Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.




Il Conservatorio di San Giovanni Battista

La storia del Conservatorio di San Giovanni Battista si sviluppa dagli inizi del secolo XIV fino ai giorni nostri con una particolare continuità all’interno della vita religiosa, artistica e sociale della città di Pistoia e può essere suddivisa in due distinte fasi.

 La fase della vita religiosa

È costituita dall’aggregazione di tre monasteri femminili.

 Il Monastero di San Giovanni

Costituisce il nucleo iniziale del complesso e viene edificato al di fuori della seconda cerchia di mura cittadina secondo il lascito testamentario del 1287 di Giovanni Ammannati che aveva stabilito che se il figlio Gherardo fosse morto senza successori fosse edificato un convento femminile nell’area di un palazzo di sua proprietà.

Gherardo morì nel 1321 e, assecondando la volontà del testatore, il palazzo fu trasformato in monastero femminile dedicato a San Giovanni Battista.

Venne quindi ampliato tra il 1469 e il 1531 quando fu completata la chiesa ad opera di Ventura Vitoni e nel 1783 inglobò il contiguo monastero di S. Lucia ed ospitò anche le suore di S. Chiara.

 Monastero di S. Lucia

Fu fondato nel 1328 su testamento di Iacopo Bellebuoni nei pressi dell’attuale fortezza di Santa Barbara ma venne demolito nel 1539 per consentire l’ampliamento della fortezza e le monache furono trasferite nell’area dello spedale di S. Gregorio confinante con il monastero di S. Giovanni mentre lo spedale fu trasferito in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il monastero fu soppresso e unificato con quello di San Giovanni.

 Monastero di S. Chiara

Viene fondato nel 1310 da Piccina di Bonaventura in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il Vescovo Ricci soppresse il monastero per realizzarvi il nuovo edificio del Seminario e le monache furono trasferite nel monastero di San Giovanni.

La fase dell’educazione e dell’istruzione.

Nel 1785 all’interno dell’opera riformatrice del Granduca Pietro Leopoldo fu chiesto alle monache di San Giovanni di scegliere tra la vita monastica o la trasformazione del complesso in Conservatorio per l’educazione delle fanciulle.

Le suore optarono per il Conservatorio e iniziò così un periodo completamente nuovo in cui sotto la guida di suore e oblate venivano accolte e istruite le fanciulle pistoiesi.

Dopo l’unità d’Italia con la legge del 1867 i conservatori passarono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione e quello di san Giovanni si aprì progressivamente alla città divenendo una delle principali istituzioni educative pistoiesi. Accoglieva fanciulle tra i 7 e i 12 anni e a partire dal 1872 ospitò la scuola elementare femminile cittadina pubblica e privata.

Nel 1883 ne fu dichiarato lo stato laicale e il Conservatorio divenne un istituto pubblico educativo con amministratori nominati dal Ministero.

Nel 1898 il Conservatorio divenne sede dei corsi della Scuola normale femminile trasferita da Sambuca Pistoiese comprendente il corso complementare, la scuola di tirocinio e l’asilo infantile a sistema froebeliano.

Divenne così il principale polo educativo femminile pistoiese e attraeva alunne a convitto da tutta Italia. Il complesso fu ristrutturato nel 1877 e continuamente ammodernato nel corso del Novecento. Nel 1901 vi operavano la direttrice, tre istitutrici, una guardarobiera, una dispensiera-economa, una cuoca, due aiutanti di cucina, un giardiniere, un portiere, due inservienti, un medico, un ragioniere, un cassiere, il direttore spirituale, un chierico, un agente di campagna e quattro maestre e nel 1910 contava oltre 400 alunne.

Dal 1915 al 1919 una parte dei suoi locali fu destinato a ospedale militare di riserva e dal 1924 accolse la sede dell’Istituto commerciale “F. Pacini” e dell’Istituto magistrale.

Alla fine degli anni trenta si verificò un momento traumatico all’interno della struttura educativa con il licenziamento nel 1939 della direttrice Alba Mantovani perché di “razza ebraica” che venne riassunta solo nel dopoguerra.

Il complesso subì gravi danni con l’incursione aerea alleata del 18 gennaio 1944, quando fu distrutta completamente la chiesa e la maggior parte dei locali dove avevano sede gli istituti superiori.

Le attività vennero sospese e solo nel gennaio 1945, a liberazione di Pistoia avvenuta, si iniziò a rimuovere le macerie e si riaprì l’Istituto magistrale mentre nel 1947 ripresero a funzionare il convitto, l’Istituto tecnico e la scuola materna.

La ricostruzione integrale fu compiuta tra il 1951 e il 1957 con fondi del Ministero dei Lavori pubblici per oltre 205 milioni di lire e la direzione dell’ingegnere Adalberto Del Chicca. A partire dagli anni settanta le alunne ospitate diminuirono progressivamente e nel 1982 il convitto fu chiuso e il complesso ospitò solo le scuole pubbliche mentre nel 1983 il giardino è stato affittato al Comune e aperto al pubblico e la Chiesa è stata allestita a spazio espositivo.

Dal 2006 il Conservatorio è stato trasformato in “Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista” e oggi è agenzia formativa accreditata presso la Regione Toscana, inoltre nei suoi spazi ha sede la Fondazione Luigi Tronci con la collezione di strumenti musicali.

Nel 2016 si sono conclusi due importanti operazioni di recupero e salvaguardia del suo patrimonio storico e architettonico. Si è concluso il restauro delle coperture e della facciata della Chiesa di San Giovanni con la direzione dell’architetto Gianluca Giovannelli, e, ad opera dello scrivente, è stato concluso il riordino e l’inventario dell’Archivio storico ed è stata allestita una mostra permanente sulla storia del Conservatorio.

Andrea Ottanelli, docente di lettere, dottore di ricerca in storia contemporanea, compie studi e ricerche sulla storia contemporanea di Pistoia, ha curato mostre e iniziative e pubblicato articoli e volumi sulla storia delle industrie e delle infrastrutture pistoiesi tra cui: La città e la sua fabbrica in La San Giorgio. Gli albori della grande industria a Pistoia, a cura di Piero Roggi, Pistoia, Gli Ori 2015; La Ferrovia Porrettana. Progettazione e costruzione (1845-1864), Pistoia, Settegiorni editore 2014. Economia e società a Pistoia dalle riforme leopoldine alla Restaurazione. Le arti e le manifatture; Gli anni del cambiamento (1878-1914) in Storia di Pistoia IV, a cura di Giorgio Petracchi, Firenze, Le Monnier 2000. Ha curato il riordino e l’Inventario di numerosi archivi storici pistoiesi tra cui quello del Conservatorio di San Giovanni Battista. È direttore della rivista “Storia Locale”.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

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Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno nel biennio 1943-1944

Tra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò radicalmente il volto di Livorno. Col suo porto e le sue grandi industrie, la città pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. In tale contesto anche la Chiesa di Livorno fu, con grande evidenza, colpita nei suoi gangli vitali. Il 17 dicembre 1944, a quasi venti mesi dall’ultima volta e a cinque dalla liberazione della città, il vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, (a capo della diocesi dal 1921 al 1959) tornava in questo modo ad aggiornare il suo diario personale.

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Una foto del vescovo Piccioni negli anni Venti. (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

“Il 28 maggio 1943 ebbe luogo il primo gravissimo bombardamento aereo di Livorno, che fu poi seguito da uno ancora più grave il 28 giugno, e poi da moltissimi altri. Fin dal primo bombardamento furono distrutte e lesionate parecchie Chiese e case religiose. Il Seminario e l’Episcopio furono dichiarati inabitabili. Io mi recai a Villa Maria che era piena di sfollati e vi abitati fino al 30 Settembre. Dall’Ottobre in poi fui ospitato nel Monastero di Montenero e in quel tempo il Santuario servì come Cattedrale. Altri Sacerdoti – Parroci e Canonici – abitarono anch’essi a Montenero, non essendo abitabili le loro canoniche o case di Livorno. Del resto dai primi di Novembre in poi i quattro quinti della città furono coattivamente sgombrati per ordine dei tedeschi, i quali soli vi rimasero e si valsero di ciò per rapine e depredazioni nelle abitazioni, per la distruzione dei mobili, che non credettero asportare – mentre i migliori furono spediti da loro in Germania insieme al macchinario delle industrie ecc. e anche approfittarono di tale periodo per collocare un numero ingente di mine, per distruggere alcune fabbriche e palazzi. In questo periodo di tempo non ho tenuto al corrente il Diario; né credo di poterlo completare ora. La venuta degli alleati ha recato un po’ di sollievo. Non è ancora compiuta però (e scrivo il 17 dicembre 1944) la rimozione delle macerie e delle mine; cosicché vi è ancora a Livorno sebbene ridotta, la cosiddetta zona nera nella quale non è permesso l’ingresso”.

La gran parte della popolazione livornese visse dunque i grandi rivolgimenti politici e bellici seguiti al 25 luglio e all’8 settembre, le drammatiche conseguenze dell’occupazione nazista e l’avanzata degli alleati in un contesto di pressoché totale sradicamento. Per questo l’eccezionalità del contesto livornese fece assumere al capo della Chiesa livornese non tanto, o non solo, il ruolo di defensor civitatis, sul modello di papa Pacelli che rimase a presidiare Roma nella fuga generale delle altre autorità seguita all’8 settembre, ma lo costrinse, più che in altre zone, ad una rimodulazione del suo servizio episcopale in funzione di un popolo disperso. Il presule – oltre a presidiare la città scegliendo di risiedere a Montenero – dette vita ad un nuovo ministero itinerante, ideando una sorta di “pastorale per gli sfollati” che adattava a un contesto inedito le prospettive di restaurazione cristiana indicate da Pio XII. Un modus operandi che gran parte del suo clero fece proprio spontaneamente già nelle ore immediatamente successive alla prima rovinosa incursione alleata, ma che l’anziano pastore auspicò – e talvolta, pretese – che venisse perseguito: in questo quadro assunsero centralità realtà prima marginali come le parrocchie dei vicariati suburbani, e si trovarono sbalzate al centro della scena figure, come i parroci di campagna e le suore, tradizionalmente votati ad un ministero poco appariscente.

Mappa-zona-nera

La mappa della “Zona Nera” a Livorno

Dopo la prima incursione alleata del maggio 1943, il percorso d’azione fu rimodulato nei suoi tratti essenziali attraverso una circolare che il vescovo fece pervenire ai parroci di campagna: notando come «la quasi totalità della popolazione di Livorno» si fosse dispersa nelle campagne, egli esortava «ad esercitare l’ospitalità con quel sentimento cristiano che ci fa vedere Gesù stesso in chiunque abbia bisogno del nostro aiuto». Raccomandava dunque di «provvedere al servizio religioso degli sfollati»; di avere una speciale cura per i bambini che proprio in quel periodo stavano preparando le Cresime e le prime Comunioni; «di usare uno speciale riguardo verso i vecchi e gli infermi». Con questa circolare Piccioni si accordava alla delibera del 6 maggio 1943 della Conferenza Episcopale Toscana nella quale i presuli erano intervenuti sull’assistenza spirituale agli sfollati, suggerendo «che – oltre alla cura pastorale degli sfollati, come le pecorelle più bisognose del proprio gregge – ogni parroco dove gli sfollati sono accolti avesse un libro di stato d’anime a parte per essi».

Questa capillare rete dell’accoglienza ecclesiastica di cui i livornesi beneficiarono a piene mani (anche attraverso percorsi non sempre lineari) suppliva per certi versi alle carenze della macchina assistenziale pubblica, sfaldatasi insieme al default istituzionale dell’estate 1943. Se già alla fine del 1942 il prefetto di Livorno aveva predisposto piani molto articolati relativi al previsto sfollamento della città, nei mesi della grande emergenza le autorità livornesi provarono a imbastire dettagliati progetti, puntualmente disattesi. Con l’occupazione tedesca della città qualsiasi piano d’intervento pubblico in aiuto agli sfollati venne poi ovviamente abbandonato e i livornesi dovettero fare da sé, aggrappandosi alle reti assistenziali di supplenza. In questo quadro certamente Piccioni rappresentò un punto di riferimento rilevante, perché si accordò lui stesso – pur essendo già piuttosto anziano e provato da più di vent’anni di ministero episcopale – a quelle linee pastorali molto esigenti che volle fossero osservate dal suo clero. Il fatto che nello sgretolarsi delle istituzioni, la figura del vescovo si caricasse di inediti significati è testimoniato anche dalle numerose lettere di sfollati che pervennero alla Curia nei mesi dell’esodo. Non solo perché, in linea con le disposizione della Santa Sede, l’istituzione diocesana divenne un importante centro d’informazione in raccordo con la Segreteria di Stato per avere notizie su prigionieri, dispersi e caduti. Ma anche perché, agli occhi dei fedeli, il pastore della diocesi raffigurava una sorta di simbolo di continuità a cui ancorarsi in mezzo alla centrifuga di cambiamenti che accompagnavano gli eventi di quei mesi.

Nella testimonianza di don Giovanni Balzini – l’economo delle cattedrale che con lui visse a Montenero negli anni di guerra – si ricordava che Piccioni, spesso servendosi del passaggio di camion militari, visitava gli sfollati «nei diversi paesi della diocesi, e nei paesi extradiocesi dove più numerosi erano i livornesi». Solo dal maggio al luglio 1943 Piccioni si recò a trovare gli sfollati a Castelnuovo della Misericordia, Gabbro, Quercianella, S. Martino in Parrana, Castell’Anselmo, Nugola, Guasticce per poi arrischiarsi nei mesi successivi anche fuori dal territorio diocesano. In occasione dei suoi avventurosi viaggi Piccioni non mancava di organizzare particolari celebrazioni: ne dà testimonianza l’allestimento della «Giornata degli sfollati» che il presule volle fosse celebrata nei comuni di Castelfranco di Sotto e S. Romano (Pisa), in diocesi di San Miniato, in occasione della sua visita del 5-6 settembre 1943.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Oltre a impegnarsi in questo ministero itinerante il vescovo fece in modo poi che la sua Chiesa restasse comunque visibilmente vicina ai pochi livornesi che decisero di sfidare i bombardamenti e le angustie dell’occupazione tedesca rimanendo in città. Da un lato Piccioni, come scrisse sul suo diario, fece in modo di essere sempre vicino alla popolazione nei momenti più tragici con visite agli ospedali e periodiche incursioni nelle parrocchie dei vicariati suburbani, ma pretese anche che le poche chiese rimaste illese al di là della zona nera continuassero a restare aperte e a garantire, per quanto possibile, i normali servizi liturgici e religiosi. Questo orientamento fu deciso in un’adunanza del clero che il vescovo convocò il 6 novembre 1943 a Montenero, a pochi giorni dall’ordine di sgombero completo del centro cittadino: in quell’occasione fu deliberato di assicurare la continuità del servizio nelle due grandi chiese di S. Maria del Soccorso in piazza della Vittoria e del Sacro Cuore (la parrocchia dei salesiani vicina alla stazione) e nella piccola chiesetta di N. S. del Rosario, allora in via delle Siepi.

È da notare poi che l’intervento pastorale di Piccioni tra gli sfollati si puntellava su precisi fondamenti dottrinali. In linea con l’atteggiamento generale dell’episcopato, i temi e il linguaggio del vescovo si incardinavano sul topos classico della guerra intesa come «castigo divino»: il conflitto presente, dicevano a una voce i presuli italiani, non era altro che una punizione, di dimensioni bibliche, che il Signore aveva consentito data la dilagante immoralità e il crescente distacco dell’umanità dalle leggi iscritte nella natura stessa dell’uomo. Parallelamente si faceva così sempre più spesso appello alla sobrietà dei costumi e alla penitenza con denunce dai toni accorati e anche esagerati contro la moda e gli spettacoli immorali. Anche la circolare che il vescovo Piccioni scriveva Agli sfollati nell’estate del 1943 è esemplare al riguardo. Dopo il breve preambolo nel quale prometteva di andare a trovare i livornesi nei luoghi dove erano più numerosi, il presule si soffermava lungamente nell’invitare gli sfollati alla penitenza, connettendo evidentemente i disagi provocati dalla guerra anche alla condotta immorale degli uomini. «So e conosco – scriveva il Vescovo – i disagi materiali, le vostre ansie, i vostri dolori – scriveva il vescovo – e anche le difficoltà morali e i pericoli che un improvviso cambiamento di vita produce. Ma non sia questa una nuova occasione di peccato; sia invece un motivo per tutti di fuggire il male, per molti di proporsi e d’incominciare una vita meno frivola, più seria, più utile al prossimo».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015, di cui questo articolo rappresenta un breve stralcio.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




Gronchi e il “caso” Livorno

Luglio 1955, a due mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica, Giovanni Gronchi scelse Livorno come una delle prime città italiane da omaggiare con una visita ufficiale. In quell’occasione il consiglio comunale gli conferì la cittadinanza onoraria. «Di fronte a questo gesto di grata amicizia che l’Amministrazione Comunale livornese a nome dell’intera cittadinanza mi ha rivolto, – affermò Gronchi nella sala consiliare del Municipio – forse qualcuno si è domandato perché io ho avuto in questi anni per Livorno un affetto che talvolta ha superato quello dei suoi stessi cittadini. Gli è che Livorno rappresenta per me una somma di ricordi a cui ritorno ogni volta con una specie di compiacente ed intima commozione. Livorno mi ha visto ragazzo, piuttosto povero, in malo arnese, non per cattiva volontà della mia famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze. Ebbene, Livorno mi accoglieva per la benevolenza dei parenti come un’oasi di tranquillità».

1955

Il “Tirreno” nel giorno della visita di Gronchi a Livorno nel luglio 1955

LIVORNO, CITTA’ D’ADOZIONE… Basterebbero solo queste parole a descrivere la peculiarità del rapporto che Gronchi, originario di Pontedera, instaurò con Livorno lungo l’arco del suo percorso biografico e politico. Per il Capo dello Stato la città aveva rappresentato in effetti il luogo degli affetti: qui risiedevano gli zii materni, i Giacomelli, che da ragazzo lo avevano accolto nella loro casa in piazza Magenta. «Ed allora – continuava significativamente Gronchi nel discorso del luglio 1955 – Livorno si è mescolata fin da quell’epoca alle vicende della mia adolescenza e della mia giovinezza ed è diventata una specie di città di adozione».

…E LABORATORIO POLITICO. Eppure nella storia politica di Gronchi, Livorno rappresentò anche una sorta di laboratorio in cui testare – anche in contrapposizione all’altro deputato Dc pontederese Giuseppe Togni con cui si contendeva la piazza – il suo metodo e le sue idee politiche in un contesto che nel dopoguerra presentò caratteri di eccezionalità. Nella sua visita ufficiale da Presidente della Repubblica, egli enucleò in poche pennellate il significato politico del suo rapporto con la città. «Finita la lunga parentesi fascista, – affermò Gronchi – […] io vidi Livorno così mutilata nei suoi organismi vitali, nelle sue fabbriche e nelle sue strade, e fu come se mi si presentasse un nuovo campo di esperienza umana e politica insieme legato alle sorti di questa città e fui condotto a darle collaborazione e assistenza […] e sentirla come una città intimamente vicina al mio spirito. Da questa è nata quella collaborazione che ebbe un nome in quel momento e in quel periodo che io amo ricordare, quello del sindaco Diaz che portò, con un concorde sforzo, a far non tutto, ma molto per la resurrezione di questa nostra città. Mi parve allora che si realizzasse quella provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali, che, quando, si manifesta così piena e senza riserve, non va a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica, ma del più vero ed effettivo bene comune».

GUERRA E PACE (FREDDA). Nel primo decennio postbellico a Livorno grazie soprattutto alle «reciproche aperture intellettuali» (come le definì il suo biografo Gianfranco Merli) tra Gronchi e il sindaco comunista moderato Furio Diaz (1944-1954), trovarono così terreno di coltura quelle “parallele convergenze” tra democristiani e comunisti che significarono anche un’anomala alleanza di governo Pci-Dc in consiglio comunale protrattasi fino al 1951, ben oltre la rottura a livello nazionale (per un’analisi di dettaglio si veda il contributo già pubblicato su ToscanaNovecento). Ma sotto la liscia superficie della «provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali» il quadro si delineava ben più complesso: la sintonia tra mondi politici distanti appariva anche come il frutto di precisi tatticismi politici e reciproche strumentalizzazioni e, soprattutto, veniva completamente a sfaldarsi in ambiti meno appariscenti nei quali, nel confronto tra le due mobilitazioni di massa, cattolici e comunisti si contendevano l’egemonia sulla società proponendo modelli radicalmente alternativi. Nei primi anni della guerra fredda la Livorno elettoralmente dominata dai comunisti e città simbolo del potere “rosso”, divenne così per Gronchi una partita da giocare su più tavoli, alternando diverse strategie d’azione.

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Giuseppe Togni, Giovanni Gronchi, Emilio Guano e don Roberto Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

SENZA RISERVE PER LIVORNO. Non ci sono dubbi sul fatto che Gronchi agì senza riserve per aiutare Livorno a risollevarsi dai disastri bellici. Negli anni in cui fu Ministro dell’Industria (1944-1946) e poi Presidente della Camera come deputato eletto nella circoscrizione in cui ricadeva Livorno (1948-1955), si possono elencare tutta una serie di suoi interventi risolutivi per lo sblocco di leggi e finanziamenti specifici per la città. Dalla sua azione in favore degli accordi tra il Comune di Livorno e l’Inail per la concessione di mutui per la costruzione di case popolari, alla pressione attuata sul governo per lo sblocco della legge per la ricostruzione del centro storico, fino alla soluzione del difficile finanziamento dell’opera pubblica più ambiziosa e onerosa affrontata negli anni Cinquanta dall’amministrazione livornese, l’acquedotto del Mortaiolo (circa 900 milioni ai valori del 1953).

INVASIONI DI CAMPO (A SINISTRA). Ma questi interventi lo videro agire spesso su Livorno in “amichevole concorrenza” con  Giuseppe Togni, dal quale si distingueva, com’è noto, per idee politiche affatto coincidenti. Al radicale anticomunismo di Togni, Gronchi contrapponeva una strategia mirante a erodere terreno ai comunisti sul loro stesso campo. Nel decennio postbellico il futuro Capo dello Stato probabilmente aveva visto proprio in Livorno anche un terreno ideale per sperimentare nel piccolo la sua proposta politica: la sua critica ponderata al centrismo degasperiano si fondava sul mito della democrazia sociale e mirava a battere gli avversari politici “a sinistra”, puntando sulle riforme strutturali capaci di eliminare alla base i motivi dell’opposizione social comunista. In questa strategia Gronchi ebbe su Livorno molti alleati, tra cui il più importante fu, senza dubbio, il sacerdote don Roberto Angeli (per un profilo si veda questo contributo) che dalle colonne del suo settimanale «Fides», fedele al suo passato cristiano-sociale, appoggiò con evidenza l’azione del politico democristiano. Non a caso era stato lo stesso sacerdote, insieme al presidente diocesano di Ac, Dino Lugetti, a scrivere un accorato appello a Vittorino Veronese, presidente della giunta nazionale, quando alla vigilia delle cruciali elezioni del 18 aprile 1948 sembrava che Gronchi non venisse inserito nella Circoscrizione elettorale livornese. «Pensiamo che l’assenza di Gronchi nella lista della nostra circoscrizione diminuisca il credito del partito e metta in pericolo molti simpatizzanti», avevano esternato con chiarezza don Angeli e Lugetti. «Occorre ricordare – aggiungevano – che la nostra zona è, per antica tradizione, repubblicana e progressista: un nome come Gronchi attira molte simpatie e consensi anche fuori dalle nostre file. Gli avversari, ne siamo certi, si avvantaggerebbero assai della cosa e griderebbero ai quattro venti che la “D.C. ha messo in pensione i suoi uomini più progressisti e si è sbandata a destra”».

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Il pulmann del Cla (archivio Centro Studi R. Angeli)

STRATEGIE ALTERNATIVE. Eppure l’azione politica di Gronchi per Livorno ebbe, come anticipato, anche altre facce molto meno evidenti e conosciute. Proprio grazie al «rapporto di fiducia e stima» che lo legava a don Angeli (per usare ancora parole di Gianfranco Merli), Gronchi elaborò una strategia che gli permise di appoggiare massicciamente le opere assistenziali cattoliche senza prestare troppo il fianco a polemiche ideologiche, riuscendo così ad erodere consenso sociale ai comunisti in un settore cruciale della battaglia politica. Nel settembre 1948 nacque infatti il Comitato Livornese Assistenza (Cla), un’associazione a carattere provinciale, presieduta da don Angeli e appoggiata da Gronchi – fin da subito – nel ruolo di «Alto Patrono». Crescendo a ritmo esponenziale, tra il 1948 e il 1955 il Cla  portò assistenza a più di 61mila persone in tutta la provincia costruendo asili, doposcuola, colonie estive e invernali, refettori per indigenti. Alla base della nascita del Cla, oltre all’urgenza evangelica di operare a favore dei più sofferenti, c’era anche l’idea di togliere ai comunisti il primato sulle opere d’assistenza alla popolazione e sull’educazione all’infanzia. L’accorgimento ideato da Gronchi e don Angeli fu quello di federare in un organismo unitario la Pontificia Commissione Assistenza, il Centro italiano femminile, l’Ac e le Acli, in modo – si legge in una relazione del 1961 – da consentire «una coordinazione perfetta nel lavoro» ed «eliminare doppioni e concorrenze» che altrove «avevano procurato un grave danno comune». Configurandosi come ente civile il Cla nasceva poi svincolato da «rapporti “giuridici” di dipendenza dalle Autorità ecclesiastiche», fattore che eliminava burocrazie di qualsiasi tipo e permetteva «di ricevere larghi aiuti finanziari, morali, ecc. dagli organi governativi». Come scriveva don Angeli nella citata relazione del 1961 il nuovo ente livornese ebbe così subito «l’appoggio delle Autorità governative» che videro in esso «il mezzo per togliere ai comunisti il primato che essi avevano nel campo assistenziale». Soprattutto, come veniva rilevato, era la «situazione locale che consigliava di non presentarsi al pubblico con una etichetta troppo prettamente ecclesiastica», per cui si mirò a dare al Cla un «aspetto ufficiale laico» per «penetrare in ambienti altrimenti refrattari».

LA BATTAGLIA DELLA CARITA’. I documenti conservati presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo, svelano il sistematico flusso di aiuti che Gronchi riuscì a far arrivare al Cla dal 1948 alla fine degli anni Cinquanta. Uno schema relativo al 1950 attesta, ad esempio, che in quell’anno l’allora presidente della Camera si adoperò perché al Cla giungesse dal Ministero dell’Interno un contributo straordinario di 27 milioni oltre ad una serie di aiuti in medicinali e razioni alimentari. Ecco perché don Angeli, in un appunto del 1955, poté scrivere che la formula federativa e i buoni uffici di Gronchi, come presidente della Camera prima e della Repubblica in seguito, consentirono in una delle province più “rosse” d’Italia, «di eliminare praticamente i comunisti dal campo assistenziale» e di convogliare verso le opere del Cla «quasi la totalità dei contributi statali per l’assistenza pubblica». In un ambito così strategico della mobilitazione politica per conquistare le masse, anche per il «progressista» Gronchi la ricercata «provvidenziale collaborazione» tra forze politiche contrapposte, veniva a rompersi in nome delle superiori esigenze della guerra fredda.

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno

Sono ormai passati 70 anni dal 25 aprile 1945: gli studi storici non hanno mai smesso di indagare le vicende della Resistenza e della società italiana in tempo di guerra, questioni fondamentali per la comprensione del nostro paese oggi. Ogni tempo pone domande differenti al passato, segno del cambiamento degli strumenti concettuali e delle sensibilità interpretative.

Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno, Ets, Pisa, 2015, pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), cerca di portare un contributo articolato e innovativo su temi poco frequentati dalla storiografia, partendo da alcune ricerche relative al territorio di Livorno. Il volume verrà presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istoreco il prossimo 21 luglio.

Lo spaesamento è la parola chiave che riunisce tutti i saggi, in primo luogo come disorientamento soggettivo, provato dalle persone a causa delle distruzioni e dei drastici cambiamenti imposti dalla guerra. Ma uno spaesamento vi fu anche in senso figurato: sia come alterazione oggettiva del paesaggio tradizionale che come negazione del concetto stesso di Paese, ormai in balia di forze militari straniere. In questa accezione Livorno rappresenta certamente un caso limite: nella seconda metà del 1943 la città venne completamente evacuata dai bombardamenti alleati e dall’esercito di occupazione nazista.

Spaesamenti_CopertinaTra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò infatti radicalmente il volto della città. Col suo porto e le sue grandi industrie, il capoluogo pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. La provincia fu così privata del capoluogo, la sua popolazione completamente rimescolata.

I saggi contenuti nel volume curati da quattro giovani storici (Stefano Gallo, Matteo Caponi, Enrico Acciai e Gianluca della Maggiore) e dal direttore Istoreco, Catia Sonetti, partono da questa riflessione per declinare domande differenti che toccano molteplici aspetti della società livornese nel corso della guerra. Il faticoso tentativo di organizzare una rete clandestina antifascista nel territorio provinciale (Gallo), la storia della deportazione di un nucleo di famiglie ebraiche rifugiate al Gabbro, nelle colline livornesi (Acciai), la ricostruzione delle giornate a ridosso del 25 luglio ’43 a Rosignano, piccola città-fabbrica della costa (Caponi), lo straordinario resoconto del vissuto quotidiano di Ivo Michelini, un internato militare in Germania (Sonetti), lo sfollamento del clero della diocesi di Livorno impegnato nella ricerca di salvezza fisica ma anche nel dare sostegno spirituale alle comunità (della Maggiore). Si tratta di lavori che pongono nuove domande alla nostra storia, proponendo altrettante piste di ricerca per la storia locale e non solo.

“A lungo – scrive Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea presso la Scuola Normale di Pisa, nell’introduzione al volume – gli studi storici sulla Resistenza nel nostro paese, a differenza di quanto al contempo accadeva in diverse storiografie europee, si sono concentrati sulla lotta armata condotta dalle bande partigiane. Negli ultimi due decenni si è però assistito ad un mutamento di indirizzo. Una crescente attenzione è stata rivolta ad indagare fenomeni che di volta in volta, a seconda degli autori, sono stati definiti con diverse categorie: “Resistenza civile”, “Resistenza passiva”, “Resistenza non armata”, “Resistenza non violenta” o più semplicemente e genericamente “lotta non armata nella Resistenza”. Un sintagma, quest’ultimo, utilizzato per sottolineare l’unità del processo resistenziale in tutte le sue dimensioni, con l’intento di evitare il ricorso a scelte linguistiche che potrebbero, anche involontariamente, introdurre elementi di divisione e di gerarchizzazione nelle varie forme dell’impegno contro la barbarie nazifascista”.

Michelini

Ivo Michelini da militare. Fonte: archivio privato famiglia Michelini.

“Senza dubbio – continua Menozzi – un contributo a questi nuovi orientamenti è venuto dal diffondersi della consapevolezza, maturata sulla base della considerazione delle tragedie che hanno percorso il Novecento, che la pratica della violenza bellica ha comportato, per il livello degli strumenti di distruzione messi in campo, drammi, orrori, distruzioni terribili. In questa chiave si è profilata la tendenza a valorizzare sul piano storico i comportamenti di coloro i quali, individualmente e collettivamente, hanno deciso di manifestare la loro intenzione di opporsi all’aggressione e all’oppressione senza ricorrere all’uso delle armi. Ovviamente la pratica di questa linea storiografica non voleva dire sminuire il significato della scelta compiuta da quanti, offrendo una testimonianza alta della loro disponibilità al sacrificio, avevano in coscienza ritenuto che non vi era altra strada per sottrarsi agli ordini delle dittature che intraprendere la lotta armata. Si trattava soltanto di indagare in maniera più estesa e diffusa la varietà di forme che aveva assunto la Resistenza per restituire, con un evidente intento pedagogico nei confronti di un presente in cui minacce di guerra si facevano di nuovo incombenti, le modalità con cui si era ritenuto di poter reagire alla violenza senza cedere ai suoi stessi metodi”.

“Il volume collettaneo che l’Istoreco ha deciso di pubblicare in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione – conclude lo storico della Normale – si inserisce perfettamente in questo nuovo filone di studi sulla Resistenza, fornendo una serie di originali apporti conoscitivi su diverse manifestazioni dell’opposizione al nazifascismo che si sono verificate nella provincia di Livorno. […] Proprio saggi come quelli qui raccolti evidenziano che le fonti disponibili possono aprire una nuova stagione di ricerche che, private delle connotazioni politico-ideologiche a lungo coltivate dalla storiografia resistenziale, assumono un particolare rilievo per il nostro presente. Mostrano infatti che la democrazia italiana non è stata costruita soltanto sulle armi degli alleati e dei partigiani, ma anche sulla base di un passaggio di larghi strati popolari dal consenso al rifiuto del totalitarismo. Un atteggiamento che si è poi declinato nella storia repubblicana, a partire dal processo costituzionale, in forme politiche diverse e molteplici, ma di cui – anche per evitare pericolosi sbandamenti che le odierne propagande politiche non ci risparmiano – gli studi storici sono chiamati a tener ben viva la memoria”.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.