L’occupazione nazista di Monsummano, 1943-1944

I giorni successivi all’Armistizio furono terribili per l’Italia e per i suoi abitanti: anche Monsummano, paese pistoiese di 9647 abitanti nel 1944, fu profondamente sconvolto con l’immediato arrivo di colonne motorizzate naziste.

Durante la guerra furono più di 800 i monsummanesi richiamati alle armi e a settembre la maggior parte di loro fece ritorno a casa fra pericoli e difficoltà. I meno fortunati vennero catturati dai tedeschi e sfruttati come forza lavoro o imprigionati nei lager con la qualifica di Internati Militari Italiani: nell’archivio locale sono presenti ben 26 domande di liberazione redatte dalle famiglie o dai datori di lavoro.

Un fenomeno nato con l’occupazione nazista fu quello degli helpers, persone che dettero protezione agli ex-prigionieri militari alleati in fuga dai campi d’internamento italiani: assicurarono loro vitto, vestiti e alloggio. A Monsummano le richieste di riconoscimento nel dopoguerra furono soltanto due, da parte di Matteo Mattei e Ulderigo Giovannelli, ma non siamo a conoscenza dell’esito; tuttavia, sappiamo che Mattei, residente a Montevettolini, dopo aver dato riparo ad alcuni soldati alleati ed esser stato denunciato dai repubblichini locali, fu arrestato e rinchiuso in un campo di lavoro, riuscendo poi a fuggire.

Casa del fascio di CintoleseIn tutta la RSI furono organizzate retate dai tedeschi e dai repubblichini per la cattura e la deportazione degli ebrei. Il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata dal fascio monsummanese portò al fermo di sei ebrei: Giulio Melli (74) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39), figlio di Giulio, e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3), figli di Elio. Un altro uomo, Carlo Levi (72), fu imprigionato il 14 febbraio 1944. I sette furono internati nel campo di concentramento di Fossoli e da lì partirono con i treni in direzione Auschwitz: nessuno tornò più a casa.

Il comando provinciale nazista era collocato a Pistoia mentre leggi e ordinanze venivano divulgate nei comuni dal commissario prefettizio, ruolo ricoperto prima da Gildo Rubino poi dal professore Italo Giampieri. Fra i numerosi decreti emanati occorre ricordarne alcuni: la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna di tutte le armi; le speciali disposizioni sulla circolazione dei veicoli; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; il coprifuoco dalle 22 alle 5; le norme sull’oscuramento; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Un grave problema che afflisse la comunità fu quello degli sfollati, persone provenienti dai luoghi più disparati che cercavano rifugio e protezione. Nella città valdinievolina furono ospitati in case libere o abbandonate, negli edifici scolastici, in locali di fortuna, spesso sprovvisti di sufficienti condizioni sanitarie e alimentari.

Quotidiani allarmi risuonavano nell’abitato, soprattutto nelle ore notturne: la sirena era installata in casa del capo guardia Nazzareno Pieri presso il palazzo comunale. A Montevettolini, Giuseppe Francini suonava le campane della chiesa per informare la popolazione. Durante gli allarmi, gli abitanti solevano scappare nella campagna e nei rifugi; già dal febbraio ‘44 gli enti comunali avevano provveduto a costruire trincee e difese antiaeree. La città termale non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata diverse volte dagli alleati che causarono 12 vittime.

In paese fu attiva l’organizzazione nazista Todt con sede nello stabilimento termale e hotel della Grotta Giusti, reclutando personale civile in parte aderente e in parte obbligato: innalzarono un fortino in cemento armato, edificarono varie baracche in legno e scavarono una galleria a forma di ferro di cavallo nella Cava Rossa. Un distaccamento dell’amministrazione tedesca fu alloggiato alla Grotta Parlanti e le due grotte vennero collegate telefonicamente con un filo volante spesso sabotato. Inoltre, da inizio giugno fino al 14 luglio, il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu situato alla Grotta Giusti.

Nel corso della stagione estiva i nazisti in ritirata furono colpevoli di una scia di massacri perpetuati ai danni della popolazione civile ed esportarono, senza nessun accorgimento giuridico, bestiame, cibo, vestiti e beni di qualsiasi valore. Ben 7 civili monsummanesi persero la vita prima dell’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti) avvenuto il 23 agosto 1944: Sereno Romani (45), colpevole di aver difeso una parente vittima di un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio) accusati di essere partigiani; Brunero Giovannelli (22), colpito nel tentativo di fuga durante un rastrellamento; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18 anni), accusati di effettuare segnalazioni luminosi.

Le formazioni partigiane dell’area si distinsero per attività di sabotaggio, di raccolte armi e informazioni. Erano tre: la Stella Rossa, comunista, la Corallo, partito d’azione e la Faliero. I partigiani monsummanesi furono almeno 17, i patrioti 15. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi.

Il potere politico fu assunto a partire da fine agosto da Aurelio Pestelli, proprietario della Grotta Giusti. Il C.L.N. locale cominciò la propria attività nel giugno 1944 aiutando, in ambito economico e politico, la cittadinanza e al 5 settembre risaliva la prima riunione post-liberazione nella sala podestarile del comune.

Il 9 settembre il comunista Fulvio Zamponi fu nominato all’unanimità primo sindaco di Monsummano mentre il democristiano Giulio Bendinelli divenne vicesindaco.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendo il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato una monografia dal titolo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Inoltre ha partecipato a presentazioni di libri, tra i quali Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi storici sia a livello comunale sia in ambito provinciale. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




Un monument man poco conosciuto

Analizzando i complessi intrecci di eventi e personaggi che ebbero come sfondo la difesa dell’arte in Italia durante la Seconda guerra mondiale, il nome di Giorgio Castelfranco (1896-1978) non è forse tra i più noti. Tuttavia lo storico dell’arte ebreo, allontanato nel 1938 dalla prestigiosa direzione della Galleria di Palazzo Pitti in occasione della visita del Führer e cacciato definitivamente il 1° febbraio 1939 per effetto delle leggi razziali, è tra le figure centrali nella salvaguardia del patrimonio artistico dell’Italia all’alba della Liberazione.

ritratto

De Chirico, Ritratto di Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Castelfranco nacque nel 1896 da un’agiata famiglia ebrea e, dopo la laurea in Lettere a Firenze, sposò la cugina Matilde Forti, con la quale andò a vivere nel villino di Lungarno Serristori a Firenze, oggi Museo Casa Siviero. Il villino Serristori vide ospiti illustri, come Giorgio De Chirico, di cui Castelfranco divenne il maggior collezionista, e un giovane Rodolfo Siviero, all’epoca agente del SIM e meglio conosciuto oggi come lo “007 dell’arte”.

A seguito delle leggi razziali, Castelfranco fu quindi costretto a lasciare la Soprintendenza e a vendere la sua collezione per poter mettere in salvo i figli in America; nel 1942 salutò definitivamente la sua residenza fiorentina (che divenne il quartier generale di Siviero e della sua “squadra” di partigiani) per nascondersi nelle Marche. Con l’Armistizio (8 settembre 1943) si schiuse la possibilità per Castelfranco di offrire, dopo anni, la sua professionalità a servizio della salvaguardia del patrimonio artistico italiano e di ricominciare a vivere. Dopo esser riuscito a passare il fronte attraverso le montagne abruzzesi il 7 novembre 1943, venne finalmente riassunto a decorrere dal 1° dicembre 1943 dal governo Badoglio.

Dal febbraio all’aprile 1944, Castelfranco fu comandato a Salerno in qualità di Direttore reggente alle Belle Arti: in collaborazione con gli ufficiali alleati della sezione Monuments, Fine Arts, and Archives, riattivò il lavoro delle Soprintendenze del Sud e iniziò la ricostruzione degli edifici danneggiati.
Uomo mite, di grande intelligenza e cultura, con raro attaccamento al dovere e senso di responsabilità, nell’estate del 1944 si spostò a Roma e poi in Toscana, inviato a esaminare i depositi dove la Soprintendenza alle Gallerie di Firenze aveva ricoverato le opere d’arte dei musei. In particolare Montagnana e Montegufoni, nel comune di Montespertoli, dove lo attendevano, tra gli altri capolavori, la Primavera di Botticelli e la Maestà di Giotto.

Dopo la Liberazione di Firenze, Castelfranco si trasferì definitivamente a Roma, dove l’amico Siviero aveva creato un piccolo ufficio per il recupero delle opere d’arte sotto il Ministero della Guerra; successivamente l’Ufficio, subordinato al Ministero della Pubblica Istruzione, fu ufficialmente costituito a Firenze nel 1945 e in seguito istituito con decreto luogotenenziale a Roma nel 1946, sotto la supervisione del Ministero della Pubblica Istruzione, in accordo con i Ministeri della Guerra e degli Esteri. Siviero fu nominato responsabile del nuovo ente e della missione che il governo italiano inviò in Germania, su invito del governo militare alleato, per iniziare le pratiche di restituzione dei beni artistici requisiti dai nazisti.

Una delegazione di 14 membri, di cui entrò a far parte Castelfranco in qualità di rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, iniziò i lavori nell’autunno 1946, presso il Collecting Point di Monaco, dove si raccoglievano le opere recuperate dai depositi tedeschi.

Nel lavoro di indagine e identificazione delle opere d’arte di provenienza italiana trafugate dai nazisti in Germania, Castelfranco svolse un ruolo chiave: la sua permanenza a Monaco durò circa tre mesi, parte dei quali egli fu il principale incaricato per le questioni artistiche. Il lavoro di Castelfranco si concentrò sulla ricerca e catalogazione di pezzi provenienti dal Museo Archeologico e dalla Pinacoteca di Napoli (futura Galleria di Capodimonte), trafugati durante la guerra dal deposito di Montecassino e recuperate dal deposito di Altaussee presso Salisburgo. Nel novembre 1946 l’imballaggio dei materiali reperiti nell’”immenso deposito” bavarese fu concluso, ma si aprì una complessa procedura relativa al rimpatrio, che si sarebbe conclusa nell’agosto del 1947.

Il risultato della missione fu il ritorno in Italia delle oreficerie e dei bronzi antichi del Museo Archeologico, nonché dipinti famosissimi di Tiziano, Raffaello, Parmigianino, Sebastiano del Piombo provenienti dalla Pinacoteca. A queste si aggiunsero cinque campane provenienti dalla provincia di Lucca rinvenute a Regensburg.

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Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947). Da sinistra Rodolfo Siviero, Lucius Clay, Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Guido Gonella all’inaugurazione della mostra il 9 novembre 1947, ritratti accanto alla Danae di Tiziano (Biblioteca Casa Siviero)

Le opere furono ufficialmente consegnate alla delegazione italiana il 7 agosto 1947 e fin da subito iniziarono i lavori per organizzare una grande mostra alla Villa Farnesina a Roma. Nelle settimane successive fu lo stesso Castelfranco a curare, nella sua veste di alto funzionario del Ministero, la preparazione, l’allestimento e il catalogo della prima “Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania”, che aprì i battenti il 10 novembre 1947.
L’inaugurazione si tradusse in una cerimonia ufficiale ed ebbe un significativo risalto sulla stampa italiana, che sottolineò diffusamente il valore delle opere esposte e la valenza risarcitoria della restituzione. Alla manifestazione parteciparono De Gasperi, il presidente della Repubblica De Nicola, il ministro della Pubblica Istruzione Gonella e il ministro degli Esteri Sforza, l’ambasciatore James Clement Dunn, il governatore militare della zona di occupazione statunitense in Germania Lucius Clay, Robert Murphy, consigliere politico per gli affari europei del dipartimento di Stato USA e un ampio staff di funzionari statunitensi.

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Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947): la Sala delle Prospettive con i bronzi antichi del Museo Nazionale di Napoli (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Nella prima rassegna di “capolavori recuperati”, presentati in un allestimento volutamente sobrio sullo sfondo degli affreschi rinascimentali della Villa, spiccavano i bronzi romani e la collezione di oreficeria antica del Museo Nazionale di Napoli, nonché i capolavori provenienti dall’attuale Galleria di Capodimonte di Napoli, come la Danae di Tiziano, prediletta da Göring, scelta come immagine simbolo di tutta la mostra.

Aurora Castellani, Francesca Cavarocchi, Alessia Cecconi sono le curatrici della mostra “Giorgio Castelfranco: un monument man poco conosciuto” (Firenze, Museo Casa Siviero, 31 gennaio-31 marzo 2015).

 

 

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Dalle trincee ai corridoi del manicomio

I corridoi e le stanze del Frenocomio San Girolamo di Volterra si riempirono, tra il 1916 e il 1919, di individui silenziosi, allucinati, amnesici, eccitati, alcolisti, dementi precoci, isterici, malati con sintomi strani (che includevano possessioni demoniache, regressioni all’infanzia, deliri), traumatizzati. Era la tormentata umanità dei soldati che avevano manifestato al fronte dei disturbi mentali in seguito a episodi traumatici o a causa del surmenage emotivo della guerra.

Le presenze di ricoverati registrate al Frenocomio di Volterra negli anni della Grande Guerra aumentarono vertiginosamente: in particolare nel 1918 i malati arrivarono a raddoppiare rispetto a quelli del 1915. L’Istituto volterrano, al pari degli altri istituti italiani mobilitati per la guerra, si inserì nel contesto dell’emergenza bellica delle nevrosi, fungendo da luogo di transito e smistamento dei soldati che avevano ricevuto una diagnosi psichiatrica al fronte: una volta riconosciuti malati di mente i soldati avevano davanti a sé due vie, essere rimandati al fronte o essere internati nelle strutture manicomiali italiane. Nel primo caso i soldati venivano sottoposti a cure di scarso effetto o anche dolorose come l’elettroterapia, per smascherare i numerosi simulatori o cercare di eliminare i disturbi psichici. In seguito alla riorganizzazione della macchina bellica post-Caporetto, nel gennaio 1918, fu creato il Centro di Prima Raccolta a Reggio Emilia, un centro diagnostico dove i medici decidevano se rispedire il malato al fronte o rinchiuderlo in manicomio. I soldati iniziavano allora un viaggio a scendere la penisola, ricoverati per brevi periodi in varie strutture psichiatriche: la meta finale di questo viaggio era l’ospedale psichiatrico della loro provincia d’origine, vicino alle famiglie. A Volterra i soldati, provenienti da ospedaletti da campo sul fronte, da istituti del Nord Italia o dal Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, venivano ricoverati per brevi periodi, spesso senza neanche venire sottoposti ad una vera e propria terapia o a visite mediche, per poi essere mandati nel manicomio della loro provincia d’origine.

Il tema del legame tra guerra e follia era emerso insieme alla guerra moderna. Nei conflitti Russo- Giapponese, durante la guerra civile americana, si era osservata una moltiplicazione dei disturbi mentali legati agli eventi bellici. Alcuni storici, come Antonio Gibelli, interpretano questo fatto come una conseguenza della realtà alienante della guerra moderna, con la sua organizzazione da officina, l’utilizzo massiccio di nuove e sempre più distruttive armi, la concezione spersonalizzante dei soldati visti come meri ingranaggi della macchina bellica. La Grande Guerra rappresentò una cesura per la scienza psichiatrica, pesantemente ancorata alle convinzioni ottocentesche di organicismo ed ereditarietà nei disturbi.

Soldato ricoverato al S. ServoloMa torniamo nelle stanze sovraffollate del frenocomio volterrano durante la Grande Guerra. Il caso di C.B., soldato del 105° battaglione M. T., può esserci d’aiuto per comprendere un aspetto del rapporto medico-paziente durante la Grande Guerra. Il soldato fu ricoverato al S. Girolamo per i sintomi di un sordo-mutismo di origine isterica: questo ispirò nei medici un sentimento di ripulsa e disprezzo, come si può leggere persino nella cartella clinica. L’isteria, da secoli ritenuta una malattia esclusivamente femminile, veniva adesso riscontrata nell’ideale virile del guerriero: per questo molte volte i sintomi isterici venivano associati ad altre malattie o ignorati, mentre nei casi diagnosi isterica gli psichiatri osservavano con sdegno o con frustrante perplessità al crollare delle loro convinzioni. Stesso disarmato atteggiamento dei medici nell’osservare pazienti come L.G., ricoverato al S. Girolamo nel ’17, convinto di vedere diavoli e di esserne posseduto lui stesso, tanto da tentare di aprirsi la pancia per far uscire gli spiriti maligni: sin dal Medioevo le possessioni demoniache riguardavano soprattutto le donne. Come interpretare allora queste visioni nei virili soldati, così comuni in tutto l’esercito?

La Grande Guerra rappresentò un laboratorio per la scienza psichiatrica, poiché venivano velocemente demolite molte convinzioni ottocentesche. Nelle cartelle cliniche, soprattutto nei primi anni di guerra, si può trovare una ricerca ossessiva delle tare ereditarie del paziente o di predisposizioni organiche a sviluppare malattie mentali, spesso ignorando o dando poco peso ai traumi ricevuti in trincea; nell’intensa discussione tra gli psichiatri, che avveniva in tutti i Paesi coinvolti nel conflitto, assunse sempre più peso – anche se la questione rimase dibattuta – il trauma bellico come causa di molti disturbi. A Volterra, tra il 1918 e il ’19, i soldati, qualsiasi sintomo presentassero, venivano ammessi con la diagnosi di Demenza Precoce: un fatto che può essere interpretato come un gesto di resa dei medici di fronte all’impossibilità di penetrare i segreti delle nuove psicosi. Del resto gli psichiatri, che sin dal XIX secolo avevano dato il via ad un processo di istituzionalizzazione, di avvicinamento ai centri del potere statale e che sin dalla guerra in Libia avevano una presenza capillare all’interno dell’esercito, nel clima della mobilitazione generale si comportavano spesso più da soldati che da uomini di scienza, cercando di curare i malati per rispedirli a combattere.

In sede storiografica i disturbi psichici legati alla guerra sono stati visti come una fuga dall’incubo delle  trincee: tuttavia essi possono anche essere intesi come un riemergere in forma morbosa del proprio io sepolto dal nuovo status di soldato. È il caso, ad esempio di B.G., muratore romano ricoverato a Volterra nel 1918 che presentava un delirio allucinatorio in cui pensava di vedere il fratellino correre nei corridoi del manicomio, facendo arrabbiare la madre. La regressione infantile era diffusa tra i soldati, i quali tornavano alla condizione primaria dell’essere umano, quella del fanciullo. Altro modo molto diffuso di imporre il proprio essere e di ribellarsi allo stato di soldato era quello di spogliarsi della divisa: T.C. e M.A. prima di essere ricoverati a Volterra vennero trovati a correre nudi per le vie dei paesi vicino al fronte; non si erano solo spogliati del simbolo di un’identità imposta, ma avevano portato alla luce la parte più pura di sé, il proprio corpo. Oppure il caso del geniere P.D., molto legato alla moglie, il quale era affetto da allucinazioni e deliri di grandezza e gelosia che si esprimevano in una logorrea ininterrotta in cui insultava la moglie che vedeva tradirlo con i suoi superiori – spesso indicati come i veri nemici dei soldati – e in cui si vantava di possedere terre e bestiame: P.D.  trasformava quindi il suo amore per la moglie in una gelosia morbosa, mentre il delirio di grandezza celava la sua condizione subalterna nel suo paesino aquilano.

Infine occorre accennare ai moltissimi soldati ricoverati al S. Girolamo che si presentavano ostinatamente muti e silenziosi: la quiete della malattia era un’arma per combattere il fragore della guerra e tentare di riappropriarsi – follemente – di una tranquillità che era ormai perduta.

Marco Gualersi nel 2008 si è laureato a Pisa in Storia e civiltà con una tesi dal titolo “La follia e la Grande Guerra. Il caso del frenocomio di S. Girolamo di Volterra”. Collaboratore della Fondazione Memorie Cooperative, per la quale ha curato i volumi “Custodire il futuro. L’Archivio Storico di Unicoop Tirreno” (insieme ad Antonella Ghisaura ed Enrico Mannari) edito nel 2011 da Mind, e “Un’isola cooperativa. Cent’anni di cooperazione a Castagneto Carducci” (Bruno Mondadori, 2014).

Articolo pubblicato nel febbraio del 2015.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Un’isola cooperativa

Il 1848 è un anno cruciale, sia nella storia europea che nel Comune di Castagneto Carducci.Il territorio di Castagneto fu infatti dominato per secoli dalla grande proprietà nobiliare, che per un periodo prese il nome di Comunità dei Gherardesca; nel 1848 le tensioni tra i castagnetani e la potente famiglia sfociarono in una serie di moti e di atti di violenza contro le proprietà dei nobili padroni. Per porre fine alle violenze furono concesse delle “preselle” (parcelle di terreno): ciò portò alla nascita di una nuova classe sociale di piccoli possidenti, i presellai, di orientamento piccolo borghese cattolico e conservatore, e all’inizio dell’emancipazione dei castagnetani dagli antichi rapporti di potere.

Fu proprio all’interno di questa nuova e vivace classe che nacque la cooperazione nel Comune di Castagneto; anzi si potrebbe dire che il cooperativismo fu uno strumento di unione sociale per i piccoli proprietari e un mezzo di sostentamento alle loro attività e di emancipazione dai vecchi sistemi di potere.

Nel 1884 si formò la Società Operaia di Mutuo Soccorso: a dispetto del nome questa società era nata nell’ambiente dei presellai e il suo obiettivo era quello di soddisfare i bisogni dei piccoli proprietari e dei loro braccianti.

Nel 1902 nacque la Cooperativa di Consumo e Agricola di Castagneto Marittimo (in seguito cambiò la ragione sociale in Cooperativa Agricola di Castagneto Carducci): ancora una volta furono alcuni presellai che promossero questa realtà. Si trattava di una cooperativa di consumo che si occupava di vendere derrate alimentari – ramo che poi fu chiuso perché poco remunerativo – e attrezzi agricoli e concimi ai soci. La cooperativa fu la prima nel Comune a vendere i concimi chimici che da tempo erano usati nel resto d’Italia: sicuramente questo fatto era un riflesso della presenza delle preselle, le quali portarono una ventata di novità nelle colture e nelle tecniche di coltivazione, trasformando anche il paesaggio che era da tempo immutato.

negozio della coop la proletaria donoratico, via aurelia 1959 (510x800)

negozio della coop la proletaria Donoratico, via aurelia 1959

Infine, nel 1910, si formò, ancora all’interno della classe dei piccoli possidenti cattolici, la Cassa Rurale, ancora oggi in attività.

In questa prima fase la cooperazione castagnetana restò molto legata all’agricoltura, riflettendo la società e l’economia del paese, quasi esclusivamente rurale.

Gli anni del fascismo furono anni duri per la cooperazione. Dopo l’attacco squadristico alla cooperazione durante i primi anni Venti si arrivò a quella che è conosciuta come la Normalizzazione fascista, ossia alla costituzione dell’Ente Nazionale per la Cooperazione Fascista e l’irreggimentazione dei vari sodalizi, perseguita sostituendo i consigli di amministrazione con persone favorevoli al Regime.

A Castagneto non si sentirono né le scosse dell’attacco squadristico né il giro di vite successivo. Una delle ragioni di questa relativa tranquillità è da ricercarsi nel fatto che una delle massime cariche del Regime, il presidente del Tribunale Speciale e castagnetano Antonino Tringali Casanuova, fu egli stesso socio onorario di una cooperativa formatasi durante il Regime (la Cooperativa Dopolavoristica) e funse da “ombrello protettivo” contro le durezze della Normalizzazione per le altre coop del territorio. Del resto la cooperazione affondava le proprie radici in una classe borghese e cattolica, lontana dagli ideali socialisti avversi al Regime: ad esempio durante gli anni della Grande Guerra il presidente della Cooperativa Agricola fu il futuro presidente del PNF locale; inoltre, proprio in questi anni si costituì una cooperativa di consumo a Bolgheri che fu promossa da un rappresentante degli antichi padroni – e ora alleatisi con il fascismo, il conte Ugolino Della Gherardesca.

Dopo la liberazione di Castagneto, nel 1944, le cose cambiarono radicalmente. Alcuni esponenti delle grandi casate si erano schierati con le forze antifasciste, ma ciò non bastò a ricostruire il loro antico potere: dopo la guerra il baricentro politico del Comune si spostò a sinistra, e il volto del Comune cambiò radicalmente.

Oltre alla creazione di nuove cooperative sin dai primi giorni della Liberazione (come la Cooperativa di consumo del Popolo di Donoratico o la Rinascita, che i occupava della ricostruzione dopo il passaggio della guerra) anche quelle nate durante il Fascismo vennero riattivate con nuovi consiglieri e soci. Del resto anche l’economia del territorio, da secoli votata all’agricoltura, stava subendo un processo di diversificazione delle attività: la proliferazione di cooperative, durante la seconda metà del XX secolo seguì questo processo, giocando un ruolo importante.

spaccio della proletaria a Donoratico, via aurelia, commesse 1958 (1024x695)

Commesse dello spaccio della Proletaria a Donoratico, via aurelia, 1958

Iniziò ad espandersi il nucleo abitativo, soprattutto a Donoratico: dagli anni sessanta sino alla fine degli anni Ottanta vi furono delle cooperative edilizie, impegnate anche nella costruzione della zona di edilizia popolare dopo l’attuazione della legge 167 (come la Cooper Castagneto Carducci); vi furono cooperative legate al settore del turismo (Altro Spazio); esperienze legate ai nuovi settori produttivi, come la cooperativa formata dai dipendenti del Cantiere Navale di Donoratico; vi furono esperienze di cooperazione cattolica (la cooperativa Aclista) – per quanto non fortunate. Dopo la guerra e l’abbandono delle campagne dei castagnetani che cercavano lavoro nei poli artigianali e industriali vicini (Cecina, San Vincenzo e Piombino) i grandi proprietari fecero venire manodopera dal Sud, soprattutto dalle Marche: anche negli anni successivi i marchigiani continuarono ad arrivare, in cerca di terra e lavoro, formando a loro volta delle cooperative (un esempio ne è la Stalla Sociale, promossa da marchigiani e in attività dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta). La cooperazione che nella prima metà del novecento era chiusa nei confini comunali si aprì all’esterno, sia per l’apporto dell’immigrazione meridionale che per delle realtà promosse da cooperatori del Nord. L’agricoltura continuò a giocare un ruolo di primo piano: si formarono anche delle cooperative agricole, come il Germinal, un esperimento interessante promosso alla fine degli anni Settanta da giovani castagnetani che volevano fare una scelta di vita e di lavoro “in comune”.

Un ultimo cenno è doveroso fare a tre realtà ancora oggi in attività e in espansione nel territorio. La prima è la Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci, costituita nel 1910 come Cassa Rurale di Depositi e Prestiti da cattolici e presellai: dopo gli anni del fascismo, che la portarono verso la chiusura, nel dopoguerra la Cassa si riprese, cominciando ad espandersi nella provincia di Livorno e di Grosseto, arrivando a contare oggi più di 20 filiali; Unicoop Tirreno, nata come La Proletaria nel 1945 tra gli operai dell’ILVA di Piombino è presente a Donoratico dal 1954: oggi la cooperativa è estesa su quattro regioni; Terre dell’Etruria, una coop agricola impegnata in vari settori agroalimentari e tecnici, con oltre 3300 aziende agricole associate, nacque nel 1950 come Cooperativa Produttori Donoratico e dopo il lavoro dei primi anni di raccolta e commercializzazione del latte, è oggi una realtà importante diffusa nelle province di Livorno, Pisa e Grosseto.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Pistoia, 28 gennaio 1947: sciopero generale

I podromi del primo sciopero generale provinciale iniziarono a farsi sentire già nel dicembre 1946. Nel corso del mese il Pastificio Maltagliati a Margine Coperta e quello Giaccai di Pescia sospendevano la produzione per mancanza di farine. A Pescia anche la manifattura Cavallucci effettuava licenziamenti. Il 18 i mezzadri manifestavano massicciamente a Pistoia chiedendo l’applicazione del Lodo De Gasperi. In montagna, una serie di manifestazioni dei disoccupati in favore della ricostruzione causavano tensioni a più riprese e blocchi stradali. Anche i lavoratori ospedalieri scendevano in sciopero. Il 20 infine la fornitura di energia elettrica si interrompeva alla San Giorgio, la più importante industria della zona, bloccando la produzione. Una manifestazione di un migliaio di operai si recava in Prefettura provocando lievi scontri. Il Prefetto Mazzolani si dimostrava preoccupato. Fin dalla fine della guerra la conflittualità sociale era stata all’ordine del giorno, la disoccupazione e l’inflazione alte, ma in due anni la situazione non solo non era migliorata ma sembrava addirittura peggiorare, esasperando gli animi.

La stessa CGIL si trovava alla testa di agitazioni che a stento riusciva a controllare, specie in montagna e tra i disoccupati. Il 20 dicembre la Camera del Lavoro di Pescia votava un ordine del giorno contro il caro prezzi, che il Prefetto dispose riconoscendo che ormai il costo della vita aveva raggiunto limiti sproporzionati rispetto alle possibilità dei lavoratori e dei ceti medi. Ai primi di gennaio Mazzolani invocava al Ministero dei lavori pubblici i finanziamenti per la ricostruzione, promessi ma fermi per motivi burocratici, sottolineando che i disoccupati di San Marcello erano «ridotti alla fame» e che il rischio di nuove agitazioni era alto.

Tuttavia, la situazione a gennaio continuò ad aggravarsi. Tra il 9 e il 10 la fornitura di elettricità si interrompeva in quasi tutte le industrie della provincia, lasciando fermi più di ottomila lavoratori. Il 20 la protesta esplose a Campotizzoro. I disoccupati occuparono gli uffici telegrafici e annonari, chiedendo lavori pubblici, l’assorbimento di una parte di loro alla SMI, la riduzione dei prezzi, il pagamento del Premio Repubblica, un sussidio straordinario e la distribuzione di pasta. Gli operai della SMI entrarono in sciopero per solidarietà. I disoccupati a quel punto bloccarono anche la strada statale, desistendo solo dopo una mediazione portata avanti dai Carabinieri, dai rappresentanti della CdL e dalla Prefettura. In montagna si era intanto formato un Comitato pro-agitazione che intendeva proclamare lo sciopero. In questo contesto, il Questore si recava a Firenze per convincere il direttore della SMI, Orlando – inviso ai lavoratori per il suo coinvolgimento con il regime fascista –  ad assumere alcuni disoccupati. Orlando però rifiutava sia l’assunzione sia la successiva proposta prefettizia di partecipare a un tavolo di trattativa. Il Comitato intanto proclamava l’intenzione di riprendere l’azione entro tre giorni in mancanza di risultati.

A quel punto la Camera del Lavoro rischiava di essere scavalcata e si assunse, tra il 23 e il 24, la direzione dell’agitazione, che si stava trasformando anche in un braccio di ferro con la direzione della SMI. Venne presentato al Prefetto un piano per l’assorbimento di 350 disoccupati, 150 direttamente alla SMI e 200 presso un’azienda agricola collegata.

In montagna erano in agitazione circa duemila lavoratori, tra disoccupati e maestranze SMI, a cui si aggiunsero altri 500 operai delle Cartiere Cini. Dal 25 gli operai della San Giorgio entravano in sciopero bianco. Tutte le trattative restavano ferme al palo per il rifiuto intransigente di Orlando di sedere al tavolo, nonostante gli sforzi di Mazzolani.

Il 28 la CGIL proclamava lo sciopero generale, con una piattaforma rivendicativa ad ampio raggio:  indennità mensa; miglioramenti salariali; Premio Repubblica per le lavoranti a domicilio; applicazione dell’accordo nazionale per gli operai artigiani; miglioramenti salariali; assegni di famiglia; gratifiche natalizie ai lavoratori agricoli; applicazione Lodo De Gasperi; miglioramenti ai pensionati; ribasso generi largo consumo e tesseramento; distribuzione normale generi  alimentari; provvedimenti contro il mercato nero; risoluzione problema dell’energia elettrica.

In provincia si fermava tutto ad eccezione dei negozi alimentari e dei servizi di pubblica utilità. L’Associazione degli industriali accettava di sedersi al tavolo, ma la trattativa si preannunciava difficile. Messa alle strette, la SMI accettava l’assunzione di un centinaio di disoccupati. Tuttavia l’Associazione degli industriali subordinava la discussione di tutti i punti alla cessazione dello sciopero, cosa che la CGIL rifiutò. A quel punto nelle trattative si inserirono anche il Sindaco di Pistoia, il segretario nazionale della Fiom e la CdL di Firenze. L’accordo venne raggiunto il 30, prevedendo l’assunzione da parte della SMI di 50 lavoratori e l’avviamento al lavoro in Svizzera per altrettanti, insieme ad un sussidio. L’Associazione degli industriali si impegnava a collocarne altri 120 e a proseguire le trattative sugli altri punti, conclusesi poi in sede regionale con un nulla di fatto. Alla San Giorgio tuttavia alcuni operai intendevano continuare lo sciopero per protestare contro l’accordo, convinti a desistere da Valdesi della CGIL. Il 31 infine arrivava un altro risultato dal versante statale, con l’estensione del sussidio di disoccupazione a tutte le categorie industriali, ai braccianti e ai lavoratori edili.

L’esito dello sciopero fu incerto. Da una parte segnava un primo e palpabile successo della linea intransigente di Orlando, seppur in sordina. Dall’altra la CdL incassò alcuni risultati, sia economici che politici, ma piuttosto miseri rispetto alle richieste ed ai rischi presi. Forzata dall’agitazione dei disoccupati e probabilmente dall’entusiasmo dei militanti comunisti, la CdL usciva dallo sciopero con l’amaro in bocca e con uno strascico pesante al suo interno. Per la prima volta venne alla luce pubblicamente un dissidio tra la componente comunista, guidata da Valdesi, e quella democristiana di Turco, seppur ad acque ormai calme. L’esponente DC considerava lo sciopero in montagna mal impostato ed espresse riserve anche sulla costruzione della piattaforma, a suo dire inadatta. Le richieste erano legittime ma si era rischiato di impegnare il sindacato in una trattative lunga e pericolosa, punto su cui convergevano anche i socialisti con Morandi. I comunisti accusarono la componente DC di aver sottilmente sabotato lo sciopero. La vicenda arrivò fino a Roma, con l’ipotesi di una commissione di  inchiesta da parte della CGIL nazionale, mentre i democristiani si ritiravano dalla segreteria della Camera del Lavoro pur continuando l’attività nei sindacati di categoria.

 Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Italie di burro e gigli di lampadine

Nel 2011, i negozianti delle vie del centro  Firenze – con un’alta concentrazione soprattutto lungo un percorso che si snodava da Borgo La Croce fino a Palazzo Vecchio – sono stati invitati a allestire delle vetrine “patriottiche” per la sera del 17 marzo. L’idea non era nuova, anzi era una riproposizione, seppure in chiave minore della “Mostra delle Botteghe” che si era svolta nella città nel 1911. Nel passare in rassegna le vetrine colpiva la una netta prevalenza della scelta di esporre vetrine tricolori e risultava quasi del tutto assente la presenza del giglio fiorentino; ciò che invece era rimasto a distanza di cento anni dalla precedente manifestazione era, ancora una volta, il riferimento alla artigianalità, sia negli allestimenti delle botteghe  – ad esempio una tipografia di via del Corso aveva esposto un torchio dal quale usciva la stampa della notizia della breccia di Porta Pia -, sia nella mostra in Piazza del Duomo, dove per volere del comune, alcuni artigiani erano stati chiamati per dare dimostrazioni delle loro creazioni.

La mostra del 1911, nasceva da una collaborazione con la Camera di Commercio e con la Società degli esercenti e mirava a coinvolgere il ceto medio fiorentino per enfatizzare «il sentimento artistico quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055], e la tradizione artigianale e commerciale della città. Una parte consistente di essa era infatti formata da botteghe artigiane, piccoli negozi al dettaglio e venditori ambulanti che, ancora ad inizio secolo «costituivano un blocco storico […] che nessun mutamento ambientale, non escluso lo sviluppo dell’industria, era riuscito a demolire» [Spini, Casali, 1986, p. 200]. Secondo gli studi demografici di Ugo Giusti, gli esercizi commerciali in Firenze, nel 1911, erano 5034, la grande maggioranza dei quali impegnavano al massimo 5 lavoranti. Il quadro che ne emerge è quello di una città caratterizzata da piccole imprese artigianali presenti soprattutto nei rioni popolari come Santa Croce e nelle zone d’Oltrarno. Il centro, infatti, ad esclusione del quartiere popolare di Santa Croce, aveva la maggiore presenza di negozi di grandi dimensioni, con il 60% degli esercizi con un numero di addetti tra 10 e 25, e il 50% di quelli con più di 25 lavoratori [Pellegrino, 2004, p. 167].

1La mostra fu strutturata in tre date – il 29 aprile, il 7 e il 14 maggio – ognuna corrispondente ad un rione: Mercato centrale, centro e Oltrarno. La commissione, nell’indire il bando di concorso, si diceva certa che «i commercianti fiorentini, mai secondi nelle manifestazioni patriottiche, risponderanno anche questa volta collo stesso entusiasmo all’appello del comitato, tanto più che ora trattasi di una ricorrenza non solo fiorentina, ma italiana, alla quale devono partecipare quanti hanno sentimento di italianità»; e chiedeva loro di allestire le proprie mostre con «originalità di lavoro e sentimento artistico, quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055].

 A fronte di un vasto numero di vetrine addobbate senza un tema specifico, molti negozianti presentarono temi più elaborati: la vocazione artigianale fiorentina, la celebrazione della città stessa, il patriottismo nazionale.

La rappresentazione di Firenze fu un filo conduttore puntualmente sottolineato nelle cronache dei giornali cittadini. La città era rappresentata in modi diversi, ricorrendo ai simboli, ai personaggi significativi del passato, a vedute caratteristiche e alla valorizzazione delle antiche radici artigiane fiorentine.
Il simbolo più usato fu sicuramente il giglio bottonato rosso, spesso associato al tricolore, come nella «facciata dell’elegante negozio dell’antiquario Bartolozzi, dove un giglio fiorentino formato da numerose lampadine rosse sormontava l’ingresso principale del magazzino» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911]. Il giglio, oltre che al tricolore, era talvolta anche associato alla Stella d’Italia, come nelle esposizioni della ditta dei «Fratelli Quercentani, proprietaria di un negozio di cibarie e di salumi che aveva fatto una bella mostra dei suoi prodotti. Infatti, con uno squisito gusto artistico erano stati fatti dei bellissimi mosaici di fagioli, riproducenti la Stella d’Italia, il giglio fiorentino e la bandiera nazionale, gli stemmi della città di Roma e di Firenze» [«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.]. Il giglio prevaleva nettamente nei quartieri dell’Oltrarno, mentre appariva una sola volta nel rione del centro, e in quello del Mercato centrale [«La Nazione», 30 aprile 1911]. «Il Fieramosca» notava che «i buoni esercenti di là d’Arno sono meno entusiasti di quelli del centro nel comporre addobbi o mostre festive, e infatti, oltre ai negozi che abbiamo menzionato altri erano aperti al pubblico, nell’ordine di tutti i giorni» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911.]: si può pertanto concludere che l’elemento decorativo più presente in questi rioni fosse quello che rappresentava la città. Firenze era celebrata in Oltrarno anche tramite la ricreazione di vedute caratteristiche della città e, ancora una volta, questo avveniva solo in questa zona. In particolare, si poteva ammirare «in piazza Piattellina, nel negozio del signor Montelatici Emilio, una ben riuscita riproduzione del Duomo e del campanile di Giotto, lavoro artisticamente eseguito nel sapone»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.], e l’esposizione della «Signora Del Lungo che nella vetrina del suo negozio alla base dl Ponte Vecchio, ha un’altra volta esposto una riproduzione di quella parte del ponte ove è situata la sua bottega»[«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

La città, infine, era celebrata in Oltrarno con un tributo a Girolamo Savonarola: «in via dei Serragli, il signor Aiace Cirpiani ha trasformato uno sporto della bottega nella cella di Girolamo Savonarola. Tutto è messo con vero sentimento d’arte a riprodurre la cella autentica del monastero di piazza San Marco […]. Il fiero domenicano sedeva presso la sua piccola scrivania e dalla finestrucola della cella pioveva la pallida luce di una notte lunare. Bellissimo effetto e gran folla dinanzi alla mostra» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

L2’orgoglio per la storia cittadina si riscontrava soprattutto nei quartieri del centro e del Mercato centrale, attraverso la raffigurazione degli antichi mestieri. Alcune attività commerciali decisero di ricreare situazioni produttive o di vendita dello stesso esercizio com’era nei secoli passati. Così, «in una delle vetrine della Farmacia Londra era stato ricostruito l’antro di un alchimista con tutti i lambicchi [sic] e gli scongiuri possibili. L’antro in parola era abitato da un vecchio alchimista, vivo e bianco… per antico pelo che pazientemente eseguì la sua parte per lunghe ore in modo davvero encomiabile» [«Il Fieramosca», 8 maggio 1911]. Poco oltre «in piazza dell’Olio, la fabbrica di passamanerie Pieraccini e Bazzoni, aveva trasformato la sua bottega in un antico laboratorio per la lavorazione dei galloni nel ’400. Ad un antico telaio stava tessendo una giovane in carne e ossa»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. La riproduzione delle antiche botteghe era anche fonte di intrattenimento per il pubblico fiorentino, soprattutto quando queste erano osterie o fiaschetterie, come la bottega del vinaio Romeo Galatini nel Mercato centrale, trasformata «in una taverna del ’400, dove si potevano ammirare due avventori in costume dell’epoca» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911], e quella del pizzicagnolo Cecchi, convertita «in una osteria dove i garzoni erano intenti a riempire fiaschi di vino per chi ne voleva»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.].

Con questi allestimenti il ceto commerciante e artigiano della città celebrava il proprio lavoro in un gioco di rimandi simbolici che intrecciava i temi del lavoro, dell’arte e della tradizione; ed esaltava la Firenze dei secoli d’oro – non a caso i riferimenti al passato coprivano un arco che andava dal 1400 al 1600 – quella dei «cittadini artigiani e mercanti che, sulla base dei suoi ordinamenti democratici e della grande tensione etica che animava i suoi schietti e orgogliosi cittadini, aveva costruito una cultura di estrema raffinatezza proprio agli albori della civiltà europea occidentale» [Pellegrino, 2004, p.20]. Significativo a tale proposito la dislocazione di queste mostre, concentrata soprattutto nel rione centrale, dove la tradizione artigiana era più radicata, e nella zona del Mercato centrale, area di piccole botteghe specializzate.

3La diversa localizzazione delle botteghe, la loro densità relativa e soprattutto la differenziazione degli esercizi incise anche per quanto riguarda la rappresentazione della Patria. Nelle zone del centro e del Mercato centrale, in particolare nelle vie tra Santa Maria Novella e piazza del Duomo, «la nota predominante delle diverse e variate mostre è patriottica, i fattori della nostra unità, gli stemmi delle tre città festeggiano più delle altre il cinquantenario della nostra indipendenza, i tre colori fatidici, sono stati largo incentivo all’immaginazione dei nostri commercianti» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911]. Gli allestimenti di questi esercizi rispondevano ai canoni della pedagogia nazionale in chiave sabauda. Pochissimi erano i gigli bottonati e, quando presenti, erano accompagnati dagli stemmi delle altre capitali, per sottolineare la compartecipazione delle tre città al processo risorgimentale, come nella mostra degli elettricisti Magrini e Testi che «sull’impiantito avevano disposto 140.000 isolatorini per impianti elettrici a formare gli stemmi di Firenze, Roma e Torino e la bandiera nazionale» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]. La maggioranza dei commercianti optò per una mostra che ricordasse i protagonisti, ma, mentre Garibaldi compariva con un ritratto nella pizzicheria di Giuseppe Ducci, Vittorio Emanuele era riprodotto più volte, in allestimenti curati e creati appositamente per l’occasione. Probabilmente ad influenzare la scelta degli esercenti fu anche l’importanza data nei giornali all’imminente inaugurazione del Vittoriano: il fioraio Emilio Gabbrielli «aveva trasformato la sua grande vetrina in un grandioso e imponente giardino, e la parete di un muro prossimo tutto di fiori recava una grande figura di Vittorio Emanuele II, fatta tutta di fiori»[«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]; la pasticceria Scudieri «per l’occasione aveva riprodotto con la cioccolata il Castel Sant’Angelo ed il Campidoglio, nel mezzo della vetrina troneggiava un grande quadro, anche esso di cioccolata, dove con candido zucchero era riprodotto con fedeltà il grandioso monumento che dovrà essere inaugurato a Roma al Padre della Patria»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. Infine, resta da segnalare come in due vetrine fosse stata scelta la raffigurazione della nazione in veste di Italia turrita, un’immagine relativamente debole nella pedagogia nazionale. La prima vetrina si trovava in via Nazionale, dove la ditta di Luigi Simoncini, «negoziante di frutta che aveva fato una bella e artistica esposizione. Sotto una pioggia di luce troneggiava una grande figura di donna rappresentante l’Italia. Lo scudo che la donna teneva in braccio era composto di radici, patate e susine che componevano i tre colori nazionali. La corona, era tutta di fichi secchi»; la seconda era collocata «nella fiaschetteria del signor Ovidio Cresci in via di Maggio. L’Italia raffigurata in una statua di burro, sovrastava una zampillante vaschetta» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911].

Volendo trarre delle conclusioni si può affermare che la rappresentazione della Patria e della città assumono caratteri diversi a seconda del tipo di esercizio commerciale e, di conseguenza, del tessuto sociale del rione. In particolare nei quartieri dove le botteghe sono più legate al concetto di produzione e di artigianalità l’idea patriottica è più legata al livello locale. In particolare quello che viene più celebrato è la città di Firenze (attraverso i personaggi e la storia dei “secoli d’oro,  o il simbolo della città) oppure la tradizione e l’orgoglio di essere artigiano. Nelle zone a più alta densità di esercizi commerci svincolati dalla dimensione della piccola “bottega artigiana” l’idea di Patria connessa con quella di Nazione e alla pedagogia sabauda, e quindi vediamo comparire raffigurazioni abbastanza complesse come l’Italia turrita. Molto probabilmente ad influire sulle scelte dei commercianti avevano influirono anche le migliori condizioni di istruzione degli esercenti che erano stati in grado di mediare, grazie al ruolo determinante della scuola, la visione locale e nazionale.

 Riferimenti archivistici:

 Archivio Comune di Firenze, (ACF), Fondo Cerimonie, Feste Esposizioni (FCFE), CF5055, La mostra delle botteghe.

Riferimenti foto:

Fotografia 1: Mostra della Cartoleria Del Lungo. Zona Oltrarno. in ACF, Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055

Fotografia 2: Fiaschetteria del Pianello trasformata in taverna del XVI con avventore in costume. Zona Centro. in ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

Fotografia 3: Italia di Burro. Esposizione della Premiata Pizzicheria Ovidio Cresci. Zona Oltrarno. In ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

L’articolo è una forma abbreviata di un paragrafo all’interno di A. Gori, Tra patria e campanile. Ritualità civili e culture politiche a Firenze in età giolittiana, Milano FrancoAngeli, 2014.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.