche personaggi noti, come Luigi Salvatori, il “padre” del socialismo versiliese; Giuseppe Del Freo, insegnante viareggino, maestro di generazioni di democratici e antifascisti e Guglielmo Pannunzio, avvocato e giornalista; il futuro onorevole e ministro Armando Angelini. Vi troviamo anche quattro sindaci del dopoguerra e quattro costituenti.

Variegato l’universo che confluisce fra i “sovversivi” nel periodo in cui la dittatura  inizia a fare i conti con gli anarchici, i socialisti, le Leghe e le Società di Muto Soccorso, i moti, gli scioperi e le sommosse, le Camere del lavoro, la violenza sociale e quella politica.

Tra i partigiani affluirono giovani renitenti alla leva e disertori,  donne e uomini spinti dall’insofferenza verso la guerra; sfollati dai bombardamenti che avevano sperimentato sulla propria pelle l’inefficienza, la corruzione, la prepotenza, i favoritismi, la violenza delle amministrazioni locali fasciste. La fame e le difficoltà quotidiane furono rilevanti per la “scelta” di molti. Il resto, in modo determinante, lo fecero l’occupazione tedesca, i repubblichini, i bandi draconiani della Repubblica di Salò e la brutale repressione degli oppositori.

Il campione degli antifascisti lucchesi -come la storia dell’antifascismo- pende dalla parte della Versilia (44%), l’area che possiede tradizioni più solide a sinistra, con diversi comuni che già prima del conflitto mondiale sono stati guidati da coalizioni di democratici, repubblicani, socialisti.

L’età media è di 33 anni. La più anziana è Maria Isolina Amantina, nata ad Altopascio nel 1858, colpita nel 1927 dalla repressione per aver imprecato pubblicamente contro la monarchia e Mussolini e per questo confinata poi in manicomio. Lei è una delle vittime di un fascismo che rafforza la tendenza a medicalizzare il dissenso politico e il ribellismo sociale.

Spesso le donne infatti erano considerate “la costola di Adamo”, di mariti, fratelli e padri e quindi non meritevoli di attenzione da parte della polizia, composta esclusivamente da uomini. Questo spiega perché molte di loro venissero mandate in manicomio e non subissero altri tipi di condanna.

Nonostante questa scarsa considerazione da parte fascista delle donne, il loro ruolo emerse con forza: raccoglievano soldi, sostenevano le famiglie colpite dalla repressione, conservavano e nascondevano documenti e materiale a stampa. Le donne, molte delle quali prive di preparazione politica, erano pronte a lasciare le mura domestiche e ad assumersi responsabilità nella sfera pubblica, mai conosciute prima.

Fra gli antifascisti lucchesi prevalgono le professioni proletarie (67,5%), il 18,1% sono commercianti e sopratutto artigiani che fanno delle loro botteghe il crocevia di attività, riunioni, racconti, e luoghi nei quali spesso si alimenta una alterità “esistenziale” del regine. Infine il 16,2 % appartengono a quello che possiamo chiamare antifascismo borghese e umanitario intellettuale e delle professioni.

Tra gli antifascisti sono maggioritari i comunisti, di cui la metà resta militante nel PCDI anche dopo le “leggi fascistissime”, in prevalenza all’estero. Inferiore e pari il numero di socialisti e di anarchici. Solo due i cattolici, una decina i repubblicani e i socialisti liberali che si legano alle attività di giustizia e libertà, in prevalenza all’estero. Per sopravvivere, infatti, molti sono costretti a lasciare l’Italia. Si sfruttano percorsi e reti di solidarietà spesso preesistenti, legati all’emigrazione per motivi di lavoro. E’ una vita difficile quella da clandestini ed emigrati. Sui 120 lucchesi, sono 39 (quasi uno su tre) coloro che per periodi più o meno lunghi transitano dalla Francia e frequentano i “fuochi comunitari antifascisti” (Parigi, Nizza, Marsiglia) nei quali molti proseguono il proprio impegno.

Da quando nell’ottobre 1936 nascono le Brigate Internazionali al marzo 1937 troviamo 16, dei 120 antifascisti lucchesi, che sono stati in Spagna. La loro età media è di 31 anni. Ma anche là non mancarono le difficoltà materiali e psicologiche legate alla sconfitta e alla “retirada”, con l’esperienza nei campi francesi, il disorientamento di fronte allo scoppio della seconda guerra mondiale, la pressione crescente dell’occupazione nazista, il tentativo di rientrare in Italia, sinonimo di detenzione.

Tra i 120 biografati di questo volume, troviamo 10 persone che combattono nella Resistenza e 9 che fanno parte dei comitati di liberazione nazionale. La maggior parte  prosegue il suo impegno anche alla fine della guerra, ad esempio come sindaci nominati dal CNL, e comunque nella ricostruzione e nella ripresa democratica.

E’ nel decennio prebellico che si colloca il picco delle “radiazioni”. Nel nostro campione sono 27 le persone inviate a Favignana, Ponza, Ventotene, Ustica, Pisticci, alle Isole Tremiti etc.

Il picco degli schedati lucchesi si raggiunge il 31 dicembre 1933, quando “sovversivo” era ormai da tempo considerato chiunque fosse appartenuto ai partiti disciolti o avesse manifestato, con l’azione o con la parola, dei convincimenti non allineati con le direttive e gli obiettivi del regime.

Questo dato lucchese è in linea con le statistiche nazionali. Secondo Renzo De Felice alla fine del 1930 in media venivano condotte 20.000 operazioni di polizia politica alla settimana in tutto il paese: arresti, sequestri di materiali a stampa, iscrizione negli schedari provinciali o in quello centrale, chiusura dei luoghi di ritrovo. I metodi utilizzati dalle forze dell’ordine spaziavano dagli interrogatori alle torture, dai pestaggi alle pressioni psicologiche e ai ricatti personali.

I 120 “schedati” lucchesi sono un esempio di come si può e si deve resistere ad una dittatura, nonostante la paura, e di quanto diversi, ma tutti ugualmente validi, sono i motivi e i mezzi per lottare per la democrazia, che, a differenza di quanto ingenuamente o semplicisticamente pensiamo, non è un possesso per sempre ma una conquista quotidiana.

Il lavoro non è concluso, anzi. Il prossimo passo, riguarderà lo studio, la riproduzione e l’acquisizione del fondo RICOMPART, relativo alle attività dell’Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (depositato nel 2012 sempre all’ACS).

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




Da regnicoli a cittadini europei

In occasione del 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, grazie al sostegno della Regione Toscana e la rete con gli istituti della Resistenza toscani, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pistoia, ha proposto un corso di formazione per docenti di scuola superiore sulla storia della Repubblica il rapporto con la società italiana delle diverse generazioni per riscoprire la paziente artigianalità nella costruzione della costituzione e che di “urgente” in quel ’48, ci fosse solo la partecipazione democratica ad una giovane repubblica.

Il corso, svoltosi nei giorni 14, 21, 28 marzo 2018 presso la Sala Bigongiari della Biblioteca San Giorgio di Pistoia, per un totale di 12 ore, è stato la prima tappa di un ampio progetto che ha coinvolto gli studenti in un lavoro di approfondimento, rendendoli protagonisti di una riflessione sui valori costituzionali e sulla più recente storia nazionale.

Per quanto riguarda il nostro istituto, il corso ha avuto come relatori ricercatori e docenti universitari ed ha approfondito, in un climax, la genesi e l’applicazione della Costituzione partendo dai costituenti pistoiesi (Dalla guerra di Resistenza alla Costituzione, M. Palla, Le elezioni dell’assemblea costituente e i costituenti pistoiesi, F. Mazzoni, Il sistema politico-istituzionale dell’Italia Repubblicana, G. Mobilio; L’applicazione della Costituzione nella storia della Repubblica, D. Santagati; Diritti e realtà del lavoro nel secondo dopoguerra, S. Bartolini; Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia Repubblicana, M. Galfrè) al contesto postbellico alle questioni della costituzione europea e della cittadinanza (Dalla fondazione della CEE ad oggi, G. Laschi, Unione Europea e diritti individuali, P. Caretti; La Costituzione europea a confronto con la Costituzione italiana, C. Lodici.)

Tra docenti partecipanti, quattro sono le professoresse che si sono rese disponibili a proseguire con le loro classi un percorso sull’Italia repubblicana e la Costituzione coordinato da chi scrive, nell’arco di tempo da marzo a novembre 2018 su temi prescelti.

La scuola, il lavoro, la democrazia e l’identità di un popolo unito e diviso sin dalla sua nascita, ed infine la prospettiva di una cittadinanza europea, sono le tematiche più sentite per una generazione che ha la possibilità di confrontarsi con coetanei dei paesi del “vecchio continente”, per motivi di studio , lavoro o semplicemente svago.

Ecco quindi che la classe IV A ordinario del Liceo Scientifico “Amedeo di Savoia”, con la professoressa Caterina Marini ha intitolato il proprio progetto Da regnicoli a cittadini:100 anni di cammino verso la democrazia; un’analisi comparata tra Statuto Albertino e Costituzione che mette in evidenza le novità apportate dall’assemblea Costituente, partecipata e arricchita dalla presenza delle donne; altro tema affrontato è l’importanza dell’istruzione per i nuovi cittadini da formare, che si trovano davanti a qualcosa di ancora sconosciuto, la sovranità popolare, la democrazia.

La professoressa Giovanna Sgueglia con la classe VA Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale IPSAAABI ”De Franceschi” ha scavato fino alle radici, cercando l’essenza dell’appartenenza italiana, attraverso gli uomini e le idee; L’identità italiana:analisi della storia, degli uomini e dei luoghi che ci hanno fatto quello che siamo,è il titolo di una riflessione sulle parole “patria” e “nazione”, usate e abusate, incensate e tradite, nella partecipazione o nel bieco opportunismo.

Cittadini italiani e europei, infine è il titolo dell’approfondimento storico giuridico delle classi VA tecnico economico e VB Scienze applicate ITCS “Filippo Pacini”, con le docenti Paola De Pasquale e Paola Nelli; una ricerca in “tandem” sulla complessità della cittadinanza al tempo dell’Unione europea con al centro il tema del lavoro, studiato sul versante del Diritto e vissuto, come nell’esperienza dell’alternanza scuola lavoro di alcuni alunni in Germania che hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con coetanei di un altro paese dell’Unione europea.

I frutti di questi lavori saranno presentati in occasione del Convegno provinciale il 21 novembre prossimo, ospiti nuovamente della Biblioteca San Giorgio. Saranno presenti Monica Galfrè dell’Università di Firenze e Mariuccia Salvati, dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna; la prima concentrerà il proprio intervento sulla storia della scuola italiana, luogo centrale per la formazione di cittadini e di osservazione della società, come ben si evince dalle numerose riforme dedicate a questo settore dello stato; Monica Galfrè si soffermerà in particolar modo sui mutamenti del secondo dopoguerra, dalle eredità della scuola gentiliana alla grande trasformazione degli anni Settanta, attraverso i protagonisti della scuola: i ministri, ma sopratutto  docenti e studenti.

Mariuccia Salvati ci parlerà di lavoro: diritti, doveri, condizioni e possibilità, di uno Stato che nell’articolo 4 della sua Costituzione menziona il lavoro come fondante “per il progresso materiale e spirituale della società”; un unicum nella storia costituzionale europea del dopoguerra, per un articolo collocato in posizione primaria fra i principi fondamentali, figlio della Rivoluzione Francese, delle lotte dei lavoratori, dei movimenti sociali e politici che dalla metà dell’Ottocento ponevano come base dello Stato sociale il lavoro e la solidarietà . Lavoro e cittadinanza era e rimane un binomio valevole, negli anni dell’aspro scontro tra la cultura cattolica sociale della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista, come nell’odierna società globalizzata.

Durante il convegno didattico sarà proiettato un episodio della web serie sulla Costituzione  raccontata attraverso i luoghi e le figure di rilievo della Toscana del dopoguerra.

Alla fine di questa giornata ci sorprenderà la performance teatrale Fratelli d’Italia di Ultimo Teatro Produzioni Incivili, di e con Luca Privitera. Contemporaneità e storia, partigiani e cittadini di oggi ci racconteranno un paese e dei suoi ossimori, delle sue speranze e delle cocenti delusioni, del ripiegamento su se stesso e sulla forza di andare avanti, comunque.

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




La Costituzione è giovane! Viaggio in Toscana tra i principi fondamentali della nostra democrazia

Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica…

Nel 1955, a sette anni dall’entrata in vigore della Costituzione, in quello che è forse il suo più celebre discorso tenuto ai giovani, Piero Calamandrei rivolgeva alle nuove generazioni un accorato appello a tener viva la Carta fondamentale, quel «testamento di centomila morti» nato dalla guerra e dalla Resistenza, che, per quanto in parte già realtà, costituiva ancora un «ideale, una speranza, un impegno» per il futuro, da coltivare, affermare e mantenere vivo. Ai giovani, appunto, il compito di metter dentro quel «pezzo di carta» l’impegno, la volontà a mantenere e inverare, nel presente e di fronte alle sfide dei tempi, le promesse di quel programma fondamentale di eguaglianza e di libertà. Un compito non facile, considerata la «malattia» – l’indifferenza – che Calamandrei vedeva allora offendere già lo spirito della Costituzione e contagiare pericolosamente coloro a cui quella Carta avrebbe in futuro parlato: i giovani appunto.

Oggi, a settant’anni dalla promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana, la speranza di Calamandrei – che la Costituzione fosse cioè in grado di parlare ai giovani e che questi lo fossero di parlare per essa – rimane quanto mai attuale e la sfida ancora aperta. In una società in rapida e continua trasformazione, dove vecchie e nuove forme di indifferenza e di diseguaglianza insidiano la tenuta dell’originario patto costituzionale, c’è bisogno sempre più di saper parlare ai giovani affinché riscoprano le fondamenta storiche e ideali della nostra società democratica, ne prendano quindi consapevolezza sentendosi parte integrante di essa. Parlare ai giovani, dunque, della Costituzione, con serietà e passione, ma lasciando a loro la libertà di misurarsi con i principi fondamentali sanciti nella Carta, non astrattamente ma con uno sguardo alle situazioni del loro tempo e con la sensibilità derivante dalle esperienze del loro vivere presente; parlare ai giovani lasciando loro la libertà di capire – sotto la direzione di una “buona guida” – non solo “quando” e “perché” quei principi sono nati e in che modo e in che misura e con quali difficoltà si sono potuti affermare nella storia dell’Italia repubblicana, ma di scoprire soprattutto che essi continuano a parlare al nostro tempo al quale ancora pongono le stesse sfide delle origini, quelle cioè di costruire – come indicava e indica la Costituzione – una società più giusta, equa e democratica. La nostra Costituzione, infatti – diceva ancora Calamandrei – non è «immobile», né ha «fissato un punto fermo», ma apre invece «le vie verso l’avvenire».

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Enrico Pieri, sopravvissuto alla strage di S. Anna di Stazzema, racconta la sua storia – Dall’episodio “Là dove è nata la Costituzione” (Foto Rumi produzioni)

Parlare ai giovani e far parlare i giovani di Costituzione è la sfida raccolta da un innovativo progetto di web serie prodotto nell’ambito del programma “Costituzione: la nostra Carta d’Identità: 1948-2018” dall’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea con la collaborazione della rete degli Istituti della Resistenza toscani e diretto dal regista Nicola Melloni (Rumi Produzioni). Affidandosi a una struttura narrativa fresca e dinamica ma con la serietà e il metodo dell’indagine storica assicurati dalla consulenza scientifica di docenti ed esperti (Simone Neri Serneri, Catia Sonetti, Matteo MazzoniMonica Rook) il progetto si propone di riflettere sui principi fondamentali della Carta, risalendo ai presupposti storici, ripercorrendone le principali tappe di attuazione e infine interrogandosi sulla attualità di quei principi nella società presente. Al centro della web serie sta un vero e proprio viaggio di scoperta compiuto in Toscana attraverso luoghi e storie personali capaci di rendere testimonianza del percorso storico di nascita e di affermazione dei nostri principi costituzionali, ogni volta affrontato tramite un costante dialogo generazionale tra “testimoni” del tempo e “protagonisti” di oggi. Quattro giovani tra i 17 e i 24 anni, Marta Casini, Elma Kamberi, Francesco Parsi e Davide Mandolini, ciascuno portatore di una propria storia personale in grado di metterlo in contatto e di farlo dialogare con problemi e aspetti al fondo della Costituzione, sono accompagnati e guidati lungo questo percorso da Monica Rook, insegnante della scuola secondaria. Questa, mettendoli in comunicazione con vicende e protagonisti rappresentativi delle battaglie compiute per l’affermazione e l’attuazione nella società dei principi costituzionali, li aiuta e li stimola a confrontarsi – sempre a partire dalla loro sensibilità, dalla loro esperienza e dai loro interessi – con alcuni aspetti chiave della cittadinanza repubblicana.

Sei i temi, le questioni e gli aspetti trattati (la tragedia della guerra e la rinascita dell’Italia; le lotte per la dignità del lavoro e contro il precariato; il diritto al sapere, che dev’essere per tutti; la tutela del bene comune; la diversità, che è ricchezza e non un ostacolo; l’impegno collettivo e la partecipazione), a ognuno dei quali sono legati uno o più principi costituzionali, un luogo e una storia significativi. Sei, dunque, gli episodi, i capitoli, di cui si compone la web serie, aperta e chiusa da due di questi che conferiscono in particolare al progetto una circolarità di senso e di tempo e che non a caso, a differenza degli altri, vedono la partecipazione di tutti e quattro assieme i giovani protagonisti.

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Riprese dell’episodio della web serie ambientato a S. Anna di Stazzema (foto Rumi Produzioni)

Come Calamandrei più di sessant’anni fa invitava i giovani a ricercare l’origine della Costituzione in quei luoghi dov’essa era nata (le montagne, le carceri, i campi dove caddero i partigiani e ovunque, in sostanza, «un italiano era morto per riscattare la libertà e la dignità»), la serie si apre con un episodio ambientato nel luogo in Toscana che più di altri lega a sé simbolicamente e moralmente la drammatica eredità del processo di uscita dalla Guerra civile europea, dando monito al contempo dei presupposti culturali, morali e politici sui quali la Costituzione repubblicana fonda le proprie basi. Per andare “La dove è nata la Costituzione” i quattro protagonisti scelgono infatti di recarsi accompagnati da Monica a Sant’Anna di Stazzema, luogo teatro dell’efferata strage di civili compiuta nell’agosto 1944 dalle truppe di occupazione naziste. L’ambientazione e la vicenda incarnano tristemente, divenendone ammonimento, le conseguenze di un’articolazione della società europea chiusa, basata su di un nuovo ordine politico (quello voluto dai regimi nazisti e fascisti) aggressivo, razzista e incardinato sulla sopraffazione e persecuzione efferata di chiunque a quell’ordine si fosse opposto o sottratto. Il ripudio della guerra come strumento di offesa, la volontà di costruire una società pacifica e inclusiva, sono invece elementi imprescindibili alle fondamenta del patto costituente sancito dalla Costituzione italiana. Temi questi sui quali i quattro giovani si confrontano a Sant’Anna attraverso il dialogo intrattenuto con Enrico Pieri, sopravvissuto alla strage e figura attivamente impegnata nel promuovere una cultura di pace, rispetto e tolleranza, e tramite una riflessione comune condotta assieme allo storico, docente e presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea Simone Neri Serneri.

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Enrico Pieri dialoga con i protagonisti della Web serie: (da sinistra a destra) Monica Rook, Elma Kamberi, Davide Mandolini, Marta Casini e Francesco Parsi (foto Rumi Produzioni)

Dal rifiuto di una società costruita in antitesi a un progetto comune, inclusivo e democratico, deriva l’importanza del riconoscimento e della salvaguardia degli interessi e dei bisogni comuni a tutti i contraenti del patto costituente. Il diritto-dovere alla tutela dei “beni collettivi” – un concetto ampio ma fondamentale che va dalla tutela del paesaggio naturale e dei beni culturali a quella della salute individuale e richiama l’impegno costituzionale a garantire la difesa di questo patrimonio pubblico costituito dai beni materiali e immateriali che appartengono alla collettività – è un altro tema di confronto al quale è dedicato il secondo episodio (“Beni collettivi, un patrimonio comune”). Qui sono le vicende riguardanti la storia dello sfruttamento dei bacini minerari del Val d’Arno Superiore e dell’evoluzione del complesso di Santa Barbara – da sito estrattivo massicciamente coltivato a centrale termoelettrica tra le più importanti d’Italia e, solo più recentemente, oggetto di riqualificazione ambientale – a offrire occasione per una riflessione sui possibili squilibri prodotti dall’eccessivo sfruttamento a fini economici di una risorsa naturale comune e di contro sulla necessità di tutelare una gestione equilibrata del bene collettivo coniugandola con le esigenze di sviluppo di un territorio e delle comunità che lo abitano. L’incontro che Marta Casini, giovane protagonista dell’episodio, farà accompagnata da Monica con Fabrizio Viligiardi, un amministratore locale impegnato attivamente nella gestione del territorio e nella riqualificazione paesaggistica e ambientale dei vecchi siti estrattivi, le permetterà di ampliare la riflessione sulla questione della tutela del “bene collettivo”, integrandola peraltro con la propria esperienza personale di giovane volontaria molto attiva nel campo sanitario e della pubblica assistenza.

Al diritto al sapere, inteso in senso ampio come piena e fattuale possibilità di libero accesso a tutti gli ambiti della cultura e della conoscenza, è dedicato invece il terzo episodio. L’ambientazione è offerta dalla scuola di Barbiana, luogo divenuto simbolo grazie a l’impegno di Don Milani di una battaglia condotta a favore di un’istruzione pubblica aperta a tutti, egualitaria e democratica, tale da garantire a ciascuno indistintamente e indipendentemente dal suo status sociale il raggiungimento di quel pieno sviluppo della persona umana garantito dalla Costituzione (art. 3), fattore di dignità sociale e mezzo col quale esercitare una cittadinanza attiva, libera e consapevole (“Sapere è potere”). È Francesco Parsi, giovane e dinamico studente delle superiori, che Monica accompagna a Barbiana. Qui, da prospettive diverse e ciascuno con la propria sensibilità, i due discutono e riflettono assieme a Francesco Carotti, uno degli ex allievi di don Milani, sulle battaglie combattute a Barbiana, e altrove nella società italiana, per l’attuazione di un diritto all’istruzione e al sapere egualitario, sulle conquiste conseguite ma anche sui limiti e sulle inadeguatezze della scuola di ieri e di quella di oggi.

Dedicato al tema dell’uguaglianza e al suo rapporto con la libertà è il quarto episodio. Al centro vi è la questione della tutela delle diversità come fattore di effettiva uguaglianza: due diverse storie personali di diseguaglianza generate da distinti fattori di diversità personale si confrontano, senza sovrapporsi e nelle loro specificità, entrando però in contatto su di un comune cammino di consapevolezza e rivendicazione. Da un lato, la storia di Giuliana Gentili, attivista dei diritti delle donne e tra le fondatrici a Grosseto, tra anni Settanta e Ottanta del Novecento, del Collettivo Femminista e del Centro Donna, dunque protagonista di lunghe battaglie contro forme di diseguaglianza di genere e a favore del pieno riconoscimento della parità dei diritti. Dall’altra, invece, la storia di Elma Kamberi, giovane ragazza nata e cresciuta in Italia da famiglia di origini kossovare e privata fino al diciottesimo anno di età della cittadinanza italiana, ottenuta a fatica solo dopo una lunga trafila burocratica e una non facile rivendicazione della propria identità personale segnata da pregiudizi e resistenze. Nel dialogo che si crea tra le due protagoniste e grazie al ruolo di mediazione esercitato da Monica, emerge una riflessione profonda e problematica sull’attualità dei diritti di eguaglianza sanciti dalla Costituzione e sull’impegno ancora necessario affinché, ieri come oggi,  a ogni cittadino, senza distinzioni di sesso, genere, religione, lingua, cultura e condizioni sociali, sia ancora assicurato di raggiungere quell’uguaglianza sostanziale che sola garantisce il pieno sviluppo della dignità personale e sociale necessaria alla sua libertà.

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Il regista Nicola Melloni (a sinistra) concorda gli ultimi dettagli con i testimoni Giorgio Molendi e Paolo Maiolini prima di girare una scena dell’episodio ambientato nelle acciaierie di Piombino (foto Davide Mandolini)

Al successivo episodio è invece affidato il tentativo di riflettere sul tema del lavoro e sulla sua effettiva capacità di costituire, oggi come in passato, un elemento ancora fondamentale alla cittadinanza repubblicana, nella sua duplice accezione di diritto – che la Repubblica si obbliga a rendere effettivo – e di dovere – per cui il cittadino è chiamato con esso a svolgere una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Nel corso della storia dell’Italia repubblicana, perché queste premesse di cittadinanza fossero mantenute il lavoro ha richiesto – e ancora richiede – un continuo sforzo di adeguamento delle sue reali condizioni ai principi di tutela salariale, previdenziale e sindacale garantiti sulla carta dalla Costituzione. Per ripercorrere alcune tappe di questo processo, coglierne il senso e confrontarsi con storie di lotta alla precarietà e di difesa della dignità sul lavoro, Monica accompagna Davide Mandolini, il giovane protagonista dell’episodio, a visitare gli impianti delle storiche acciaierie di Piombino. A guidarli sono due operai in pensione ed ex sindacalisti, Giorgio Molendi e Paolo Maiolini, che testimoniano delle condizioni di vita e di lavoro vissute all’interno della fabbrica, di quanto fatto negli anni della contrattazione a difesa dei diritti di categoria nonché però delle successive trasformazioni  subite in anni più recenti dall’impiego con il ricorso a forme contrattuali a termine e interinali, incapaci di garantire adeguata tutela al lavoro. Nuove forme di precariato sulle quali riflettere e alle quali Davide, in un confronto tra diritti costituzionali e forme nuove e vecchie di mancata tutela sul lavoro, aggiunge quelle diverse ma analoghe derivanti dalla sua personale esperienza professionale di giovane fotografo freelance, privo di sufficienti sicurezze previdenziali e sindacali.

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Piombino – ultime prove tecniche prima delle riprese  Monica Rook (a sinistra) con la fonica Manuela Patti (foto Davide Mandolini)

La serie, apertasi a Sant’Anna di Stazzema quale luogo simbolo cui è legata l’origine dello spirito della Costituzione, si chiude in ciclica continuità con l’episodio finale ambientato a Firenze, luogo altrettanto emblematico per le radici storiche e morali della nostra democrazia a partire dal ruolo giocato dall’insurrezione cittadina dell’agosto 1944 e dall’esperimento di autogoverno democratico affidato ai partiti antifascisti del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. La modalità con cui la città esce dalla guerra sperimentando, nonostante le profonde cesure politiche generate dal conflitto, una forte solidarietà popolare, come pure le successive e analoghe esperienze di mobilitazione dal basso e di solidarietà tra cittadini e istituzioni di cui la città si rese protagonista in anni seguenti – quali tra tutti i movimenti di quartiere sorti a partire dalla fine degli anni Sessanta – aiutano a riflettere sul ruolo che l’impegno e la partecipazione popolare giocano sulla costruzione e sul mantenimento dal basso della democrazia. Una storia che i quattro giovani protagonisti guidati ancora da Monica ripercorreranno con un suggestivo itinerario lungo il percorso dell’Arno, dal centro storico al quartiere popolare dell’Isolotto: occasione questa che servirà anche a ciascuno di essi  per trarre, alla luce del viaggio compiuto nei precedenti episodi, una conclusione personale sul senso che la Costituzione mantiene con le radici della nostra storia e col nostro presente.

Della serie, che sarà pubblicata integralmente sul web entro la fine del 2018, saranno proiettate in anteprima alcune parti nell’ambito dei convegni didattici provinciali sul progetto Costituzione: la nostra Carta d’identità 1948-2018 che si terranno a Firenze il 12 novembre 2018 presso il Teatro della Compagnia e a Pistoia il 21 novembre presso la Biblioteca S. Giorgio.

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




“Mille non sono tornati”

È appena uscito (Novembre 2018), a cura di GD edizioni di Sarzana, il saggio Mille non sono tornati di Ezio Della Mea e Enzo Menconi,  che si colloca nell’ambito delle celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale.

Il volume, completo di un’appendice di mappe e di un CD con un data base, è di facile consultazione: i caduti sono suddivisi per frazione di nascita e/o domicilio e se ne raccontano le vicessitudini militari, l’eventuale prigionia, le circostanze del ferimento e della morte, e della inumazione. Esso ricorda tutti i caduti carraresi durante la Grande Guerra, 960 uomini ed una donna, Argentina Dell’Amico.

Lei ha una storia particolare, che merita di essere raccontata: il suo nome compare alla base di un piccolo obelisco che ricorda i caduti. Inizialmente si era pensato ad una crocerossina ma ulteriori ricerche hanno permesso di accertare che ella è morta durante la Seconda Guerra Mondiale, il 20 gennaio 1945, nella zona di Minucciano, in Garfagnana, dove si era recata con altre donne di Carrara per scambiare il sale con farina e altri prodotti. Lì viene a sapere del bombardamento di Carrara e decide di tornare a casa per verificare le condizioni dei suoi familiari. Trovandosi a ridosso della Linea Gotica, rimane uccisa dagli spari dei militari tedeschi.

L’idea di questo saggio è frutto di un’assenza, quella a Carrara, a differenza delle altre città italiane, di un ricordo dei suoi caduti durante la Prima Guerra Mondiale” afferma il coautore Ezio della Mea. Solo recentemente la Regione Toscana ha stanziato il finanziamento per il restauro di una lapide della Grande Guerra nel cimitero di Gragnana, perché eccessivamente deteriorata.

Ed è proprio dalle lapidi che la ricerca alla base di questo libro è iniziata, attraverso la loro ricognizione nei 13 cimiteri carraresi, dopo lo spoglio al Ministero della Difesa dell’albo d’oro dei caduti del ’15-’18. E qui scopriamo che solo in Toscana essi sono stati 46.162, “uomini a cui si deve guardare con rispetto e come ammonimento per il futuro, senza qualsivoglia esaltazione retorica e bellicistica”, scrive Enzo Menconi nella Prefazione.

Le forze combattenti andavano dai 18 (17 se partivano come volontari) ai 43 anni, ma accanto a loro c’erano gli operai militarizzati (dai 12 ai 60 anni). Inoltre, dopo Caporetto, fu necessario richiamare dalle leve di mare soldati per la leva di terra.

Nelle trincee del Carso, sulla Bainsizza, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Grappa, sul Piave, sull’Isonzo ma anche nella penisola balcanica e in Libia caddero circa 700.000 italiani. 800 erano di Carrara […] Oltre il 50% di quei soldati erano lavoratori del marmo”, scrive Enzo Menconi. Di questi 321, circa il 40 %, sono morti per malattia (prevalentemente broncopolmonite dovuta alle alquanto insalubri condizioni in trincea), 60 muoiono in prigionia (di cui 15 non si sa dove), i restanti per le ferite riportate.

Un esempio dei prigionieri deceduti in mano nemica, è Nicoli Bruno (classe 1895) sepolto a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto in epoca nazista), poiché spirato a seguito di una malattia.

A Carrara sono morti anche 88 soldati non carraresi, perché vi erano due ospedali militari. Le cause del decesso riportate nelle cartelle cliniche recitano principalmente congelamento, oltre che ferite. Alcuni sono stati fucilati per i disturbi psichici dovuti ai traumi di guerra, come Arnaldo Bruschi. Egli era stato riformato alla leva e ritenuto idoneo solo ai servizi sedentari, ma, chiamato per la mobilitazione generale del marzo 1917, viene inviato come soldato nella compagnia zappatori. La sua morte è stata oggetto di plurime falsificazioni: sul sito OnorCaduti è riportato che è morto in azione sul Carso il 24 agosto, mentre l’ufficiale alla matricola del distretto militare di Massa trascrive nel Foglio Matricolare di Bruschi che egli “è morto per ferita da arma da fuoco non in combattimento” in analogia a quanto certificato nell’atto di morte del registro del reggimento. Le due annotazioni nascondono una tragica verità: il testimone, tenente Ilio Panzani, riferisce che quel 24 agosto il soldato Bruschi tentava di “scaricare l’arma”, gesto dovuto allo squilibrio mentale causato dalle fatiche precedenti e dalle traumatizzanti impressioni subite. Bruschi viene così condotto al posto di medicazione, con l’indicazione di qualche giorno di riposo. Ma i segni di squilibrio mentale proseguono ed un generale, presente sul posto, ne ordina la fucilazione. Il tenente Panzani, però, al termine della sua relazione scrive che il soldato Bruschi, nel periodo passato alle sue dipendenze “tenne sempre un’ottima condotta e mai ebbi a lamentarmi di lui per nessun motivo”.

Analogamente fucilato, il caporale Ferrari Luigi, ferito da arma da fuoco nei combattimenti di San Michele a Monfalcone. Condannato per diserzione di fronte al nemico, fu eseguita la pena della fucilazione alla schiena. Nessuna lapide lo ricorda, ma dopo la fine della guerra, gli è stata conferita la medaglia commemorativa nazionale. Citando de André: “ora che è morto la patria si gloria / d’una medaglia alla memoria”.

I soldati provenienti da Carrara combatterono principalmente sul Carso, a quota 83, vicino a Monfalcone, in una località non a caso chiamata Monte Calvario.

Ma diamo un nome e una storia ad alcuni di questi soldati. Ci piace ricordare i  fratelli Tusini (Alessandro e Lorenzo) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Alessandro muore il 26 giugno 1916 in combattimento sull’altopiano di Asiago; Lorenzo il 2 luglio colpito al cuore da un proiettile negli stessi luoghi dove, pochi giorni prima, era caduto il fratello minore.

Tristemente analoga la sorte dei fratelli Papini di Colonnata, Olinto (01.05.1892 – 24.10.1915) e Rodolfo (31.10.1894 – 01.11.1915) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Il primo, mentre tentava con il suo reggimento, il 90°, di guadagnare quota 1100, viene ferito all’addome da arma da fuoco e muore in ospedale a Tolmino il 24 Ottobre. La sua salma è stata poi trasferita a Caporetto. Il secondo, nel 12° reggimento di fanteria nella brigata Casale, avanza con i compagni sulla linea alle falde del Podgora, sui trinceramenti nemici, superando una prima linea, difesa tenacemente dagli avversari; il giorno dopo viene espugnata la seconda linea e il 28 ottobre, nonostante le avverse condizione meteorologiche, anche la terza. Ma Rodolfo il 1° Novembre sul Podgora, colpito da arma da fuoco durante un combattimento, cade. La salma attualmente giace al sacrario militare di Oslavia, senza una lapide che lo ricordi. I due fratelli, morti quasi nella stessa settimana, non sono mai stati neppure inumati vicini.

Diversamente i fratelli Pantera di Bergiola Foscalina sono sepolti uno accanto all’altro nel sacrario di Redipuglia (loculo 27347 e 27346), mentre a Borgiola una lapide li ricorda. Andrea è deceduto il 17 settembre 1917 in un ospedale da campo a seguito delle ferite da schegge di shrapnel; Emilio è morto il 12 Gennaio a Trieste nel 1920 a seguito di una malattia contratta quando ormai la guerra stava finendo.

Concludiamo rendendo onore al più giovane dei caduti: Galeotti Ercole. Aveva soltanto 14 anni e 7 mesi. Era operaio del Genio Militare della Prima Armata ed è morto per malattia nel piccolo ospedale da campo di Salò il 22 Ottobre 1918.

Si rende vero onore a lui e a tutti i caduti se ci si impegna per un futuro diverso in una patria che veramente ripudia la guerra.

Questo libro è un monumento cartaceo ai caduti di una guerra di cui questo anno si celebra la fine, da alcuni vista come la quarta guerra di indipendenza e comunque l’ultima di unificazione nazionale. Tuttavia esso “non è e non vuol essere la celebrazione di una vittoria o il rinnovo di antiche contrapposizioni […] ma un piccolo contributo alla ricerca di quel comune legame di civiltà che unisce oggi i popoli di Europa, quel legame che le guerre, i totalitarismi e i nazionalismi non sono riusciti a cancellare”, afferma con vibrante convinzione Menconi.

La storia è un vaccino, ma, come i vaccini, ha bisogno di richiami.

Articolo pubblicato nel novembre del 2018.




Dirty dancing: balli “peccaminosi” alla Casa del popolo di Tobbiana

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, una novità esplosiva irruppe sulla scena musicale dell’Italia del Boom: il rock’ n’ roll faceva infatti la sua comparsa nella Penisola, dove avrebbe trovato un’intera generazione pronta a scatenarsi al suo ritmo dirompente.

Questa tendenza musicale proveniente dagli Stati Uniti andò subito diffondendosi nell’Italia del Miracolo: infatti, i giovani del Boom prediligevano, nei loro gusti musicali, suoni dai tratti “esotici” che, almeno all’inizio, provenivano da cantanti statunitensi (come Neil Sedaka e Paul Anka). Il rock’ n’ roll trovò di lì a breve un equivalente locale nei cosiddetti “urlatori”- Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Mina e molti altri – che sfidarono a colpi di grida e note musicali i cantanti melodici tradizionali. Questi nuovi ritmi contribuirono fortemente a definire l’identità di una generazione che considerava la sfera ricreativa come un luogo essenziale per la creazione della propria identità.

È dalla campagna che analizzerò il rapporto che si creò fra le Case del popolo e la diffusione, fra la generazione del Miracolo, della passione per la musica e per il ballo. Prendendo infatti come esempio la Casa del popolo di Tobbiana (posta nel comune di Montale, in provincia di Pistoia), vedremo come queste istituzioni ebbero un ruolo decisivo nell’accompagnare la gioventù di allora nei suoi “balli peccaminosi”.

Era il 1965 quando fu inaugurata la grande sala della Casa del popolo di Tobbiana. Adesso anche in paese c’era un luogo dove ritrovarsi per convegni, conferenze e… ballare!  La domenica, dalle 21.00 in poi, i giovani danzavano sulle note di Jimmy Fontana, di Don Backy, di Little Tony. La serata di inaugurazione fu un grande evento per il paese: nasceva così il Dancing La Roccia.

Molti amori sono nati sulle canzoni suonate al Dancing La Roccia, dove i cuori dei giovani palpitavano a ritmo di musica. Vi è da fare però un’importante precisazione. Ancora alla metà degli anni Sessanta, il paese di Tobbiana restava diviso fra lo schieramento comunista e quello democristiano. I democristiani evitavano di recarsi alla Casa del popolo, e proibivano ai loro figli di frequentarla: infatti, i giovani provenienti da famiglie democristiane non andavano al Dancing La Roccia. In particolare, erano le ragazze a non recarsi a ballare alla Casa del popolo del paese.

Ciò non accadeva solo a Tobbiana: infatti, le ragazze di provenienza democristiana non ballavano in generale. Ancora nel secondo dopoguerra, il ballo era visto dalla Chiesa cattolica come un “diabolico trattenimento”. I balli sono sempre dannosi, a maggior ragione per le donne. È l’essenza stessa del ballo che mette a repentaglio la virtù delle giovani: la vicinanza dei corpi avrebbe infatti portato a uno scoppio dei “bassi istinti” e, di conseguenza, a una relazione sessuale. Per le adolescenti, a cui è richiesta la salvaguardia delle verginità, la cosa migliore sarebbe perciò evitare i balli. Chi, al contrario, si reca a ballare, sa già di poter perdere l’illibatezza e, con essa, la possibilità di un matrimonio soddisfacente. Ma, anche se la verginità non dovesse essere perduta, anche la sola “compromissione coi balli” precluderebbe alla donna la possibilità di trovare un uomo disposto a sposarla: questo spiega il gran numero di sermoni cattolici che insistevano sul tema del ballo peccaminoso, destinato a condannare le impenitenti ballerine alla condizione di sedotte e abbandonate o inevitabili zitelle.

Certamente, alla metà degli anni Sessanta, il condizionamento della Chiesa sulla morale era ancora molto forte, soprattutto nei riguardi del sesso femminile. Del resto, la maggior parte della popolazione italiana avrebbe condiviso ancora a lungo la tradizionale mentalità maschilista e misogina, che prescindeva dal colore politico di appartenenza. Ma vi è da dire che, nei confronti della musica e del ballo, i comunisti potevano vantare, rispetto ai democristiani, una mentalità più aperta e un’esperienza ventennale, iniziata nell’immediato secondo dopoguerra.

Infatti, dopo la fine del conflitto, i primi locali danzanti “popolari” nacquero proprio nelle Case del popolo: e quella di Tobbiana non fece eccezione. Già nel 1947, la dirigenza prese in affitto un piccolo appezzamento di terreno dove costruire una pista da ballo all’aperto. Nacque allora il Dancing Fico Verdino, grazie al quale i paesani giovani e meno giovani poterono riscoprire la loro capacità di divertirsi dopo una guerra particolarmente dura e sanguinosa. Osservando i tobbianesi ballare al Fico Verdino, possiamo notare come la dirigenza della Casa del popolo non fosse mai stata chiusa nei riguardi della dimensione ricreativa – ma che, anzi, avesse creato essa stessa dei momenti di svago per tutta la popolazione. Il Dancing La Roccia pare essere la naturale evoluzione del piccolo Dancing Fico Verdino.

La direzione della Casa del popolo sapeva bene che la grande sala sarebbe divenuta il luogo dove i giovani avrebbero finito per ballare “a ritmo di rock”. Sebbene i ragazzi e le ragazze, al Dancing La Roccia, non restassero mai da soli senza gli adulti (gli attivisti “anziani”, i genitori che accompagnavano a ballare i loro figli), è indubbio che, in generale, da parte dei comunisti vi fosse una maggiore apertura riguardo ai “balli peccaminosi” che tanto preoccupavano la controparte democristiana e la Chiesa cattolica.

Insomma, possiamo dire che, per il paese di Tobbiana come per tante altre realtà simili, fu proprio la Casa del popolo a costituire il primo e più importante luogo di diffusione, fra i giovani, dell’amore per il ballo (peccaminoso!). Di lì a breve, ognuno di loro avrebbe preso la propria strada. Ma, nonostante il fatto che la vita li avrebbe poi portati verso altri luoghi ed esperienze, quei ragazzi e quelle ragazze non avrebbero mai dimenticato quei giorni spensierati trascorsi ballando alla Casa del popolo di Tobbiana.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60. Attualmente è consigliere dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.