La partecipazione degli ebrei livornesi alla Grande guerra

928 è il numero “ufficiale” dei caduti della Grande Guerra della città di Livorno, è il numero che risulta dalla consultazione del Ministero della Difesa. Sicuramente un numero per difetto perché si ricollega direttamente ai dati forniti nel 1928 durante il periodo fascista, relativi alle perdite in combattimento o in prigionia. Che fosse un numero per difetto lo si  può dedurre dal fatto che molti risultano “dispersi”, che di alcuni prigionieri non si sa la fine che possano aver fatto. Pertanto è lecito, ad una disamina accurata, ipotizzare che sia un numero, seppur di poco, più basso del reale. Quando però, per la città di Livorno, proviamo ad incrociare i dati del Ministero con il lavoro analitico svolto da Pierluigi  Briganti sulla partecipazione ebraica al conflitto, questa si rivela più significativa di quella verificabile nell’elenco dei  928 caduti e tale da porre più di un dubbio sulla veridicità della cifra iniziale. Dallo spoglio del primo elenco a nostra disposizione si poteva ricavare, in base al cognome, una presenza ebraica pari a 55 nominativi, non essendoci nessuna notizia relativa alla religione. Utilizzando invece la ricerca di Briganti arriviamo a determinare con sicurezza, poiché di ciascun nominativo compaiono il patronimico, il luogo di nascita e spesso il distretto militare di riferimento, il numero di 62 caduti. Una differenza di 7 individui sul totale pari ad un errore percentuale che sfiora il 9%. Non poca cosa. Caduti, come nella maggioranza dei casi  più per malattia che per il fuoco nemico. Ma lo sfoglio del testo di Briganti ci permette di entrare assai più a fondo nel merito analitico della partecipazione ebraica alla Grande Guerra. Ci troviamo in base alla sua ricerca di fronte ad un quadro di questo tipo:

zio di orefice1

Gastone Orefice, tenente ebreo livornese che morì in battaglia nel 1916 (Fondo privato famiglia Orefice)

Ufficiali generali: 2 (un tenente generale e un contrammiraglio)

Ufficiali superiori: 9

Ufficiali inferiori: 114

Sottufficiali e truppa: 86

Militari reperiti senza determinazione di grado: 8

Riepilogo che ci fornisce notizie  molto dettagliate e precise perché per ogni militare caduto ci dà non solo la paternità, il luogo e la data di nascita, ma anche quasi sempre dove è avvenuto il decesso, ci dice inoltre, per questo particolare campione, pure il distretto militare di riferimento. E’ proprio questo elemento in più che permette di evidenziare come dal distretto di Livorno non passarono soltanto i livornesi qui residenti ma transitarono anche decine di ragazzi, figli di livornesi, residenti all’estero, soprattutto nelle città del nord Africa o della Grecia ma che facevano riferimento a Livorno poiché i genitori e loro stessi non avevano mai rinunciato né alla cittadinanza italiana, né avevano abbandonato l’antico porto labronico. In tutto si tratta di 30 individui, per i quali è lecito ipotizzare che siano pure partiti volontari a conferma di quanto la storiografia sul tema ha da molto tempo accertato, cioè che il 1° conflitto mondiale è stato sentito dalla minoranza ebraica come una grande occasione d’integrazione, una occasione all’interno della quale inserirsi per meglio affermare la propria avvenuta e totale emancipazione. Le località d’origine si distribuivano su quattro diverse zone di partenza. La componente più numerosa arrivava dalla Tunisia (13 militari), al secondo posto si collocava l’Egitto (8 militari) e al terzo e quarto, la Turchia (7 militari) e la Grecia (2 militari). E’ una provenienza che riconferma quanto già sappiamo e sapevamo sulle comunità ebraiche del Mediterraneo. In base difatti alle nostre conoscenze, soprattutto per quanto riguarda la presenza livornese, la Tunisia è la più significativa e tale resta anche fino al secondo dopoguerra; al secondo posto vediamo l’Egitto che fu a lungo il luogo prescelto di molti commercianti che vi si avventurarono per fare affari e intrecciare relazioni. Meno importante sul piano numerico, comunque presente, è poi il caso delle città turche e greche, non specificate.

I dati su cui possiamo ragionare ci dimostrano anche l’alta percentuale dei graduati rispetto al totale a conferma dell’alto livello di alfabetizzazione della popolazione ebraica rispetto a quella italiana nel suo insieme. Percentualmente i graduati di questo campione toccano il 57% del totale degli ebrei livornesi partiti per la guerra, una quota altissima dove spicca un altro sottoinsieme, quello dei graduati: capitani, tenenti, maggiori, impegnati come medici e farmacisti nella Sanità. Continuando le nostre osservazioni sui nostri elenchi possiamo constatare che, come per il caso dei gentili, i nomi più ricorrenti che incontriamo si rifanno alle vicende risorgimentali o agli eroi della lirica e della letteratura. Abbiamo pertanto: Umberto, Carlo, Giuseppe, Giacomo, Athos ma troviamo anche i nomi della tradizione millenaria ebraica come: Moisé, Abramo Salomon, David, Isacco.

Facendo attenzione alle medaglie riportate incontriamo 13 medaglie d’argento, 5 di bronzo e 2 croci al valor militare. In totale 20 riconoscimenti di merito, a significare che, poco meno del 10% dei soldati che parteciparono al conflitto, ne fu insignito.

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

Ma il lavoro di Briganti ci permette anche un’altra lettura. Lo studioso aggiunge, credo anche per ragioni che possiamo definire morali, se l’individuo in esame, sopravvissuto al conflitto, è poi stato deportato. Incrociando la sua informazione con la ricerca di Liliana Picciotto Fargion, siamo anche in grado di scoprire se riuscirono a tornare vivi oppure no dall’esperienza dei campi di concentramento. Possiamo qui ricordare: Montecorboli Augusto, figlio di Vittorio, deportato ad Auschwitz, Ottolenghi Alessandro, figlio di Ernesto, anche lui deportato e ucciso ad Auschwitz, Pace Giacomo Giacobbe di Leone, deportato ed ucciso ad Auschwtiz. Tra i sottufficiali e i militari di truppa incontriamo nella stessa condizione: Luisada Augusto di Vittorio, deportato ed ucciso all’arrivo ad Auschwtiz, Menasci Raffaello di Enrico, deportato ad Auschwitz e morto a Varsavia, Pesaro Gualtiero di Leone, deportato ad Auschwitz e deceduto in località sconosciuta, Piperno Ernesto di Giuseppe, deportato ad Auschwitz, deceduto in località sconosciuta, Tedeschi Gino di Moisé, deportato e deceduto ad Auschwitz. In tutto otto soldati ai quali non servì per scampare alla deportazione, aver combattuto per l’Italia.

Questo elemento aggiunge tragedia a tragedia. Perché non solo la Grande Guerra fu un massacro per tutti e ovunque, ma per la minoranza ebraica essere partiti volontari come fu nella maggior parte dei casi, aver combattuto, aver ottenuto riconoscimenti al valor militare, non costituì  alcun motivo  per salvarsi la vita nel momento più tragico della persecuzione poiché si trovarono di fronte ad uno Stato fascista e smemorato.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




La Grande Guerra lontano dal fronte. Mobilitazione e assistenza civile in una provincia toscana

Per tutto il periodo della neutralità italiana la provincia di Pisa era stata attraversata da numerose proteste e sia nel capoluogo che nelle campagne non erano mancate manifestazioni di segno antimilitarista, sfociate non di rado in episodi di violenza verso gli interventisti. A una decina di giorni dall’ingresso ufficiale in guerra, il prefetto di Pisa, scrivendo a Antonio Salandra, descriveva tuttavia in termini rassicuranti la realtà di un territorio guardato ancora con preoccupazione. Alla fine di maggio del 1915 la partenza delle truppe era stata infatti salutata ovunque da cortei e da dimostrazioni di giubilo e, stando alle sue stesse parole, «la mobilitazione non fu turbata da alcun incidente» e le «manifestazioni contrarie alla guerra […] furono tutte anteriori alla dichiarazione di guerra e non si rinnovarono dopo».

Ma accanto a queste espressioni simboliche di solidarietà verso l’esercito combattente, si infittirono fin da subito anche una serie di attività ben più tangibili. Nel processo di mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico un ruolo di primo piano fu giocato da un tessuto di comitati e organizzazioni in parte riconvertiti alle esigenze imposte dagli eventi ma in larga parte costituitisi ad hoc. Fra le iniziative di nuovo conio, alcune avevano in realtà già preso campo fin dalle settimane precedenti alla rottura della neutralità. In linea con quanto accaduto in diversi centri della penisola, ciò vale soprattutto per la formazione di appositi Comitati di preparazione e mobilitazione civile destinati a svolgere un ruolo di spicco in relazione a diversi ambiti di intervento.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale dell'Amministrazione Civile, b. 36.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile, b. 36.

Tali organismi furono chiamati a svolgere un’azione integratrice dei compiti del governo e degli enti locali, acquisendo un grande peso nel tessuto sociale delle città durante il conflitto. La spinta iniziale alla loro costituzione fu quella di preparare e organizzare i cittadini non soggetti a obblighi militari a garantire la continuazione di tutta una serie di attività nei pubblici servizi e nel campo dell’assistenza in caso di eventuali vuoti da colmare per effetto dello stato di guerra. I Comitati furono poi chiamati a un compito unificante per cercare di raccogliere attorno a sé, con propositi di coordinamento, le altre realtà assistenziali già operanti, prevenendo eventuali dissidi ed evitando gli effetti negativi della dispersione di mezzi ed energie negli aiuti propagandando allo stesso tempo un’immagine di profonda unità e compattezza della nazione impegnata nel sostenere i suoi soldati. L’unanimismo politico, da cui risultano attraversati i loro messaggi e appelli, divenne in effetti uno dei motivi più qualificanti della loro retorica.

Con una tempistica rapida rispetto alla dinamica generale del paese, il primo Comitato di preparazione e mobilitazione civile della provincia sorse a Pisa il 22 marzo 1915 nella sala del Consiglio comunale; la riunione istitutiva fu tuttavia solo il punto di arrivo di un percorso avviato da settimane da un apposito gruppo di cittadini promosso dal professore di chimica agraria Italo Giglioli, sostenitore nei suoi studi di una politica estera fortemente colonialista e fautore di posizioni accesamente nazionaliste, nonché dall’attivismo dell’industriale Giacomo Pontecorvo che, attraverso alcune conferenze, cercò di propagandare le ragioni del movimento a favore della mobilitazione civile raccogliendo al contempo i primi fondi a sostegno dell’iniziativa che il 26 marzo fu presentata alla cittadinanza con un grande manifesto pubblicato.

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Nato come un’associazione di privati, il Comitato ricevette fin dagli esordi un occhio di riguardo da parte delle istituzioni locali, esemplificato dalla presidenza onoraria al sindaco Vittorio Frascani e dalla fissazione della sua sede nel palazzo municipale. A infondergli poi una maggiore ufficialità sarebbe venuta in agosto la decisione di trasformarsi in ente morale, al pari di quanto fatto in seguito da altri comitati del territorio, avvalendosi della facoltà del riconoscimento giuridico ammesso da una specifica legge del 25 luglio. Se un po’ ovunque la mobilitazione civile fu una delle principali forme di manifestazione dell’interventismo delle classi dirigenti, che nella gestione dello stato di guerra videro pure un’occasione inaspettata di controllo di mezzi e risorse utile a ribadirne il ruolo di egemonia sociale messo in dubbio dalle crescenti spinte dal basso, ciò che parve connotare il caso del capoluogo fu però la funzione direttiva riconosciuta in essa al mondo universitario, con la larga presenza tanto delle autorità accademiche quanto degli studenti più accesamente interventisti. Un protagonismo che tendeva a rispecchiare la mobilitazione del periodo della neutralità, localmente imperniata su un Ateneo che, in virtù delle sue benemerenze risorgimentali, aveva costituito il nerbo cittadino della campagna per l’intervento. Agli universitari si affiancarono le autorità cittadine, e, ancor più che le casate di origine nobiliare, l’élite borghese locale (ossia agiati appartenenti alle professioni liberali e al mondo degli affari e dell’industria), in cui un ruolo di spicco fu rivestito dalle famiglie della comunità ebraica pisana (i Pontecorvo, i Supino, i Nissim, i Pardo Rooques, i Di Nola), il cui  impegno fattivo per il Comitato ne certificò l’intensa partecipazione allo sforzo patriottico.

Nelle aree della provincia il profilo sociale dei comitati assunse invece un tratto più notabilare, e a egemonizzarlo furono effettivamente gli uomini e le famiglie tradizionalmente più illustri dei ceti dirigenti locali. A testimoniare infatti un livello di penetrazione diffuso, e a certificare il grado di coinvolgimento dell’intero paese entro le maglie dello sforzo bellico, il movimento a favore della mobilitazione civile giunse in maniera capillare fin nelle aree più remote dello stesso territorio pisano. Secondo una dinamica in cui a modalità in prevalenza spontanee si unirono rilevanti spinte dall’alto, come quella venuta a inizio giugno da una specifica adunanza di numerosi sindaci della provincia, fra aprile e la fine del mese sia i comuni maggiori, come Volterra o Pontedera, che le realtà meno popolose del vasto contado pisano, come la piccola Orciano Pisano, non mancarono di un proprio attivo comitato.

Frontespizio dell'opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

Frontespizio dell’opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

La gran parte dei loro fondi vennero da fonti diverse, in varia misura legate alla solidarietà; della somma di 73.842,21 lire raccolta ad esempio nei primi mesi di guerra dal Comitato pisano più della metà giunse da sottoscrizioni occasionali, un restante 40% da contributi regolari mensili e 4.880,55 da soldi provenienti da varie iniziative. Per quanto minoritaria quest’ultima forma di finanziamento ebbe una sua notevole valenza perché raccolta tramite una serie di iniziative che consentivano di abbinare all’attività assistenziale anche quella di propaganda, offrendo all’opera di mobilitazione una visibilità esterna in chiave di forte intonazione patriottica attraverso serate pubbliche in teatri e cinematografi cittadini o con la vendita di oggetti di consumo di larga circolazione (medagliette, distintivi o cartoline). Se passiamo dal piano delle entrate a quello delle uscite, le attività da essi svolte finirono per concentrarsi in primo luogo nella concessione di sussidi in denaro a favore delle famiglie più bisognose dei richiamati, destinata peraltro a crescere esponenzialmente fino a occupare stabilmente i due terzi della spesa complessiva. Le famiglie sovvenzionate, a dispetto di oltre  tremila richieste, si attestarono nella sola Pisa a un migliaio, per un esborso di oltre 9.000 lire mensili e con un’obbligata riduzione degli importi. In tale quadro non restavano molte risorse da destinare ad altri ambiti dell’«assistenza civile». Fra i campi di intervento che meritano di essere segnalati vi è tuttavia quello assai importante, per la necessità di attivarsi in sostituzione della dimensione famigliare, dell’assistenza ai figli minori dei richiamati e in cui l’azione principale divenne la gestione dei servizi ricreativi, con la realizzazione di molti ricreatori divenuti un po’ ovunque la seconda voce di uscita dei comitati dopo i sussidi. Altri compiti non irrilevanti furono infine la gestione degli uffici notizie, la confezione degli indumenti militari e, perlomeno nei principali centri, quello dell’assistenza ai soldati degenti negli ospedali e ai profughi.

Ma la citata esplosione dei sussidi e la crescita di di tali compiti resero sempre più evidente col trascorrere dei mesi l’insufficienza delle energie locali, e soprattutto, a dispetto delle attese e delle retoriche solidaristiche che la accompagnavano, della beneficenza privata. Ciò costrinse sempre più tanti comitati a rivolgersi alle istituzioni, e soprattutto al governo, anche perché l’aumento costante del numero dei richiamati produceva un paradosso: se le iniziative assistenziali venivano private delle oblazioni occasionali e in particolare di quelle mensili di molti partenti, le nuove chiamate sotto le armi accrescevano le richieste di intervento di famiglie private del rispettivo capofamiglia. Nel 1917, l’anno più nero della guerra europea, nel quadro dello scambio continuo fra spontaneismo di base e sollecitazioni governative realizzatosi in precedenza, le attività di sostegno al fronte interno dovettero confidare sempre più nell’aiuto di un soggetto erogante come lo Stato, che peraltro già gestiva una propria onerosa politica di sussidi ai richiamati.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La quantità di uomini al fronte, le molteplici necessità di una guerra moderna e la natura di molti dei compiti affidati ai comitati, che rimandavano a tradizionali lavori di cura, fecero infine dell’elemento femminile un altro soggetto decisivo del fenomeno della mobilitazione civile.  Diverse donne legate alle classi dirigenti e ai notabilati locali, al pari dei rispettivi mariti, ebbero parte attiva nelle vicende della patria in armi, giocando un ruolo rilevante nelle iniziative di sostegno al fronte interno. Appositi comitati femminili sorsero in diverse realtà, come nel caso del comitato Pro-Patria sorto già alla metà di febbraio del 1915 a Pisa per impulso di 23 promotrici quale emanazione del Consiglio nazionale delle donne, espressione di un associazionismo liberale mobilitatosi con grande anticipo all’immediato scoppio della guerra europea. Esso agì in strettissima collaborazione operativa e finanziaria con il Comitato pisano fungendo in sostanza da sua sezione femminile, mentre in alcune realtà figure di donne notabili giunsero persino a presiedere il locale Comitato, come avvenne ad esempio nel caso della piccola comunità di Lajatico per la nobildonna Enrichetta Brenno Gotti Lega.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




L’Unione Donne Italiane e La Proletaria alla fine della Seconda Guerra Mondiale

La Proletaria, una cooperativa che oggi è estesa su quattro regioni col nome di Unicoop Tirreno, venne costituita il 26 febbraio 1945, pochi mesi dopo la Liberazione di Piombino. La sua fondazione ricevette un forte impulso dal CLN locale e dai partiti di sinistra, in accordo con le linee guida nazionali che vedevano nella costituzione di cooperative un mezzo per superare le privazioni dell’immediato dopoguerra. Per questi motivi, un gruppo di 30 operai dell’ILVA (l’azienda siderurgica piombinese) dette vita a La Proletaria, riattivando in accordo con i vertici dell’azienda, lo spaccio aziendale.

Tra i 30 soci fondatori della cooperativa non era presente nessuna donna. Nelle settimane successive però le le donne iniziarono a comparire: al 2 marzo del 1945 erano poco più di 800 i soci e tra loro si registrò la presenza delle prime 10 donne. Lo stesso Statuto ammetteva come soci solamente operai, impiegati ed altri lavoratori di mestieri eminentemente maschili. Eppure le donne c’erano, nascoste dalla presenza maschile, tuttavia importanti: le lavoratrici erano in maggioranza rispetto agli uomini, anche se in ruoli di “manovalanza” (erano commesse, banconiere o cassiere), le massaie facevano la spesa per la famiglia.

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Il Consiglio di Amministrazione della cooperativa, però, almeno per i primi mesi, restò interamente formato da uomini. La mancata presenza femminile si ebbe fino alla fine degli anni quaranta – e in alcuni casi anche ben oltre – anche in altre piccole cooperative di consumo della zona: questi dati sicuramente fanno pensare ad un’impronta decisamente maschile nella costituzione e nella gestione di sodalizi in cui le donne erano però le principali attrici.

L’Unione Donne Italiane (UDI), alla fine della guerra, si impegnò in tutte quelle attività che toccavano da vicino le donne, prima fra tutte quella del sostentamento alimentare della famiglia e del controllo della qualità e dei prezzi delle merci. Questo, e il legame con i vari CLN, portarono alle sinergie con il mondo cooperativo. Sin dal 1944 l’UDI condusse una campagna di tesseramento delle proprie socie; nel 1946, in ritardo rispetto alle iniziative dell’UDI, fu creato il Comitato Nazionale delle Cooperatrici all’interno della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue. L’Unione, in quei primi mesi del dopoguerra, premeva affinché anche all’interno dei consigli di amministrazione delle cooperative di consumo fossero ammesse delle donne. Non bisogna poi  dimenticare il legame che l’organizzazione femminile aveva con il PCI e con la lotta di Liberazione, i quali vedevano nella cooperazione un mezzo per risollevare l’economia in momenti difficili: in questo senso l’UDI rappresentò sia uno strumento di emancipazione e di crescita personale per molte donne sia un organismo integrato nella struttura del Partito Comunista che era utilizzato per ampliare il consenso (ma va detto che era anche un modo per le masse di partecipare alla vita pubblica).

Proprio in questo modo iniziò il legame tra l’UDI e la nuova cooperativa nata a Piombino. Alla fine di aprile del 1945 l’Unione Donne di Piombino inviò una lettera al Consiglio di Amministrazione de La Proletaria perché una loro rappresentante venisse a far parte del Consiglio. Questo dette subito parere favorevole, a patto che le rappresentanti UDI fornissero un contributo attivo alla cooperativa: tale contributo si basava sull’immagine della donna di massaia e di prima fruitrice dei prodotti di consumo di una cooperativa. Questo fu il primo importante passo per far uscire le donne dall’ombra in cui lavoravano e fruivano della cooperativa alla sua fondazione. Da questo punto in avanti le donne ebbero il modo di ritagliarsi uno spazio sempre più definito e crearsi un ruolo sempre più complesso e sfaccettato.

Il legame dell’UDI con la Proletaria è testimoniato anche dal fatto che i primi fondi fotografici conservati presso l’Archivio Storico di Unicoop Tirreno che ritraggono delle figure femminili sono proprio dell’Unione. Il collegamento tra i fondatori con il mondo dell’associazionismo femminile e con i suoi temi di attenzione e stimolo al lavoro femminile certo fu molto importante per la partecipazione delle donne.

Dalla parte delle donne raccolta firme contro la violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Dalla parte delle donne raccolta firme contro la violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Tuttavia, nei primi tempi è d’uopo registrare un certo grado di paternalismo dei consiglieri uomini della Proletaria nei confronti delle loro colleghe. Un paternalismo che sembrava non voler riconoscere il peso delle donne nella cooperativa: basti pensare che nei verbali delle riunioni del Cda si leggeva, dopo il nome e cognome dei consiglieri, un laconico “e le rappresentanti dell’UDI”, senza che ne fosse indicato il nome. Di contro le donne dell’UDI si stavano ritagliando un ruolo sempre più preciso all’interno della cooperativa: nei primi mesi le consigliere si dedicavano alla distribuzione del latte tra la popolazione affamata del dopoguerra (questa era una iniziativa in cui l’UDI di Piombino si stava impegnando); le rappresentanti dell’UDI si occupavano di tutte le questioni che interessavano alle donne che facevano la spesa negli spacci della cooperativa (la biancheria, il pesce, il metodo di pagamento) intervenendo nei dibatti del Cda, pur senza diritto di voto.

Via via che i mesi e gli anni passavano le donne presero in mano il settore sociale della cooperativa: si occupavano della promozione e organizzazione di attività sociali, culturali o ricreative (spesso insieme all’UDI di Piombino o nazionale) e della gestione dei comitati di spaccio. La presenza dell’UDI era molto importante per la cooperativa perché, al pari della Lega della Cooperative e mutue, concorreva a dare, attraverso la partecipazione a convegni nazionali, una dimensione più  ampia alla cooperativa e alle donne consigliere, un’opportunità di formazione e di emancipazione dai ristretti ambiti della provincia.

In ultima analisi il ruolo dell’UDI fu fondamentale per la Proletaria: attraverso la sua iniziativa si offrì ad alcune militanti un’occasione di crescita personale e sociale, mentre, pur con molti limiti e distinguo vista ancora la predominanza maschile nei ruoli chiave, si dette alla cooperativa un’impronta femminile.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




Le stragi naziste in Toscana

Come è noto, durante la campagna d’Italia gli Alleati raccolsero le prove dei crimini di guerra compiuti dall’esercito tedesco nella penisola, con l’intenzione, all’inizio, di celebrare una sorta di “Norimberga italiana”. Una opzione ben presto accantonata, per ragioni di politica internazionale – la Guerra Fredda abbisognava di una solerte rinascita della Repubblica Federale Tedesca – che vennero ad intrecciarsi con l’interesse tutto italiano di evitare una punizione per i “nostri” criminali di guerra.

Il lavoro istruttorio era stato comunque imponente. Molte delle inchieste dello Special Investigation Branch inglese e della sezione del War Crimes Branch statunitense riguardarono la Toscana e le sue comunità martiri, colpite ripetutamente, soprattutto nell’estate 1944: uno degli allegati al rapporto German Reprisals for Partisan Activity in Italy, inviato a Londra alla fine del 1945, è una cartina (doc. 1) sulla quale sono evidenziate molte località della nostra regione che ebbero a fare i conti con la violenza tedesca.

Questi materiali, assieme ad altri, analoghi, raccolte da diverse autorità italiane (Carabinieri, Comitati di Liberazione Nazionale, ecc.), sono rimasti, come è noto, conservati per decenni negli archivi stranieri e nel cosiddetto “armadio della vergogna” (doc. 2 e 3), ma hanno poi rappresentato la base delle ricerche sulle stragi naziste che, dalla metà degli anni novanta del Novecento, hanno alimentato una feconda stagione storiografica, che si è accompagnata ad alcuni procedimenti penali, riaperti presso le Procure Militari  In attesa di un censimento nazionale delle stragi, al quale sta lavorando un gruppo di ricerca nazionale, per il progetto, finanziato dal governo tedesco come forma di riparazione, Atlante delle stragi nazifasciste, il quadro toscano è comunque già piuttosto chiaro.

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Civili costretti dalla Luftwaffe ad abbandonare le proprie abitazioni (C. Gentile, La Wehrmacht in Italia)

 

Si contano almeno 200 episodi, ed oltre 3600 vittime. Le prime stragi colpiscono nel settembre 1943 (Pistoia, in piazza San Lorenzo, e all’Isola d’Elba), e, dopo i rastrellamenti della “settimana di sangue” dell’aprile 1944 (nei quali avviene per esempio la strage di Vallucciole, 13 aprile, 107 vittime), la violenza diventa quotidiana nell’estate 1944, come strumento di gestione della ritirata, di pressione sulla popolazione civile e sui partigiani, di controllo del territorio e delle aree strategiche, a partire dalla Linea Gotica. Mommio (5 maggio, 22 vittime) e Forno di Massa (13 giugno, 60 vittime), la Niccioleta (13 giugno, 83 vittime) e Guardistallo (25 giugno, 47 vittime), Civitella della Chiana (29 giugno, 204 vittime) l’area di Cavriglia (4 luglio, 173 vittime) e San Polo di Arezzo (14 luglio, 48 vittime), le rappresaglie di Orenaccio di Loro Ciufenna (6 luglio, 32 vittime), Crespino sul Lamone (17-18 luglio, 44 vittime), e Empoli (24 luglio, 29 vittime), e ancora la Romagna sopra Molina di Quosa (7-11 agosto, 72 vittime) e Sant’Anna di Stazzema (12 agosto, oltre 500 vittime), e Bardine San Terenzo (19 agosto, 158 vittime) e Vinca (24 agosto, 171 vittime), preceduta il giorno prima dal Padule di Fucecchio (173 vittime), per finire con le due stragi di Massa (10 settembre, 37 vittime, e 16 settembre, alle Fosse del Frigido, 147 vittime).

Un po’ tutte le formazioni tedesche che combattono in Toscana si macchiano di crimini di guerra, rispondendo con solerzia agli ordini che ricevono dal Feldmaresciallo Kesselring che, proprio attorno alla metà di giugno, definiscono un meccanismo repressivo che autorizza le truppe sul campo ad usare la violenza sulla popolazione civile. Una violenza che così, in queste settimane, parla il linguaggio della rappresaglia o del rastrellamento per rispondere alle azioni partigiane o “bonificare” le aree ove i patrioti operano con maggior efficacia, ma colpisce anche nel corso della ritirata o in zone rese proibite da ordini di sfollamento obbligatorio, subito dietro il fronte, come in tutta l’area di Pisa (il 2 agosto per esempio nel quartiere San Biagio, in seguito a una delazione, si eliminano alcune famiglie rifugiate nella canonica e in alcune abitazioni limitrofe, doc 4 e 5). La repressione si appunta anche contro le forme di resistenza civile, come avviene per esempio dentro la Certosa di Farneta di Lucca, dove nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944 gli uomini della “Reichsführer-SS” del generale Max Simon rastrellano oltre 100 persone, tra le quali i certosini del monastero (alcuni dei quali di nazionalità svizzera, e da questo prenderanno le mosse le indagini del dopoguerra, doc. 6 e 7), rei di aver dato rifugio nei mesi precedenti a varie tipologie di ricercati (ebrei, partigiani, antifascisti, renitenti, ecc.).

Una durissima guerra ai civili, insomma, all’interno della quale emerge il comportamento di alcuni reparti speciali – la già citata divisione di Simon, la “Hermann Göring” – che interpretano il sistema degli ordini in modo più radicale, e inscenano una vera e propria guerra di sterminio ai danni di alcune comunità, come avviene a Sant’Anna, Bardine e Vinca, e oltre: qui la logica repressiva non è più solo quella della punizione, magari esemplare, ma quella della eliminazione di intere comunità. La guerra ai civili si fa così ideologica, razziale, più simile a quella combattuta sul fronte orientale, e costringe la Toscana a pagare un dazio altissimo, prima della Liberazione.

Articolo pubblicato nel marzo del 2016.




Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno nel biennio 1943-1944

Tra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò radicalmente il volto di Livorno. Col suo porto e le sue grandi industrie, la città pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. In tale contesto anche la Chiesa di Livorno fu, con grande evidenza, colpita nei suoi gangli vitali. Il 17 dicembre 1944, a quasi venti mesi dall’ultima volta e a cinque dalla liberazione della città, il vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, (a capo della diocesi dal 1921 al 1959) tornava in questo modo ad aggiornare il suo diario personale.

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Una foto del vescovo Piccioni negli anni Venti. (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

“Il 28 maggio 1943 ebbe luogo il primo gravissimo bombardamento aereo di Livorno, che fu poi seguito da uno ancora più grave il 28 giugno, e poi da moltissimi altri. Fin dal primo bombardamento furono distrutte e lesionate parecchie Chiese e case religiose. Il Seminario e l’Episcopio furono dichiarati inabitabili. Io mi recai a Villa Maria che era piena di sfollati e vi abitati fino al 30 Settembre. Dall’Ottobre in poi fui ospitato nel Monastero di Montenero e in quel tempo il Santuario servì come Cattedrale. Altri Sacerdoti – Parroci e Canonici – abitarono anch’essi a Montenero, non essendo abitabili le loro canoniche o case di Livorno. Del resto dai primi di Novembre in poi i quattro quinti della città furono coattivamente sgombrati per ordine dei tedeschi, i quali soli vi rimasero e si valsero di ciò per rapine e depredazioni nelle abitazioni, per la distruzione dei mobili, che non credettero asportare – mentre i migliori furono spediti da loro in Germania insieme al macchinario delle industrie ecc. e anche approfittarono di tale periodo per collocare un numero ingente di mine, per distruggere alcune fabbriche e palazzi. In questo periodo di tempo non ho tenuto al corrente il Diario; né credo di poterlo completare ora. La venuta degli alleati ha recato un po’ di sollievo. Non è ancora compiuta però (e scrivo il 17 dicembre 1944) la rimozione delle macerie e delle mine; cosicché vi è ancora a Livorno sebbene ridotta, la cosiddetta zona nera nella quale non è permesso l’ingresso”.

La gran parte della popolazione livornese visse dunque i grandi rivolgimenti politici e bellici seguiti al 25 luglio e all’8 settembre, le drammatiche conseguenze dell’occupazione nazista e l’avanzata degli alleati in un contesto di pressoché totale sradicamento. Per questo l’eccezionalità del contesto livornese fece assumere al capo della Chiesa livornese non tanto, o non solo, il ruolo di defensor civitatis, sul modello di papa Pacelli che rimase a presidiare Roma nella fuga generale delle altre autorità seguita all’8 settembre, ma lo costrinse, più che in altre zone, ad una rimodulazione del suo servizio episcopale in funzione di un popolo disperso. Il presule – oltre a presidiare la città scegliendo di risiedere a Montenero – dette vita ad un nuovo ministero itinerante, ideando una sorta di “pastorale per gli sfollati” che adattava a un contesto inedito le prospettive di restaurazione cristiana indicate da Pio XII. Un modus operandi che gran parte del suo clero fece proprio spontaneamente già nelle ore immediatamente successive alla prima rovinosa incursione alleata, ma che l’anziano pastore auspicò – e talvolta, pretese – che venisse perseguito: in questo quadro assunsero centralità realtà prima marginali come le parrocchie dei vicariati suburbani, e si trovarono sbalzate al centro della scena figure, come i parroci di campagna e le suore, tradizionalmente votati ad un ministero poco appariscente.

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La mappa della “Zona Nera” a Livorno

Dopo la prima incursione alleata del maggio 1943, il percorso d’azione fu rimodulato nei suoi tratti essenziali attraverso una circolare che il vescovo fece pervenire ai parroci di campagna: notando come «la quasi totalità della popolazione di Livorno» si fosse dispersa nelle campagne, egli esortava «ad esercitare l’ospitalità con quel sentimento cristiano che ci fa vedere Gesù stesso in chiunque abbia bisogno del nostro aiuto». Raccomandava dunque di «provvedere al servizio religioso degli sfollati»; di avere una speciale cura per i bambini che proprio in quel periodo stavano preparando le Cresime e le prime Comunioni; «di usare uno speciale riguardo verso i vecchi e gli infermi». Con questa circolare Piccioni si accordava alla delibera del 6 maggio 1943 della Conferenza Episcopale Toscana nella quale i presuli erano intervenuti sull’assistenza spirituale agli sfollati, suggerendo «che – oltre alla cura pastorale degli sfollati, come le pecorelle più bisognose del proprio gregge – ogni parroco dove gli sfollati sono accolti avesse un libro di stato d’anime a parte per essi».

Questa capillare rete dell’accoglienza ecclesiastica di cui i livornesi beneficiarono a piene mani (anche attraverso percorsi non sempre lineari) suppliva per certi versi alle carenze della macchina assistenziale pubblica, sfaldatasi insieme al default istituzionale dell’estate 1943. Se già alla fine del 1942 il prefetto di Livorno aveva predisposto piani molto articolati relativi al previsto sfollamento della città, nei mesi della grande emergenza le autorità livornesi provarono a imbastire dettagliati progetti, puntualmente disattesi. Con l’occupazione tedesca della città qualsiasi piano d’intervento pubblico in aiuto agli sfollati venne poi ovviamente abbandonato e i livornesi dovettero fare da sé, aggrappandosi alle reti assistenziali di supplenza. In questo quadro certamente Piccioni rappresentò un punto di riferimento rilevante, perché si accordò lui stesso – pur essendo già piuttosto anziano e provato da più di vent’anni di ministero episcopale – a quelle linee pastorali molto esigenti che volle fossero osservate dal suo clero. Il fatto che nello sgretolarsi delle istituzioni, la figura del vescovo si caricasse di inediti significati è testimoniato anche dalle numerose lettere di sfollati che pervennero alla Curia nei mesi dell’esodo. Non solo perché, in linea con le disposizione della Santa Sede, l’istituzione diocesana divenne un importante centro d’informazione in raccordo con la Segreteria di Stato per avere notizie su prigionieri, dispersi e caduti. Ma anche perché, agli occhi dei fedeli, il pastore della diocesi raffigurava una sorta di simbolo di continuità a cui ancorarsi in mezzo alla centrifuga di cambiamenti che accompagnavano gli eventi di quei mesi.

Nella testimonianza di don Giovanni Balzini – l’economo delle cattedrale che con lui visse a Montenero negli anni di guerra – si ricordava che Piccioni, spesso servendosi del passaggio di camion militari, visitava gli sfollati «nei diversi paesi della diocesi, e nei paesi extradiocesi dove più numerosi erano i livornesi». Solo dal maggio al luglio 1943 Piccioni si recò a trovare gli sfollati a Castelnuovo della Misericordia, Gabbro, Quercianella, S. Martino in Parrana, Castell’Anselmo, Nugola, Guasticce per poi arrischiarsi nei mesi successivi anche fuori dal territorio diocesano. In occasione dei suoi avventurosi viaggi Piccioni non mancava di organizzare particolari celebrazioni: ne dà testimonianza l’allestimento della «Giornata degli sfollati» che il presule volle fosse celebrata nei comuni di Castelfranco di Sotto e S. Romano (Pisa), in diocesi di San Miniato, in occasione della sua visita del 5-6 settembre 1943.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Oltre a impegnarsi in questo ministero itinerante il vescovo fece in modo poi che la sua Chiesa restasse comunque visibilmente vicina ai pochi livornesi che decisero di sfidare i bombardamenti e le angustie dell’occupazione tedesca rimanendo in città. Da un lato Piccioni, come scrisse sul suo diario, fece in modo di essere sempre vicino alla popolazione nei momenti più tragici con visite agli ospedali e periodiche incursioni nelle parrocchie dei vicariati suburbani, ma pretese anche che le poche chiese rimaste illese al di là della zona nera continuassero a restare aperte e a garantire, per quanto possibile, i normali servizi liturgici e religiosi. Questo orientamento fu deciso in un’adunanza del clero che il vescovo convocò il 6 novembre 1943 a Montenero, a pochi giorni dall’ordine di sgombero completo del centro cittadino: in quell’occasione fu deliberato di assicurare la continuità del servizio nelle due grandi chiese di S. Maria del Soccorso in piazza della Vittoria e del Sacro Cuore (la parrocchia dei salesiani vicina alla stazione) e nella piccola chiesetta di N. S. del Rosario, allora in via delle Siepi.

È da notare poi che l’intervento pastorale di Piccioni tra gli sfollati si puntellava su precisi fondamenti dottrinali. In linea con l’atteggiamento generale dell’episcopato, i temi e il linguaggio del vescovo si incardinavano sul topos classico della guerra intesa come «castigo divino»: il conflitto presente, dicevano a una voce i presuli italiani, non era altro che una punizione, di dimensioni bibliche, che il Signore aveva consentito data la dilagante immoralità e il crescente distacco dell’umanità dalle leggi iscritte nella natura stessa dell’uomo. Parallelamente si faceva così sempre più spesso appello alla sobrietà dei costumi e alla penitenza con denunce dai toni accorati e anche esagerati contro la moda e gli spettacoli immorali. Anche la circolare che il vescovo Piccioni scriveva Agli sfollati nell’estate del 1943 è esemplare al riguardo. Dopo il breve preambolo nel quale prometteva di andare a trovare i livornesi nei luoghi dove erano più numerosi, il presule si soffermava lungamente nell’invitare gli sfollati alla penitenza, connettendo evidentemente i disagi provocati dalla guerra anche alla condotta immorale degli uomini. «So e conosco – scriveva il Vescovo – i disagi materiali, le vostre ansie, i vostri dolori – scriveva il vescovo – e anche le difficoltà morali e i pericoli che un improvviso cambiamento di vita produce. Ma non sia questa una nuova occasione di peccato; sia invece un motivo per tutti di fuggire il male, per molti di proporsi e d’incominciare una vita meno frivola, più seria, più utile al prossimo».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015, di cui questo articolo rappresenta un breve stralcio.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La potenza creativa dell’azione violenta

Le prime sporadiche apparizioni del fascismo a Pistoia cominciarono nell’autunno del 1920.  In città le elezioni amministrative, tenutesi nell’ottobre, avevano segnato, come in molte altre zone del Paese, una netta affermazione dei socialisti, che si aggiudicarono nel capoluogo del circondario la metà dei seggi nel consiglio comunale. I socialisti vincevano anche nei comuni vicini, a prevalenza contadina, di Larciano e Lamporecchio e in quelli montani di San Marcello e Sambuca, mentre i popolari prendevano le zone agricole di Montale, Agliana, Tizzana e il comune montano di Marliana. La vecchia classe dirigente liberale veniva scalzata dalle sue posizioni consolidate. Pistoia nei mesi precedenti aveva vissuto i moti del caroviveri come il resto della Toscana, nonché aspri conflitti agrari e l’occupazione delle fabbriche come altrove in Italia. Nonostante nel tardo autunno del 1920 sia il movimento socialista che quello popolare fossero già entrati in una fase di riflusso, la “grande paura” fece sentire i suoi effetti nei ceti agiati unendosi ai sentimenti di rivalsa conseguenti alla sconfitta elettorale, aprendo quel cruciale spazio di azione ai fascisti all’interno del quale si sviluppò il loro l’insediamento, in maniera analoga a quanto messo più volte in luce dalla storiografia per tante altre zone.

I primissimi fascisti si organizzarono a Pistoia attraverso un reduce, il maggiore Nereo Nesi, e nella zona di Larciano intorno a Idalberto Targioni, un ex socialista, tra i fondatori della Camera del Lavoro, protagonista di una parabola tipica di molti fascisti e dello stesso Mussolini. Interventista nel 1915, il 29 marzo del ’19, a meno di una settimana dalla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, su «Il popolo pistoiese» – giornale dei liberali e presto fiancheggiatore del fascismo – sosteneva il suo credo nella «potenza creativa dell’azione che afferra l’essere in via di formazione e che la violenza generi uno stato epico ed eroico. […] Se i governi non risolveranno gli ardui problemi che stanno oggi sul tappeto della storia, se non li risolveranno nel modo più equo e giusto per tutti e segnatamente per le classi lavoratrici, allora sarà giunto il momento di passare all’azione diretta. Ma vedete: allora, voi che oggi vi scalmanate tanto, sareste i primi a far contro ai rivoluzionari e a scappare a gambe levate!»

Questo fascismo, dai caratteri reducistici e rivoluzionari, compiva alcune iniziali e sporadiche azioni nell’ottobre-novembre del 1920. La prima notizia certa della presenza di un fascismo organizzato a Pistoia arrivò subito dopo e sottotono, in un trafiletto su «Il popolo pistoiese» del 25 dicembre che riportava l’invito del Fascio di combattimento, in occasione della commemorazione di Oberdan, ad esporre il vessillo nazionale, preoccupandosi comunque di ricordare che nel comizio avvenuto alla Fratellanza Artigiana non erano avvenuti incidenti.

Come altrove, i fascisti fiorentini non tardarono a fornire il loro appoggio strutturato al nascente squadrismo pistoiese. Il 7 gennaio 1921 si diffondeva un primo allarme che preannunciava l’arrivo di una spedizione da fuori, secondo una prassi tipica delle azioni squadristiche, mentre «Il popolo pistoiese» rassicurava sulle buone intenzioni dei fascisti pistoiesi, non interessati a creare disordini ma pronti a «rintuzzare le provocazioni con coraggio e di rispondere alla violenza con la violenza». La spedizione del 7 alla fine non avvenne, ma nel mese di gennaio i fascisti provocavano una rissa nella zona vicina di Pieve a Nievole, in direzione di Lucca, e due bombe scoppiavano, una in città e una sulla linea ferroviaria Porrettana.
Il 22 gennaio infine si costituiva ufficialmente il Fascio  pistoiese. Un mese dopo, il 20 febbraio, arrivava il battesimo del fuoco. La Camera del Lavoro pistoiese aveva organizzato un comizio in piazza Garibaldi, a cui doveva parlare il segretario Onorato Damen. Rincalzati da una quarantina di fascisti fiorentini e da altri provenienti da Monsummano e Pescia, gli squadristi pistoiesi radunarono un centinaio di uomini con l’intento di recarsi in piazza, chiedere un contraddittorio per interrompere il comizio e provocare incidenti. La forza pubblica in questa prima occasione fece il suo dovere impedendo ai fascisti di raggiungere la piazza, che comunque si spopolò alla vista delle squadre nelle vicinanze. Alla fine della manifestazione i fascisti, con il consenso della autorità, si impossessarono simbolicamente del palco, tennero un comizio e poi sfilarono in corteo nel centro cittadino cantando i loro inni. La messa in scena scenografica tipica della conquista del territorio veniva messa in pratica nonostante in quella prima occasione fosse mancata la forza di arrivare a uno scontro diretto. Tuttavia, prima di ritirarsi, gli squadristi raggiunsero in treno Corbezzi, provocando tafferugli nelle stazioni attraversate lungo il tragitto. Nel paese di montagna si procedeva alla bastonatura dei “sovversivi” per poi tornare a piedi verso la città, con i trofei presi agli avversari e continuando a provocare incidenti nelle frazioni di Valdibrana e Capostrada, dove i fascisti spararono anche alcuni colpi di rivoltella. In ultimo, prima di rientrare a Firenze, gli squadristi fiorentini attaccarono i ferrovieri socialisti nella stazione del capoluogo.

La prima spedizione era compiuta, il Fascio costituito e radicato, il morale elevato. Iniziava l’epoca della violenza squadrista organizzata a Pistoia.

 

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La profuganza tra I e II guerra mondiale

Il Novecento, il secolo caratterizzato da due conflitti mondiali che, nell’arco di 30 anni, sconvolsero le nazioni e le popolazioni europee, fu anche il secolo della profuganza, dal momento che le guerre causarono importanti trasferimenti di civili che interessarono tutta l’Europa.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, si verificò un immane spostamento di popolazioni che furono costrette dai Trattati di pace e dalle conseguenti ridefinizioni dei confini ad abbandonare i propri territori, per reintegrarsi in altri paesi. Dal Confine orientale, dall’Istria in particolare, giunsero in Italia circa 300.000 esuli giuliano-dalmati che, tra il 1943 e la fine degli anni ’50, abbandonarono le località di origine per trovare accoglienza nel nostro paese.

 In fuga da Caporetto

In fuga da Caporetto

Non molti anni prima, al tempo della Grande Guerra, si era verificato un analogo allontanamento di uomini, ma soprattutto di donne e bambini, dai paesi che si trovavano lungo il confine nord-orientale, che separava il nostro Stato dall’Impero austro-ungarico. Vennero evacuati interi paesi posti in zona di guerra e le popolazioni furono spostate in Austria, se si trovavano a nord della linea di confine, o in Italia, se vivevano a sud.

La riflessione sulla profuganza e sull’esodo che hanno caratterizzato la I e la II Guerra mondiale apre uno spaccato sul dolore di un popolo costretto a provare sentimenti quali l’abbandono, lo spaesamento, il traumatico distacco da ciò che aveva caratterizzato fino a poco tempo prima il loro vivere quotidiano. Tale riflessione ci permette di cogliere analogie e differenze tra le due esperienze.

Le zone interessate dai due esodi sono in parte le stesse: è dal Confine orientale, in particolare dall’Istria, che a partire dal 1943 iniziò l’esodo dei giuliano-dalmati, mentre il I Conflitto mondiale, con la sua guerra di trincea combattuta lungo tutto il confine nord-orientale, coinvolse nella profuganza, oltre al Friuli, anche il Veneto e il Trentino.

Ciò che fece realmente la differenza, oltre ai numeri (più di 600.000 profughi quelli della I Guerra mondiale, circa 300.000 gli esuli della II), furono le motivazioni che portarono migliaia di persone in Italia come luogo.

Nel corso della Grande Guerra le evacuazioni dai territori interessati dal conflitto furono predisposte dalle autorità italiane e da quelle austriache per motivi legati alla sicurezza delle popolazioni, ma anche per la necessità di garantire ai comandi militari libertà d’azione, nonché per la diffidenza nei confronti dei civili. Se da parte italiana si temeva il lealismo degli abitanti della Venezia Giulia nei confronti della monarchia asburgica, da parte austriaca si temevano i sentimenti filoitaliani di buona parte della popolazione.

Profughe, loro malgrado, queste popolazioni furono indirizzate e accolte in molte città italiane, da cui ripartirono alla fine della guerra per ritornare nelle loro terre di origine.

Diverso l’esodo che si verificò, a partire dal 1943, dalle terre poste al Confine orientale.

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947 © Archivio Storico della Città di Torino

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947
© Archivio Storico della Città di Torino

In questo caso la popolazione non dovette rispondere a nessun decreto di espulsione o a nessun piano di evacuazione che la costringesse a lasciare Pola, Trieste e le altre città dell’Istria. La guerra, in queste terre, generò violenze inaudite, nate e perpetrate all’interno delle stesse comunità in cui convivevano da anni italiani e slavi. Gli infoibamenti del 1943 e soprattutto quelli del 1945, dopo l’arrivo dell’esercito di Tito, caratterizzarono un periodo in cui venne applicata su vasta scala la pratica del terrore, volta a cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio.

Ebbero così inizio i primi esodi di massa da Fiume, a cui fece seguito l’esodo dei quasi 30.000 abitanti di Pola. Anche in questo caso la meta immediata degli esuli fu l’Italia, ma non sempre il loro inserimento nelle nuove realtà fu possibile da realizzarsi con la necessaria serenità, a causa anche delle condizioni materiali del nostro paese, devastato in ogni senso dal conflitto appena terminato.

Un filo rosso congiunge la I e la II Guerra mondiale, attraverso questo fenomeno della profuganza/esodo.

Fu con la Grande guerra, infatti, che città come Gorizia, Trieste, Fiume e tutta l’Istria entrarono a far parte del Regno d’Italia e con esse una pluralità di popoli, lingue, culture e religioni. Fu il fascismo che, con la sua politica deslavizzante e fortemente nazionalizzatrice, approfondì la frattura tra l’elemento slavo e quello italiano. Fu la seconda guerra mondiale, con il gioco delle varie ingerenze politiche che si svolse a fine guerra sulla zona del Confine orientale, che portò agli estremi una ormai insanabile frattura che causò, come risposta alla politica slava decisamente anti-italiana, l’esodo di migliaia di italiani che abbandonarono le loro terre e tutti i loro beni per affermare la propria italianità.

Pochi di questi esuli tornarono nelle loro terre, loro italiani non potevano e non volevano riconoscersi nella Jugoslavia di Tito che, così come il fascismo nei confronti degli slavi anni prima, aveva fatto propria una politica di intolleranza nei confronti dell’elemento italiano.

Profughi, dunque, quelli della I Guerra mondiale, costretti da decisioni militari a lasciare le loro terre a cui fecero poi ritorno.

Esuli quelli della II Guerra mondiale, liberi di rimanere nelle terre di origine a costo della privazione della loro italianità e che per scelta esercitarono il diritto di opzione. Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva infatti il ricorso al diritto di opzione: optare significò scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significò di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significò in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo, per non tornare più nelle loro terre.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.