Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

Scansione

La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




In fuga di paese in paese

La vicenda della persecuzione degli ebrei ha ancora bisogno di moltissimi approfondimenti. Conosciamo infatti le traiettorie dei più illustri, di tutti coloro che hanno consegnato la loro storia al grande pubblico, in alcuni rari casi già a ridosso del ’45, più spesso dopo molti anni da quegli avvenimenti, attraverso diari e memorie nelle quali hanno rievocato la vita in esilio, il riparo in località più appartate, talvolta il viaggio verso la Palestina o l’esperienza tragica dei campi di concentramento. Più difficile è invece entrare in contatto con vicende più nascoste, vicende delle quali i testimoni diretti hanno mantenuto il segreto o perlomeno una forte riservatezza, di persone semplici ma anche di esponenti borghesi che non sono entrati, non hanno voluto far parte della schiera, mai troppo grande dal punto di vista delle generazioni successive, dei testimoni. Per scelta ponderata, per ritrosia, per caso, perché non hanno avuto la percezione chiara dell’importanza della loro vicenda, ed hanno pensato che questa potesse avere interesse solo per la cerchia degli stretti familiari.

Durante la preparazione della Mostra: Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, mi è capitato di divenire la destinataria di molte testimonianze inedite, sia orali che scritte, pressoché sconosciute. Testimonianze che probabilmente senza questa occasione sarebbero andate perse, testimonianze meno eroiche di altre  perché fortunatamente raccontavano una storia a lieto fine. Mi sono parse però capaci di rendere bene quel terribile biennio e il suo clima di paura. Spesso scritte in un tono minore da testimoni coevi che mettendo sulla carta la storia dei tentativi fatti per salvarsi, pensavano di narrare gli eventi solo per dei cari parenti lontani, o credevano che quelle poche pagine di appunti sarebbero potute servire quando, giunta la vecchiaia,  il ricordo si sarebbe annebbiato e tutto quel vissuto avrebbe corso il rischio di scolorire. Nel caso di cui ragionerò qui di seguito, caso abbastanza eccezionale[1], mi sono giunte tra le mani  quattro scritture diverse, elaborate da quattro diversi osservatori che si confermano a vicenda, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza, al momento della stesura, del testo dell’altro. Una lettera di una giovane ragazza, Elsa Lattes di Livorno, una memoria di suo padre, Aleardo Lattes, un’intervista trascritta e pubblicata, quella a Gastone Orefice e poche pagine che riassumono i fatti, scritte dal vecchio Ugo Castelli sul “Libro d’oro della famiglia”.

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Rita Castelli (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

In questo intervento però mi riferirò solo alle prime tre. Il primo caso è una vera e propria missiva redatta da Elsa, poco più che ventenne, e inviata dall’Italia alla zia Rita Castelli che vive e risiede ad Asmara, per raccontare le vicende degli scampati pericoli. Al momento della stesura la famiglia è salva a Bolgheri, in casa di amici, e attende di poter tornare a Livorno, città già liberata ma impraticabile a causa delle macerie provocate dai bombardamenti. Questa lunga lettera è arrivata fino a noi grazie alla zia Rita che ha custodito per tutta la vita il carteggio che proveniva dall’Italia, e grazie anche alla successiva cura garantita dalla figlia Lidya dopo la sua scomparsa (si tratta di un epistolario di circa 730 lettere). La lettera in questione risale al 18 dicembre 1944. Tramite questa scrittura privata, poco più di due pagine, noi abbiamo come la fotografia di un nucleo familiare piuttosto ampio, quello della famiglia di Ugo Castelli, farmacista livornese, padre di quattro figlie e di un maschio, il primogenito. Tutti sono sposati e con prole, tutti legatissimi alla stessa scrivente che per alcuni è figlia, per altri nipote o cugina. Così dalla lettera di questa giovane, figlia di Aleardo Lattes e di Ada Castelli e sorella di Mario, noi possiamo ricavare tutte le informazioni che lei riassumeva per tranquillizzare la zia più lontana.

In questo testo si rammentano sei nuclei familiari, dai vecchi nonni fino all’ultimo nato, il figlio della cugina  Elena. In tutto diciannove persone, tutte quelle che rientrano nel reticolo parentale più diretto di Elsa Lattes. Così noi lettori di oggi veniamo a conoscenza che, dopo la fuga da Livorno, (tutta la famiglia era stata discriminata e aveva, fino a che era stato possibile, potuto fare una vita quasi normale, con la farmacia, il lavoro, gli scambi delle visite, le piccole gite e poco altro), era cominciato un lungo e tortuoso pellegrinaggio. Il loro distacco dal lavoro e dalla casa è causato dai bombardamenti, soprattutto da quello tragico del 24 maggio 1943. La paura della persecuzione all’inizio resta sullo sfondo degli avvenimenti. A sfollare dalla città verso la campagna  è un gruppo formato da due coppie, quella dei nonni e quella di Ada e Aleardo Lattes, figlia e genero di Ugo Castelli, il patriarca. Nel primissimo periodo si recano prima a Bolgheri da conoscenti, alla villa La Campana, e poi al Forte di Bibbona e poi da lì, e quello sarà il punto di svolta del loro pellegrinaggio, si recano alla villa “la Clementina” a Marina di Bibbona, villa di proprietà della famiglia ebrea dei cugini Tabet. La villa rimane per un certo periodo un rifugio sicuro ma poi, l’avvicinarsi del fronte, l’incrudelirsi della violenza tedesca e repubblichina, consigliano di cercare altri ripari.

Nel frattempo i componenti più giovani come Elsa, Vittorio, Gastone, tutti cugini, erano stati allontanati dalla costa e spediti a Firenze, Firenze che doveva essere “per i ragazzi” una tappa intermedia verso la Svizzera. Questo passaggio però non risulta dalla lettera di Elsa ma si estrapola dalle memorie che scrive il padre Aleardo. Perché Firenze? Forse perché lì risiedeva un fratello della nonna, perché lì agiva una ramificata organizzazione di aiuto per gli ebrei. Comunque tramite questi contatti o altri che non vengono menzionati, i giovani trovano rifugio presso alcuni conventi, come decine di altri ragazzi e ragazze ebree. All’inizio, per i maschi, escluso Mario, il fratello di Elsa, che si reca a Roma, c’era stata l’accoglienza presso i frati di Villa Imperiale[2]. Le ragazze vanno invece in un convento di suore. Scrive Elsa alla zia Rita:

Nel convento dove io ero, solo la madre (ottima donna che ha fatto di tutto per noi e ci ha aiutato fino all’impossibile) sapeva che ero ebrea, le suore tutte no. Vivevo così in mezzo alle educande come se fossi una di loro e non so davvero come hanno fatto a non accorgersi di nulla, per quanto andassi spesso alla messa o alle funzioni nella cappella del convento. Ma la vita a Firenze per noi, cominciava a diventare impossibile; venivamo a sapere di tanta gente che i tedeschi avevano deportato, e ci eravamo molto impauriti.

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Elsa Lattes a Villa Tabet, 1944 (Archivio privato Famiglia Cabib Lattes)

La paura suggerisce quindi di muoversi. Stare fermi in quei frangenti apparve a tutti come una inattività insopportabile, come un piegarsi al destino senza reagire. La decisione presa da Elsa fu di tornare indietro, andare di nuovo verso la costa, alla villa la “Campana”, a Bolgheri, dove Elsa sa di poter trovare i genitori. In quei giorni la stazione di Firenze era piena di soldati, di repubblichini e di tedeschi ma nessuno fa caso a questa giovane ragazza con uno zaino, che si appresta a prendere un treno per percorrere una distanza breve ma che la guerra trasforma in un’odissea che si protrae per dodici lunghe ore, dalle  diciassette del pomeriggio del 14 dicembre 1943[3] alle cinque del giorno seguente. Ma nessuno l’ha bloccata, né alla stazione, né sul treno. In questo colpo di fortuna entra solo il caso e niente altro. Se Elsa fosse stata fermata avrebbero visto dai suoi documenti l’appartenenza alla razza ebraica e per lei sarebbe stata la fine.

Intanto i giovani cugini, i figli di Giorgio Orefice e Anna Castelli: Vittorio e Gastone, dopo aver abbandonato il rifugio dei frati si sono diretti verso Norcia e noi sappiamo che si diedero alla macchia con un gruppo di partigiani del luogo[4]. Il piccolo gruppo era stato anticipato dai genitori che già si trovavano a Norcia e per loro forse la decisione fu meno sofferta Quello che più risalta comunque su questa scena, dove incontriamo diversi personaggi, è la loro modalità di muoversi e di agire, che appare in gran parte guidata dal caso. Una giovane ragazza che ritorna sui suoi passi e fa un viaggio a ritroso anche perché letteralmente non sa dove andare. E’ l’unica ragazza del gruppo, divisa dai cugini, e non ha con chi consigliarsi. Due ragazzi livornesi che vanno a finire in montagna con una banda di partigiani monarchici.

Riprendiamo però le fila della storia della nostra giovane ragazza che,riunitasi con i genitori e con i vecchi nonni, dopo soli quindici giorni di permanenza con i familiari, si rimette in marcia, di nuovo per prima e da sola, perché la sua età la rende potenzialmente più  facile vittima – anche se non viene mai detto o scritto – di uno stupro. Il padre farà un riferimento più esplicito a questo pericolo nelle sue memorie, perché più maturo e più esperto, e sicuramente anche perché ha meno ritrosia linguistica della figlia. Elsa invece, poiché il pericolo, adesso che racconta, è passato, si  permette anche considerazioni romantiche alla giovane zia lontana.

“..non potrai immaginare quello che ho provato quella giornata; mi sembrava di sognare, oppure di stare leggendo un libro di avventure. Infatti sembravo proprio un’avventuriera. Chiusa in un calessino coperto, con due uomini ai lati (uno era un certo Bianchi, guardia della villa Campana) partii di buon mattina invernale, il 12 dicembre[5], dirigendomi nella campagna di Riparbella da un cugino del Bianchi, il quale mi accolse volentieri in casa sua e mi tenne, ti assicuro, più che come una figlia…. La vita che avrei dovuto fare non mi sgomentava per nulla….Andavo la mattina con le bestie nella macchia insieme a un altro ragazzetto di 15 anni e una bimba di 10, stando fuori il più delle volte anche tutto il pomeriggio fino alla sera…..Dopo non molti giorni che ero là vennero anche babbo, mamma e i nonni, scappati di qui. Avevamo poco da mangiare (erba di campo, che si andava a cogliere anche sotto la neve, cavoli e basta). Essi sono stati lì con me fino al 7 marzo, giorno in cui sono partiti per Castellina.”

L’abitazione che la ospita è quella del cugino di Bianchi, certo Rodesindo, collocata nella macchia più fitta[6], dove la vita può trascorrere con una relativa tranquillità. La ragazza vi si fermerà per un lungo soggiorno, fino a pochi giorni prima dell’arrivo degli Americani a Castellina, quando il padre la va a prendere e la porta con sé per ricongiungerla con la madre e i vecchi nonni Castelli. Quando poi le cannonate si fanno troppo vicine, tutto il nucleo si rifugia in una grotta scavata nella roccia e dove, con il gruppo della famiglia Bianchi, raggiungono le nove persone.

Il 7 luglio finalmente Castellina viene liberata ma resta sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca che cerca di proteggere la propria ritirata. Trascorrono quindi altri sette giorni e poi il 15 luglio, tutti,  possono finalmente ritornare alla villa di Bibbona, la Clementina, la casa dei Tabet. La trovano integra e finalmente tirano un sospiro di sollievo. La nostra testimone, giovane e piena di salute, si dedica ai bagni di mare prima che sia possibile, per lei e gli altri, rientrare a Livorno, ormai liberata. I parenti stretti di cui non si hanno ancora informazioni sono tanti: Carlo Castelli, lo zio più anziano e la sua famiglia, la moglie, la figlia, il genero e il nipote e la cugina Emma Belforte.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

I cinque membri che non si sono mai separati sono tutti vivi e sani; hanno perso moltissimi beni ma sono sopravvissuti. Ma proviamo a guardare questa storia da un’altra memoria, molto più dettagliata e,direi, meno edulcorata, di quella di Elsa. La ragazza doveva e voleva rincuorare la zia lontana, in Eritrea, e poneva l’accento sugli aspetti più leggeri tralasciando, penso di proposito, quelli più pesanti. Ma se confrontiamo quanto scritto dalla nipote di Rita con il testo del padre, emerge un quadro più drammatico e più realistico.  Il riepilogo delle vicende proposto da Aleardo, conservato con amore dai familiari e giunto per questo fino a noi, porta come data iniziale: 29 settembre 1945. Il suo racconto non prende le mosse dalla fuga ma dal bombardamento del 28 maggio 1943 su Livorno, uno dei più tragici subiti dalla città. Ed è a quello e alle distruzioni prodotte che il nostro autore attribuisce l’allontanamento suo e dei nonni di Elsa dalla città labronica, subito dopo aver allontanato i ragazzi, Vittorio e Gastone. Le due coppie di adulti vanno nella campagna vicina, da amici, in una abitazione al Forte di Bibbona ma sia Ugo Castelli, il suocero, che Aleardo continuano a tenere la farmacia aperta fino all’ottobre dello stesso anno. A quel punto sia la precarietà delle vie di comunicazione, che il clima di paura che tutti respiravano, in loro aumentato dal fatto di essere ebrei, li convincono a chiudere l’attività e a mettersi in fuga a tutti gli effetti. Aleardo però cerca, ancora per alcuni giorni, di raggiungere Livorno per imballare il salvabile, mettere via qualche mobile e qualche masserizia, chiudere la porta di accesso del negozio. Purtroppo niente di tutto quello che mise in salvo rimase intatto. Tutto fu distrutto dalle razzie degli sciacalli, portato via dai tedeschi in ritirata, distrutto dalle bombe.

Il riparo trovato non sembra però sufficientemente idoneo, soprattutto per la giovane figlia rientrata da Firenze. Allontanata Elsa in una campagna che pare dimenticata, lui e la moglie Ada durante la giornata si allontanano dalla casa che li ospita, e per non dare nell’occhio, si inoltrano nelle macchie vicine ma il 20 dicembre un amico li avvisa che sono stati cercati dai carabinieri di Bibbona. Anche  il padrone della villa la Campana non è più disponibile a tenerli lì, e li prega di andarsene.  Lo spostamento sarà breve. Si recheranno dai cugini Tabet che possiedono una villa poco lontano, la Clementina, e che li ospitano condividendo tutti la paura di essere arrestati e deportati. Ma questa sarà solo una breve pausa. Anche quel rifugio diviene insicuro e dovranno ripartire. Decidono di  seguire la strada della figlia e si rivolgono pure loro dai cugini del Bianchi, nel podere Torignano, nel comune di Riparbella. Alla Clementina restano solo i vecchi Castelli. Ma per poco. Anche per loro quel nascondiglio comincia a divenire troppo pericoloso e così pure la vecchia coppia raggiunge le macchie di Riparbella e si ritrova con gli altri. La situazione però è delicatissima, stretti in una abitazione molto piccola, senza risorse alimentari sufficienti, senza alcuna comodità. La vita diventa un calvario. Le giornate trascorrono nella ricerca di erbe selvatiche da mangiare ma quello che riescono a trovare è veramente troppo poco. Aleardo decide di andare a piedi ben oltre i confini del podere e dirigersi verso Chianni, nelle proprietà di un certo dottore Ugo Cortesi che conosce grazie alla lunga vita passata in farmacia. E miracolosamente arriva alla abitazione signorile di Cortesi che, dopo averlo ben rifocillato, lo fornirà anche di due quintali di grano, cinque chili di fagioli e un grosso pane. Tutte risorse che consumeranno al podere in poco più di due mesi.

Ma intanto Riparbella a causa dei cannoneggiamenti tedeschi e delle bombe americane si sta svuotando di tutti i suoi abitanti. Un certo numero di parenti di Redesindo arriva dove già sono in troppi. Per il nostro gruppo di ebrei è venuto il momento di partire anche da lì. Si recano in due abitazioni a Castellina, poco lontano da Riparbella, dove si era già rifugiata la famiglia dei Moise di Livorno, e dove trovano due stanze per le due coppie in fuga, quella dei Castelli e quella dei Lattes, mentre Elsa resta temporaneamente ancora al podere di Torignano. Il 15 giugno 1944 Aleardo torna a riprendersi la figlia e la conduce con sé, ma il 29 giugno, tutti loro con i Bianchi, quattordici persone tra i 79 anni e un bambino piccolo di due mesi, si rifugiano dentro una grotta scavata nella roccia vicino a Castellina perché il passaggio del fronte rende la stessa piccola cittadina, un inferno. Gli alleati sono vicinissimi ma i tedeschi continuano a mitragliare e lo scontro sembra non dover più finire. In quel frangente, il vero pericolo è quello della guerra, perché in quel territorio, non sembra esserci quello dell’antisemitismo. Scrive Aleardo:

Il giorno seguente al nostro arrivo una folla di conoscenze di vecchia data vennero a farci visita, e tutte non a mani vuote. Fu una gara di gentilezze e di attenzioni veramente commovente. Per quanto facessimo una vita assai ritirata e guardinga, tutto il paese sapeva chi eravamo, e per quale ragione vi eravamo giunti (persino il Commissario prefettizio ne era informato) ma nessuno ci tradì mai.[7]

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Rita Castelli da giovane signora (Archivio privato famiglia Castelli)

Tanta generosità era sicuramente dettata dalla consapevolezza che il quadro politico da lì a breve sarebbe radicalmente cambiato ma, ai  nostri protagonisti, tutto apparve positivo. Nella grotta, adibita a rifugio, ci stanno per sedici lunghi giorni con i viveri sufficienti solo per cinque ma altri arrivano in loro soccorso.

Non soffrimmo la fame, vera e propria, perché altre famiglie ci aiutarono a sbarcare il lunario fino a che, l’ottavo giorno, avvenne il miracolo tanto atteso: la liberazione dall’incubo tedesco-fascista, la provvidenza per noi tutti[8]

Con la liberazione finisce anche la fame perché gli Americani proseguendo nella loro avanzata verso il nord abbandonarono sul terreno: scatolette, cioccolata, latte in polvere e anche, annota Aleardo, carta igienica.  Come aveva scritto a proposito del dormire su dei veri materassi invece che su pagliericci improvvisati, la nuova dimensione faceva intravedere un vivere più civile. Passata la paura delle deportazione, finita quella dei bombardamenti e delle razzie dei fascisti e dei tedeschi, si poteva ricominciare a pensare al futuro anche se, ancora per otto giorni, dall’interno di una grotta prima che intorno tornasse la calma.

Se ripensiamo a quanto scritto fino a qui e lo facciamo guardando una carta geografica, ci accorgiamo che il raggio delle peregrinazioni che le due famiglie dei coniugi Castelli e Lattes affrontarono, fu anche relativamente piccolo. Essi non avevano avuto la possibilità di organizzare fughe più sicure, magari verso l’estero. Per l’età avanzata dei Castelli, Ugo e Emma De Rossi, per mancanza di mezzi a disposizione. Quello che poterono mettere in atto fu una strategia di scappa e fuggi, di gioco tragico a nascondino. Trovato un riparo, lo si utilizzava fino a quando questo risultava sicuro, o perlomeno sembrava sicuro agli interessati. Quando in questa relativa sicurezza, si aprivano delle crepe, ci si spostava un po’ più in là. In base a cosa? Alle conoscenze pregresse, alla rete di parentele che si possedevano e tramite queste si allargavano ad altre potenziali reti di salvataggio da costruire. Nel nostro caso la salvezza arrivò da persone semplici, poveri contadini toscani. Nessuno di loro mai, fino a qui, era stato nominato in un documento di tipo pubblico. Lo fecero per antifascismo convinto? Forse è chiedere troppo. Lo fecero e basta, a loro rischio e pericolo, ma la loro scelta di non partecipare alla caccia all’ebreo, di non approfittare di una famiglia in fuga, permise la salvezza di cinque persone.

A me questa è sembrata una storia piena di angoscia e di paura, ma anche una storia piena di solidarietà e di dignità e per questo significativa da raccontare.

[1] Su questa vicenda, vista però da un’angolatura molto diversa, molto legata alla religione, era comparso già diversi anni fa un diario, quello di Emma De Rossi Castelli in, Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000. Mi riprometto di tornare sopra tutte queste scritture ma in un’altra sede e con più spazio disponibile.

[2]Gastone Orefice. Un giornalista livornese nel mondo, intervista a cura di Catia Sonetti, Ets, Pisa, 2014, p. 32.

[3] La data la ricavo dalla memoria dattiloscritta e inedita di Aleardo Lattes gentilmente concessami dalla vedova.

[4] Gastone Orefice…, cit., pp. 33-34.

[5] Si tratta del 12 dicembre 1943. Il padre di Elsa nel suo diario posticipa questa partenza al 17, ma potrebbe essere anche un refuso della battitura.

[6] Vd. le Memorie di Aleardo Lattes, p.8.

[7] Memoria dattiloscritta di Aleardo Lattes, p.14. L’originale è in possesso della famiglia e presso l’Istoreco di Livorno ce n’è una copia.

[8] Ibidem, p. 17.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Celebrazione solenne in Consiglio regionale per la Giornata della Memoria 2017

Gentili signore e signori, gentili consiglieri, Rabbino Levi, Presidente della Comunità ebraica Bedarida, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni sono lieto e soprattutto molto onorato dell’invito a parlare in questa occasione. Per questo saluto e ringrazio vivamente il Presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, e il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi.

Ne sono onorato perché come Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana non posso che leggere in questo invito un importante riconoscimento del nostro lavoro.
Il lavoro che come rete toscana degli istituti storici della resistenza e dell’età contemporanea, pur tra crescenti difficoltà, svolgiamo quotidianamente con l’impegno volontario di molti uomini e donne e con l’indispensabile sostegno delle istituzioni, per porre il nostro patrimonio documentario e le nostre competenze al servizio degli studiosi, degli insegnanti, dei cittadini di questa città, di questa regione, del nostro paese e per promuovere con rigore scientifico la ricerca, la formazione e la divulgazione della conoscenza storica.

Ne sono onorato anche perché come docente di storia contemporanea in una delle università di questa regione ogni qualvolta scruto i volti dei miei studenti diciannovenni mi sento sollecitato a fargli comprendere il senso del loro studio. Ecco, l’invito di oggi è anche un riconoscimento per quei ragazzi, che nella storia contemporanea cercano uno strumento per comprendere il mondo in cui vivono. E se oggi fossero qui ci chiederebbero di spiegargli a cosa serve celebrare la Giornata della Memoria. E’ una domanda che tutti dobbiamo porci, proprio qui in questa regione che così tanto e da molti anni lavora su questi temi con grandi sforzi e grandi risultati.

Le memorie e la storia

A cosa serve la memoria, uno strumento prezioso e fragilissimo? Come farne una risorsa per la cultura del nostro presente? Quale nesso riusciamo a costruire tra la memoria e la cronaca, oggi drammatica, delle guerre e dei nazionalismi, delle stragi e delle migrazioni più o meno forzate? Una cronaca che ci turba e ci disturba, e poi ci si assuefà a seconda che i corto circuiti o le onde della globalizzazione l’accostino o meno alle nostre case.

La memoria è una risorsa preziosa, ma che si consuma. Non è come la fiaccola del tedoforo che passa di mano in mano, sempre rinnovando la sua fiamma. La memoria non si conserva, né si tramanda. Dobbiamo essere ben consapevoli che la memoria vive solo perché si riproduce, si rielabora, certo nel dialogo tra le generazioni e dunque e anzitutto nel dialogo con il tempo presente.

Perché la memoria è inefficiente, come ha scritto di recente Michael Corballis, uno psicologo neozelandese, parlando di quelle individuale, ma ciò vale anche per quelle collettive che ne discendono. La memoria non è una registrazione fedele del passato, semmai ci fornisce informazioni, talora anche false o incomplete, con cui costruiamo delle storie. Perché, per riprendere le parole di Marie Howe, una poetessa americana, “La memoria è un poeta, non uno storico”.

Ecco, la memoria è poesia e noi abbiamo molto bisogno di quella poesia per poter immaginare il passato, per riflettere sul passato, come ci chiede la legge 211/2000, la legge istitutiva della Giornata della Memoria. Abbiamo bisogno di sentirci raccontare delle storie. Quelle che i testimoni, ormai sempre meno numerosi, ci hanno raccontato con saggezza e talora con dolore, quelle che i viaggi ad Auschwitz ci fanno rievocare, quelli che i nuovi linguaggi ci raccontano in forme talora straordinariamente efficaci, come da ultimo ad esempio nel bel film Shalom Italia di Tamar Tal Anati, recentemente proposto al Festival dei Popoli.

Ma per fare educazione civile, quella poesia deve diventare strumento di conoscenza del presente, e non solo del passato. I testimoni ci emozionano, ma possono essere anche indurre ritualità e ripetitività. Quando li trasformiamo in monumenti, quando li trasformiamo in oracoli della verità esperienziale e nell’incarnazione del bene, quando li schiacciamo nel loro ruolo di vittime, senza riflettere su cosa sia stato storicamente il male cui li contrapponiamo, rischiamo di consolarci in una visione manichea che assolutizza il male, lo destoricizza e lo allontana da noi. Mentre il male era anche fra noi. Non era solo altrove, lontano dalle nostre città, nei luoghi dell’orrore dove pure ci rechiamo in viaggio, ma ai quali dobbiamo accostarci sempre con adeguata conoscenza e consapevolezza storica.

Quando si moltiplicano le vittime, e le loro memorie, che pure e giustamente chiedono ascolto, si deve però porre molta attenzione a non alimentare atteggiamenti autoassolutori e deresponsabilizzanti, all’insegna dell’”eravamo tutti antifascisti” e ovviamente “siamo tutti antirazzisti”. Attitudini che molto spazio hanno avuto nella storia del nostro paese. Soprattutto si rischia di perdere di vista i carnefici, uomini e donne come noi e come le loro vittime, si rischia di perdere di vista le idee e le scelte, le responsabilità e i progetti, i luoghi e le situazioni, qui e ora, che hanno trasformato milioni di uomini e donne in vittime.

Per questo, la poesia della memoria deve necessariamente coniugarsi con la conoscenza storica. Dobbiamo essere consapevoli che oggi più che mai la cultura e la conoscenza storica sono risorse indispensabili per la formazione di una coscienza civile e la costruzione di una società democratica. Anche nel tempo presente, proprio perché apparentemente schiacciato nell’immediatezza e nella novità dell’oggi, la cultura storica è chiamata ancora una volta e più che mai a svolgere per intero la propria funzione educativa, nel senso più alto, nel nostro paese così come, è auspicabile, in Europa e nel mondo.

Non perché si debba demandare ad essa la trasmissione di valori e di ideali, ma perché la cultura storica consente di mettere in prospettiva i problemi e le domande dell’oggi. Perché illuminando il passato, aprendoci alla comprensione di ciò che è stato, di perché è accaduto, essa ci aiuta a elaborare risposte capaci di misurarsi con consapevolezza critica con la complessità delle trasformazioni che investono il nostro presente, e con le sfide, le minacce, le ingiustizie che prendono nuova forma e sostanza.

Ed è chiaro che per cultura storica non intendo solo quella che possiedono gli accademici, ma anzitutto quella che dovremmo possedere tutti noi, insegnanti e studenti, uomini di cultura e politici, ma, allo stesso modo, tuti noi semplici cittadini. Appunto, la storia come risorsa per una cultura civile, nel senso proprio del termine.
È questo, deve essere questo, io credo, il senso profondo delle leggi del cosiddetto calendario civile, quelle che hanno istituito la Giornata della Memoria, il Giorno del Ricordo e le altre giornate memoriali.

La forza delle passioni, la poesia delle memorie dunque non possono non essere calate nel contesto delle condizioni storiche contingenti e specifiche che, nel loro convergere, costruirono il genocidio, nella Shoah, come altrove.

Il nazismo e l’Europa del Novecento

Del genocidio, dei molti genocidi di cui è lastricata la storia dell’umanità e in specie quella dei secoli a noi più vicini, la Shoah è divenuta il paradigma. E è giusto che sia così. Lo è divenuta in ragione della drammatica ferocia che l’ha alimentata e della enormità dei numeri che la distinguono, della sua centralità nel mondo cosiddetto sviluppato, della eccezionale convergenza di nazionalismo e antisemitismo, antislavismo e anticomunismo che ne fu all’origine. Alla condanna morale deve associarsi la conoscenza storica: cosa è accaduto? ma soprattutto perché è accaduto? Rispondere a queste domande, e ancor prima porsele è indispensabile per ricostruire il rapporto tra quegli eventi e la nostra modernità, vale a dire tra quegli eventi e noi stessi.

Il disegno e il realizzarsi dello sterminio nacquero e si collocarono dentro la costruzione di uno stato nazionale di impostazione razzista e coloniale, impegnato a imporre un nuovo ordine europeo, nel quale le gerarchie dei popoli fossero funzionali alla supremazia politica quanto alle esigenze dell’economia della Germania tedesca. Un disegno che coniugava l’efficienza della Wehrmacht e la potenza delle industrie tecnologicamente più avanzate con la rapina delle risorse e il lavoro schiavistico. Un progetto che si rivelò fallimentare, ma che appartiene a pieno titolo alla modernità novecentesca. Non un delirio, ma una risposta alle sfide poste da quella modernità. Una proposta politica che in Germania e in Europa raccolse larghi consensi, se non nei suoi dettagli sterminazionisti, certamente nella prospettiva generale di un ordine politico e sociale fondato sull’autoritarismo gerarchico, razzista e antisemita.

Le sue vittime furono in realtà cittadini cui si negarono diritti, non solo quelli che oggi noi chiamiamo umani – termine che trovo talora riduttivo – ma i diritti di libertà e sovranità politica, il diritto al lavoro, il diritto ad una vita sicura. I diritti di cittadinanza, insomma. Di quel disegno di esclusione da una cittadinanza fondata sulla razza, gli ebrei furono le prime vittime, in quanto considerati una “non razza”, un popolo senza stato. Gli ebrei tedeschi anzitutto, costretti alla fuga, e uccisi in circa centoventimila, e però accanto a loro tutti gli avversari politici del regime. Immediatamente dopo la conquista del potere, avvenuta per via elettorale e costituzionale, ricordiamolo, il nazionalsocialismo si scagliò contro il nemico interno, anzi, i nemici: gli ebrei, i comunisti, gli antifascisti, gli individui ritenuti socialmente dannosi. Nel 1933 furono arrestate trecentomila persone, in parte poi rilasciate, ma nel 1936 i detenuti a Dachau e negli altri campi erano ventimila e cinquantamila nel 1938 (la metà dei quali ebrei) e ancora il loro numero tornò a salire, nonostante le migliaia di espulsioni, a ottantamila all’inizio della guerra.

Dobbiamo ricordare questi numeri, perché nella loro brutalità ci raccontano come già in tempo di pace il nazionalsocialismo costruì i propri nemici, i nemici di una nazione pretesa omogenea, secondo una pretesa e una logica comune a molti altri stati europei novecenteschi, anche se fu certamente il più ferocemente radicale nel perseguire quella omogeneità. E, dunque altri numeri dobbiamo ricordare, ad esempio quelli degli oltre 20 milioni di europei costretti tra il primo e il secondo dopoguerra a lasciare le terre in cui vivevano perché considerati minoranze indesiderate rispetto ai nuovi stati in costruzione, non solo nell’Europa centrale. Storie di ieri, diverse tra loro, ma che condividono denominatori comuni. Storie che oggi si ripresentano, anche se in forme ancora diverse.

La Shoah: le radici e i frutti

E oggi, certo, parliamo un’altra lingua, adoperiamo altri strumenti. L’esperienza della Shoah è profondamente radicata nella nostra memoria e nella nostra coscienza. Ma quanto salde e vigorose sono quelle radici ? Quali frutti danno quelle radici?

Sono interrogativi che salgono alla mente, ad esempio, quando all’indebolimento dello stato nazionale indotto dai processi di globalizzazione si sente da più parti reagire alimentando spinte identitarie e comunitariste, che esaltano l’unilateralità e la fissità di taluni caratteri sociali o culturali. Saremmo in contraddizione con i principi fondanti della nostra professione di storici se intendessimo ricondurre queste proposte all’esperienza del nazionalsocialismo germanico. Ma, al tempo stesso, è la storia del Novecento, ad insegnarci che esaltando la pretesa fissità di taluni caratteri culturali e sociali si nega in radice il carattere necessariamente plurale della figura del cittadino, quale soggetto sovrano previsto dalla nostra Costituzione democratica.
Per questa strada – una scorciatoia sempre più frequentata – in nome di quelle identità si rifiutano, di fatto prima e di norma poi, i diritti di cittadinanza a chi è additato come estraneo alla comunità, immaginata come omogenea. Come se quei diritti discendessero dalla comunità, anziché dallo statuto di cittadinanza: è qui che il nesso tra dignità umana e diritto viene pericolosamente rimesso in questione, a danno di chi è diverso rispetto alla pretesa “comunità” per nascita, religione, orientamento sessuale o financo per condizione lavorativa.

Quelle modalità di costruzione dello stato – tornando alla storia del Novecento – erano state sperimentate nei territori sottoposti al dominio coloniale, esercitandosi in operazioni che oggi noi chiamiamo di “pulizia etnica”. Quelle stesse operazioni che, con registri e impatti pur diversi, abbiamo visto all’opera anche in Europa, prima e dopo il secondo conflitto mondiale e, non dimentichiamocelo, a poche centinaia di chilometri da noi, nei Balcani occidentali, negli anni Novanta.

Era, quella costruzione dello stato che portò alla Shoah, un progetto di marca teutonica? Certo. Non si richiamano le analogie per sminuire le responsabilità, né gettare tutto dentro lo stesso calderone. Ma non dobbiamo dimenticare che anche l’Italia aveva elaborato un diritto coloniale mirato a tutelare la “razza” italiana, prodromico alle leggi razziste persecutorie dei diritti dei cittadini ebraici. E certo anche altri stati europei avevano gravi responsabilità nel governo coloniale e si erano resi protagonisti di feroci operazioni di ‘polizia coloniale’, lo stesso l’eufemismo con cui ancora pochi anni fa, sulle pagine di un giornale di questa città, qualcuno volle definire e difendere la “riconquista” fascista della Libia che provocò direttamente o indirettamente la morte di molte decine di migliaia di libici.

Le responsabilità dell’Europa (e dell’Italia)

Il nazismo fu altro. Certamente. Ma fu altro anzitutto perché, come ci fa notare lo storico Mark Mazower, portò nel cuore dell’Europa quella linea di frattura tra noi e loro che gli europei avevano tracciato nelle colonie. Fu altro perché radicalizzò quegli obiettivi politici fino a concepire – passo dopo passo – lo sterminio come un fine in sé. Per questo la Shoah è divenuta il paradigma sul quale misurare e concepire tutti gli altri genocidi.

Il nazismo portò lo sterminio nel cuore dell’Europa perché aveva un progetto per l’Europa: unificarla, s’intende sotto il proprio dominio. Un dominio all’ombra del quale molti cercarono spazio e protezione, come ci dimostrano non solo i collaborazionismi e gli alleati subalterni che li accolsero e sostennero in quasi tutti i paesi europei, a cominciare dal nostro. Ma anche un progetto condiviso, come mostra la storia del continente tra le due guerre mondiali, segnata dalla guerra civile tra fascismo e antifascismo e dal prevalere dell’opzione autoritaria di paese in paese, di anno in anno, già prima che l’esercito tedesco si mettesse in marcia nel 1939.

Di quell’Europa, la Germania nazista fece strame, con il sostegno o la tolleranza dei suoi alleati. Uccise tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, dei quali oltre 160mila risiedevano nel Reich, 100mila nei Paesi Bassi, 200mila in Romania, oltre 70mila in Francia, 14mila in Cecoslovacchia, oltre mezzo milione in Ungheria, oltre 2 milioni in Unione sovietica e circa 2 milioni e 700 mila in Polonia.
Nei campi di concentramento e di sterminio morirono 2 milioni e 700 mila ebrei, mentre gli internati non ebrei – cioè zingari, politici, omosessuali e altri ancora – furono tra i 2 e i 3 milioni, dei quali circa ¼, tra i 5 e i 700mila morirono durante la prigionia. Nel gennaio 1945 esistevano una ventina di campi, ove erano rinchiusi circa 700mila prigionieri.

Pochi numeri, solo per richiamare assieme la portata europea e la dimensione organizzativa della politica che portò allo sterminio. Una politica che intendeva coniugare gli scopi della guerra e gli scopi dell’economia e che, per nostra fortuna, lo fece in modo alla fine fallimentare, affollando e gestendo i campi in nome ora delle logiche produttive, ora della reclusione politica, ora della persecuzione antisemita, ora dell’internamento dei prigionieri di guerra, anzitutto russi.

Memorie e cittadinanza democratica

Ne fu investita tutta l’Europa. Per questo, la Shoah non può non essere un elemento centrale e costitutivo della memoria e dell’identità europea. Ma, come già ha ricordato lo scorso anno, proprio in questa sede e in questa occasione, anche Filippo Focardi, non può essere una memoria delle vittime, magari in competizione con quella di altre vittime. Deve invece essere la memoria dei cittadini europei cui furono negati diritti, una memoria che non è in contrasto, bensì in sintonia con quella di quanti per quei diritti si batterono. Che non è in competizione con altre memorie, quando ricordiamo la privazione dei diritti che altri uomini e donne a loro volta soffrirono ad opera di regimi di diversa od opposta intonazione politica.

Non perché si debba raggiungere un’impossibile memoria condivisa. Ma perché le memorie sono intrinsecamente plurali, perché il riconoscimento della nostra memoria passa per il riconoscimento di quella altrui. Le memorie, infatti, possiedono, anzi possono accrescere il loro senso e valore nel nostro tempo presente soltanto se promuovono il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento delle memorie altrui. Come italiani abbiamo ancora molto da fare in questo senso, nei confronti della Libia e dell’Etiopia, della Spagna e della Grecia, dell’Albania e del Montenegro, della Croazia e della Slovenia, anche della Russi e dell’Ucraina.

La storia non è magistra vitae, ma ci aiuta a comprendere che il riconoscimento degli altri come diversi da noi è – oggi più che mai – il presupposto della cittadinanza democratica, in Italia come in Europa. L’Europa come istituzione politica adeguata alla globalizzazione degli anni Duemila non può scaturire dalla sommatoria instabile di interessi presunti nazionali in competizione. Può solo fondarsi su una ridefinizione della cittadinanza che muova da quei valori di libertà, di giustizia, di rispetto della dignità umana che spinsero parte della società europea a contrastare la costruzione di un’Europa dominata da stati attrezzati per guerre di conquista e governati dall’autoritarismo, dal razzismo e dalla sopraffazione sociale.

Articolo pubblicato nel gennaio 2017.




“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.