Guerra, fame, malattia

La pandemia d’influenza “spagnola” scoppiò nell’autunno 1918, quando la Grande Guerra stava terminando. Nessun angolo del globo fu risparmiato: la malattia si diffuse rapidissima, grazie ai traffici di uomini e mezzi causati dal conflitto. Nei Paesi occidentali, la macchina statale fu messa in ginocchio mentre altrove, come in Africa, la malattia stravolse ritmi economici e produttivi cristallizzati da decenni. Nel mondo, il virus uccise tra 24 e 100 milioni di persone, con un indice di mortalità tra i 2,5 e i 21,7 decessi ogni 1.000 abitanti. Le vittime prescelte della malattia furono le persone nella fascia d’età dai venti a quarant’anni: infatti, la spagnola sviluppò complicazioni non tanto negli elementi deboli o malnutriti, quanto tra gli individui più sani e forti.

L’Italia fu tra i Paesi europei che più soffrirono della pandemia: le stime, discordi tra loro, oscillano tra 600.000 e 350.000 morti. La difficoltà a ricostruire una storia e una statistica della malattia in Italia è diretta conseguenza dell’oppressiva censura imposta dal governo. I bollettini sanitari vennero contraffatti e ai giornali fu imposto di pubblicare notizie rassicuranti. Le autorità vietarono persino i normali riti funebri. L’interesse del governo fu tutelare lo sforzo bellico in un momento decisivo, mentre il virus avanzava nel fronte interno. La Toscana risultò la regione centrosettentrionale più colpita, stimando circa 30.000 morti.

La malattia investì tutta la regione, ma ebbe conseguenze più nefaste nella provincia. In queste zone limitrofe, i costi e le necessità della guerra avevano ridotto al minimo i servizi essenziali. In questa casistica rientra Pistoia, all’epoca parte della provincia di Firenze, dove fin dal 1915 le condizioni delle classi meno abbienti, per l’aumento del costo della vita, erano peggiorate. Le condizioni sanitarie, già precarie nell’anteguerra per lo sconquasso finanziario dei Regi Spedali del Ceppo, si deteriorarono per il passaggio giornaliero di truppe e per la mancanza di medici. Alla situazione non giovò, dopo Caporetto, l’afflusso in città dei profughi veneti bisognosi di assistenza.

L’influenza pandemica si manifestò l’area pistoiese dalla metà di settembre, contagiando dapprima le fasce più esposte come i funzionari della pubblica amministrazione. All’inizio dell’emergenza, il sottoprefetto invitò i cittadini ad avere cura della propria igiene – facendo ricadere la responsabilità della malattia sul singolo – mentre raccomandò i sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Minimizzare l’esplodere del contagio fu l’obbiettivo anche della stampa locale. Il periodico «La Difesa religiosa e sociale» affermò che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfettante, e insieme con questo morigeratezza di vita e preghiera umile a Dio». Il giornale consigliava quale rimedio l’uso di stimolanti come il caffè.

In ottobre, tuttavia, la situazione precipitò. Il prefetto decretò la chiusura dei cinematografi e delle scuole. Il vescovo di Pistoia e Prato, Gabriele Vettori, impose la disinfezione dei luoghi di culto e delle acquasantiere, e raccomandò di areare le Chiese prima e dopo le funzioni. Il vescovo, però, decise di non sospendere o limitare le messe.

Il sistema di approvvigionamento annonario divenne difficoltoso per la mancanza di manodopera, in larga parte contagiata dalla spagnola. Le lunghe file fuori dai negozi si ingrossarono, diventando tra i principali vettori del virus. Il Comune emanò misure contro gli affollamenti e fu limitato ai malati l’accesso ai punti di distribuzione. Nonostante i divieti, molti malati, per timore di non ricevere la propria quota, si recavano ugualmente nei luoghi preposti all’approvvigionamento, esponendo al contagio i cittadini ancora sani. L’amministrazione di Pistoia, sull’esempio di altre città, istituì delle rivendite alimentari riservate agli ammalati in possesso di certificato medico.

La spagnola decretò il collasso dei Regi Spedali: la struttura completò la sua crisi finanziaria e amministrativa, tanto che la prefettura di Firenze dovette commissariarla. La mancanza di medici – buona parte era stata richiamata al fronte – lasciò intere condotte, soprattutto della montagna, con poca assistenza. I dottori rimasti operavano in condizioni disagiate e senza i mezzi di trasporto necessari a coprire le grandi condotte. Diversi medici, debilitati dai massacranti turni di lavoro, furono contagiati e tornarono a lavoro solo dopo lunghe convalescenze. Non mancarono casi eclatanti. Scoraggiato dalla grave situazione, il dottor Lai abbandonò la condotta di Cireglio. L’amministrazione comunale, minacciando di denunciarlo, impose al dottore di riprendere servizio. Dietro la diserzione del medico, si celava il malessere per le estreme condizioni in cui operava.

A metà ottobre, la situazione era talmente grave che la Misericordia di Pistoia si trovò senza i cavalli sufficienti per trasportare il gran numero di salme. Scarseggiavano persino le casse da morto tanto che il sindaco ordinò alla direzione ospedaliera di far trasportare i cadaveri «avvolti in un lenzuolo bagnato con disinfettante». Soltanto davanti alle proteste dei necrofori, il Comune ritirò la misura e attese la fabbricazione di nuove bare.

Davanti all’incapacità di aiutare la popolazione, le autorità pistoiesi si posero in linea con quelle nazionali: la spagnola andava censurata. Fu imposta la chiusura dei cimiteri per la festa del 2 novembre, per «evitare l’immancabile depressione degli animi allo spettacolo evidente e palpabile della tanta mortalità». Furono approntate nuove norme per il trasporto dei feretri al cimitero, che doveva avvenire «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina».

A metà novembre, le condizioni sanitarie migliorarono timidamente: il prefetto riaprì i cimiteri benché il contagio non fosse concluso, come si intuisce dalla colletta «pro vitanda mortalite finché non sia cessato il morbo influenzale» promossa dal vescovo. Ai primi di dicembre le condizioni della città tornarono alla normalità: il provveditore della provincia di Firenze decise per la riapertura delle scuole. La spagnola lasciò dietro sé molti strascichi nella popolazione, colpita da innumerevoli lutti, come nelle autorità. Nel timore di nuovi episodi pandemici, il Comune progettò l’ampliamento dei cimiteri per far fronte a improvvisi picchi di mortalità.

Un conteggio preciso del numero dei morti nell’area pistoiese non è di facile stima: le fonti documentarie sono lacunose e vari decessi riconducibili alla spagnola furono refertati sotto altre cause (come le polmoniti). Stando ai pochi dati a disposizione, si può ipotizzare un numero di morti per la spagnola oscillante tra le 1.500 e le 1.800 persone nel pistoiese.

Francesco Cutolo si è laureato in Storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sull’influenza spagnola. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui da anni collabora. A novembre inizierà il dottorato in Storia presso la Scuola Normale di Pisa.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nel luglio del 2014.




La liberazione di Siena

Il mattino del 3 luglio 1944 i soldati del corpo di spedizione francese entrarono a Siena da Porta S. Marco, mentre gli ultimi reparti tedeschi uscivano, in direzione opposta, da porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, se ne accorse affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vide una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti , un ragazzo che abitava a pochi passi da Piazza Salimbeni, percepì che qualcosa era cambiato sentendo passare per strada una fila di soldati le cui calzature non faceva quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht.

Quella di Siena fu dunque una liberazione dolce, senza scoppio di cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. Ciò dipese da almeno tre fattori. I tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole ad un compromesso con le autorità fasciste – il podestà Luigi Socini Guelfi promosse, con il CLN, la costituzione di una guardia civica – contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini che aveva ricevuto l’ordine di avvicinarsi al capoluogo. Infine, la ventura volle che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando.

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Il 3 luglio 1944 a Siena (Archivio ISRSEC)

Ma questo epilogo della guerra a Siena – peraltro in linea con una lotta antifascista sfociata in azioni armate molto tardi, nella seconda metà di giugno, con la liberazione dei prigionieri politici del carcere di S. Spirito, l’uccisione di alcuni fascisti e uno sfortunato attacco alle retroguardie tedesche proprio nella giornata del 3 luglio – non deve trarre in inganno. Anche Siena aveva infatti conosciuto la sua parte di violenze: la deportazione di cittadini ebrei catturati dai fascisti locali, il processo e la fucilazioni di alcuni partigiani, la distruzione di infrastrutture civili e il saccheggio di negozi per mano dei soldati germanici. Neppure i bombardamenti aerei le erano stati risparmiati – il tentativo del capo della provincia Giorgio Alberto Chiurco e dell’arcivescovo Mario Toccabelli di farla dichiarare città aperta, in virtù dei suoi numerosi ospedali, non aveva avuto esito presso gli alleati perché tedeschi e fascisti non avevano proceduto alla sua completa smilitarizzazione – e soltanto l’ubicazione periferica della stazione ferroviaria, obiettivo principale delle incursioni aeree, bastevolmente distante dagli insediamenti più densamente abitati, aveva fatto sì che il numero di vittime civili fosse stato inferiore rispetto ad altre città toscane.

Se nel capoluogo l’attività partigiana combattente fu esile, robusta e intensa si manifestò invece nel territorio provinciale, evidenziando un marcato dualismo città-campagna su cui la storiografia ha riflettuto a lungo. Nel corso di nove mesi di lotta, a partire dall’8 settembre del 1943, i partigiani combattenti nel senese arrivarono ad oltre millecinquecento e ad oltre mille i patrioti della rete informativa e logistica. Di essi, più di trecento rimasero uccisi in centinaia di azioni, fra sabotaggi, agguati, occupazioni temporanee di centri abitati, combattimenti e rastrellamenti. Sul fronte opposto, i morti fra i fascisti superarono i duecento e anche le perdite tedesche furono consistenti.

Protagoniste di una guerriglia così diffusa furono numerose bande che, superando spontaneità e isolamento, vennero man mano inquadrate nella Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, nella Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel Raggruppamento patrioti Monte Amiata e nella SiMar, quattro grosse formazioni di differente orientamento politico – comuniste le prime due, monarchiche le altre due – che operarono a cavallo con le province di Grosseto, Pisa, Arezzo, Perugia.

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Soldati alleati sotto il monumento della Lupa a Siena (Archivio ISRSEC)

L’apporto militare della Resistenza senese, tutt’altro che trascurabile, accelerò il collasso dell’apparato militare e politico fascista – già nel mese di aprile il questore annotava che la GNR non aveva più il controllo di molte zone -, impegnò forze fasciste e tedesche che avrebbero potuto confluire al fronte, favorì in vario modo un’avanzata degli alleati per nulla agevole.

Truppe sudafricane dell’esercito inglese, truppe algerine e marocchine del corpo di spedizione francese e truppe americane si affacciarono ai confini meridionali della provincia di Siena alla metà di giugno. Schierate rispettivamente ad est, al centro e ad ovest, si mossero verso i centri abitati della Val di Chiana con direzione Chianti, verso quelli dell’Amiata, Val d’Orcia, Val d’Arbia con direzione Siena e verso quelli delle Colline Metallifere con direzione alta Val d’Elsa. Il contrasto tedesco, spesso così forte da originare sanguinosi combattimenti di più giorni – Radicofani, Chiusi, Brolio, per limitarsi a tre soli esempi -, fu causa di una nutrita serie di cannoneggiamenti in cui rimase pesantemente coinvolta la popolazione civile. I primi comuni liberati furono Piancastagnaio e Abbadia S. Salvatore, il 18 giugno, l’ultimo Radda in Chianti, il 20 luglio. Più di un mese fu dunque necessario agli alleati per coprire una distanza di poco superiore ai cento chilometri, a ulteriore dimostrazione dell’asprezza dei combattimenti.

La fine dei quali non segnò tuttavia il termine della lotta per oltre ottocento partigiani, i quali si arruolarono nei gruppi di combattimento del rinato esercito italiano – in maggioranza nel Cremona – per continuare la guerra al di là della linea Gotica.

Articolo pubblicato nel giugno del 2014.




Giornali di classe. Cronaca di una guerra dai banchi di scuola

I documenti custoditi negli archivi delle scuole sono una fonte per la ricerca storica e la ricostruzione di vicende collettive esposte da un osservatorio particolare. In particolare i Giornali di Classe delle scuole elementari riportano sia notizie quotidiane della vita della scuola e della classe che informazioni su avvenimenti importanti culturali e politici, descritti e commentati dagli insegnanti. La sezione cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola è redatta dai singoli docenti spesso con cadenza settimanale, alle volte anche giornaliera. L’insegnante generalmente registra i fatti più importanti, l’adunanza e l’inaugurazione dell’anno scolastico, le disposizioni del dirigente scolastico che a sua volta ricalca le circolari del provveditore agli studi, le visite delle autorità scolastiche, le ricorrenze civili e religiose, le feste scolastiche, gli scrutini e la chiusura dell’anno scolastico. Nella relazione finale dell’insegnante si trovano osservazioni sulla scuola, sull’edificio scolastico e l’aula, l’arredamento e i sussidi didattici, sulla biblioteca di classe e la mutualità scolastica, sulla frequenza degli alunni nei vari mesi scolastici e lo stato dei tesseramenti alle Organizzazioni Giovanili.

La presente ricerca ha preso in esame i Giornali di Classe delle scuole elementari del Comune di San Casciano in Val di Pesa dall’anno scolastico 1929/1930 fino all’anno scolastico 1944/1945. L’analisi fornisce sia alcuni elementi di quotidianità scolastica degli anni della dittatura fascista, utili a comprendere il grado e la modalità di fascistizzazione delle istituzioni scolastiche che a ricostruire il periodo della guerra e i tragici eventi conseguenti al passaggio del fronte tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa . Le cronache degli insegnanti a partire dal 1940 diventano difatti una cronaca delle vicende della guerra.

Nelle cronache sono riportate un numero impressionante di giornate commemorative dedicate al regime che si svolgevano nell’orario scolastico a discapito dell’attività didattica. Gran parte delle lezioni poi erano dedicate all’indottrinamento e all’istruzione fascista. Come annota una maestra di Cerbaia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 1928/29, gli insegnanti avevano la nobilissima missione di modellare l’animo del popolo italiano secondo lo stile, il costume, la dottrina e la religione fascista. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1928/29]. La maestra aggiunge che la formazione dei piccoli Balilla, ordinata dal signor Podestà, mi ha tenuta onoratissima per l’opera di propaganda verso le famiglie dei miei alunni, le ore di lezione di oggi sono occupate nel preparare e completare la divisa che sarà indossata stasera dai nostri Balilla, invitati ad una riunione nel capoluogo. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Nel novembre del 1927 anche le Piccole Italiane e Giovani Italiane passarono sotto l’Opera Nazionale Balilla, cosi la maestra di Cerbaia: mi sono recata a San Casciano dalla signora segretaria politica del Fascio femminile per intenderci circa la formazione delle Piccole e Giovani Italiane: per le quali alacremente lavoro data l’importanza patriottica di questa nobile istituzione. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Le feste e le celebrazioni del Pane e del Fiore e simili, erano tutte occasione di raccolta di fondi e molte furono legate alla particolarità del momento bellico:

…Fino da ieri ho cominciato la vendita dei panini, Pro Oriente, oggi 2° Celebrazione del Pane, dopo aver spiegato agli alunni l’alto significato di questa nobile Festa[…]stamani insieme alla mia Collega ho proseguito la vendita dei panini e abbiamo incassato, in breve tempo la somma di 100 lire…. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]

Il processo di indottrinamento e disciplinamento paramilitare nelle scuole, inteso a formare i futuri soldati, subì un’intensificazione con l’invasione dell’Etiopia nell’ottobre 1935. Le “inique sanzioni” che furono applicate all’Italia conseguentemente all’invasione divennero argomento di lezione anche nelle scuole elementari. La data del 18 novembre venne da allora annotata sulla cronaca come Anniversario delle Sanzioni. L’altra iniziativa di cui si fece carico la scuola fu la raccolta di metalli, carta e stoffe e il dono della fede nuziale (Oro alla Patria) quale contributo degli italiani alla guerra in Africa. Anche la scuola doveva applicare un sistema di rigida economia. Le circolari bandivano l’uso della doppia copia dei documenti e ordinavano la riduzione del consumo di energia elettrica. Il paese si preparava alla guerra anche attraverso la scuola con la consapevolezza che i piccoli italiani forti e coraggiosi, sono i valorosi soldati di domani. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1935/36]. Una circolare del 30 maggio 1935 esortava l’acquisto della radio per le classi delle scuole del Comune. L’8 marzo del 1938 un comunicato del Provveditorato agli Studi di Firenze esprime, a nome del Ministero dell’Educazione Nazionale, «il compiacimento per il continuo incremento della radifonia scolastica» [Cir. 2238, 8 marzo 1938]. Così tra il 1938 e il 1939 anche nelle scuole del Comune di San Casciano si ebbe l’apparecchio radio per «educare fin dalla più tenera infanzia secondo i dettami della dottrina fascista, completare e illustrare le lezioni impartite dagli insegnanti…».

Dall’anno scolastico 1940-41 gli insegnanti avevano il compito di leggere quotidianamente i bollettini di guerra agli alunni ed esaltarne gli eventi favorevoli al Regime. Il maestro della Romola scrive che i suoi alunni non si stancherebbero mai, in particolare i ragazzi di quinta di sentire parlare della guerra. Dopo la lettura del bollettino quante domande!…noi la chiamiamo la “storia viva”, il parlare dei nostri soldati e della guerra. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]. Il regime attraverso la scuola cercava di mantenere il consenso che stava progressivamente venendo meno con il procedere del conflitto. Gli stessi alunni, nell’inverno del 40-41, sono mobilitati per la guerra:

E’ un momento in cui si lavora intensamente. Anche materialmente si lavora, specialmente le femmine a confezionare maglieria per i soldati. Abbiamo raccolto 70 lire. Dividiamo gli indumenti i due pacchi e li spediamo a due soldati del popolo della Romola che si trovano attualmente in Albania. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]

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Notizie statistiche della scuola elementare mista di Romola (S. Cascano V.P) – Anno scolastico 1938-39

L’anno scolastico 1940-41 termina in anticipo, il 24 maggio. All’inizio del 1942 la situazione in Italia era catastrofica. Iniziarono la penuria di risorse e le requisizioni da parte del regime. Nell’autunno 1942 tra i militari sancascianesi si contavano 70 prigionieri di guerra, 20 feriti, 7 dispersi, 31 morti. Nel biennio scolastico 1942-1943/ 43-44 nelle cronache degli insegnanti, la propaganda di guerra, i riti e le celebrazioni del regime lasciano spazio progressivamente alle preoccupazioni, ai timori suscitati dalla guerra, e al racconto tragico dei bombardamenti. L’orario di lezione venne ridotto, le chiusure delle scuole anticipate e l’ inizio posticipato. L’attività didattica diventava quasi impossibile, numerose sono le annotazioni degli insegnanti sui programmi non conclusi. Nelle classi si aggiungono i bambini sfollati dalle città bombardate:

Questa mattina, accompagnata dalla mamma, si presenta una bimba da Grosseto. E’ sinistrata nel bombardamento dell’aprile scorso: il padre e lo zio periti nel bombardamento, la casa crollata e, tutto, disperso. Ascolto, con emozione, il lugubre racconto di questa terribile tragedia e mi associo al dolore di queste creature… [Giornale della Classe, V, San Casciano; Anno scolastico 1943/44].

Le incursioni aeree impressionano e sconvolgono la quotidianità della val di Pesa già dalla fine del 1942. Con l’anno scolastico 1943-44 la guerra arriva tra i banchi della scuola, tra gennaio e giugno 1944 vi sono 6 incursioni aeree da parte di bombardieri medi e pesanti:

I continui allarmi disturbano l’andamento delle lezioni. Quando gli alunni odono la sirena diventano irrequieti, vogliono le mamme, ed i più piccini tremano e si mettono a piangere. Proprio oggi, un bombardamento molto vicino ha fatto tintinnare paurosamente tutti i vetri. Subito le mamme son corse a prendere i loro piccini. Tutti i giorni è cosi! [Giornale della Classe, II e IV, La Romola, Anno scolastico 1943/44]

Gli effetti dei bombardamenti sul territorio regionale si hanno anche nel Comune di San Casciano:

Oggi poi è stata una giornata nera. Gli apparecchi hanno cominciato a passare alle 10.30 e quando ho visto che si dirigevano verso Firenze ho sentito il cuore farsi piccino per il pensiero di tutti ma soprattutto dei miei. Il bombardamento è stato visibile perché contemporaneamente a quello su Firenze c’è stato quello su Poggibonsi e la terra tremava talmente forte che sembrava dovesse aprissi da un momento all’altro. [Giornale della Classe, I, II e III, Bargino, Anno scolastico 1943/44].

Annota anche la maestra di Mercatale:

I vetri e il pavimento della classe tremavano al boato delle bombe, nella piazza era un gridio, un fuggi fuggi. Tutti correvano senza sapere dove rifugiarsi…[Giornale della Classe III e IV, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

L’episodio del duello aereo nel gennaio 1944 e l’abbattimento di un aereo inglese presso San Pancrazio viene descritto nelle cronache degli insegnanti come il primo episodio di guerra osservato dalla popolazione di questa contrada:

Nelle prime ore di pomeriggio di ieri avvenne un duello aereo nei nostri cieli. Ebbero la peggio alcuni apparecchi tedeschi che precipitarono poco lontano da noi. Uno di esse colpito da una raffica di mitragliatrice lasciò cadere, giù nei nostri campi, il serbatoio della benzina e altri oggetti pesanti, che li per li, nel primo momento, parevano proprio delle bombe.[Giornale della Classe I e II, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

Per misure precauzionali da gennaio l’orario delle lezioni venne ridotto dalle 8,30 alle 11. La situazione è sempre più allarmante. Il 29 aprile fu l’ultimo giorno di lezione. Il 27 luglio gli alleati liberarono San Casciano e l’11 agosto il Cln toscano dette l’ordine di insurrezione generale e assunse il governo del capoluogo fiorentino. Fu l’inizio di una lunga battaglia che ebbe termine il 1 settembre con la liberazione di Firenze. Il 2 agosto venne nominata la Giunta provvisoria a San Casciano. Secondo un indagine del novembre 1944, nel Comune chiantigiano erano 202 le famiglie che avevano la casa distrutta, per un totale di 684 persone. Gli sfollati provenienti dagli altri comuni erano 279 famiglie, per un totale di 1412 persone.

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Le rovine di San Casciano dopo il passaggio del fronte (Archivio Associazione “La Porticciola”)

Le scuole, a causa delle distruzioni provocate dal passaggio del Fronte, riapriranno solo tra dicembre e febbraio:

Le scuole al Capoluogo si sono riaperte. Non più gli ampi locali dai grandi finestroni, ma le aule strette e anguste che erano prima quelle addette al giardino di infanzia. Purtroppo il piccolo mondo adolescente viene accolto in queste aule con poca luce meno aria. Ma siamo in tempo di guerra e dobbiamo adattarci. I bambini sono felici di aver ripreso le loro lezioni, le insegnanti pure. Io mi trovo assai bene con una classe seconda che mi è stata affidata dal Signor Direttore. È una classe seconda, composta dagli alunni delle due prime, sono in tutto 33 alunni. Li guardo e purtroppo hanno ancora negli occhi il terrore della guerra che passando dal paese e dalle ridenti campagne ha distrutto le loro case, sentono ancora il rombo del cannone e lo scoppio della mina e mi guardano come istupiditi. No, cari piccoli passeremo insieme, quest’anno e nel lavoro e nell’amore reciproco dimenticheremo gli spaventi passati. [Giornale della Classe I e II, Bargino, Anno scolastico 1944/45].

Nella relazione finale di una maestra della scuola di San Casciano si raccontano le conseguenze del bombardamento del 26 luglio e l’anno difficile appena trascorso:

Causa il tremendo bombardamento avvenuto su questo povero Capoluogo, le scuole ebbero un sinistro tremendo. Scoperchiate, diroccate, non erano più in grado di contenere un alunno. Furono accomodati alla meglio i locali che servivano per i bambini del Giardino infantile ed in esse, alternativamente, gli insegnanti hanno svolto la loro attività. Benché i locali fossero ristretti, bui e privi di luce (mancavano i vetri e furono sostituiti con carta cerata) pure gli alunni hanno frequentato regolarmente la scuola.[Giornale della Classe II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

Euforia all’indomani della resa della Germania viene espressa dagli insegnati insieme alla consapevolezza degli anni ancora difficili che il paese si troverà ad affrontare :

Grazie, grazie, grazie! Grande entusiasmo, il conflitto mondiale che da quasi sei anni imprigiona i popoli dell’Europa ha avuto termine. La Germania vinta ha deposto le armi e chiede l’armistizio incondizionato agli Alleati e alla Russia. Finisce un momento storico! Ne incomincia un altro. Finita la distruzione, incomincia un periodo di ricostruzione… [Giornale della Classe I e II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

* Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in val di Pesa. L’associazione si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Comunicare la Resistenza: sfide e proposte

Una riflessione sulla complessa, contraddittoria immagine della Resistenza nel panorama politico italiano può agevolmente partire da un’immagine recente: il corteo per il 25 aprile organizzato a Milano dal centro-sinistra. Scevra di una preventiva discussione capace di giustificarne i presupposti e di evidenziarne i legami con decenni di celebrazioni resistenziali, la giallo-blu festa della libertà e dell’Unione Europea ha attutito la percezione della festa della Liberazione dal nazi-fascismo. Il problema non è l’infondatezza del collegamento, peraltro ragionevole e giustificabile: le dimensioni transnazionali ed europee della Resistenza e l’elaborazione, proprio in quel drammatico contesto e davanti alle atrocità della seconda guerra mondiale, di un’unione politica che scongiurasse simili eventi, danno ai due processi un sostrato comune. A lasciare dubbiosi sono le modalità con cui temi e problemi nuovi sono stati giustapposti all’esistente come una patina, senza alcun legame con la Resistenza e le sue ricorrenze celebrative; e tutto ciò rende evidente, a mio avviso, quanto ora più che mai sia urgente e necessaria una discussione sul tema.

Da diversi anni l’“oblio della Resistenza” ricorre con insistente puntualità in articoli, pubblicazioni e discorsi accademici. Non è certo un vezzo professorale. Per accorgersene, è sufficiente prestare un po’ d’attenzione e osservare tutte le “memorie di pietra” – dai cippi alle lapidi, dalle targhe ai monumenti – dedicate agli anni ’43-45 da enti locali e associazioni, chi ricordano e in quali anni sono state inaugurate. Non è la rarefazione delle nuove testimonianze a saltare all’occhio, quanto piuttosto un cambiamento dei temi e delle modalità espressive: a essere ricordate – con pietre a inciampo o targhe contenute, scarsamente osservabili dall’occhio distratto del cittadino o del visitatore occasionale – sono soprattutto le vittime del conflitto, che siano per i bombardamenti o per le retate naziste. I monumenti, più costosi e maggiormente suscettibili, con la loro stazza, di cambiare il paesaggio cittadino, sono poco presenti nelle nuove politiche della memoria; ugualmente rare sembrano anche le testimonianze a favore di chi attivamente contribuì alla guerra.

Questa consapevolezza apre la strada a ulteriori considerazioni su come guerra e resistenza siano differentemente commemorate e recepite. Non abbiamo guerre sul nostro suolo da più di settant’anni, è vero. Ma chi non sa cosa sia una guerra? Chi non ha letto o guardato un reportage sulle innumerevoli tragedie belliche che ancora si consumano nei più disparati angoli del pianeta? La guerra, nonostante tutto, fa ancora parte del nostro orizzonte mentale e culturale. E la Resistenza, invece? È questo, indubbiamente, un concetto molto più difficile da assumere e da collocare nei nostri schemi mentali, soprattutto da quando, come ha giustamente notato Ersilia Perona, l’89 e la fine del comunismo hanno rivoluzionato i nostre prospettive. Spesso, per incardinarla nella narrazione politica italiana, la Resistenza è stata accostata al Risorgimento fino a farne un “secondo Risorgimento”, come ricorda Aldo Agosti nel volume Resistenza e autobiografia di una nazione: un paragone che alla Resistenza, soprattutto in questi ultimi anni di contestazione e revisione del processo di costruzione nazionale, non ha certo portato fortuna.

È tuttavia indubbio che un’efficace divulgazione della Resistenza e dei suoi valori debba incardinarsi sulle tematiche dell’oggi. Deve sapersi indirizzare alle inquietudini e alle problematiche contemporanee coinvolgendo, e coinvolgendo emotivamente, visitatori e fruitori, fino a renderli parte viva e attiva del reperimento e della costituzione della mostra. È certamente un processo rischioso e denso di pericoli, come è stato giustamente notato nel corso della conferenza: ma, se diretto e controllato passo per passo da storici ed esperti, può garantire, a mio avviso, un apprendimento più radicato e duraturo. In questa prospettiva si sono mossi in questi anni gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea in Toscani con progetti che, in particolare a partire dal 70° della Liberazione, hanno conseguito significativi risultati di divulgazione scientifica e partecipazione di pubblico: dall’esposizione “Firenze in guerra” curata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana al “La Storia in soffitta” dell’Istituto lucchese, dal progetto “Cantieri della memoria” realizzato dall’Istituto grossetano alla mostra diffusa “Cupe vampe” allestita dall’Istituto di Pistoia per ricordare  il bombardamento dell’ottobre 1943 fino a quella sugli “Ebrei in Toscana” curata dall’Istoreco livornese.

Bisogna innanzitutto puntare al significato di scelta che per molti significò la partecipazione alla Resistenza – sia che vi avessero aderito in modo attivo combattendo nelle formazioni partigiane oppure che, con il sostegno dalle retrovie, avessero assicurato ai combattenti vitto, equipaggiamento e materiale. Non un mero tornaconto personale, ma un fine collettivo ne animò l’azione: quello di poter vivere in una società più giusta e democratica. È un significato che dobbiamo recuperare, perché sottende quella cura dell’altro e del bene pubblico che è alla base del moderno concetto di cittadinanza e che, oggi più che mai, latita. Quel che dobbiamo ricordare con le nostre esposizioni e le nostre mostre, e che ha valore tanto oggi quanto settant’anni fa, è che solo quando si ritiene il benessere della collettività la necessaria condizione per far avverare anche il proprio che si realizza una società giusta e democratica.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in storia contemporanea all’Università di Firenze nel 2015. Dal 2013 ricopre la carica di consigliere nel consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui collabora dal 2007. E’ autrice di diverse pubblicazioni sulla storia della scuola, tra cui:  Schools for workers? Industrial and artistic industrial institutes in Italy (1861-1914); in E. Berner and P. Gonon (edd. by), History of Education and Training in Europe: Cases and concepts, Lang, 2016; Branding technical institutes in Italy (1861-1913), in A. Heikkinen and L. Lassnigg (edd. by), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015; Esigenze locali, suggestioni europee: le scuole industriali e d’arte applicata all’industria in Italia (1861-1886), “Passato e presente”, XXXII (2014); Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, “Società e storia”, 137 (2012).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

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La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.