Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.




Storie di confino: il poggibonsese Angiolo Corsi

La letteratura che riguarda il confino di polizia può annoverare contributi di personaggi di primissimo livello del panorama antifascista, sia politico sia culturale. Tra le testimonianze più importanti ci sono quelle di Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, ma i numeri riguardanti i confinati durante il fascismo furono importanti e influenti (circa 15 mila persone) e non interessarono solo gli antifascisti ma tutti coloro i quali erano ritenuti particolarmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Anche in provincia di Siena furono effettuate numerose assegnazioni al confino, dal 1926 in poi, che cercarono di colpire l’ossatura delle strutture clandestine del partito comunista e, in misura minore, del partito socialista e del movimento anarchico. Tra le diverse forme di limitazione della libertà (carcere, confino, internamento, ammonizione, sorveglianza speciale, diffida), il confino riguardò 129 antifascisti per una condanna a 380 anni complessivi. Secondo quanto riportato da Rineo Cirri (L’antifascismo senese nei documenti della polizia e del Tribunale Speciale 1926-1943), nel complesso furono 699 le persone che tra il 1926 e il 1943 subirono un deferimento al Tribunale speciale; “ad ognuno di questi antifascisti sono collegate vicende umane, storie dolorose di famiglie e di gruppi di persone con le loro sofferenze, i loro dolori e i loro drammi ma anche le speranze di una parte della popolazione di vivere in una società più giusta”.

corsi

Angiolo Corsi

Alcuni personaggi di primo piano della lotta antifascista e anche del periodo di ricostruzione democratica in provincia di Siena hanno raccontato in libri, memorie e diari le proprie esperienze al confino, e tra gli altri Fortunato Avanzati “Viro” e Mauro Capecchi “Faro”. Per ricostruire le biografie e i percorsi personali e politici di altri militanti è invece necessario ricorrere ad altri tipi di fonte, come le note giudiziarie, gli atti dei Tribunali speciali, le carte di prefetture e i verbali di carabinieri e poliziotti. In questo contributo il personaggio di cui si racconteranno le vicissitudini è Angiolo Corsi, nato nel 1905 a Poggibonsi, di professione falegname.

Corsi fu arrestato per la prima volta il 26 luglio 1932 a Poggibonsi, all’età di 27 anni; la scheda  personale nel Casellario Politico Centrale del 28 agosto 1932 riporta queste informazioni: “Cicatrice sopracciglio sinistro, mancante falange mano, abbigliamento solito: da operaio. E’ di regolare condotta morale e immune da pendenze e precedenze penali. In precedenza non aveva mai dato luogo a rilievi in line apolitica né di nutrire sentimenti contrari al regime. Essendo venuto a risultare che faceva parte del comitato federale comunista costituitosi clandestinamente in Poggibonsi ed era in relazione con funzionari e fiduciari del partito stesso, distribuiva la stampa sovversiva e distribuiva materiale di propaganda. Raccoglieva gli oboli per il soccorso alle vittime politiche e loro famiglie e prendeva parte alle riunioni clandestine del partito. Funzionava anche da corriere per il collegamento e trasporto di stampa sovversiva tra Empoli- Poggibonsi e Siena. Per tale reato pende tuttora provvedimento penale a di lui carico. Esercita il mestiere di falegname, da cui trae i mezzi di sussistenza.

Nonostante questi dettagliati indizi a suo carico, Corsi fu prosciolto per insufficienza di prove. L’arresto successivo avverrà nell’aprile del 1934 per “compartecipazione a organizzazione comunista” e l’8 giugno sarà condannato a cinque anni di reclusione di cui due di libertà vigilata. Fu condotto al carcere di Roma il 10 febbraio 1935 e, dopo la sentenza del 5 aprile 1935, la condanna fu confermata ma gli saranno condonati due anni.

Il 20 febbraio 1937 gli venne concesso l’indulto, revocato però solo due mesi dopo dal Tribunale di Siena. Le notizie successive risalgono poi al 25 luglio 1940, quando una nota riservata della prefettura di Siena, firmata dal prefetto, dispose la scarcerazione e il foglio di via alla volta di Avellino; questa volta Corsi fu accusato per avere pronunciato frasi disfattiste sulla posizione dell’Italia in guerra.

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il comune scelto fu quindi Teora (Avellino), dove Corsi giungerà il 27 luglio 1940. Lì ebbe diversi problemi nel rapportarsi alle autorità locali del regime; appena giunto a Teora scrisse, infatti, al questore di Avellino per richiedere il rimborso di 25 lire per il viaggio effettuato da Avellino alla volta di Teora dai suoi familiari più stretti (moglie e figlio). La lettera riporta evidenti errori grammaticali, ma contiene una puntuale lamentela sui torti subìti, sui quali Corsi aveva informato anche Questura di Siena e comune di Poggibonsi.

Il questore di Avellino, Vignali, risponde in modo molto seccato con una nota al podestà di Teora in cui dice: “Il soprascritto Angelo Corsi ha fatto pervenire alla R. Questura di Siena un esposto con il quale, usando una forma alquanto altezzosa, chiede di essere rimborsato delle spese che la moglie ha sostenuto per il tratto di viaggio da Avellino a Teora e cerca di polemizzare e di fare ricadere la colpa al Municipio di Poggibonsi e alla R. Questura di Siena. […] Si prega di richiamare il C. a tenere un comportamento più corretto e a scrivere, sempre che gli capiterà di scrivere ad autorità costituite, con la forma dovuta e senza alterigia.

Il 9 ottobre 1941 Corsi chiese di essere trasferito ad altra località (la richiesta fu però respinta) e il 9 gennaio 1942 lo stesso Corsi chiese 35 lire per la risolatura delle scarpe, ormai consumate e non adatte al rigido inverno dell’Appennino. Il questore Vignali respinse anche questa richiesta. L’assegnazione al confino terminò il 22 febbraio 1942 e così Corsi potè far ritorno a Poggibonsi, dove non terminerà la sua attività politica.

Corsi, infatti, ricoprì un ruolo nevralgico nell’organizzazione dei primi gruppi di combattimento in Valdelsa, occupandosi anche del reclutamento e della formazione dei giovani più vicini alle strutture clandestine del P.C.I., come testimonia un giovane collega del Corsi, Fortunato Fusi, ricordandone le vicende.

Dalle notizie fornite dai colleghi falegnami della ditta Lucita di Poggibonsi e dalle memorie di Treves Frilli, figura di riferimento del C.L.N. e del P.C.I. a Poggibonsi, emerge un carattere molto aspro e diretto, che procurerà a Corsi diversi grattacapi anche nella quotidianità della vita politica del dopoguerra, come è rintracciabile nella corrispondenza tra Corsi e i dirigenti locali del P.C.I. a Poggibonsi negli anni Cinquanta e Sessanta.

Quella di Angiolo Corsi, pur rappresentando solo una tessera del mosaico che può ricomporre la storia dell’antifascismo popolare, è una vicenda indicativa e sintomatica di come la scelta della militanza antifascista non badava a spese, a costo di dover subire il carcere o il confino.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2015.




Una Repubblica conciliare

L’egemonia comunista sulle amministrazioni cittadine pistoiesi, indiscussa dal dopoguerra, si incrinò nel 1967 quando fu eletto presidente della Provincia il socialista Vincenzo Nardi in alleanza con la Dc. L’amministrazione tuttavia apparve subito debole e la votazione del bilancio mise a repentaglio la tenuta della maggioranza, a tal punto che il prefetto minacciò una gestione commissariale in caso di mancata approvazione.

Di fronte a questa situazione le vicende politiche della città imboccarono una strada inconsueta: il 30 dicembre il bilancio fu approvato all’unanimità, con il voto favorevole di DC, PSI e PCI (sebbene quattro consiglieri del PCI fossero assenti). L’inedita alleanza si trasformò in un accordo pragmatico destinato a risolvere positivamente due emergenze del territorio: l’imminente dismissione della Saca, l’azienda di trasporto pubblico, e una delle cicliche crisi delle Officine Meccaniche Ferroviarie Pistoiesi (OMFP), il maggiore stabilimento industriale della Provincia.

Sebbene la maggioranza provinciale continuasse ad essere formata da DC e PSU, il PCI garantì un appoggio anche futuro alla giunta di centrosinistra per la risoluzione di precisi problemi amministrativi e i tre partiti avviarono permanenti consultazioni.

manifesto dcTra i sostenitori del PCI l’intesa con il centrosinistra suscitò non poche perplessità: l’accordo fu osteggiato dal PSIUP, che affisse manifesti accusando il PCI di aver tradito la volontà dei lavoratori, e nel complesso tutta la base del partito accettò con difficoltà la collaborazione coi cattolici. Neppure per la DC l’accordo risultò pacifico, tanto che il capogruppo alla Provincia, l’avvocato Turco, scelse di spiegarne approfonditamente la natura ai propri elettori in una lettera a mons. Carlo Migliorati, direttore dell’organo della Curia diocesana «La Vita Cattolica», nella quale negò l’esistenza di una nuova maggioranza: «non era in atto alcuna collusione – scrisse – ma solo un tentativo aperto e coraggioso di porre il PCI davanti al dovere di assumersi le proprie responsabilità».

La direzione nazionale della DC approvò l’inedito accordo di Pistoia dopo che i dirigenti locali chiarirono il sostegno puramente tecnico del PCI; ma intanto intorno a questo tentativo, primo in tutta la nazione, di accordo tra i nemici per antonomasia iniziò a crescere l’attenzione mediatica.

La stampa locale conferì all’esperimento politico l’appellativo di Repubblica conciliare connotandolo come frutto della stagione di dialogo tra cattolici e marxisti inauguratasi dopo il Concilio Vaticano II. In prima linea contro la Repubblica conciliare si schierò il quotidiano «La Nazione» che per penna del suo direttore Enrico Mattei scrisse: «Qualcuno domanderà, ma perché vi scalmanate tanto? Forse Annibale è alle porte? É così pericoloso il fatto che la Dc ed il Pci collaborino insieme sul piano amministrativo? Non sarà pericolosa questa collaborazione ma… Annibale non è alle porte, è già entrato, circola fra noi!». La preoccupazione era condivisa dal settimanale «La Vita Cattolica» che scrisse che forse una gestione commissariale non sarebbe stata poi un male. Il timore della curia era infatti che gli elettori della DC non avrebbero compreso, né tanto meno appoggiato l’accordo, e perciò avrebbero potuto far mancare in futuro il sostegno al partito cattolico. Anche il giornale del dissenso cattolico pistoiese, il «Cineforum», prese posizione contro questa intesa politica, in un’inedita comunanza di vedute con «La Nazione» e con «La Vita Cattolica». Le accuse avanzate però furono antitetiche dato che, secondo «Cineforum», l’accordo non avrebbe dovuto limitarsi ad un susseguirsi di intese su singole “cose concrete”, perché altrimenti sarebbe apparso come una semplice volontà da parte dei due partiti di mantenere il potere nelle loro mani, bensì avrebbe dovuto essere un confronto con «spirito nuovo» su temi di fondo: un reale esperimento di «Repubblica conciliare».

A livello nazionale il periodico dell’ala sinistra della DC, «Politica», cercò di difendere l’accordo come un encomiabile tentativo di uscire dal vicolo cieco dell’approvazione del bilancio; era un merito dell’accordo di «aver raggiunto l’intesa non su equivoche formule di abbracci ideologici o “conciliari”, ma su precisi punti programmatici che interessano i problemi della Provincia». «La Stampa», quotidiano torinese, definì invece l’accordo “bizzarro”: «l’embrione di una repubblica conciliare nascente da locali mezzadrie» e sostenne che «simili accordi costituiscono un’effettiva spartizione del potere». In seguito su «l’Unità» si volle precisare che la base fondamentale dell’accordo era prima di tutto «la necessità di qualificare l’Amministrazione ponendola in diretto collegamento con il vasto movimento dei lavoratori. […] Cosa c’entri la “repubblica conciliare” lo sanno solo i fabbricatori di formule e di aria fritta».

I protagonisti politici dell’accordo quindi si guardarono bene dal connotare la collaborazione amministrativa come frutto di un dialogo tra cattolici o marxisti, o come il principio di un avvicinamento politico tra DC e PC, furono i detrattori a definirlo “Repubblica conciliare” contribuendo così ad attirare la curiosità del grande pubblico e decretarne la fine. La dirigenza nazionale della DC infatti, guidata dall’on. Piccoli, non appena vide il sostegno tecnico del PCI trasformarsi sui mass-media nazionali in un esempio di nuova maggioranza alla prova, ne sancì la fine: il 15 luglio del 1969 con un telegramma ordinò che la giunta provinciale fosse sciolta e la segreteria provinciale della DC per disciplina accettò la direttiva romana.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno

Sono ormai passati 70 anni dal 25 aprile 1945: gli studi storici non hanno mai smesso di indagare le vicende della Resistenza e della società italiana in tempo di guerra, questioni fondamentali per la comprensione del nostro paese oggi. Ogni tempo pone domande differenti al passato, segno del cambiamento degli strumenti concettuali e delle sensibilità interpretative.

Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno, Ets, Pisa, 2015, pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), cerca di portare un contributo articolato e innovativo su temi poco frequentati dalla storiografia, partendo da alcune ricerche relative al territorio di Livorno. Il volume verrà presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istoreco il prossimo 21 luglio.

Lo spaesamento è la parola chiave che riunisce tutti i saggi, in primo luogo come disorientamento soggettivo, provato dalle persone a causa delle distruzioni e dei drastici cambiamenti imposti dalla guerra. Ma uno spaesamento vi fu anche in senso figurato: sia come alterazione oggettiva del paesaggio tradizionale che come negazione del concetto stesso di Paese, ormai in balia di forze militari straniere. In questa accezione Livorno rappresenta certamente un caso limite: nella seconda metà del 1943 la città venne completamente evacuata dai bombardamenti alleati e dall’esercito di occupazione nazista.

Spaesamenti_CopertinaTra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò infatti radicalmente il volto della città. Col suo porto e le sue grandi industrie, il capoluogo pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. La provincia fu così privata del capoluogo, la sua popolazione completamente rimescolata.

I saggi contenuti nel volume curati da quattro giovani storici (Stefano Gallo, Matteo Caponi, Enrico Acciai e Gianluca della Maggiore) e dal direttore Istoreco, Catia Sonetti, partono da questa riflessione per declinare domande differenti che toccano molteplici aspetti della società livornese nel corso della guerra. Il faticoso tentativo di organizzare una rete clandestina antifascista nel territorio provinciale (Gallo), la storia della deportazione di un nucleo di famiglie ebraiche rifugiate al Gabbro, nelle colline livornesi (Acciai), la ricostruzione delle giornate a ridosso del 25 luglio ’43 a Rosignano, piccola città-fabbrica della costa (Caponi), lo straordinario resoconto del vissuto quotidiano di Ivo Michelini, un internato militare in Germania (Sonetti), lo sfollamento del clero della diocesi di Livorno impegnato nella ricerca di salvezza fisica ma anche nel dare sostegno spirituale alle comunità (della Maggiore). Si tratta di lavori che pongono nuove domande alla nostra storia, proponendo altrettante piste di ricerca per la storia locale e non solo.

“A lungo – scrive Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea presso la Scuola Normale di Pisa, nell’introduzione al volume – gli studi storici sulla Resistenza nel nostro paese, a differenza di quanto al contempo accadeva in diverse storiografie europee, si sono concentrati sulla lotta armata condotta dalle bande partigiane. Negli ultimi due decenni si è però assistito ad un mutamento di indirizzo. Una crescente attenzione è stata rivolta ad indagare fenomeni che di volta in volta, a seconda degli autori, sono stati definiti con diverse categorie: “Resistenza civile”, “Resistenza passiva”, “Resistenza non armata”, “Resistenza non violenta” o più semplicemente e genericamente “lotta non armata nella Resistenza”. Un sintagma, quest’ultimo, utilizzato per sottolineare l’unità del processo resistenziale in tutte le sue dimensioni, con l’intento di evitare il ricorso a scelte linguistiche che potrebbero, anche involontariamente, introdurre elementi di divisione e di gerarchizzazione nelle varie forme dell’impegno contro la barbarie nazifascista”.

Michelini

Ivo Michelini da militare. Fonte: archivio privato famiglia Michelini.

“Senza dubbio – continua Menozzi – un contributo a questi nuovi orientamenti è venuto dal diffondersi della consapevolezza, maturata sulla base della considerazione delle tragedie che hanno percorso il Novecento, che la pratica della violenza bellica ha comportato, per il livello degli strumenti di distruzione messi in campo, drammi, orrori, distruzioni terribili. In questa chiave si è profilata la tendenza a valorizzare sul piano storico i comportamenti di coloro i quali, individualmente e collettivamente, hanno deciso di manifestare la loro intenzione di opporsi all’aggressione e all’oppressione senza ricorrere all’uso delle armi. Ovviamente la pratica di questa linea storiografica non voleva dire sminuire il significato della scelta compiuta da quanti, offrendo una testimonianza alta della loro disponibilità al sacrificio, avevano in coscienza ritenuto che non vi era altra strada per sottrarsi agli ordini delle dittature che intraprendere la lotta armata. Si trattava soltanto di indagare in maniera più estesa e diffusa la varietà di forme che aveva assunto la Resistenza per restituire, con un evidente intento pedagogico nei confronti di un presente in cui minacce di guerra si facevano di nuovo incombenti, le modalità con cui si era ritenuto di poter reagire alla violenza senza cedere ai suoi stessi metodi”.

“Il volume collettaneo che l’Istoreco ha deciso di pubblicare in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione – conclude lo storico della Normale – si inserisce perfettamente in questo nuovo filone di studi sulla Resistenza, fornendo una serie di originali apporti conoscitivi su diverse manifestazioni dell’opposizione al nazifascismo che si sono verificate nella provincia di Livorno. […] Proprio saggi come quelli qui raccolti evidenziano che le fonti disponibili possono aprire una nuova stagione di ricerche che, private delle connotazioni politico-ideologiche a lungo coltivate dalla storiografia resistenziale, assumono un particolare rilievo per il nostro presente. Mostrano infatti che la democrazia italiana non è stata costruita soltanto sulle armi degli alleati e dei partigiani, ma anche sulla base di un passaggio di larghi strati popolari dal consenso al rifiuto del totalitarismo. Un atteggiamento che si è poi declinato nella storia repubblicana, a partire dal processo costituzionale, in forme politiche diverse e molteplici, ma di cui – anche per evitare pericolosi sbandamenti che le odierne propagande politiche non ci risparmiano – gli studi storici sono chiamati a tener ben viva la memoria”.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)

Articolo pubblicato nel luglio 2015.




Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

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Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

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Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

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Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.

Articolo pubblicato nel giugno 2015.




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.

Articolo pubblicato nel giugno del 2015.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.