1949: la grande vertenza della trebbiatura a Lamporecchio

Nel pistoiese la fase alta delle agitazioni mezzadrili fu più tarda rispetto alle aree centrali della Toscana, ma anche più strutturata sotto il profilo dell’organizzazione sindacale. Queste due circostanze dipendevano dalla storica debolezza del sindacalismo mezzadrile del territorio, caratterizzato dalla polverizzazione proprietaria e dalla presenza di poche, ma significative, grandi fattorie. Non fu quindi un caso che una delle più imponenti agitazioni promosse dalla Federmezzadri, capace di “fare epoca” nel 1949, partisse proprio da una delle poche zone dove il sistema capitalistico della fattoria era prevalente, gravitante geograficamente sull’empolese e nel momento di massima concentrazione fisica della manodopera. Le agitazioni dei mezzadri si concentrarono infatti intorno alle operazioni di trebbiatura, e fu l’area di Lamporecchio al centro delle lotte. I coloni di diverse fattorie si attivarono sotto la direzione del sindacato, che il 1° luglio redasse un ordine del giorno contenente numerose rivendicazioni: i contributi unificati a totale carico dei proprietari come previsto da un decreto del 2 aprile 1946; l’applicazione di quanto previsto dal Lodo De Gasperi e dalla Tregua mezzadrile, ma con la divisione dei prodotti al 53% per il mezzadro da far divenire definitiva; il trasporto dei prodotti ai proprietari; il ritiro delle denunce contro i lavoratori; l’impegno a eseguire i lavori di miglioria con il 4% di parte padronale; l’impegno a chiudere i saldi colonici entro il 30 settembre ’49; il pagamento delle operazioni di trebbiatura e di conservazione dei prodotti.

In risposta, i proprietari inibirono ai mezzadri i lavori di trebbiatura e battitura, impedendo loro di utilizzare le macchine. La Federmezzadri mise allora in pratica un’agitazione che prevedeva l’organizzazione per proprio conto della trebbiatura, di cui veniva redatto un verbale, firmato dall’addetto alla macchina, dal mezzadro e da dei testimoni, poi spedito ai proprietari. Decine e decine di comunicazioni di questo genere arrivarono nel mese di luglio alla fattoria Poggi-Banchieri di Castel Martini, all’azienda agraria di Spicchio, alle fattorie Minghetti, Talini, Comparini e Torrigiani a Lamporecchio, ed alla Confagricoltura provinciale.

La Federmezzadri al tempo stesso tentò, ma senza esito, di far firmare ai proprietari dei modelli di accordo. Ovviamente la Confagricoltura rigettò integralmente tutta la procedura, che definì come «atti lesivi contro la proprietà, la libertà, e il diritto dei proprietari», e quest’ultimi chiesero l’intervento del Prefetto e del Procuratore, tacciando i mezzadri di comportamenti ribelli e inadempienti. La Confederterra al contrario avocò ai mezzadri il merito di aver salvato il raccolto «dalle insidiose manovre degli agrari, i quali ne preferivano la distruzione, prima che concedere vittoria ai coloni» e non vedeva gli estremi dell’inadempienza contrattuale, nemmeno riferendosi «al famigerato contratto fascista con cui gli agrari (Governo compreso) ci vogliono ancora umiliare», addossando la colpa della situazione all’intransigenza padronale.

Ad agosto, dopo aver respinto una proposta di accordo, le fattorie inviarono alle operazioni loro rappresentanti, anche con intenti provocatori. Per evitare di cadere in «tranelli», la Federmezzadri diramò precise istruzioni ai propri aderenti per il non ripetersi di dichiarazioni come quelle dei mezzadri della fattoria Minghetti, che «commisero l’errore di dire che si rifiutavano di dividere il grano, alcuni dichiarando che si opponevano in attesa di ordini della Camera del Lavoro, ed altri per motivi generici» trasmettendo la formula da usare, anche con le autorità: «non ci rifiutiamo alla divisione dei prodotti. Facciamo però ogni riserva relativa all’investimento del 4% in ordine alla legge di Tregua mezzadrile; nonché agli altri diritti spettanti».

Ai primi di settembre furono inviati ai proprietari i verbali di divisione del prodotto. Veniva contestualmente redatta una prima ipotesi di accordo da parte della Confederterra con la fattoria Minghetti, dove il sindacato e il Consiglio di fattoria si impegnavano a far cessare l’agitazione e delineavano la propria capacità a dirigere i lavori. Partito con rivendicazioni tipiche da lavoro “dipendente”, il confronto si era trasformato in una vertenza che poneva anche il mutamento della mezzadria in una vera società, facendo accedere i lavoratori alla gestione aziendale tramite i consigli di fattoria, con all’orizzonte la trasformazione in cooperative.

Le propietà non accettarono né l’ipotesi d’accordo né i verbali inviati, mentre nel mese di ottobre i Consigli di fattoria liquidarono in denaro la parte di spettanza padronale del prodotto, già defalcata del 4% da investire in opere di migliorie. Il braccio di ferro era quindi destinato a prolungarsi, con la fattoria Minghetti alla guida del fronte proprietario. Un tentativo di conciliazione fra le parti avvenne nuovamente nel gennaio 1950 con trattative in Prefettura, dove si riuscì a delineare un accordo soltanto su tre dei quattro punti all’ordine del giorno, ma in un clima di sfiducia reciproca fra tutte le parti coinvolte che alla fine fece saltare l’intera trattativa.

Si arrivò così al 19 aprile, quando nel confronto intervenne una sentenza del Tribunale di Pistoia in seguito alla causa legale aperta dalla fattoria Minghetti. Nel procedimento giudiziario i proprietari furono difesi tra gli altri dall’avvocato Baldi Papini, appartenente a una nota famiglia di proprietari agrari, ed i mezzadri da un legale d’eccezione, Pietro Calamandrei. I giudici riconobbero la tortuosità della situazione venutasi a creare e le ragioni di ambo le parti, sottolineando che «se anche i mezzadri potevan esser tacciati di inadempienza delle norme contrattuali l’inosservanza da parte dei concedenti delle disposizioni di legge, la cui applicazione era con pieno diritto invocata dai mezzadri» li aveva spinti sulla via dell’agitazione, formulando di fatto un riconoscimento politico ai motivi dei coloni. Per la magistratura questo implicava che se «il mezzadro non avrebbe potuto legittimamente trebbiare il grano senza l’ordine del proprietario cui spetta la direzione dell’azienda agraria, anche il concedente non avrebbe potuto rifiutare questo ordine lesivo degli interessi e del mezzadro e della produzione in generale – specialmente quando il rifiuto di questo ordine era determinato dal rifiuto di applicare la legge; che così essendo, il punto da esaminare per la risoluzione della vertenza era quello di vedere se l’atteggiamento dei concedenti era stato legittimo o meno, in quanto se legittima era stata la richiesta dei mezzadri doveva concludersi che illegittimo era per l’atteggiamento dei concedenti quando non solo respinsero le legittime richieste dei mezzadri, ma fecero seguire a questi rifiuti un atteggiamento del tutto al di fuori della legalità presumendo valersi di un diritto che se loro compete entro certi limiti (direzione dell’azienda) non li autorizza però ad abusarne dato che la legge lo ha concesso purché ne usino secondo quelle che sono le norme della buona cultura dei campi». Ma era proprio su questo punto che il procedimento non dimostrava lo stato di colpa dei proprietari, che tramite i loro legali erano riusciti a spuntarne le armi processuali con un cavillo, inviando a ridosso dell’inizio delle operazioni supervisionate dalla Federmezzadri delle lettere dove ritiravano la proibizione e davano il via libera alla trebbiatura. Lettere che furono a suo tempo rinviate al mittente dagli sdegnati coloni.

La sentenza costituì un duro colpo per il movimento mezzadrile, dimostrando gli errori di un’agitazione impostata con molti mezzi ma senza la necessaria attenzione giuridica, confidando nei rapporti di forza sui poderi, ma rimise anche in evidenza quanto fosse necessaria una riforma del Contratto di mezzadria e del Codice Civile insieme al riconoscimento legale dei consigli di fattoria.

Per la Confagricoltura fu invece una vittoria, tant’è che la sentenza – riportando il nome delle fattorie coinvolte – fu anche stampata in forma di opuscolo, con il titolo di Il rapporto di mezzadria in una sentenza del Tribunale di Pistoia del 19 aprile 1950, per assicurarne la massima diffusione e come monito.

Tuttavia i mezzadri erano mobilitati e fermamente decisi ad ottenere quel poco che gli spettava, per cui continuarono l’agitazione. Anche le trattative andarono avanti, nonostante la sentenza, fino a quando il 6 giugno non fu raggiunto un primo accordo tra la fattoria Minghetti ed i mezzadri «dipendenti» per la pacificazione interna all’azienda. A luglio, con un atto di transazione, la vertenza ebbe termine. Dopo un anno i rapporti rientravano nella normalità, le trebbiature sarebbero state effettuate con le macchine disposte dai concedenti e la divisione a termini di legge.

La Federmezzadri ottenne una sorta di pareggio, conseguendo l’applicazione del riparto previsto dalla Tregua e mettendo un’ipoteca sui contributi unificati. Un bilancio misero, se si considera gli obbiettivi di partenza. Nessun cenno ai lavori di miglioria, scomparsi i consigli di fattoria e la parificazione del mezzadro nella gestione. Tuttavia si era riusciti ad evitare il peggio dopo le sentenze sfavorevoli.

Stefano Bartolini è Direttore di Farestoria, rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale (AISO). Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




Luglio 1919: lo “scioperissimo” di Livorno.

Dopo i moti popolari del caroviveri esplosi anche a Livorno dal 5 all’8 luglio 1919, la situazione degli approvvigionamenti in città si mantiene, ancora per settimane, problematica, pur senza registrare ulteriori gravi incidenti.

D’altronde lo stato, endemico, di tensione era stato segnato, all’inizio del mese, dal Prefetto Gasperini al ministero dell’Interno (P. Ciccotti, 2014):

Devesi poi tenere presente che Livorno conta oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze diverse .

Nelle cronache giornalistiche di quei giorni, si continua a leggere l’elenco aggiornato degli esercizi saccheggiati assieme alle disposizioni del calmiere istituito dalle autorità cittadine.

Da parte delle istituzioni, infatti, si opera per abbassare la tensione mentre la Prefettura cerca di vigilare sui prezzi e promuove la costituzione di una Commissione annonaria, alla quale però la Camera del lavoro non aderirà («La Gazzetta livornese», 29-30 luglio; «La Parola dei Socialisti», 2 agosto 1919).

Passata la burrasca, il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro, dopo aver profuso i propri sforzi nel ”governare” tumulti ed espropriazioni, dedicano il proprio attivismo e cercano d’indirizzare il malcontento popolare verso l’atteso sciopero internazionale del 20-21 luglio «in difesa delle repubbliche sovietiche ed ungherese», sciopero “rivoluzionario” al quale aderisce anche l’Unione Sindacale Italiana.

Sull’«Avanti!» del 7 luglio viene annunciato in prima pagina: «Tutto il mondo del lavoro incrocierà le braccia il 20 e il 21 corrente. Il movimento popolare induce finalmente il governo a provvedere contro il caro-viveri» e, nell’articolo a commento della proclamazione dello sciopero, è possibile leggere un tentato collegamento tra la questione – sociale – dei moti contro il carovita e le motivazioni politiche internazionali dello sciopero, presentandolo come un momento di riscossa «verso la totale emancipazione».

Le aspettative per l’inizio di una sollevazione sociale vengono però escluse dal Consiglio generale della CGdL tenutosi a Bologna il 13 e 14 luglio e, quando a Livorno la decisione confederale di non dare carattere insurrezionale allo sciopero viene riportata nel Consiglio delle Leghe, «parecchi anarchici e socialisti ufficiali [massimalisti], nonché un repubblicano, inveirono violentemente contro i capi della Camera del lavoro, perchè essi ritenevano che fosse giunto il momento dell’azione» (L. Tomassini, 1990).

Ad ogni buon conto, il Prefetto si prepara al peggio, temendo che la piazza sfugga di nuovo al controllo riformista, e con un manifesto alla cittadinanza comunica il suo «fermo intendimento di reprimere ogni violenza, ogni eccesso, ogni attentato alla libertà e alla sicurezza civile» («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Nello stesso giorno, il rappresentante del governo sospende la circolazione di auto, camion, motociclette, così come la vendita di benzina. Inoltre, l’autorità di PS esegue una «retata» di circa ottocento (800!) «individui sospetti di ambo i sessi», preventivamente arrestati e internati in Fortezza Vecchia e in Fortezza Nuova («La Gazzetta Livornese», 22-23 luglio 1919).

Pochi giorni prima, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, erano stati già arrestati sette noti militanti anarchici (Aristide Colli, Oreste Piazzi, Augusto Consani, Libero Masnada, Turiddo Giuseppe Carlotti, Dante Nardi) per «procedimenti politici» in relazione ai moti del caroviveri («Il Telegrafo», 23 luglio). Considerata la vicinanza al Mercato centrale della sede del Fascio operaio di via dei Cavalieri, è presumibile che si volesse criminalizzare i suoi aderenti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, indicandoli come i responsabili dei saccheggi.

Alla vigilia alla mobilitazione, i diversi sodalizi politici e sindacali si riuniscono e prendono posizione, per lo più a favore dello sciopero. Particolarmente animata deve essere stata l’assemblea dell’Unione repubblicana livornese dopo che, fin dal marzo precedente, si erano registrate forti divergenze verso l’atteggiamento da assumere nei confronti degli scioperi socialisti, fermo restando l’«essere all’avanguardia di qualsiasi movimento per incanalarlo ai fini politici e sociali del partito stesso» (C. Scibilia, 2012).

Anche la Società di Mutuo Soccorso fra il personale della Regia Accademia Navale, pur non aderendo allo sciopero politico, «dichiara altresì di rendersi solidale con i compagni per quei movimenti di carattere economico, essendo questo lo scopo principale della Società» («Il Telegrafo», 19 luglio 1919).

Così come quasi ovunque, le due giornate trascorrono in relativa tranquillità, con la città paralizzata dallo sciopero e pattugliata dai militari. Il comando del Distretto militare alcuni giorni prima aveva invitato «gli arditi in congedo e in licenza o comunque presenti nel Comune di Livorno […] a presentarsi subito» per un presumibile impiego in funzione d’ordine pubblico, così come avvenuto in altre città, tra le quali Piombino dove avevano affiancato carabinieri e bersaglieri («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Le banche vengono presidiate, cinema e teatri chiusi, sospeso il servizio telegrafico: «anche la passeggiata a mare, e gli stabilimenti a mare, non videro quella folla chiassosa e spensierata di belle signorine, che nei giorni trascorsi mettevano, con i loro graziosi sorrisi e con le loro seducenti toilettes, la nota gaia  in quell’ambiente mondano» («Il Telegrafo», 22 luglio 1919).

Mentre i sovversivi sono detenuti nelle due Fortezze, al Politeama si tiene il comizio del segretario della Camera del lavoro e dell’on. Modigliani, davanti a circa cinquemila persone, ma senza particolari tensioni ed anche la consistente partecipazione non fa notizia.

«Dell’entusiasmo e del protagonismo creativo delle folle in azione durante i recenti moti annonari sembrava rimanere poco o niente, e i tentativi di razionalizzazione politica attuati dagli organizzatori dello sciopero parvero paradossalmente stamparsi al di sopra  dei linguaggi e degli slogan che avevano dominato nelle strade e nelle piazze in tumulto, rendendoli quasi invisibili» (R. Bianchi, 2006).

Lo sciopero, in tutta evidenza, sconta infatti la mancata saldatura tra lo spontaneismo delle insorgenze per il caroviveri  e lo svolgimento dello sciopero politico, tanto da far parlare di fallimento la stessa stampa che aveva paventato lo sciopero; laconico invece il commento de «Il Libertario» del 31 luglio: «l’astensione dal lavoro è stata generale; la vita normale nelle città è stata per due giorni paralizzata, non solo, ma sconquassata dalle disposizioni di prevenzione e di difesa prese dalle autorità contro lo stesso sciopero».

Di fatto, comunque, la sottovalutata rilevanza dei moti livornesi dei caroviveri sembra essere, a posteriori, colta – forse anche autocriticamente – dagli stessi socialisti labronici che scrivono, rivendicando politicamente – compresi i deprecati eccessi – quanto accaduto venti giorni prima:

la storia è piena di questi crimini, i grandi sommovimenti sociali sono tutti pieni di questi crimini, le rivoluzioni vivono tutte di questi crimini sociali. Lo storico ufficiale riderà scettico e sardonico dal suo palazzo dorato battendosi il ventre ben panciuto finchè la verità storica nuova non lo desterà dalla sua visione del vecchio mondo. Cinque anni di storia sanguinosa ci precedono atroci come tanti rimorsi […] Dai trivi, dalle piazze, dalle strade, dai bassifondi, questa cloaca dirompente […] avanza scalzando le basi di una società caduca e sanguinaria […]. Sgorga e dilaga come un fiume limaccioso […] il crimine della folla multicolore e multiforme. Signori della vecchia coscienza sociale, filosofi dell’aristocrazia politica, mummie della diplomazia, fate largo e inchinatevi. Passa Gravoche [recte: Gavroche]! («La Parola dei Socialisti», 27 luglio 1919).

La battuta d’arresto sarà però destinata a durare poco; nei mesi seguenti, il conflitto sociale riprenderà esprimendo posizioni e pratiche sempre più radicali. Infatti, il Biennio rosso livornese vedrà l’occupazione generalizzata delle fabbriche locali e la comparsa delle Guardie Rosse; la nascita della Camera sindacale del lavoro, aderente all’USI; lo sciopero politico in solidarietà con l’anarchico Errico Malatesta nel febbraio 1920 e la sommossa contro la questura del maggio 1920.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




Gli eroi maledetti. I goumiers e la liberazione del territorio senese (giugno-luglio 1944)

Il 15 giugno 1944, in una calura soffocante, le avanguardie del Corps expéditionnaire français superavano il fiume Paglia entrando nel territorio senese e sferrando l’attacco contro i caposaldi che i tedeschi avevano predisposto per rallentarne l’avanzata.

Gli attaccanti erano gli stessi soldati che, un mese prima grazie a una brillante azione nella valle del Liri, avevano messo in crisi la linea Gustav. Adesso era stata affidata loro una zona secondaria, incuneata tra la direttrice tirrenica, affidata alla V Armata americana, e quella adriatica di competenza dell’VIII Armata britannica. Del resto il fronte senese, povero di ampie vallate, di comode vie di comunicazione e prevalentemente accidentato, permetteva di sfruttare nel migliore dei modi le caratteristiche della fanteria leggera francese che si era rivelata particolarmente abile nelle aree montane.

Il corpo di spedizione transalpino era composto da quattro grandi unità, la I Divisione Francia libera, comandata da Diego Brosset, forte di 15.491 uomini di cui 9.012 europei e il resto di altre nazionalità; la II Divisione di fanteria marocchina, comandata da André Dody, composta da 13.895 uomini di cui 6.578 europei e il resto africani; la III Divisione di fanteria algerina (quella che liberò Siena), comandata da Joseph Goislard De Montsabert e composta da 13.189 effettivi di cui 6.353 europei e 6.835 africani; la IV Divisione marocchina da montagna, comandata da Françoise Sevez, e composta da 19.252 uomini di cui 6.545 europei e 12.707 africani.

Oltre a queste unità, costitutite nel Magreb liberato a partire dal 1943, ben armate e addestrate[1], si aggiungeva una riserva di 29.431 elementi, circa metà europei e metà africani e infine i Goums, in tutto 7.833 uomini, di cui solo 645 europei, comandati dal generale Augustin Guillaume[2].

Furono proprio questi ultimi a rimanere particolarmente impressi nell’immaginario della popolazione senese, sia per il proprio, indubbio, valore sul campo di battaglia che per una serie di violenze contro i civili.

Il termine goumier deriva dalla francesizzazione del sostantivo arabo qawm che significa tribù, gruppo sociale[3]; tali truppe erano infatti inquadrate in compagnie chiamate goums forti di duecento uomini ciascuna; tre o quattro di tali reparti formavano un tabor[4] (reggimento).

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, "Attenti a dove sparate.", Siena, Betti editore, 2018

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, “Attenti a dove sparate.”, Siena, Betti editore, 2018

Questi gruppi erano sorti nel Marocco francese come milizia territoriale nel 1908 e avrebbero servito il Governo di Parigi fino al 1956 (anno d’indipendenza del Marocco, Paese da cui provenivano la maggioranza dei militi); ogni goum era composto (a parte gli ufficiali, tutti francesi[5]) da nativi della regione montuosa dell’Atlante e si differenziava dalle altre truppe coloniali regolari (gli spahis -la cavalleria- e i tirailleurs -la fanteria-), in quanto contribuiva a formare un corpo di fanteria leggera i cui membri erano legati spesso da vincoli di parentela e venivano reclutati direttamente dal comandante di ogni singolo reparto, ragion per cui si veniva a creare uno strettissimo rapporto con quest’ultimo.

Ogni goum era formato da tre plotoni di fanteria, uno di cavalleria (che, quando era impegnato fuori dall’Africa, si trasformava, di sovente, in fanteria), uno di mitragliatrici, uno di mortai e uno di mulattieri per il trasporto dell’equipaggiamento.

L’insegna dei goumiers era la koumya, ossia il pugnale ricurvo dei berberi e la loro divisa era composta da una lunga veste  in lana grezza a strisce (la djellaba), il turbante ed i sandali ai piedi (questi ultimi sostituiti, in seguito, da antiquati elmetti di tipo brodie e da scarponi d’ordinanza).

I goumier avevano avuto il loro battesimo del fuoco nella Seconda guerra mondiale operando con successo in Tunisia contro i tedeschi e gli italiani, in seguito erano stati impiegati in Sicilia, in Corsica e sul fronte di Cassino per poi arrivare in Toscana sempre agli ordini di Augustin Guillaume[6].

E furono proprio costoro che buona parte della popolazione senese vide, dopo la partenza dei tedeschi, invece dei tanto sospirati americani con le loro sigarette e la cioccolata.

Purtroppo, in molti casi, il primo impatto non fu dei migliori. Nonostante una serie di brillanti successi tattici come l’aggiramento di Montalcino o il superamento del fiume Merse presso il ponte a Macereto le violenze non mancarono. Non si ebbero episodi  diffusi e generalizzati come quelli di  Esperia o Ausonia ma il bilancio fu lo stesso pesantissimo.

Alcuni partigiani della formazione Spartaco Lavagnini riferirono che nella sola cittadina di Abbadia San Salvatore le truppe francesi violentarono sessanta donne, nonché alcuni uomini, senza tener conto dell’età delle vittime; vennero inoltre operati  numerosi saccheggi. Le proteste inoltrate dagli stessi partigiani agli ufficiali transalpini non sortirono alcun effetto.

Gli stupri perpetrati dagli uomini del Corps  expéditionnaire continuarono a San Quirico d’Orcia, Casciano di Murlo, Murlo, Casole d’Elsa, Monteriggioni, Colle val d’Elsa, Poggibonsi (Pian dei Campi)[7] e  Monticiano[8] tuttavia non è facile quantificare il fenomeno per via dello stillicidio di fatti isolati spesso non denunciati dalle vittime a causa della vergogna.

A un certo punto i comandanti americani chiesero ai colleghi francesi di contrastare le violenze delle proprie truppe contro la popolazione locale.

Il generale Guilluame reagì  in modo ufficiale, seppur minimizzandole, ammettendo le violenze che venivano tuttavia attribuite non tanto ai reparti combattenti quanto agli addetti ai servizi di retroguardia[9]. Ufficiosamente però si cominciarono a prendere provvedimenti drastici. A Casal di Pari, in seguito a un certo numero di stupri, cinque goumiers vennero colti in fragrante, fucilati ed i corpi esposti nella piazza del paese dietro ordine dello stesso Guillaume[10].

Nonostante l’esempio la scia di violenze continuò e si ha notizia di ufficiali francesi che procedettero a punizioni cruente ed esecuzioni sommarie[11]. Gli alleati completarono la liberazione del territorio senese nella seconda metà del luglio 1944 e pochi giorni dopo l’intero Corps expéditionnaire français venne richiamato nelle retrovie per partecipare allo sbarco in Provenza che avvenne il 15 agosto dello stesso anno.

[1] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire française en Italie 1943-1944, Paris, Histoire e collections, 2003, p. 9 e ss.

[2] Il bilancio delle perdite francesi nel corso della campagna d’Italia fu particolarmente sanguinoso: il Corps

expeditionnaire, tra morti, feriti e dispersi, perse quasi il 30% dei propri effettivi.

Cfr. BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova Immagine, p.108-113.

[3] Cfr. www.cnrtl.fr/definition/goumier.

[4] Parola di origine turca che significa battaglione. Cfr. www.cnrtl.fr/definition/tabor.

[5] Per quanto riguarda i ranghi dei sottufficiali o dei graduati con competenze speciali (autisti, capi mitraglieri e così via),

all’interno di reparti costituiti esclusivamente o quasi da africani, come i goums, l’esercito francese si serviva dei

cosiddetti troncs de figuier e dei pieds noirs, ossia i discendenti di francesi stabilitisi in Marocco (i primi) o in Algeria (i

secondi); costoro parlavano infatti l’arabo. GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 33.

[6] Cfr https://goumier.jimdo.com/histoire-des-goumiers/

[7] LUCCIOLI M. – SABATINI D., La ciociara e le altre. Il Corpo di Spedizione Francese in Italia, Roma, ed. Tusculum,

1998, pp. 88 e ss.

[8] MARTINELLI A., Monticiano Racconta. Testimonianze raccolte e trascritte da Alda Martinelli, Siena, Cantagalli,

2010, p.54.

[9] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p.44.

[10] L’episodio è narrato nel giornale di marcia del capitano Henri Tartaroli del 2° reggimento d’artiglieria coloniale in

GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 44-45;  Alessandro Orlandini e Giorgio Venturini, parlando del

medesimo fatto, fanno riferimento ad una sola donna violentata da sei goumiers che vennero  fucilati; cfr ORLANDINI

  1. – VENTURINI G., I giudici e la Resistenza dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani: il caso

Siena, Milano, La pietra, 1983, p.14-15.

[11] BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena …, op.cit., p. 84 in nota 5.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




“Relazioni pericolose” nell’Africa orientale italiana

Il blitz compiuto dal collettivo femminista Non una di meno contro la statua di Indro Montanelli dei giardini di Porta Venezia a Milano lo scorso 8 maggio, ha nuovamente riportato al centro dell’agone mediatico il controverso rapporto tra gli italiani e il loro passato coloniale. I motivi che stanno alla base del gesto provocatorio delle attiviste (l’imbrattamento della statua con della vernice rosa lavabile), riguardano infatti una storia avvenuta in Etiopia tra il 1935 e il 1936, quando l’allora ventiseienne giornalista di Fucecchio prestava servizio nel Regio Esercito come comandante di un reparto di ascari impegnato nella guerra di aggressione scatenata da Mussolini contro il Paese africano. Milano. Statua di Indro Montanelli imbrattata. Di Clarita Di Giovanni

Com’è noto, in quel frangente, Montanelli intrattenne per alcuni mesi una relazione di concubinato (o per usare un termine più specifico, di madamato) con una ragazzina eritrea di soli 12 anni che egli aveva “acquistato” dal padre. Di questa esperienza – accusano le attiviste – Montanelli non si è mai pentito né scusato, neanche in tempi recenti quando le sensibilità verso tali tematiche erano ormai ampiamente mutate; al contrario ne ha sempre rivendicato la legittimità in virtù delle profonde differenze culturali tra il mondo civilizzato e l’Africa [1]. Valga come esempio paradigmatico l’ultima volta in cui il giornalista parlò della sua madama dalle colonne del Corriere della Sera, il 12 febbraio del 2000:

Mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonnella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie […] e di stabilirne con il padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazione a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e paglia del costo di 180 lire.La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni [sic!]: particolare che in anni recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. […]Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi […]. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni [2].

Fin dall’inizio della dominazione italiana in Eritrea sul finire del XIX secolo, il madamato si era imposto come la cornice istituzionale in cui si realizzavano i rapporti asimmetrici – e non di rado violenti – tra i coloni italiani e le donne indigene. L’esistenza di questo tipo di convivenza more uxorio che spesso si completava con la nascita di figli, veniva giustificata facendo riferimento al demoz (o dumoz), un complesso contratto matrimoniale a termine diffuso in alcune zone della colonia e caratterizzato da reciproci obblighi da parte dei contraenti; tra di essi il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto, il pagamento da parte dell’uomo di un compenso annuo alla donna, e l’obbligo, sempre da parte dell’uomo, di provvedere alla prole nel momento in cui il legame fosse stato sciolto. Tuttavia, come hanno osservato Barbara Sòrgoni e Giulia Barrera, le convivenze stabili che coinvolgevano coloni italiani e donne eritree interpretavano il demoz in una forma peculiare che ovviamente andava tutta a vantaggio dell’uomo bianco: in qualche caso esso si configurava come una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo doveva pagare alla donna; in qualche altro caso il madamato diveniva una sorta di concubinaggio attraverso cui l’uomo bianco poteva avere rapporti sessuali con la madama ed usufruire dei suoi servizi in ambito domestico, senza esser sottoposto ad alcun obbligo legale [3]. A prescindere che prevalesse l’una o l’altra interpretazione, raramente i figli nati da relazioni di questo genere venivano riconosciuti dal padre e pertanto erano destinati il più delle volte alla marginalità sociale. Allo stesso modo le donne abbandonate dai partner italiani si ritrovavano escluse dai contesti familiari di provenienza, non trovando spesso altra strada che quella della prostituzione.

Ufficio Postale

E. De Seta, Ufficio postale
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri, 1935-36

Già nei primi anni del XX secolo, tra il 1909 e il 1914, l’amministrazione coloniale italiana aveva tentato di porre un freno a fenomeni di questo tipo attraverso una serie di norme incorporate in uno speciale diritto coloniale che miravano a ridurre al minimo qualsiasi commistione tra coloni (in modo particolare i funzionari coloniali) e popolazioni indigene [4]. Tuttavia, fu solo con l’avvio della fase imperiale del fascismo che l’orientamento segregazionista, già contenuto in nuce nella legislazione di epoca liberale, trovò uno sviluppo coerente e definitivo attraverso un progressivo irrigidimento del confine tra i “cittadini italiani” e i “sudditi eritrei ed etiopici”. L’arrivo a Massaua, tra il 1935 e il 1936, dei soldati e lavoratori italiani mobilitati per la guerra con Etiopia, aveva infatti alterato drammaticamente le proporzioni tra i maschi bianchi – passati da qualche migliaio a più di mezzo milione in brevissimo tempo – e le donne indigene, traducendosi in un aumento vertiginoso delle relazioni interetniche (il madamato, ma anche matrimoni e rapporti occasionali). Al fine di depotenziare il pericolo rappresentato da questa situazione promiscua, il regime fascista emanò quindi, nella seconda metà degli anni Trenta, una legislazione coloniale articolata su un impianto ideologico fortemente razzista che disciplinava la vita quotidiana in colonia, istituendo spazi differenziati per gli italiani e i nativi e riducendo al minimo i contatti tra le razze. I provvedimenti più importanti riguardavano la definizione delle categorie di “cittadino” e “suddito” (R.dl. 1 giugno 1936, n. 1019, Sull’ordinamento e l’amministrazione dell’Africa orientale italiana), la difesa del “prestigio della razza” e il divieto assoluto di rapporti matrimoniali o sessuali interetnici (L. 30 dicembre 1937, n. 2590, Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi; R.dl 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; R.dl. 29 giugno 1939, n. 1004, Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Orientale), la definizione dello status giuridico dei meticci (L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci) [5].

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E. De Seta, Al mercato
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri [1935-1936]

Sebbene tali leggi furono largamente eluse dagli italiani presenti in colonia, che fino alla caduta dell’impero continuarono a praticare il madamato e unirsi a donne indigene nonostante il rischio di finire in carcere, esse ebbero indubbiamente degli effetti devastanti sulla popolazione italo-africana. Essendo stati equiparati ai nativi dal punto di vista giuridico, sul finire degli anni Trenta, i meticci nati dalle unioni miste videro infatti svanire le già tenui possibilità di acquisire la cittadinanza italiana [6] così come l’opportunità di accedere alle «scuole e gli altri istituti di carattere sociale ed educativo, che storicamente avevano servito le comunità a retaggio misto» [7]. Nella gerarchia imperiale imposta dal fascismo per salvaguardare il prestigio della razza italica, il meticcio finì insomma per rappresentare un elemento destabilizzante che doveva essere in qualche modo occultato o comunque assorbito all’interno della categoria dei nativi.

I programmi di ortopedia sociale proposti dal regime fascista per ridefinire lo spazio imperiale secondo dettami razziali si scontravano però con l’esistenza dei cosiddetti «insabbiati», cioè uomini che non solo avevano familiarizzato con l’elemento indigeno ma la cui esistenza era ormai radicata profondamente nella condizione coloniale. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, l’accusa di insabbiamento veniva rivolta, molto spesso, ai «vecchi coloniali». Con questa espressione si definivano tutti quei funzionari statali, agenti di commercio e militari che, avendo passato gran parte della propria vita in colonia, avevano contribuito a strutturarne la vita sociale, economica e culturale, grazie anche alla conoscenza degli usi, dei costumi e delle lingue delle popolazioni locali. Non di rado essi avevano instaurato relazioni più o meno formali con donne indigene e riconosciuto i figli nati da tali unioni.

Alberto Pollera. Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera.
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

A questo proposito è di estremo interesse affrontare il caso di Alberto Pollera, la cui peculiare esperienza di amministratore coloniale ed etnografo ci permette di osservare i temi che abbiamo precedentemente passato in rassegna all’interno di un contesto di vita vissuta, che si svolse quasi interamente nel Corno d’Africa coprendo tanto la fase liberale del colonialismo italiano, quanto quella fascista [8]. Quinto di undici figli, Pollera nacque in una famiglia della piccola aristocrazia lucchese il 3 dicembre 1871. Ottenuto il diploma liceale entrò nel 1890 all’Accademia Militare di Modena, dove rimase per tre anni, per poi trasferirsi prima a Brescia e poi, dopo sua esplicita richiesta, nella neonata colonia Eritrea dove giunse nel 1894 con il grado di sottotenente. Un anno dopo viene raggiunto dal fratello Ludovico, anch’egli destinato a divenire un funzionario coloniale di un certo rilievo. Dopo esser entrato a far parte del Corpo Speciale d’Africa al comando del governatore Oreste Baratieri, fu coinvolto, pur senza parteciparvi direttamente, nella disfatta di Adua (1° marzo 1896), poi in alcune operazioni militari contro i dervisci e nella delimitazione del confine tra l’Eritrea e il Sudan anglo-egiziano. Nel 1903, svestita l’uniforme militare, divenne per sei anni un funzionario civile incaricato di amministrare la turbolenta regione del Gasc e Setit come “primo residente”. Fu nel periodo immediatamente precedente a questo incarico che egli conobbe Unesc Arai Araià Capté, una giovane donna originaria della regione di Axum, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni e Michele, nati nel 1902, Giorgina, scomparsa prematuramente a un anno tra il 1907 e il 1909 e infine Giorgio (1912). Stabilitasi ad Asmara con i figli, Unesc Arai rimase al fianco di Pollera per alcuni anni e, dopo la fine del loro rapporto, continuò ad essere mantenuta dall’ex compagno che le aveva acquistato un’abitazione. In seguito, Pollera fu nominato commissario della provincia del Seraé (1909-1917) e regio agente a Dessiè e ad Adua, in territorio etiope, fino al suo temporaneo collocamento a riposo nel 1928. Egli tuttavia, in quello stesso anno, accettò di prendere parte alla spedizione organizzata da Raimondo Franchetti in Dancalia, occupandosi dei preparativi logistici e mettendo a disposizione le sue conoscenze in ambito antropologico. Come molti altri funzionali costretti – in un certo senso – a conoscere gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali per poter assolvere al meglio alle pratiche dell’amministrazione coloniale, Pollera era infatti divenuto un “etnografo per necessità”, dedicandosi nel corso della sua vita alla stesura di numerose monografie di carattere storico-giuridico-antropologico [9]. In questa attività egli poté contare sull’aiuto determinante di Chidan Menelik, la sua seconda compagna, che aveva conosciuto nel 1912 e che gli diede altri tre figli: Mario (1913), Marta (1915) e Alberto (1916).

A differenza di altri coloniali che abbandonavano i meticci nati dalle relazioni con donne africane al loro destino, Alberto riconobbe tutti i suoi figli, sebbene dal punto di vista giuridico egli non potesse legittimarli. Secondo il codice civile italiano, infatti, il padre naturale non poteva legittimare i propri figli naturali a meno di non sposarne la madre. Come abbiamo visto in precedenza però, in colonia tale strada non era percorribile, i quanto di decreti governatoriali del 1909 e del 1914 integrati nel diritto coloniale rendevano virtualmente impossibili i matrimoni misti, costringendo il cittadino a dare le dimissioni dal pubblico impiego in caso di nozze con una donna indigena. Nonostante la mancanza di legittimazione, i figli di Pollera poterono comunque frequentare scuole italiane e poi, intorno alla prima metà degli anni Venti, spostarsi in Italia per completare gli studi presso alcune strutture educative religiose.

La visione che il funzionario lucchese aveva del colonialismo spiega almeno in parte questi peculiari atteggiamenti nei confronti delle compagne e dei figli. Facendo riferimento ai suoi scritti, Pollera fu senza dubbio animato, da un lato, dall’ideale della missione civilizzatrice compiuta dai bianchi in Africa, e dall’altro, da un razzismo paternalistico giustificato da un paradigma evoluzionistico attraverso cui le razze umane venivano collocate su una scala di sviluppo. Pur rimanendo convinto della superiorità degli europei sugli africani e dei diversi livelli di civilizzazione che a loro volta contraddistinguevano le popolazioni colonizzate, egli rigettava però ogni riferimento al determinismo biologico. In altre parole, egli attribuiva un carattere temporaneo alla presunta inferiorità di certi popoli rispetto ad altri, in quanto tale inferiorità non era stabilita da dati naturali o biologici, ma piuttosto da fattori storici, sociali e culturali. «Il diverso grado di civiltà esistente nel paese del quale parliamo [l’Etiopia] – affermava Pollera nel corso di una conferenza tenuta a Torino nel 1927 –, non deriva da una congenita ragione di razza, ma da cause estranee che ne hanno arrestato o ritardato lo sviluppo, cessate le quali un risveglio non è solo possibile ma probabile» [10]. La condizione di inferiorità dei popoli africani, insomma, non era una condizione immutabile ma transitoria e dunque facilmente superabile attraverso lo studio, l’educazione e, più in generale, l’«aiuto» dell’uomo bianco.

Alberto Pollera con i figli Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra) Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera con i figli
Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra)
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Sebbene il razzismo paternalistico di Pollera fosse una concezione molto diffusa nell’Italia di inizio secolo, alla metà degli anni Trenta, esso appariva come l’anacronistica espressione di un pensiero piuttosto isolato in un panorama culturale ormai egemonizzato da forme di determinismo che di fatto ponevano in relazione diretta la psiche e le facoltà mentali al dato razziale inteso in senso biologico. Negando ogni possibile progresso alle «razze inferiori», tale orientamento, propugnato in maniera sempre più massiccia da antropologi di regime come Lidio Cipriani, fornì la base scientifica su cui fu legittimata la legislazione razziale nell’Africa Orientale Italia.

In questa fase crebbe l’isolamento di Pollera all’interno del contesto coloniale, nonostante egli avesse continuato a ricoprire cariche importanti (console di Gondar, in Etiopia dal 1929 al 1932; responsabile della biblioteca governativa e capo della sezione studi e propaganda presso l’Ufficio affari generali del personale del governo dell’Eritrea ad Asmara dal 1932 al 1939; consigliere personale del governatore dell’Eritrea Daodiace a partire dal 1937). Da un lato egli fu colpito dall’”offensiva” lanciata dai nuovi funzionari fascisti verso i “vecchi coloniali” accusati – come abbiamo visto in precedenza – di infangare il prestigio della razza e di essere ormai avvezzi ai costumi dei nativi. Dall’altro, come funzionario di stato, Pollera dovette conciliare la sua immagine pubblica con la sua sfera privata, gli imperativi richiesti ad un esponente del governo coloniale ai suoi legami affettivi con la compagna e i figli. In questo senso è facile riscontrare molte contraddizioni tra una adesione, probabilmente superficiale e di facciata, alle politiche governative e prese di posizione nette a favore dei meticci nati da unioni miste tra cittadini e sudditi.

La famiglia Pollera, riunitasi in Eritrea a partire dai primi anni Trenta, visse sulla sua pelle il mutato clima della colonia: la figlia Marta, ad esempio, fu espulsa dall’organizzazione delle Giovani Fasciste poiché meticcia; il figlio Giovanni allontanato dai luoghi di ritrovo in cui soleva recarsi per lo stesso motivo; la compagna Chidan tenuta lontana dalle cerimonie ufficiali dove non sarebbe potuta più comparire. Lo stesso Alberto eluse accuratamente ogni pretesto di vita mondana per ripiegare su un onorevole concubinaggio a cui metterà fine poco prima della sua morte, sposando la sua compagna nel 1939.

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Marta Pollera, figlia di Alberto
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Pur accettando, almeno ufficialmente, alcuni punti della politica razziale fascista (il divieto di matrimonio tra donne italiane e indigeni; la limitazione, entro una certa misura, del fenomeno del concubinaggio; la preferenza dei meticci nati da padre italiano e madre locale su quelli nati dall’unione opposta), Pollera si oppose in più occasioni alla legge del 1936 sull’ordinamento dell’Africa Italiana che ometteva ogni riferimento alla cittadinanza per i meticci, aprendo così la strada alla cancellazione di questa possibilità dalla legislazione vigente [11]. La sua preoccupazione maggiore era infatti legata al fatto che i suoi figli sebbene riconosciuti, rimanevano tecnicamente “illegittimi” e pertanto avrebbero potuto perdere da un momento all’altro la cittadinanza italiana ed essere parificati, dal punto di vista giuridico, agli nativi. Nel 1937 la questione fu portata davanti alla Corte d’Appello di Addis Abeba che alla fine riconobbe la piena cittadinanza ai figli del funzionario.

L’anno successivo, mentre i legislatori stavano preparando la legge che avrebbe definitivamente risolto il problema del meticciato dal punto di vista giuridico (la futura L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci), Pollera tornò ad occuparsi della questione relativa agli Italo-Eritrei indirizzando un appello accorato direttamente a Mussolini.

Scrive Pollera il 10 dicembre 1938:

Questi nostri figli meticci sono dunque per sangue del padre, per fisico prestante, per l’educazione, per sentimenti, perfettamente italiani. Sono ufficiali, funzionari, professionisti, commercianti, artigiani, onesti operai; e le femmine buone madri di famiglia, coniugate ad Italiani, ebbero prole per qualità intellettuali, morali, e fisiche spesso superiori agli italiani di razza pura […]. L’Albo d’oro dei caduti durante la guerra europea, ed in quella etiopica, segna i nomi di diversi nostri figli meticci, partiti volontari, colla benedizione paterna, perché da noi educati ad amare quella Patria per la quale non inutilmente consumammo la vita in terra d’Africa. Noi vogliamo, o Duce, restare orgogliosi della loro memoria, e non dover rimpiangere di averli spinti all’olocausto della propria vita per una Patria che avesse a rinnegarli […]. Nessuno pensa di chiedere modificazioni ad una legge che promana da Voi: chiediamo solo che detta legge sia chiarita con senso di umanità, come fu promesso [12].

Il passaggio centrale di questo brano mette in luce il tentativo di Pollera di ricomprendere i meticci nati da unioni miste all’interno della comunità nazionale, segnalando come prova tangibile di questo fatto la disponibilità dimostrata da quest’ultimi a morire per la Patria. Così facendo, il funzionario lucchese rievocava la dolorosa esperienza della perdita del figlio Giorgio che, arruolatosi come volontario per la guerra italo-etiopica, cadde in combattimento contro i ribelli abissini nei pressi del fiume Omo Bottego, al confine con il Kenya, il 12 dicembre 1936, ricevendo una medaglia d’oro al valor militare.

Nelle intenzioni dell’autore, l’appello a Mussolini avrebbe dovuto parlare a nome di tutti gli Italo-Eritrei che si trovavano ancora nello stato di figli riconosciuti e che la nuova proposta di legge sembrava voler integrare nella categoria di “suddito”. La sentenza che aveva sancito il riconoscimento della cittadinanza italiana ai Pollera, era stata probabilmente viziata dall’influenza del padre nella società coloniale, come sembra esser confermato dal fatto che decine di richieste analoghe furono respinte, nello stesso periodo, dai giudici della Corte d’Appello di Addis Abeba.

Alla fine, la legge sul meticciato, emanata nel maggio 1940 pochi mesi dopo la morte di Pollera, non ebbe effetti retroattivi, conservando la cittadinanza al novero ristretto degli Italo-Eritrei che l’avevano già ricevuta o fossero in procinto di riceverla all’entrata in vigore della legge stessa. Tuttavia, allo stesso tempo, per la stragrande maggioranza dei meticci dell’Africa Orientale Italia si apriva una fase drammatica: ogni residua possibilità di essere riconosciuti dai padri naturali, di essere adottati da cittadini, di ricevere un’istruzione adeguata e di ottenere la cittadinanza italiana si perdeva per sempre.


Note:

[1] Questa storia deve la sua popolarità ad alcune interviste televisive rilasciate dal giornalista nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1972, durante il programma L’ora della verità condotto da Gianni Bisiach, Montanelli parlò per la prima volta della sua madama ricevendo un duro attacco da parte della giornalista femminista di origine eritrea Elvira Banotti che lo accusava di giustificarsi sulla base di pregiudizi razzisti di tipo biologico – e non solo culturale – nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa. Dieci anni dopo, in un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi per la Rai, egli fece di nuovo riferimento alla propria esperienza coloniale in Etiopia cambiando però versione sull’età (da 12 a 14 anni) e sul nome (da Fatima a Destà) della ragazzina, forse per porsi al riparo da eventuali critiche. Cfr. la sezione Multimedia.
[2] La Stanza di Montanelli in «Corriere della Sera», 12 febbraio 2000.
[3] Sull’istituto del madamato e la sua diffusione i riferimenti sono Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori Editore, Napoli 1998 e Giulia Barrera, Sex, Citizenship, and the State. The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea, in Perry Willson (a cura di), Gender, Family, and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, Palgrave Macmillan, New York 2004.
[4] Mi riferisco ai R.D. 19 settembre 1909, n. 839 e R.D. 10 dicembre 1914, n. 16. Nel primo caso, l’articolo 43 specifica che è «inibito ai funzionari coloniali di coabitare con donne indigene»; nel secondo caso l’articolo 42 specifica invece che «il funzionario coloniale che contragga matrimonio con una indigena è considerato dimissionario».
[5] Per una panoramica sulla legislazione razziale Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 441-424.
[6] Il vuoto legislativo relativo allo status dei meticci era stato colmato con la L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, attraverso cui i figli nati nelle colonie d’Eritrea e Somalia da un genitore di «razza bianca» rimasto ignoto, avrebbero ottenuto la cittadinanza italiana previo possesso di specifici requisiti culturali e morali e al compimento del diciottesimo anno d’età. La legge prescriveva inoltre accurati procedimenti di «diagnosi antropologica etnica» al fine di discernere il «bianco scuro» dal «nero bianco» e dunque di ridurre la platea dei potenziali beneficiari.
[7] Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, p. 246.
[8] Sulla vita di Alberto Pollera il riferimento imprescindibile è Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Bollati Boringhieri Torino 2001.
[9] Tra le più importanti segnaliamo I Baria e i Cunama, Reale Società Geografica, Roma 1913; La donna in Etiopia, Ministero delle Colonie, Roma 1922; Lo Stato Etiopico e la sua Chiesa, SEAI, Roma-Milano 1926; La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi ove fu combattuta, Carpigiani e Zipoli, Firenze 1928; Le popolazioni indigene dell’Eritrea, Cappelli, Bologna 1935; Storie, Leggende e Favole del Paese dei Negus, Marzocco, Firenze 1936; L’Abissinia di ieri, Scuola Tipografica Pio X, Roma 1940.
[10] Alberto Pollera, Che cos’è l’Etiopia, Tipografia editrice Riva, Torino 1927, p. 6.
[11] Cfr. supra la già citata L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia.
[12] Lettera di Alberto Pollera a Benito Mussolini, Asmara 10 dicembre 1938 citata in Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo, cit., p. 210.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




Le mobilitazioni operaie in Toscana del 1969

Ricordare il ’69 operaio, o autunno caldo, a 50 anni dal suo svolgimento, non è una questione semplice. Prima di tutto perché si tratta di un anniversario che definire passato “in sordina” rende poco e male la situazione. Secondo perché se c’è un aspetto del presente che dimostra come la teoria delle “magnifiche sorti e progressive” sia una colossale sciocchezza, è proprio il settore del lavoro. Basta gettare uno sguardo sulle nuove precarietà, da quella dei braccianti impiegati nel nostro sud nella raccolta delle arance o dei pomodori, a quella dei rider che ci consegnano il cibo a domicilio, o a quella delle donne italiane e straniere che accudiscono i nostri anziani, o ancora ai lavoratori delle partite Iva, per capire che quel ciclo di mobilitazione che aprì speranze, realizzò diritti, spinse la società tutta intera in avanti, è lontano anni luce da questo presente che ci circonda.

Ricordare poi la mobilitazione operaia da un punto di osservazione come quello della Toscana è una complessità in più. Non c’era e non c’è in questo territorio una concentrazione operaia simile a quella delle fabbriche del nord, in primis Fiat. Anche i grandi stabilimenti, come il siderurgico di Piombino o il metalmeccanico Piaggio di Pontedera non sono mai arrivati ad avere quei numeri di addetti, né quella rilevanza nazionale. Né abbiamo avuto concentrazioni così massicce nel settore del tessile-abbigliamento, della conceria, o dell’industria energetica o cantieristica. Di sicuro, però, la fine degli anni Settanta vedeva l’attività industriale toscana ancora in primo piano sotto tutti i punti di vista. Per addetti, per fatturato, per diffusione territoriale. E sicuramenti negli stabilimenti di Santa Croce sull’Arno, così come all’Italsider di Piombino, o nei Cantieri Orlando di Livorno, alla Lebole di Arezzo, così come nelle altre centinaia di aggregazioni industriali diffuse nella regione, il ’69 ci fu, portò trasformazioni e impresse mutazioni sia con i risultati contrattuali diffusi, sia con il cambiamento di linguaggio, delle strategie di alleanza, delle modalità conflittuali. Pensiamo ad esempio, alla mobilitazione interna ai reparti, a gatto selvaggio, o a singhiozzo, di cui tutte le testimonianze rivendicano la paternità.

Queste memorie raccontate con orgoglio, non sono di per sé né false, né vere. Ogni luogo di produzione cercò, in quell’autunno lontano, di darsi anche delle soluzioni originali, di inventarsi una strategia capace di generare alleanze, e non solo quelle con gli altri lavoratori, ma anche quelle con settori ritenuti tradizionalmente più lontani, come quella tra i cattolici della piana di Pontedera e i lavoratori della Piaggio.[1]

Ci furono mobilitazioni assai significative nel settore, amplissimo, del lavoro a domicilio, che portarono a risultati interessanti, ci furono battaglie per la salute nei posti di lavoro, salute che non riguardava solo gli addetti ma tutti gli abitanti del comprensorio coinvolto, come nelle zone del cuoio di Santa Croce e Ponte a Egola.

La difficoltà di ragionare sulle lotte del ’69 da un luogo come la Toscana è legata anche alla miopia della storiografia italiana che ha concentrato tutta la sua attenzione sulla Fiat e su Torino con qualche incursione verso Milano e poco altro.

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Come scrivevo alcuni anni fa: “Eppure studi, anche approfonditi, su altre realtà non sono mancati. Ma non si capisce se per pigrizia, o per una coazione a ripetere, si torna sempre lì. Eppure tutti noi che ci occupiamo o ci siamo occupati di storia del movimento operaio, siamo tutti consapevoli che l’Italia, l’Italia operaia, quella che lottava e costruiva quegli anni straordinari di lotte e di rivendicazioni realizzate, si concretizzava a Torino ma anche a Piombino, a Gioia Tauro ma anche a Marghera, nelle fabbriche di Santa Croce in Toscana, così come nei calzaturifici delle Marche, alla Max Mara dell’Emilia così come alla Lebole di Arezzo e in cento altre località, in parte uguali ma in parte anche profondamente diverse dal grande agglomerato piemontese.”[2]

Di sicuro poi occorrerebbe tornare indietro, all’anno degli studenti, il ’68, e poi alle lotte per le pensioni, come insegnava Bruno Trentin,[3] per capire in profondità l’argomento di cui ci dobbiamo occupare. E ricordare che con l’ingresso degli operai sulla scena pubblica, il sindacato “..recuperò… fra gli studenti medi e quelli degli istituti tecnici; o fra gli ‘studenti-lavoratori’, i quali, in molte realtà, come in Piemonte, diventarono attori a pieno titolo della lotta sindacale.”[4] Sempre seguendo il ragionamento di uno dei più grandi leader storici del sindacalismo confederale, si può sostenere che il sindacato riuscì, a differenza dei partiti storici della sinistra, a dialogare e anche a farsi permeare dalla cultura proveniente dal mondo giovanile. E come dichiarò lo stesso dirigente: “..non fu una passeggiata”.[5]

Ma torniamo alle realizzazioni più significative e più connotanti il territorio della nostra regione, trascurandone altre, non perché poco importanti ma perché stanno dentro un quadro di relazioni sindacali e industriali di livello nazionale ed oltre. Penso ad esempio alla mobilitazione dell’Acciaierie di Piombino all’interno del gruppo delle Partecipazioni Statali e dentro il quadro conflittuale diretto dal sindacato metalmeccanico, il più importante di quegli anni.

Spesso i risultati migliori si ebbero nei luoghi non deputati in senso tradizionale del lavoro operaio ma nel settore dei servizi. Pensiamo a quello che accadde nel settore dell’assistenza psichiatrica, dove, alla “fabbrica dei matti” come chiamavano a Volterra il manicomio, si sostituì l’assistenza domiciliare. Con la chiusura di quel centro di reclusione, si sovvertirono le tradizioni culturali che fino a quel momento avevano governato quel luogo oltre a realizzare una profonda conversione dell’organizzazione del lavoro di assistenza.

La vicenda della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Volterra era stata resa possibile anche dalla nascita del sindacato degli ospedalieri che nella provincia pisana diventò subito fortemente significativo a causa del peso che aveva, ed ha, il polo ospedaliero di Santa Chiara insieme a quello di Cisanello e alla stessa facoltà di Medicina, come punto di riferimento non solo regionale.[6]

C’è un episodio, piccolo in sé ma altamente significativo, per il forte valore simbolico, quando nel ’69, un malato psichiatrico derubato da un infermiere, venne risarcito e il responsabile fu sospeso per un mese dal lavoro senza assegno.[7]  Si cominciava a respirare un’altra atmosfera. Il dibattito sulla riforma della psichiatria si era allargato da Trieste a Gorizia, a Arezzo, a Lucca fino a Volterra, la città dell’alabastro e dei matti. Quella battaglia che non fu solo operaia, sindacale, ma fu anche culturale e politica, che si scontrò anche con consolidati atteggiamenti di chiusura verso qualsiasi forma di “diversità”, cominciò negli anni Sessanta e si protrasse per un lungo periodo. Ma la trasformazione del manicomio e la sua chiusura sono successive al ’69. Arrivano infatti due anni dopo, con la battaglia per la riforma Basaglia[8]. Un biennio, in quel caso, non poteva bastare. Dal punto di vista strettamene sindacale la trasformazione si era però intravista già dal ’67 quando c’era stato il superamento della Cisl da parte della Cgil che aveva una maggioranza di iscritti nella manodopera femminile e nei lavoratori manuali.[9] Ricordava Annibale Fanali, psichiatra arrivato a Volterra nel 1971:

 “..a Volterra c’erano due fonti fondamentali di lavoro: l’alabastro e l’ospedale psichiatrico. Io sono entrato nel ’71 e c’erano 1800 ricoverati all’incirca. Questo era un mondo. Non c’erano solo gli infermieri. C’erano quelli della cucina, gli operai. C’erano le aziende agricole perché c’erano dei reparti dislocati nella campagna. Quindi era un mondo…. La contraddizione grossa di Volterra rispetto ad altre esperienze era che qui c’era un grande manicomio ed una piccola città, non come Perugia, o anzitutto Trieste.”[10]

E ancora:

“A Volterra tutto girava attorno al manicomio, ma il manicomio era considerato come una fabbrica. I pazienti erano la pietra….. C’era gente dalla Liguria, dalla Sardegna, c’erano anche stranieri: c’era un casino di gente. Gente di tutti i tipi.. Era la legge del 1904, di “cura e custodia”. La custodia era grossa, la cura era piccina. Quando si è detto: ‘facciamo diventare grande la parola cura’, sono nate le contraddizioni. E la città, soprattutto politicamente, è riuscita a metabolizzare.”[11]

 Fu una vicenda che coinvolse e trasformò l’intera città, le sue componenti, sia quelle più aperte che quelle più chiuse, che trasformò nel profondo il senso comune del sentire collettivo nei confronti dei “matti”. Fece crescere tutti, in meglio.  Per quanto è stato possibile verificare, questa è una delle storie più belle e più durature, fino a qui, dell’Italia di quegli anni.

Ma accanto a questa narrazione se ne possono affiancare molte altre, apparentemente minori ma altamente significative come quella che coinvolse le maestranze della Fiat di Marina di Pisa, già dal ’67, l’anno delle Tesi della Sapienza[12], che anticipò il biennio seguente, anche in una fabbrica classica, quella della Fiat di Marina, dove accadde qualcosa di insolito. Ricordava un vecchio sindacalista, isolato in fabbrica e nelle lotte perché iscritto Fiom:

“A Pisa quando si fece il corteo dei licenziati, la gente si allontanava, se ne andava per conto suo. All’opposto, nel 1967, per la prima volta che si riuscì a scioperare dopo dieci anni, si scioperò una mattina di febbraio. Era nevicato. Uscii io insieme a tre o quattro convinti che rimanessero tutti dentro perché tre volte avevo scioperato anche da solo. Difatti quella mattina eravamo in dieci e poi ad un certo momento si sentì il silenzio… Cosa sta succedendo dentro? Comincio’ a sorti’ gli operai. Sortirono tutti e quella fu la più grande soddisfazione perché dopo dieci anni ero riuscito a creare le condizioni per scioperare perché c’ero solo io. Però ero diventato un po’ un esempio. La Fiat non aveva dimostrato una grande intelligenza. Colpiva me.. e lo sapevano che io ero una persona ragionevole, che tenevo legami, che cucivo in continuità, che sopportavo angherie..”[13]

Anche qui c’è l’anticipazione di un anno rispetto alla rottura epocale del ’68. Perché sia il ’68 studentesco che quello operaio sono date simboliche più che periodizzazioni fra un prima e un dopo. Il dopo si è venuto costruendo solo poco alla volta ma i suoi effetti sono stati poi così deflagranti e così sintetici che, correttamente noi rinviamo a quella data e non ad una trasformazione di lunga durata. Perché il tempo e i cambiamenti si concentrarono moltissimo lasciando l’impronta di una accelerazione dirompente. Ma dentro una realtà così differenziata, come quella della Toscana produttiva e della Toscana dei servizi, sia per concentrazioni operaie che per tipologie di lavoro, ci furono anche settori dove il ’69 operaio entrò pochissimo e anzi cominciò, proprio a partire da quell’anno, una stagione di licenziamenti e sconfitte. Come fu per il caso della Marzotto di Pisa. Una fabbrica con una schiacciante presenza di manodopera femminile, gestita con piglio patriarcale e con l’ausilio delle suore che si occupavano della formazione delle rammendatrici in un clima di intimidazione durissima e di violenza discriminatoria spaventosa. Dove si realizzò una vicenda opposta a quella di Valdagno. Quando arriva il ’69 la Marzotto di Pisa aveva già perso oltre 600 addette anche se vi lavoravano ancora 850 addetti, si respirava un’aria di dismissione. Si giunse al 7 giugno 1968 quando la direzione annunciò la chiusura dello stabilimento. Cominciò una gara di solidarietà attorno alla fabbrica ma alla fine, dopo decine di manifestazioni, di sit-in davanti ai cancelli, di iniziative politiche e sindacali, Marzotto uscì di scena e gli subentrò un’altra proprietà. Era il 24 gennaio 1969. Il nuovo proprietario riprese circa la metà delle vecchie maestranze. Di sicuro, per quell’insediamento industriale, l’autunno di quell’anno non fu molto caldo.[14]

Manifestazione a Lucca, anni '70

Manifestazione a Lucca, anni ’70

In una realtà simile ma non uguale, quella delle confezioni della Lebole, ad Arezzo, le cose andarono assai diversamente. In quel caso la mobilitazione nel biennio ’68-’69 realizzò molti risultati: dalla mensa al sabato libero, dalla riduzione d’orario senza diminuzione di salario, dall’abolizione delle zone salariali al superamento della commissione interna con il riconoscimento del consiglio di fabbrica. Anche qui le maestranze erano quasi per intero femminili e anche qui la loro volontà si incontrò con un tessuto cittadino, sociale e politico solidale.[15] Ma anche qui come ovunque si consumò la contrapposizione tra chi voleva aumenti uguali per tutti, come Vittorio Foa o Emilio Pugno, e chi invece come Bruno Trentin era contrario.[16] Vinsero la battaglia, che fu anche e forse soprattutto culturale, Foa e Pugno.

In una intervista dell’autrice a Foa, il vecchio ex sindacalista diceva:

 “..mi è accaduto di ripensare a tante battaglie egualitarie: parità uomo-donna, parità nord-sud, parità tra operai comuni e operai specializzati, parità operai-impiegati. Sono tutte le battaglie dei primi anni Sessanta e di tutti gli anni Settanta. Tutte queste battaglie possono essere viste come puro tentativo di ‘essere come quell’altro’ oppure essere viste in modo diverso. Cioè come uscita da una condizione di inferiorità generale e come affermazione di me stesso e delle mie possibilità. Cioè come un problema anziché di uguaglianza materiale, di libertà. “[17]

Ma il 1969 fu anche l’anno nel quale la Fiom pubblicò una dispensa in cui veniva illustrato il modello sindacale di “lotta per la salute” che divenne il testo base di riferimento per ogni mobilitazione legata all’ambiente di lavoro.[18] Anche in questo caso la vicenda era cominciata molto prima, in particolare nel 1961 con la costituzione della Commissione medica nella Camera del Lavoro di Torino e grazie ai risultati di lavori di ricerca e di denuncia di Giovanni Berlinguer[19] e di Giulio Alfredo Maccacaro[20].

Nella realtà toscana scegliamo due casi sui quali poter collocare l’attenzione, quello delle concerie di Santa Croce e quello della lavorazione a domicilio delle calzature. Per Santa Croce l’anno 1969 cominciò con la firma di un ottimo accordo contrattuale: aumenti uguali per tutti, contrattazione del premio di produzione, passaggi di categoria per le donne che svolgevano lavori superiori alla loro mansione, comitati e delegati per la prevenzione e la sicurezza in ogni azienda, diritto di assemblea dei lavoratori dentro l’azienda con la presenza dei sindacati. Non erano risultati di poco conto ma il delegato per la prevenzione e la sicurezza fu un risultato che rimase ancora per molto tempo sulla carta.  Dagli inizi del ‘900, da quelle parti era stata fatta l’abitudine al cattivo odore e a condizioni di lavoro durissime che tuttavia assicuravano a tutti una relativa pace sociale e un buon ritorno economico. Il problema “ambiente e salute” a Santa Croce emerse con grande ritardo grazie alla denuncia prima di “Paese Sera” nel 1974, e poi con l’”Espresso” con un’inchiesta di Sergio Saviane nel 1978.  Fino a lì, da quelle parti la parola d’ordine: “la salute non si vende” non aveva trovato diritto di cittadinanza.[21]

“Il Grande Vetro” scriveva: “Per la sete di guadagno tutti si erano improvvisati conciari, anche dentro le cascine di campagna.”[22] Occorre comunque riconoscere che, anche se in ritardo, la situazione fu poi gestita con la collaborazione delle istituzioni, degli imprenditori e dei sindacati, e a tutt’oggi si sperimentano di continuo soluzioni concertate per migliorare l’organizzazione del lavoro e l’ambiente.[23]

Discorso simile ma non uguale quello è che possiamo fare per le lavoranti a domicilio. E per questo settore mi permetto di rinviare ad un mio saggio[24] da quale si evince la frammentarietà del problema, la compresenza al suo interno di modernità e di arcaismo, di spinte alla conservazione e di spinte al rinnovamento, spesso però non inteso in senso tradizionale. Per realizzare l’importanza di questo segmento vale la pena ricordare che ancora agli inizi degli anni Settanta il settore coinvolgeva oltre 1.600.000 addetti.[25]

Un settore di sicuro importante per quantità di prodotto e per reddito ma poco compreso dalle stesse organizzazioni sindacali che puntando tutta la battaglia per l’ingresso in fabbrica delle lavoranti, alla fine ottennero solo il risultato di costringere le medesime a diventare, ob torto, delle artigiane con partita iva. Soprattutto per un settore delicato e importante nell’economia toscana come quello dell’aggiuntatura delle scarpe. Un settore dove la femminilizzazione della manodopera era pressoché totale. E dove giocava un ruolo attivo la convivenza con la famiglia d’origine e soprattutto avere una stanza da adibire a laboratorio, come ricordava una testimone da me intervistata, Patrizia Cerri:

“E meno male che avevo questa stanza! Te pensa chi lavorava in un ambiente così, che poi ci doveva mangiare, che sul tavolo ci doveva lavorare e poi sparecchia’ tutto, e poi ci doveva mangiare. Pensa un po’ te!”[26]

In quelle condizioni la battaglia più importante fu quella di dare visibilità a queste lavoratrici. Ma quando accadeva che queste lavoratrici emergessero era sempre per pochi giorni, su una pagina di giornale e niente più, come accadde nel 1973 a Cascina in una Conferenza provinciale.[27]

Ed in questo settore, quando, dopo un accordo raggiunto proprio nel ’69 con il quale si ottenne che il lavoro venisse portato a domicilio alle lavoranti, la situazione peggiorò perché:

Questo fatto crea divisione tra le donne. Ognuna sta a casa sua e vede poca gente: il portantino ti impaurisce e minaccia di non portarti più il lavoro.[28]

 Se il ’69 fu l’anno degli operai, fu molto meno quello delle operaie. Come scrivevo nello stesso saggio:

“Le donne impegnate nel lavoro a domicilio lavorano sole, dentro una cornice familiare e di relazioni che resta uguale nel tempo, a parte i mutamenti naturali che subiscono pure loro, come l’invecchiamento.”[29]

Anche in quel contesto, quello di quegli anni così vivaci sul piano delle rivendicazioni e dei risultati contrattuali, non riuscirono ad attivare azioni di difesa collettiva perché come ha scritto Christophe Dejours:

lavorare non è solo avere un’attività, ma è anche vivere; vivere il rapporto con la costrizione, vivere insieme, affrontare la resistenza opposta del reale, costruire il senso del lavoro, della situazione e della sofferenza.[30]

Se poi passiamo a guardare il discorso sulla tutela della salute, proprio nel 1969, Luigi Frey analizzò il caso di San Giovanni in Persiceto e il quadro ottenuto (era una zona di lavoro a domicilio delle confezioni) fu sconfortante. Disturbi alla funzionalità epatica, ai muscoli, alla vista. Risultati pubblicati poi alcuni anni dopo[31] Nel calzaturiero la situazione era anche peggiore perché a causa dei “mastici forti” le lavoranti si potevano prendere malattie terribili come la nevrite e arrivare alla morte. Ma praticamente nessuno se ne accorgeva e fino a che certe sostanze non furono escluse per legge, il controllo ricadeva sulle loro spalle e la loro sorte era spesso solo un fatto di fortuna.

Sicuramente il settore del lavoro a domicilio era il più fragile dell’intero settore produttivo nazionale e pertanto aveva ragione Trentin a scrivere:

 “Si comprende… come nella memoria politica della maggior parte dei gruppi dirigenti della sinistra, non sia rimasta traccia degli obiettivi e dei risultati più significativi delle lotte dell’autunno caldo’, come il controllo sulla salute e le condizioni di lavoro, la conquista di nuovi diritti individuali e collettivi, il diritto all’assemblea. E come sia rimasto soltanto il ricordo di una grande lotta salariale, forse eccessiva nei suoi obiettivi e nei suoi risultati. Si comprende come, con tali lenti da miopi, alcuni si siano dilettati a irridere l’obbiettivo di conseguire un nuovo modo di lavorare e, perché no? un ‘nuovo modo di fare l’automobile’ superando le catene di montaggio. Mentre altri, come il gruppo parlamentare comunista, non ebbero alcuna reticenza ad astenersi nella votazione dello Statuto dei lavoratori”…… E come, nel momento più aspro della lotta dei metalmeccanici per il diritto di informazione sui piani di investimento delle grandi imprese e per una svolta delle politiche industriali delle aziende di Stato, in direzione del Mezzogiorno, una parte rilevante del gruppo dirigente del Pci cercherà di scongiurare ‘l’avventura’ dei sindacati a Reggio Calabria. E si schiererà, senza esitare a sostegno delle ragioni delle baronie che dominavano l’Iri e si opponevano strenuamente a discutere con i sindacati, alla luce del giorno, i loro programmi di investimenti e le ragioni degli sperperi inauditi che il loro clientelismo e la loro incompetenza avevano accumulato.”[32]

Possono sembrare amare considerazioni ma forse ci possono essere utili anche per capire i ritardi attuali della politica e la debolezza dei partiti storici della sinistra. E come anche il sindacato non gode proprio di un’ottima salute.

[1] Catia Sonetti, Dentro la mutazione. La complessità delle storie del sindacato in provincia di Pisa, Einaudi, Torino, 2006, p.67.

[2] C. Sonetti, Sì anche il diritto di suonare il clavicembalo! Intervento dattiloscritto presentato al Convegno di Firenze sui due bienni rossi nel 1998.

[3] Bruno Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969.Intervista di Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 79.

[4] Ibidem, p. 97.

[5] Ibidem, p.114

[6] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa, 1960-1980, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, pp.483-484.

[7] Ibidem, p. 525.

[8] Cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”: Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 19611968, Feltrinelli, Milano, 2014; Vinzia Fiorino (a cura di), Rivoltare il mondo, abolire la miseria. Un itinerario dentro l’utopia di Franco Basaglia, Ets, Pisa, 1994.

[9] Ibidem, p, 526.

[10] C. Sonetti, Dentro la mutazione… cit., p. 128.

[11] Ibidem, pp. 134-135.

[12] Cfr., Luciano Ghelli, ’68 e dintorni. Il movimento, gli operai, il Pci e i gruppi a Pisa dalle tesi della Sapienza alla giunta Lazzeri, Edizioni Progetto, Ponsacco, 1988.

[13] Ibidem, p. 32.

[14] C. Sonetti, Dentro la mutazione..cit., p 44.

[15] Claudio Repek, La confezione di un sogno. La storia delle donne della Lebole, Ediesse, Roma, 2003.

[16] Aris Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 30.

[17] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa. 1960-1980 in, La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980), a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, p. 490.

[18] Patrizio Tonelli, “La salute non si vende”. Ambiente di lavoro e lotte di fabbrica tra anni ’60 e ’70, in I due bienni rossi del Novecento 1919-1920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto,  Ediesse, Roma, 2006, p.345.

[19] Giovanni Berlinguer, Medicina e politica, De Donato, Bari, 1973.

[20] Giulio Alfredo Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979.

[21] Cfr, anche “Il Grande Vetro”,  n.9, anno 2, settembre 1978.

[22] C. Sonetti, La rottura.. cit., p. 532

[23] Vd. la trasmissione di Rai3, Leonardo del 6 maggio 2019.

[24] C. Sonetti, Il lavoro nascosto. Lavoranti a domicilio nella seconda metà del Novecento, in Fuori dall’ombra. Studi di storia delle donne nella provincia di Pisa (secoli XIX e XX), Plus university press, Pisa, 2006, pp.371-416.

[25] Sebastiano Brusco, Prime note per uno studio del lavoro a domicilio in Italia, in “Inchiesta”, III, 10, (1973), riproposto poi in, Decentramento, costi di produzione, e condizione operaia nel settore della maglieria, in Piccole imprese e distretti industriali. Una raccolta di saggi, Il Mulino, Bologna, 1989.

[26] C. Sonetti, Il lavoro nascosto… cit., p 387.

[27] Ibidem, p. 394.

[28] Ibidem, p. 401.

[29] Ibidem, p. 401.

[30] Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 146, citato in C. Sonetti, Il lavoro nascosto…. p. 401.

[31] Cfr., Lavoro a domicilio e decentramento produttivo nei settori tessili e dell’abbigliamento in Italia, a cura di Luigi Frey

[32] B. Trentin, Autunno caldo.., cit., p. 130.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione

A partire dai primi di settembre del 1943, i dirigenti del Partito d’Azione fiorentino, allo scopo di dotare la nascente organizzazione resistenziale cittadina di un adeguato strumento di informazione e di intelligence militare, disposero la creazione di un servizio clandestino di radiocomunicazioni sotto la sigla Co.Ra, abbreviazione di Commissione Radio. Come ebbe a ricordare successivamente uno dei suoi proponenti, il servizio – in linea peraltro con quanto di analogo stavano facendo altrove altri gruppi del partito – oltre a ricercare un ponte radio col quartier generale alleato ad Algeri rispondeva all’intento di collegare più «organicamente la resistenza armata in Italia»[1], mettendo meglio in comunicazione tra loro i principali centri clandestini operanti in territorio occupato e i comandi delle nascenti formazioni partigiane. Quest’ultimo aspetto nel contesto fiorentino implicava creare un più diretto coordinamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), nel quale gli azionisti detenevano un ruolo chiave, e le bande operanti in provincia. In tal senso, ai responsabili il costituendo servizio radiocomunicazioni del Partito d’Azione fiorentino, vennero sottoposti sin da subito due obiettivi in particolare:

1) [creare] Collegamenti con i centri radio del Partito nell’Alta Italia per facilitare l’attività politica e militare clandestina e dare la possibilità di comunicare via Svizzera con Algeri o direttamente col Comando militare dell’Italia liberata per l’invio di notizie militari e per la richiesta di armamento ed approvvigionamento delle bande partigiane.

2) Collegare le bande stesse col Comando militare di Firenze.[2]

A capo del comitato tecnico del nascente servizio furono poste le figure del capitano dell’aeronautica Italo Piccagli, del fisico Carlo Ballario e dello studente di ingegneria Luigi Morandi, nessuna delle tre formalmente iscritte al partito, ma già impegnate a sostegno del movimento clandestino antifascista cittadino.

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Il capitano Italo Piccagli (ISRT, Fondo Italo Piccagli e Ruth, fasc. 2)

Italo Piccagli, classe 1909, dopo una prima formazione militare ricevuta presso l’Accademia Navale di Livorno, era passato all’Aeronautica, dove si era presto distinto in azioni militari (ottenne la medaglia d’argento al valor militare per un’azione di salvataggio in mare che gli costò una cronica malattia polmonare) e per gli studi nel campo dell’ottica, della meteorologia e della navigazione aerea. Militare in servizio permanente, nel 1943 dirigeva a Firenze il Gabinetto di Navigazione Aerea e di Meteorologia della Scuola di Guerra Aerea delle Cascine. Di sentimenti antifascisti, benché senza mai aderire formalmente ad alcun partito, dopo l’8 settembre 1943 Piccagli si era avvicinato al movimento clandestino. Lasciata di conseguenza la Scuola delle Cascine era riuscito a mettere in salvo presso l’Istituto di Fisica di Arcetri il materiale tecnico-scientifico del Gabinetto da lui diretto e sottratto casse di munizioni e materiale radio vario[3]. Di radio Co.Ra Piccagli divenne una delle figure chiave grazie alle sue conoscenze in campo aeronautico e alla sua personale rete di contatti in campo militare che gli permisero di organizzare un efficiente servizio di informazioni.

Oltre a Piccagli, con ruolo di consulente tecnico e scientifico, fu posto nel comitato Co.Ra Carlo Ballario, classe 1915, assistente di Fisica all’Università di Firenze e poi di Bologna. A lui, nella seconda metà del settembre 1943, gli azionisti Giovanni Turziani e Carlo Furno avevano chiesto di interessarsi per il partito del problema delle comunicazioni radio con l’Alta Italia, ragion per cui Ballario era entrato in contatto ai primi di ottobre con Piccagli. A questi due venne ad affiancarsi anche Luigi Morandi, giovane studente di ingegneria classe 1920, il quale accettò di buon grado di porre a servizio le sue pregresse conoscenze tecniche già note al Ballario e oramai «decuplicate da lunga esperienza»[4]. In effetti, appassionato sin da giovane di radio-trasmittenti grazie all’attività del padre (un esperto radiotecnico e proprietario di un negozio radio) Morandi, dopo alcune esperienze lavorative prima in un’azienda radio milanese (la Geloso) e poi a Bologna presso il reparto ricerche della Ducati, nel 1941 era stato chiamato sotto le armi e dislocato in Albania con compiti di radio-operatore, venendo poi destinato nel 1942 col grado di sottotenente al 7° Reggimento Genio Radiotelegrafisti di Firenze[5]. Piccagli, Ballario e Morandi poterono costituire così nel seno del servizio Co.Ra «un’équipe di grandissimo valore scientifico e tecnico»[6].

Il primo tentativo di stabilire un contatto radio con altri centri dell’Alta Italia da parte del gruppo Co.Ra si ebbe con l’acquisto a Bologna di una ricetrasmittente (denominata «la bolognina») della potenza di circa 60 watt che fu consegnata a Firenze a Carlo Lodovico Ragghianti per tramite di Antonio Rinaldi e Paolo Bassani (fratello dello scrittore Giorgio Bassani e impiegato del laboratorio nel quale l’apparato era stato costruito) e occultata a cura di Enzo Tardini “Doria”. Numerose difficoltà tecniche, tra cui la mancanza dei quarzi stabilizzatori di frequenza e l’approntamento delle basi di trasmissione con l’installazione di antenne sufficientemente potenti, vanificarono però i tentativi del gruppo di stabilire in tempi rapidi un collegamento costante con Milano. A poco valse in tal senso anche un viaggio informativo lì compiuto da Morandi. Si dovette attendere il marzo del 1944 perché il gruppo riuscisse a far funzionare adeguatamente l’apparato radio, entrando in contatti continuativi con i centri radio clandestini di Milano, Genova e Bologna. A quella data, tuttavia, il progetto originario di una rete di comunicazioni interna che collegasse i principali centri dirigenti della Resistenza italiana aveva perso di rilevanza. Ciò, anche a causa dello smantellamento a opera del Sicherheitsdienst tedesco dell’Organizzazione radio “Otto”, la missione dello Special Operation Executive britannico organizzata dal medico genovese Ottorino Balduzzi alla quale, col tramite del radiotelegrafista della Marina Giuseppe Cirillo, aveva fatto riferimento il sistema informativo organizzato da Ferruccio Parri per il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e che aveva offerto inizialmente un appoggio per una rete di comunicazioni interna alla Resistenza italiana [7].

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Carlo Ballario (ISRT, fondo Carlo Ballario, ins. 25)

Nel frattempo, anche il secondo proposito originario del servizio Co.Ra., di creare cioè un collegamento tra le bande armate toscane e i vertici militari del CTLN, si era scontrato con difficoltà di natura tecnica. Mentre infatti sin dai mesi finali del 1943 erano state costruite e testate con la supervisione di Ballario e Morandi piccole radio da campo alimentate a pile che avrebbero dovuto essere distribuite alle bande, la difficoltà di collegarsi con queste ultime e la mancanza di personale radiotelegrafista ritardò l’avvio delle prime sperimentazioni, le quali, d’altro canto, una volta iniziate non ebbero l’effetto sperato[8]. Fu anche per questo, che l’attività del gruppo Co.Ra a partire dalla primavera del 1944 si orientò prevalentemente a ricercare un collegamento diretto con gli Alleati, così anche da rendersi autonoma dall’appoggio sin lì fornito da altre missioni radio cui il Partito d’Azione fiorentino era dovuto ricorrere in precedenza, sia per l’ottenimento di informazioni che per la richiesta di supporto militare. In tal senso, già nel febbraio 1944 l’organizzazione azionista fiorentina era riuscita a ottenere dagli Alleati un aviolancio su Monte Giovi tramite la missione radio “Rutland”di Domenico Azzari, agente dello Special Operation Executive paracadutato al confine tra Lunigiana e Lucchesia, il quale, dopo essersi unito alla banda partigiana di Angiolino Marini “Diavolo Nero”, si trovò a gestire e smistare dalle Apuane diversi aviolanci alleati a favore di varie formazioni toscane. In quel caso, per il partito azionista fiorentino i contatti con la missione Azzari erano stati tenuti tramite accordi stabiliti tra la partigiana viareggina Vera Vassalle e la staffetta fiorentina Maria Luigia Guaita – responsabile del servizio di falsificazione documenti del Partito d’Azione fiorentino che lavorava in stretta collaborazione col gruppo Co.Ra – e il lancio, raccolto su Monte Giovi a cura di Max Boris, aveva avuto buon esito[9]. Più o meno negli stessi mesi anche il maggiore dell’aeronautica Giuseppe Cusumano in relazione col gruppo azionista fiorentino era stato inserito in una missione alleata incaricata di rilevare le fortificazioni sul tratto occidentale della Gotica e di trasmetterne via radio le informazioni ad Algeri[10].

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Attestato di Partigiano Combattente di Carlo Ballario (ISRT, Fondo Carlo Ballario, ins. 22)

L’occasione per dotare il gruppo Co.Ra dell’equipaggiamento necessario a contattare autonomamente i comandi alleati giunse per mezzo della figura dell’avvocato Enrico Bocci, un antifascista di lungo corso, amico fraterno dei fratelli Rosselli, già membro in passato del Circolo di Cultura Salvemini di Firenze e collaboratore assieme a Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Nello Traquandi di «Italia Libera» e del «Non Mollare». Alla fine di gennaio 1944 Bocci era stato messo in comunicazione tramite il signor Oscar Fontanella con l’ufficiale Nicola Pasqualin, capo di una missione alleata sbarcata nei paraggi di Porto Corsini, sulle coste adriatiche, e giunta a Firenze per stabilire un ponte radio tra il movimento resistente e il comando alleato. Le presentazioni tra Bocci e Pasqualin erano state fatte nello studio dell’industriale Vasco Petrelli, personalità in contatto con esponenti del movimento clandestino comunista, cui sovente passava informazioni. Il Pasqualin, in possesso del cifrario per le trasmissioni, assieme al radiotelegrafista Renato Levi – un ebreo sfuggito alle persecuzioni razziali e conosciuto col soprannome di «Pomero» o «Rossino» – furono affidati così alle cure del Bocci. Quest’ultimo, chiamato il Ballario per affidargli la riparazione della ricetrasmittente in dotazione della missione alleata danneggiatasi durante lo sbarco, sì unì di fatto col gruppo di Piccagli nella direzione del servizio Co.Ra. La ricetrasmittente messa a disposizione dal Pasqualin fu portata in un primo tempo nello studio dello stesso Bocci, al piano terra di via Ricasoli n. 26, dalla sua segretaria Gilda Larocca, preziosa collaboratrice del servizio clandestino. La prima trasmissione, tuttavia, venne effettuata nei locali della Casa Editrice Bemporad, in via dei Pucci, messi a disposizione da Renato Giuntini, amico di Bocci. Come primo tentativo fu deciso di trasmettere al centro radio alleato di Bari-Monopoli il messaggio convenzionale L’Arno scorre a Firenze il quale, a prova dell’avvenuto contatto, venne poi ritrasmesso in chiaro dagli Alleati sulla frequenza di Radio Bari.

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Luigi Morandi (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Stabilito un contatto oltre le linee, l’attività del gruppo Co.Ra, oltre a richiedere l’intervento alleato in operazioni di appoggio alle bande partigiane o l’invio di armamenti e rifornimenti a mezzo aviolanci, si indirizzò prevalentemente nella raccolta e trasmissione agli Alleati di informazioni riguardanti le linee difensive appenniniche, i presidi e i depositi tedeschi, il traffico merce diretto in Germania, i movimenti ferroviari e lo spostamento delle truppe germaniche, così da rendere possibile adeguate contromisure. Le informazioni provenivano dalla rete d’intelligence del partito o altrimenti erano raccolte tramite i più vari canali dai collaboratori del servizio. La stessa moglie di Bocci, Mitzi, d’origini austriache, approfittava della sua madre lingua per carpire eventuali notizie che ufficiai tedeschi inavvertitamente potevano lasciar trapelare nel corso dei ricevimenti organizzati dall’industriale Vasco Petrelli e ai quali i coniugi Bocci erano spesso invitati[11].

Sul piano militare uno dei successi più eclatanti conseguiti dal servizio Co.Ra fu, nel maggio 1944, la raccolta e l’invio al comando alleato di circostanziate informazioni inerenti lo spostamento della divisione Herman Goering da Firenze verso il fronte meridionale, comunicazione che permise all’aviazione alleata di intercettare nel grossetano il grosso della formazione, provocandole perdite sostanziose[12].

Le modalità con le quali avvenivano le trasmissioni da parte del gruppo erano grossomodo le seguenti:

Di tutte le informazioni che Bocci e Piccagli sceglievano, setacciavano, vagliavano, venivano poi fatti tanti fogliolini – i chiari – che venivano portati, dalla Gilda [Larocca], per la traduzione in codice, dal Pasqualin. Questi era l’unico che avesse il cifrario. Stava in via Tornabuoni. E di lì i bigliettini ripartivano per la casa dove in quel giorno era installata la radio e dove il R.T. [radiotelegrafista] li trasmetteva all’VIII Armata. Ogni volta, in cifrato, al R.T. veniva trasmessa dagli Alleati l’ora della trasmissione successiva. Decifrato il messaggio (mai dal R.T. che non conosceva il codice) si preparavano le notizie «tradotte» per l’ora stabilita. C’era però sempre un appuntamento di emergenza se, per una ragione qualsiasi, nell’ora pattuita la trasmissione non avesse potuto aver luogo.[13]

Per quanto riguardava invece gli accurati rilievi topografici connessi  a obiettivi militari sensibili che il gruppo otteneva dal servizio informazione del partito, essi venivano riportati dettagliatamente su carte in scala variabile cedute dietro sollecitazione di Piccagli dal colonnello Lari dell’Istituto Geografico Militare e ordinate nella ricca cartoteca dell’archivio Co.Ra a cura di Ballario e con l’assistenza di Piccagli e di Lodovico De Renzis-Sonnino, dal cui palazzo familiare di via del Prato venivano talvolta effettuate le trasmissioni radio e ove erano altresì confezionate da Piccagli le copie microfilmate delle stesse carte[14].

Quella di via del Prato non era che una delle molteplici basi logistiche del servizio da cui erano dirette le comunicazioni radio, le quali, per regola generale di sicurezza, oltre ad essere sempre brevi per non dare il tempo ai radiogoniometri tedeschi di intercettare la fonte, non dovevano partire mai due volte di seguito dallo stesso luogo. Le principali basi di trasmissione del gruppo, oltre allo studio del Bocci – per la verità poco adatto allo scopo – furono: l’abitazione di questo a Ponte a Mensola; la casa di Piccagli in via Repetti; la già citata casa editrice Bemporad; l’Istituto Fotocromatico Italiano in via La Farina di proprietà di Vincenzo Balocchi, un parente di Bocci; l’abitazione del medico e professore Piero Pieraccini in via Salvestrina e la clinica ove questi operava in Viale Mazzini; l’abitazione in viale Michelangelo di Gianni Banti, un compagno di Bocci dei tempi del «Non Mollare»; alcuni quartieri presi in affitto in viale Corsica e in via Brunetto Latini; la centrale Rifredi della Società Elettrica Valdarno; l’Istituto di Fisica di Arcetri e la già citata abitazione del De Renzis.

Ai primi di maggio del 1944, con l’aumento dell’attività e dell’organico del gruppo (entro il quale fecero ingresso in particolare Luciano Tamburini, come informatore militare, Guido Focacci, come responsabile dei campi di lancio alleati, e Gianfranco Gilardini), si rese necessaria la ricerca di un’ulteriore sede da cui trasmettere. Tramite la mediazione del Tamburini si riuscì a ottenere dal conte Carlo Cotta, vicino al Partito d’Azione, un appartamento situato al terzo e ultimo piano di un palazzo posto al civico 12 di Piazza d’Azeglio che fu regolarmente affittato a nome del Gilardini[15]. Si trattava di un ampio appartamento ammobiliato, dai cui quartieri di servizio, posti nelle soffitte, potevano essere effettuate con relativa sicurezza le trasmissioni, sempre affidate al «Pomero». Quest’ultimo, però, tendenzialmente restio per ragioni di prudenza ad accondiscendere a sessioni radio ripetute e continuative, con l’aumentare del ritmo delle trasmissioni in vista del progressivo avvicinarsi del fronte di guerra alla Toscana, lasciò che fosse Luigi Morandi a sostituirlo come radiooperatore.

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Enrico Bocci (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Tra la fine di maggio e i primi di giugno l’attività del servizio crebbe in effetti di intensità. Una missione aviolanciata alleata di dodici paracadutisti (missione “Nicky”) che avrebbero dovuto integrare la precedente missione di Pasqualin fu organizzata dal gruppo Co.Ra in collaborazione col maggiore Mario Martini (Capitano Niccolai) comandante delle forze partigiane della provincia di Prato. Il lancio avvenne con successo la sera del 2 giugno ai Faggi di Javello nelle vicinanze del monte Calvana. Cinque dei paracadutati vennero avviati a Firenze e qui alloggiati per interesse di Bocci in alcuni appartamenti di via Tripoli e XXVII Aprile. In conseguenza della liberazione di Roma del 4 giugno e dello sbarco alleato in Normandia del 6, un’importante riunione dei componenti il gruppo venne inoltre convocata per il giorno 7 nella nuova sede di Piazza d’Azeglio allo scopo di trasmettere le informazioni di ordine militare inerenti lo stato delle forze tedesche e l’entità delle formazioni partigiane che il comando alleato aveva richiesto con un questionario cifrato appositamente radiotrasmesso. Tra i convenuti all’incontro – in numero superiore al consueto, data la circostanza – vi erano Bocci, Piccagli, Morandi, Focacci, Gilardini, Tamburini, la segretaria Larocca e anche Carlo Campolmi, responsabile militare del Partito d’Azione. Erano assenti invece Ballario, recatosi ad assistere la moglie ricoverata in ospedale per una setticemia, e Maria Luigia Guaita, partita lo stesso giorno per una missione di collegamento col gruppo viareggino di Radio “Rosa”[16]. Tra i convenuti alla riunione, Tamburini dopo un certo tempo se ne andò, seguito da Piccagli in ragione di un abboccamento già fissato in precedenza. Verso l’ora di cena, circa, tre uomini in borghese e armati si presentarono alla porta dell’appartamento nel quale fecero irruzione, seguiti nell’immediato da SS e fascisti del reparto di Mario Carità. Tutti gli adunati, senza che potessero reagire, furono fermati e fatti allineare su di una parete. Luigi Morandi, intento già a trasmettere dai locali della soffitta, non si accorse in tempo dell’irruzione. Sorpreso e disarmato, approfittando di una distrazione riuscì comunque a impossessarsi fulmineamente dell’arma di un tedesco uccidendolo, prima di venir fatto segno di una raffica di mitra sparata da un commilitone. Trasportato successivamente presso l’ospedale di via Giusti sarebbe deceduto tre giorni dopo a causa delle ferite riportare. Gli altri componenti del gruppo, percossi e malmenati, furono condotti in arresto presso i locali di Villa Triste, sede della polizia tedesca (Sicherheitsdienst) e del Reparto Servizi Speciali della 92° Legione della MVSN al comando di Mario Carità. Tra gli arrestati, oltre ai presenti alla riunione, cadde anche Piccagli, il quale, rientrando dall’abboccamento venne fermato da un milite lasciato a presidio della sede di Piazza d’Azeglio e trasportato con gli altri a Villa Triste[17].

Tra l’8 e il 9 giugno, le forze di polizia nazifasciste riuscirono a catturare anche quattro dei cinque paracadutisti della missione “Nicky”, ma non Pasqualin e «Pomero», i quali riuscirono a salvarsi. Negli stessi giorni, con l’intento di arrestarlo, tedeschi e fascisti si recarono a Montemurlo presso l’abitazione del capitano Mario Martini (che aveva collaborato all’aviolancio dei dodici agenti paracadutati ai Faggi di Javello), il quale però riuscì fortunosamente a sottrarsi alla cattura ma non a evitare l’arresto del figlio quattordicenne, Marcello, condotto a Villa Triste e successivamente deportato a Mauthausen. Stessa sorte toccò anche a Ruth Weidenreich, moglie di Piccagli e anch’essa attivamente impegnata nel movimento di Liberazione fiorentino. Ebrea tedesca, Ruth fu infatti arrestata dopo la retata del 7 giugno e quindi tradotta a Villa Triste, dove ebbe la possibilità di rivedere per l’ultima volta il marito, prima di essere deportata ad Auschwitz. Tutti gli arrestati del gruppo Co.Ra, nessuno escluso, a Villa Triste subirono per giorni incessanti interrogatori e brutali torture, i cui particolari raccapriccianti emersero nel corso dei procedimenti giudiziari cui nel dopoguerra furono sottoposti i membri della banda Carità presso le Corti straordinarie di Bologna e Lucca. I più martoriati, in tal senso, furono certamente Bocci e Piccagli, che con coraggio si assunsero tutta la responsabilità dell’attività di radio Co.Ra nel tentativo di scagionare i propri compagni. Oltre alle sevizie della tortura entrambi condivisero la stessa tragica sorte. Il 12 giugno, Piccagli venne infatti trasportato assieme ai quattro paracadutisti della missione “Nicky” (Fiorenzo Franco, Pietro Ghergo, Dante Romagnoli e Ferdinando Panerai) a Cercina, sulle pendici di Monte Morello, e qui fucilato sulle sponde del torrente Terzolle assieme ai primi, ad Anna Maria Enriquez Agnoletti (attivista cristiano sociale e sorella dell’azionista Enzo prelevata poco prima dalle carceri di Santa Verdiana) e a un partigiano cecoslovacco. L’agonia di Enrico Bocci in mano ai suoi carnefici si protrasse invece fino al 18 giugno, giorno in cui venne probabilmente finito a Villa Triste o altrimenti fucilato nei dintorni di Firenze, benché il suo corpo non fu mai ritrovato. I rimanenti del gruppo (Gilda Larocca, Ruth Weidenreich, Carlo Campolmi, Guido Focacci, Gianfranco Gilardini, Marcello Martini) dopo le torture subite vennero trasferiti a Fossoli di Carpi e da qui deportati in Germania: alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il viaggio, gli altri fecero ritorno a casa solo a guerra finita.

Nonostante il duro colpo inflitto all’organizzazione Co.Ra dalla retata del 7 giugno – la cui portata aprì molti dubbi e sospetti sulla possibile delazione di una spia infiltratasi entro l’organizzazione clandestina del Partito d’Azione[18] – il servizio non cessò comunque di esistere e l’attività di radiocomunicazioni riprese con sorprendente rapidità. L’ufficiale Pasqualin, sfuggito alla cattura e rifugiatosi per qualche tempo in provincia di Arezzo, fatto ritorno a Firenze con «Pomero» attorno al 20 di giugno riprese subito i contatti col movimento clandestino incontrandosi con Carlo Lodovico Ragghianti, Presidente del CTLN. A quest’ultimo venne consegnato un apparecchio ricetrasmittente occultato dal «Pomero» prima della fuga che consentì di riprendere le trasmissioni, affidate stavolta al nuovo telegrafista indicato da Ragghianti: il capitano del Genio Giuseppe Campolmi “Spartaco”. Quest’ultimo, dopo diversi tentativi andati a vuoto, riuscì a stabilire un nuovo ponte radio col centro alleato di Bari-Monopoli trasmettendo dalla soffitta della clinica privata di via della Robbia, messa a disposizione dal dottor Bruno Gherardi. Al nuovo servizio radio Co.Ra coadiuvarono anche Ludovico De Renzis-Sonnino, il giovane studente d’ingegneria Lorenzo Rigutini – chiamato a collaborare alla rete informativa dal Ballario sin dalla fine di giugno[19] – e Adriano Milani Comparetti, membro delle squadre d’assalto del Partito d’Azione, fratello di don Lorenzo Milani e in seguito tra i più famosi neuropsichiatri infantili italiani[20]. Tra le sedi clandestine che ospitarono la rinnovata attività di trasmissione vi furono i locali della Società di cremazione al Mercato Nuovo, una soffitta in via del Pratellino, l’Istituto del Rinascimento in Palazzo Strozzi, la Villa Vittoria e l’abitazione dei Rigutini a Bellosguardo[21]. Con l’avvio dell’emergenza ai primi di luglio del 1944 e il distacco della rete elettrica cittadina, la possibilità di utilizzare gli apparati ricetrasmittenti venne garantita dall’impiego di alcuni accumulatori in dotazione della facoltà di Chimica messi a disposizione dal professor Giovanni Speroni per tramite di Carlo Ballario[22]. A questo modo, le trasmissioni del servizio Co.Ra poterono proseguire, di fatto spingendosi sino alle fasi imminenti la liberazione della città, l’11 agosto.

[1] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», «La Nazione», 11 agosto 1979, p. 3.

[2] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze (d’ora n poi ISRT), fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; l’originale manoscritto di Carlo Ballario della relazione è in: ivi, inserti 31-36. La relazione di Ballario è citata parzialmente anche in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, G. Barbera Editore, Firenze 1969, p. 61.

[3] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, Relazione sull’attività svolta dal Capitano Italo Piccagli, Firenze 20 agosto 1944; Italo Piccagli: una scelta di libertà, a cura del Comitato regionale toscano per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione, Parretti, Firenze 1974.

[4] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; ivi, ins. 31, appunto manoscritto di Ballario.

[5] Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano. Appunti per una storia di libertà, La Nuova Europa Editrice, Firenze 1984, pp. 31-33.

[6] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, p. 46.

[7] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit. Sull’Organizzazione “Otto”, cfr. Peter Tompkins, L’Altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 151-152.

[8] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione;

[9] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci, cit., p. 80. Sulla missione Azzari cfr. Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 48-49. Sul lancio procurato su Monte Giovi cfr. Max Boris, Al tempo del fascismo e della guerra. racconto della vita mia e altrui, a cura di Simone Neri Serneri, Polistampa, Firenze 2006, pp. 56-61.

[10] Testimonianza di Giuseppe Cusmano citata in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., p. 64.

[11] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 50.

[12] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 155-157; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 59-60; Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, cit., pp. 41-43.

[13] L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., pp. 82-83.

[14] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 52.

[15] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, p. 1.

[16] Maria Luisa Guaita, Storie di un anno grande. Settembre 1943-agosto 944, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1975, pp. 56-58.

[17] Per una ricostruzione dell’irruzione e degli arresti, oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, si veda anche: ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, pp. 5 e sgg.

[18] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra,, Partito d’Azione, Sezione di Firenze, Servizio Informazioni, Indagine intesa ad accertare come le SS abbiano scoperto la radio clandestina di Piazza d’Azeglio n. 12..

[19] Ivi, fondo Carlo Ballario, inserto 23, Relazione sull’attività Cora di Lorenzo Rigutini.

[20] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.

[21] Ibidem. Per il riferimento delle trasmissioni effettuate presso l’abitazione dei Rigutini, cfr. Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S Stefano, Diario di Beatrice Rigutini, a cura di Silvia Rigutini.

[22] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 97-98.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.