Lasciare l’Italia fascista, per un mondo migliore

L’emigrazione intellettuale dall’Italia durante gli anni del governo fascista è un fenomeno ancora poco conosciuto. Nel tracciare la parabola della persecuzione degli ebrei, l’attenzione degli storici è stata indirizzata maggiormente verso i risvolti più drammatici, come la deportazione, mettendo in secondo piano le vicende di quelli che furono costretti a lasciare l’Italia prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale.

La fascistizzazione nelle istituzioni pubbliche spinse alcuni ‘indesiderabili’, ebrei e non – come il ben noto Gaetano Salvemini –, a partire prima che le leggi razziali emanate nel 1938 estromettessero dagli incarichi scolastici e universitari tutti gli studenti, studiosi, ricercatori e professori censiti come ebrei che si ritrovarono senza lavoro e senza possibilità di future assunzioni in Italia.
Le perdite per la cultura italiana furono significative e spesso irreparabili anche perché molti non ritornarono in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a volte per volontà stessa dei protagonisti o dei loro figli di restare all’estero, più spesso per gli ostacoli frapposti specialmente dalle università italiane che preferivano mantenere gli organici già formati con chi aveva preso il posto degli espulsi. Venne così sprecata l’opportunità di recuperare risorse con un bagaglio culturale arricchito da esperienze in altri paesi dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza, per il progredire delle quali è necessaria un’apertura mentale che solo la circolazione delle idee permette. Una fuga di cervelli paragonabile per certi versi a quella che attualmente caratterizza la vita culturale italiana, soprattutto nei casi in cui la scelta di partire precedette il 1943 e non fu quindi propriamente obbligata.

Analizzando e collegando tra loro queste vicende, il progetto di ricerca Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali ha lo scopo di rendere più completo il quadro di un fenomeno relativamente ignorato anche perché sottostimato numericamente. Gli elenchi degli espulsi dalle università nel 1938, che solo dal 1997 sono stati ricostruiti non definitivamente, non rendono conto delle perdite effettive nella cultura italiana, che non si limitano agli allontanamenti ufficiali o al solo anno 1938: i liberi docenti non furono ufficialmente espulsi, ma dichiarati “decaduti” dal titolo, mentre al personale universitario non strutturato semplicemente non fu rinnovato il contratto. Si devono includere inoltre gli studenti e i neolaureati a cui di fatto fu preclusa qualsiasi carriera, così come i neodiplomati che non potevano immatricolarsi all’università. È su questa complessità, quantitativamente meno definita ma più realistica rispetto al contesto dell’epoca, che si basa il lavoro di censimento e di ricostruzione storica diretto dalla Professoressa Patrizia Guarnieri, promosso dall’Università di Firenze, finanziato dalla Regione Toscana e patrocinato dalla New York Public Library, dal Council for At-Risk Academics di Londra, dal J. Calandra Italian American Institute e dal Central Archives for the History of Jewish People di Gerusalemme. I profili biografici estrapolati dalla ricerca hanno reso necessaria l’analisi di numerose fonti di diversa natura, come gli archivi delle organizzazioni internazionali di aiuto, quelli delle istituzioni e dei luoghi dove approdarono i fuoriusciti, le loro eventuali memorie e corrispondenze; o ancora le testimonianze degli eredi, fonti preziose ma da verificare con cautela perché a volte discordanti dai documenti ufficiali.

Il focus della ricerca sugli intellettuali ha rivelato un campione eterogeno di profili. Le storie raccontano di donne e uomini, tra cui alcuni scienziati famosi come Rita Levi Montalcini o il fisico Bruno Rossi, che partivano da condizioni molto diverse e che dovettero affrontare difficoltà di varia natura legate all’età, al genere, alla situazione familiare, alla disciplina o alla professione praticata, alla conoscenza di altre lingue, alla rete di contatti personali. Difficoltà e disagi in genere sottaciuti, anche dagli stessi protagonisti a distanza di tempo, ma che emergono dalle lettere di allora, dai diari e dalle richieste di aiuto: l’angoscia della lontananza dai propri cari, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare e di cercare lavoro altrove, gli stereotipi che colpivano sia gli italiani che gli ebrei, discriminati dalle stesse comunità degli emigrati italiani soprattutto se antifascisti. Chi si recò in Francia o in altri paesi vicini dovette poi scappare altrove a causa dell’occupazione nazista. Alcuni andarono in paesi con situazioni politiche e militari di cui rimasero vittime, come Anna Di Gioacchino Cassuto e Enzo Bonaventura in Palestina o Aldo Mieli in Argentina. Chi rimase in Italia fu costretto a nascondersi o a tentare la fuga in Svizzera nel 1943. Se gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra, o ai comitati di aiuto per i rifugiati creati da varie associazioni scientifiche e professionali americane, in molti casi contarono altre conoscenze: quelle antifasciste o quelle del sionismo, entrambe reti internazionali; o ancora i contatti di tipo professionale, gli amici e i parenti, proprio come nell’emigrazione comune.

Il perno principale del progetto dal punto di vista divulgativo è costituito dal sito internet ad accesso gratuito http://intellettualinfuga.fupress.com, presente anche in lingua inglese al link http://intellettualinfuga.fupress.com/en.
Il portale è costituito da pagine introduttive agli argomenti indicati nel sommario: una sezione, per esempio, è dedicata alle norme discriminatorie e persecutorie del regime fascista nonché al lungo percorso riparatorio avviato nel dopoguerra nei confronti di quanti erano stati colpiti dalle precedenti disposizioni. Al centro, un elenco alfabetico di intellettuali in fuga, donne e uomini, che è stato finora possibile identificare e che viene via via aggiornato. Ad oggi sono circa 380 nomi, http://intellettualinfuga.fupress.com/schede/indice/6: tutti in qualche modo legati alla Toscana. Per ogni nome viene costruita una scheda in cui è possibile leggere o scaricare il pdf dell’articolo che narra non una biografia generale ma la storia personale, spesso avventurosa e travagliata, dell’esperienza di espatrio; sono poi presenti degli approfondimenti sintetici sui i familiari emigrati, la rete di contatti che favorì l’emigrazione, la ricerca del lavoro, una mappa della mobilità, una linea temporale che segnala i vari spostamenti e una galleria di fotografie, per lo più offerte dai parenti proprio per questa ricerca. Oltre a essere utile per lezioni e ricerche scolastiche e universitarie, le storie di vita riportate sono rivolte ad un pubblico non specialista.
La presenza in rete offre una maggiore visibilità che favorisce a sua volta la crescita del progetto stesso, che è in progress e aperto sempre a nuove acquisizioni: chiunque abbia informazioni utili può contribuire con documenti, foto e testimonianze contattando patrizia.guarnieri@unifi.it.




Il “crudele morbo” dell’autunno 1918.

L’influenza spagnola del 1918-19, tornata d’attualità a causa del Covid-19, non risparmiò la Toscana. Nella regione, come nel resto del Paese, il momento di maggior difficoltà fu vissuto nell’autunno 1918, con la seconda ondata. Tuttavia, la pandemia seminò morte in un clima di silenzi e false notizie. Il governo impose una “propaganda tranquillante” volta a minimizzare l’emergenza, con il contributo della stampa, della politica interventista e dei comitati patriottici, censurando quanti non si fossero allineati. Tuttavia, lo sfoglio della stampa coeva rivela che la pandemia era un elemento onnipresente: lunghe colonne di necrologi dove figuravano giovani (i più colpiti dal virus) uccisi da “crudele morbo” (nome dietro cui si celava l’influenza), articoli che ridimensionavano la crisi sanitaria, pubblicità di prodotti antinfluenzali (come il Lindol, antisettico il cui «uso preserva dalla Febbre di Spagna») e, occasionalmente, trafiletti sulla grave situazione. Allo stesso modo, le testimonianze popolari offrono importanti informazioni sull’incedere del virus. Il soldato Lorenzo Meleddu, di stanza a Pisa, scrisse al fratello una lettera per descrivergli le processioni funebri che andavano e venivano dai cimiteri «come la formica», perché «qui ne muore anche cinquanta tre e quattro a famiglia e per questo dico io peggio di stare in zona di guerra». L’angoscioso racconto contrastava con la narrazione pubblica delle autorità sanitarie pisane, che alla fine di settembre annunciarono che l’influenza era «stata subito debellata» ed era «in grande decrescenza».

La politica censoria mirava a tutelare lo spirito pubblico e a occultare le mancanze assistenziali dello Stato, tra le cause principali del disastro sanitario. In Toscana, come altrove, gli abitanti, soprattutto delle aree periferiche, patirono la carenza di medici e infermieri, in gran parte mobilitati. Il Ministero della Guerra fu parco, nonostante gli appelli: l’ispettore sanitario fiorentino richiese con urgenza farmaci e personale, ma venne solo parzialmente soddisfatto. Alcuni medici privati e locali benefattori offrirono i propri servigi e risorse: la ex first lady Rose Elisabeth Cleveland finanziò l’ospedale di Bagni di Lucca, dove perì confortando i malati. Tuttavia, il concorso privato non poteva risolvere le deficienze dello Stato.

Il governo demandò molte incombenze alle autorità locali, il cui spazio di manovra fu assai limitato (le quotidiane mancanze furono aggravate dalla congettura bellica e dalla presenza dei profughi), soprattutto se non coadiuvate dai comitati di preparazione civile. Le amministrazioni ritardarono a novembre-dicembre l’apertura delle scuole, chiusero cinema e teatri, organizzarono massicce disinfezioni dei luoghi pubblici. Il prefetto di Firenze tentò di ridurre gli accessi sui treni, ma il provvedimento era inattuabile in tratte affollate, come la Firenze-Pistoia, difettando di materiale rotabile (risorse assorbite dall’esercito). Misure profilattiche non furono imposte alla attività industriali e produttive. Inoltre, l’eccesso di mortalità aggravò le difficoltà di pulizia mortuaria. Per la mancanza di materiali e di necrofori, nelle aree rurali seppellire i deceduti senza cassa e avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato divenne la prassi.

La questione più delicata riguardò la gestione annonaria. Gli assembramenti fuori dagli spacci alimentari agevolavano il contagio, ma non si imposero limitazioni per non turbare i ceti popolari, timorosi di rimanere senza viveri. I modesti sforzi dei municipi, tra cui Firenze, Pistoia e Sesto fiorentino, per regolare la distribuzione, sollevarono critiche. «L’Avanti» attaccò l’autorità fiorentina che «si preoccupa di evitare la frequenza di agglomeramento nei teatri e non agisce […]  onde far cessare il continuo e veramente pericoloso agglomeramento di centinaia e centinaia di persone, per la massima parte donne e bambine, pigiate all’ingresso degli spacci di generi alimentari». All’ansia della popolazione contribuì la contrazione dei rifornimenti e l’aumento dei prezzi, causati dell’impatto della spagnola sui cicli produttivi. Nel Mugello, i lavori agricoli patirono estese interruzioni: «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro».

Tutti questi aspetti incisero sulle mentalità e sui comportamenti, come prova il generalizzato smarrimento della popolazione toscana. Si registrarono avvelenamenti per l’ingerimento di disinfettanti, nel tentativo disperato di curarsi. Avvennero suicidi di persone soverchiate dalla paura, come la donna che, nel Mugello, si gettò in un fiume con la figlia una volta contratto il virus. Al pari della guerra, il “cataclisma pandemico” favorì la domanda “dal basso” di funzioni religiose propiziatrici: a Campi Bisenzio il SS. Crocifisso della pieve di S. Stefano, venerato nelle calamità, fu esposto nel novembre 1918 per ottenere la cessazione del morbo.

La seconda ondata si attenuò nel dicembre 1918. Il demografo Giorgio Mortara stimò 30.000 vittime (490-600.000 in Italia, 50-100 mln nel mondo). Le zone più colpite furono le aree urbane di provincia. La malattia continuò a colpire la regione, con aggressive recrudescenze (nel febbraio 1920, vi furono oltre 2.200 vittime).

La pandemia aggravò i lutti di una popolazione già flagellata dall’altro cataclisma, la guerra mondiale. Eppure, la spagnola è ricordata nelle memorie familiari, mentre in ambito pubblico ha lasciato flebili tracce. In Toscana, si è individuata una sola lapide, a Borgo San Lorenzo, in ricordo dei combattenti del locale distaccamento morti «per fiero morbo […] nell’anno della vittoria». Poco: forse, al pari di altre nazioni, potrebbe essere il momento di erigere una testimonianza concreta e durevole alla memoria delle vittime della pandemia novecentesca.

 

Mortalità per spagnola nei capoluoghi di provincia toscani (attuali) nel 1918.

 

Morti imputabili alla pandemia nel 1918 Morti imputabili alla pandemia ogni 1.000 abitanti
Arezzo 524 10
Firenze 2.761 10,4
Grosseto 307 18,7
Livorno 1.071 9,4
Lucca 630 7,4
Massa 452 13,2
Pisa 754 10,8
Pistoia 957 12,7
Prato 483 8,3
Siena 323 7,1
 Francesco Cutolo è dottorando in Storia alla Scuola Normale di Pisa. Si è laureato all’Università di Firenze nel 2016 con un lavoro sull’influenza spagnola. E’ membro del consiglio direttivo dell’Isrpt e della redazione della rivista “Farestoria”. Ha pubblicato nel 2020 “L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (Isrpt). 



Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Il solstizio delle stragi. Bucine, Giugno 1944.

San Pancrazio
“Si vide per l’ultima volta il babbo che ci guardò in silenzio…”. Quanti strati di ricordo si snodano pensando a eventi tragici che hanno lasciato tracce profonde, insieme a veloci dimenticanze. Quella frase è parte della testimonianza di Romano Moretti, nato nel 1932, che all’epoca aveva 12 anni e che con la mamma cercava di andare via da San Pancrazio, per raggiungere case solidali nella campagna aperta. Il babbo di Romano di lì a poco sarebbe stato trucidato con un colpo di pistola alla nuca. Si chiamava Renato Moretti, 33 anni, di professione operaio. Era il 29 giugno del 1944. Un giorno indimenticabile per chi visse le stragi di Civitella e di San Pancrazio nei due comuni di Bucine e di Civitella della Chiana. E anche per me che feci in quei luoghi, nel 1944, a 50 anni dalla strage, una ricerca sul campo e dove conobbi i portatori del ricordo, i testimoni di quelle giornate di fuoco e di sangue. Mi resi conto allora che il 29 giugno del 1944 io avevo due anni e vivevo altrove, sfollato con la famiglia in un paese della Sardegna centrale. Questi pochi dati mi hanno fatto sentire in colpa per il privilegio di essere così lontano ma, allo stesso tempo, anche così vicino perché i giorni di quelle stragi sono anche i giorni del mio compleanno che cade il 27 e del mio onomastico che cade il 29.

La testimonianza di Romano Moretti su suo padre è a pagina 236 del suo libro Il giorno di San Pietro. L’eccidio di San Pancrazio (le memorie e la storia). Il bambino dodicenne, divenuto orfano, segnato per sempre dalla strage, si è fatto storico ed ha dedicato la sua vita, tra maturità e pensione, a raccogliere testimonianze e documenti. Il libro ha come esergo: A mio padre e ai suoi compagni. Sul libro che io posseggo è scritto a mano: Al Prof. Pietro Clemente con la mia stima Romano Moretti. Il libro è uscito nel 2005 e lui me lo donò in occasione di un incontro a San Pancrazio per una iniziativa di Porto Franco e dell’Istituto Ernesto De Martino. In quella occasione fummo ospitati proprio nel palazzo dove la strage era avvenuta. Dove ora c’è un museo. Essere in quello spazio mi toccò molto. Gli spazi, secondo me, restano abitati dai ricordi anche se per lo più si fa come se non fossero altro che muri. Penso ora anche a quegli ospedali psichiatrici dove non è rimasta traccia di memoria delle vite consumate al loro interno.

Incontrai una prima volta Romano Moretti tra Civitella e San Pancrazio per la nostra ricerca del 1994. La ricerca era diretta dallo storico Leonardo Paggi e comprendeva un ampio gruppo di studenti e laureati antropologi di Arezzo (docente Carla Bianco), di Roma (docente Pietro Clemente) e un piccolo gruppo di Siena dove avevo insegnato fino al 1990. La ricerca storica era fortemente rappresentata dal coordinatore Leonardo Paggi e da Giovanni Contini, storico orale, responsabile del settore fonti orali nella Soprintendenza archivistica per la Toscana. Giovanni fu il primo a pubblicare un’opera d’insieme che ebbe grande rilievo e aprì forti discussioni sul tema che era anche il titolo del suo libro La memoria divisa. Per quanto riguarda la ricerca antropologica, insieme ai miei allievi dell’Università di Roma, venne prodotto un dossier rimasto purtroppo inedito. Il ricordo di Civitella fece, in un certo senso, ombra alla strage di San Pancrazio, e fu Civitella ad essere al centro del grande convegno internazionale In Memory al quale anche io avevo lavorato. Il titolo del mio intervento al convegno era Ritorno dall’apocalisse. Un testo molto ‘emozionato’ scaturito dall’esperienza fatta nella raccolta di testimonianze e nell’esperienza di incontro con i sopravvissuti. Un testo che oggi paragono con la fase di uscita dal lockdown dopo la pandemia. In un certo senso oggi è come se fossimo usciti dall’incubo di una strage insensata, che ha colpito esseri umani quasi a caso. Rappresentata dalla visione di camion militari che portano bare anonime per essere cremate. Non per caso, quando ho letto che la pandemia aveva colpito una RSA di Bucine, ho pensato alle stragi. Ma ho anche pensato a quanto è prezioso trasmettere la memoria, e a quanto abbiamo perso della memoria degli anziani nelle stragi delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane.

Di recente Gad Lerner e Laura Gnocchi, con il volume Noi partigiani. Memoriale della resistenza italiana (Feltrinelli 2020) hanno reso evidente la forza di trasmissione e di formazione propria della memoria degli anziani. Anche quando una singola memoria si è logorata e schematizzata, la polifonia è sempre straordinariamente efficace ed ha un forte valore conoscitivo che passa per la narrazione. È un modo diverso di produrre storia. Tutti i 50 testimoni del volume di Lerner e Gnocchi hanno quasi un secolo, età assai gradita al coronavirus, ma ancora ci insegnano, anche per la straordinaria disparità di storie, che la narrazione dell’esperienza è forse l’aspetto più capace di comunicare e dar senso alla pluralità delle resistenze in Italia.

Una storia civile
Di recente ho letto, con grande dispiacere, nella pagina web del Comune di Bucine della morte di Romano Moretti.
“Bucine 11 marzo 2019, è morto nei giorni scorsi Romano Moretti, lo storico che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle stragi… aveva appena terminato il libro sulle stragi di Cornia e di Civitella, libro che uscirà postumo a cura delle amministrazioni comunali di Bucine e di Civitella. I funerali si sono svolti a San Pancrazio alla presenza dei due sindaci che “hanno ricordato entrambi l’opera di Moretti, come testimonianza di una memoria storica che non può essere cancellata ma va tramandata alle generazioni future”.

Una vita per la memoria. Ma anche una paziente presenza nella comunità, dove Moretti tornava da Firenze a fine settimana o d’estate. Discutemmo a lungo con lui dei problemi della memoria antipartigiana che emergevano soprattutto a Civitella. A noi non fu facile mediare le idee generali sulla Resistenza con le scelte di memoria e di lutto che la comunità di Civitella aveva fatto. Ma l’incontro, l’affratellamento, l’accoglienza delle loro memorie, la comprensione furono le esperienze più importanti del nostro stage, e ci condussero alla condivisone del lutto e della storia di quella comunità. Così potemmo capire il loro disagio, il modo di orientare il loro cordoglio nella critica dei partigiani, mentre non si metteva mai in discussione la Resistenza in quanto tale.

Moretti aveva una idea della storia come completezza dei dati e il suo sforzo fu quello di restituire la voce a tutti i protagonisti, e nel libro su San Pancrazio ha raccolto 139 voci di testimoni. Lo ha fatto con pazienza, tenacia e riserbo, tanto che è solo nel suo libro che io ho conosciuto Moretti bambino che, con la mamma, si allontanava dai luoghi della strage poco prima che suo padre fosse assassinato.

In quegli anni avevo teorizzato che tutti i comuni aprissero uno sportello nell’ambito dei servizi alla persona, dedicato all’ascolto e alla registrazione dei racconti delle persone. Lo avevo chiamato ‘la-storia-a-memoria’. Era l’idea di una connessione profonda tra storia della vita quotidiana delle persone e senso della civitas sia locale che planetaria. Una storia civile. Come quelle che ha prodotto Moretti. Mi sono incontrato spesso con gli studiosi locali, qualche volta sono stato critico verso un sapere prodotto per lo più da passione o con metodi non aggiornati, ma la gran parte delle volte ho imparato da loro. Così è stato con Moretti. Uno degli strati della memoria di cui dicevo all’inizio: ricordare Moretti come caso esemplare di storia civica locale, ricordare che Moretti ricordò la memoria delle stragi più atroci dell’aretino. Ricordare i ricordi, ricordarsi di ricordare.

La Fattoria del Pierangeli
Il Comune di Bucine ha 13 frazioni, quella di San Pancrazio (m.511 s.l.m.) oggi ha 177 abitanti. Lo spazio della comunità è descritto dettagliatamente da tutte le fonti orali sulle stragi: un borgo immerso nella campagna, che aveva al centro la Fattoria del Pierangeli, centro anche di vita economica del sistema di mezzadria, bracciantato e piccola proprietà contadina. Per le vicende della guerra e della Resistenza il Comune di Bucine è medaglia d’oro al valore civile:

“Strenuamente impegnato nella lotta di liberazione, sopportava stoicamente, con il sacrificio di tutti i cittadini, crudeli rappresaglie del nemico invasore; offriva alla causa della Patria la vita di molti suoi figli migliori, mantenendo intatta la fede nei supremi valori di libertà”.

Apro il volumetto, stampato a ciclostile, dai miei alunni romani nel 1994. Erano sette giovani, di cui sei donne che lavorarono su San Pancrazio. Altri studenti invece lavorarono su Civitella. Di quasi tutti ho traccia e memoria. La neolaureata che coordinò il gruppo San Pancrazio era Emanuela Rossi che ora insegna Antropologia culturale all’Università di Firenze.

Ecco un altro nodo della memoria: memoria della ricerca, dell’Università, delle vite e delle storie dei ‘miei’ studenti, che ho spesso ritrovato su Facebook, cercando di sentirli ancora parte di una comunità di studi che era anche incontro umano. Organizzarono per temi le loro ‘fonti orali’: L’evento, Vita nei borri, Giudizi sui partigiani, Il tempo successivo, La commemorazione, Come si viveva allora.

Moretti nel suo libro ha organizzato i fatti per ‘soggetti’ e ‘sequenze’. Noi cercavamo memorie ampie, rappresentazioni e racconti. Discutemmo a lungo sulla gente che viveva nei borri, negli spazi nascosti ricavati nel bosco, con scavi e capanne, dove piovevano obici alleati e proiettili della difesa tedesca. Nei borri erano le donne a gestire la comunità provvisoria, dominata dalla paura e dalla fame. Discutemmo allora del ‘tedesco buono’ che compariva in vari racconti e che è poi diventato quasi una delle ‘figure’ della narrazione della guerra vista dalle popolazioni. Un punto di incontro tra il dato di fatto che diversi tedeschi sul fronte non condividevano la guerra e avevano impulsi umani opposti agli ordini dei loro capi, ma anche il desiderio di lasciare speranza sulla umanità delle persone anche nelle situazioni più terribili. Fecero una buona ricerca i miei allievi. Riguardo i cognomi di coloro che intervistarono. Sono gli stessi (un po’ di meno) delle testimonianze raccolte da Moretti. Ma sono soprattutto cognomi che ripetono la dolorosa lista dei morti: 56 tutti maschi a San Pancrazio secondo Moretti. In gran parte contadini proprietari, in minor misura mezzadri. Sono 67, tutti maschi (perché comprendono anche luoghi vicini) i morti nella “List of the people killed at San Pancrazio” fatta dagli inglesi in una rapida ed efficace istruttoria dei fatti. Questa ultima fonte arrivò fresca fresca dalla ricerca negli archivi del Regno Unito proprio nel 1994. I nomi hanno come centro simbolico il sacerdote Don Giuseppe Torelli, che si offrì al posto degli altri, ma che ottenne soltanto di essere ucciso per primo.

“At San Pancrazio seventy men were rounded up and herded into a room of the Fattoria. Between this room and a second room was a narrow passage. One by one the men were taken from one room to the other, questioned as to their knowledge of Partisans, and those failing to give information were shot dead in the second room by pistol fire. All except seven were shot”.

Il rapporto firmato dal capitano N.E. Middleton ricostruisce anche i nomi dei comandanti responsabili di quella operazione pianificata e coordinata che colpì tanti piccoli centri e i due poli di Civitella centro e di San Pancrazio. Erano tutti appartenenti alle Herman Goering Divisionen.

Le testimonianze raccolte dagli inglesi sono state le memorie di fondazione che furono poi all’origine di quelle che raccogliemmo noi e di quelle che raccolse Moretti. A distanza di 50 anni, trovammo testi molto simili.

È una esperienza intensa il trovarmi ancora, a pochi giorni da un nuovo 29 giugno, che segna anche i miei 78 anni, tra le carte dell’esercito inglese, le voci raccolte dai miei alunni, e la voce di Romano Moretti con il suo piccolo monumento alla memoria e alla storia civile. Rileggo le testimonianze dei miei alunni e sento che sono proprio diventate racconti. Quante volte saranno stati ripetuti, ai nipoti, agli estranei, dopo la prima lunga fase del dolore chiuso e tacito. Hanno assunto il ritmo delle leggende e delle fiabe. Fatti narrabili. Sono diventate tradizione, ma è, facendosi tradizione, che il racconto accede alla trasmissione, e così alle nuove generazioni. Sono le domande meno legate ai singoli avvenimenti a produrre risposte più aperte: com’era la vita, come si mangiava, dove si trovava il cibo, soprattutto i racconti vivacissimi della vita nei ‘borri’ o ‘borrate’ sotto capanne (i ‘capanni’), trincee scavate, nascondigli per cibi e persone. Il paese dei sopravvissuti alla strage era sfollato lì, a pochi chilometri, avendo avuto anche le case incendiate dai tedeschi. Raccontano le contese per il cibo, gli egoismi, le solidarietà. Diamo l’ultima parola a Maria Assunta B., una testimone nata in loco nel 1914 (le temporalità delle generazioni si distendono e si intrecciano: questa testimone aveva 30 anni quando Moretti ne aveva 12 e io ne avevo 2).

Ha raccontato:

“C’erano tanti campi allora c’era tanta roba c’erano patate c’erano fagioli. Noi s’andava pe’ campi a prendelli. Pe’ fare il pane s’era fatto una bella buca nel bosco poi una lastra grande così. Ci si faceva fuoco dentro co’ la legna. Si faceva bollire questa lastra e poi si faceva pe’ quando si fa la farinata. Poi si metteva questo lastrone e veniva un po’ di pagnotta. E si campava, si mangiava fagioli patate, un pochino di pane per uno. Ma si era egoisti sa? Si si perché s’aveva tutti paura di morì di fame, qualcuno avea qualcosina un po’ di prosciutto un po’ di salame. Io non l‘avevo. Avevano un po’ di roba un po’ di ova”.

san pancrazio museo




CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.




Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




San Francesco “made in Pistoia”

Chi volesse conoscere la storia di San Francesco d’Assisi attraverso dei film non ha che l’imbarazzo della scelta: “Francesco giullare di Dio” di Rossellini e “Fratello Sole, sorella Luna” di Zeffirelli sono sicuramente fra i più famosi. L’ultima trasposizione cinematografica risale al 2016, si intitola “Il sogno di Francesco” ed ha come protagonista il giovane Elio Germano.

Pochi sanno che ancora prima prima che il celebre regista pistoiese Bolognini calcasse le scene, provò a raccontare la vita del santo in un film muto anche il suo concittadino Mario Corsi.

Questi, che in gioventù era stato anche autore di alcune raccolte di poesie, una volta tornato parzialmente invalido dalla prima guerra mondiale, era stato attirato dalla nascente industria cinematografica. Come lo stesso Corsi ricordava: “…Anch’io mi sentii attratto, come parecchi altri scrittori e giornalisti dal cinematografo e per due anni scrissi scenari su scenari, alcuni dei quali ebbero una certa fortuna“.

Sull’onda dei primi successi il giovane pistoiese venne chiamato dal commediografo Ugo Folena e dall’avvocato e critico musicale Eugenio Sacerdoti per realizzare un film sul santo d’Assisi che, era chiaro sin dall’inizio, per ottenere il bene placet della Chiesa doveva essere “storicamente e religiosamente inattaccabile“.

Felice per la proposta Corsi si mise immediatamente al lavoro consultando in poche settimane l’intera bibliografia francescana ed in modo particolare i Fioretti e gli scritti di frà Leone e frà Celoro. Comprese subito che le difficoltà incontrate sarebbero state enormi. Anni dopo Corsi sosteneva infatti che: “Solo allora compresi a quale impresa ardita e pericolosa m’ero impegnato e mi tornarono allora in mente le parole dette qualche anno prima da Ferdinando Martini, in una conferenza, a proposito della Francesca da Rimini di D’Annunzio: “A cercare di elevarsi fino a così alte figurazioni, come quella cantata nel sommo Poeta, c’è da correre il rischio di ruzzolare molto in basso“.

Superata la paura iniziale il giovane cineasta si diede da fare per illustrare la vita del Santo attraverso alcuni episodi storici (Il bacio del lebbroso, Sulle orme del poverello d’Assisi, Il tempo, Le stigmate) capaci di rappresentare anche il suo progressivo distacco dalle cose del mondo.

Gli interpreti principali del film furono individuati nell’attore drammatico Uberto Palmarini (san Francesco), Silvia Malinverni (Chiara degli Scifi), Rina Calabria, nel ruolo di sua sorella Agnese, la ballerina Lucienne Myosa, nella parte di una cortigiana che si pente, Bruno Emanuel Palmi, in quella di Frate Elia. Accanto agli attori professionisti apparvero nel film come comparse dei frati francescani. Le riprese furono effettuate fra Assisi, Gubbio, Perugia e il lago Trasimeno.

Per almeno un mese“, raccontava lo stesso regista, “Assisi e Gubbio offrirono il più bizzarro degli spettacoli, tra la viva e chiassosa curiosità degli abitanti e ancor più dei forestieri, che si stropicciavano sbalorditi gli occhi nel veder passare per le strade e le piazze ed entrare ed uscire dai templi inaspettati personaggi in costumi pittoreschi del 1200, e suore e fraticelli al braccio di soldatacci di ventura…”. I “veri” francescani e le suore di santa Chiara aiutarono la troupe fornendo anche alcuni paramenti sacri per le riprese. Le suore di clausura, visto che faceva molto caldo, fecero distribuire agli attori delle bevande fresche e dei biscotti.

Una volta ultimata l’opera fu presentata il 7 giugno 1918 in prima visione all’Augusteo di Roma come “restituzione francescana in quattro canti di M. Corsi con poema sacro per orchestra e cori (dal vivo nda) di Luigi Mancinelli“. L’elemento caratteristico della realizzazione fu senza dubbio il ruolo giocato dalla musica. Per la prima volta questa entrava in un film come elemento integrativo. Mentre nel primo grande film religioso realizzato in Italia, “Christus”, la musica si era aggiunta alla parte cinematografica, accompagnandola come un commento, nel Frate Sole divenne parte essenziale dello spettacolo. Il film, scrisse in un lungo articolo il critico Gasco, “segna indubbiamente una data nell’evoluzione del poema musicale cinematografico, al quale arriderà forse un avvenire mirifico“.

La proiezione fu un vero e proprio evento ed ebbe come spettatori Principi di casa Savoia, ministri del Regno, prelati della Santa Sede, intellettuali. Il regista annotava con fierezza: “Ricordo che dopo la proiezione i Cardinali e gli altri eminenti Monsignori vollero esprimere il loro vivo compiacimento al maestro Mancinelli, a Ugo Falena e a me, e dissero che dal cinematografo la Chiesa poteva aspettarsi, come l’Arte, grandi nobilissime cose”.

A coronare il successo di Frate Sole arrivò poco dopo il riconoscimento ufficiale del Vaticano, con una rappresentazione del film nell’aula magna del Palazzo della Cancelleria, davanti ad una decina di Cardinali e a molti Arcivescovi, Prelati e dignitari della Corte pontificia.

Il successo del film e della musica furono, anche al di fuori dell’ambito religioso, grandissimi. La stampa italiana, che ancora non si occupava di film se non come pubblicità a pagamento, fece uno strappo alla regola e dedicò a Frate Sole colonne intere, firmate dai maggiori critici.

In “La Cine-Gazetta” del maggio 1918 così si scriveva dell’opera: “La Tespi-film, la giovane e celebrata casa romana, e per essa Eugenio Sacerdoti (…), mettendo in scena ‘Frate Sole’, grandiosa vicenda francescana, non soltanto ha inteso di portare il suo prezioso contributo alla propaganda degli studi francescani che tanto interessano l’intellettualità internazionale, ma ha voluto dimostrare a quali altezze possa assurgere la cinematografia considerata espressione di arte (…). Ispirandosi a questi concetti di assoluta nobiltà, (…) Mario Corsi, ideando e tratteggiando il suo scenario, ha compiuto un vero e proprio poema drammatico. Infatti, se ‘Frate Sole’, per le sue linee generali, semplici e gradiose, per obiettiva e serena ricostruzione della figura del ‘poverello d’Assisi’, per la rievocazione dei momenti più salienti della sua vita, per aver saputo quei momenti inquadrare con occhio accorto e vivace nell’ambiente tumultuoso del Duecento, vivifica una schietta e suggestiva restituzione francescana, s’eleva a vera dignità di poesia per aver saputo costringere, nel relativo breve spazio di tempo di uno spettacolo, senza diminuirlo, anzi rendendolo chiaro e tangibile, il senso divino dell’idea francescana (..)” .

Frate Sole a distanza di diversi decenni dalla sua ultima rappresentazione è riapparso oggi sul grande schermo grazie al restauro compiuto dalla Fondazione Cineteca Italiana. Nel mese di febbraio è stato rappresentato a Foligno, nell’ambito del progetto “Visioni e musica per San Francesco” realizzato dagli Amici della Musica di Foligno, con l’esecuzione delle musiche al piano da parte del maestro Scolastra e come coro le 120 voci del Corale Frate Sole diretto dal maestro Aldo Cicconofri. Un film, a distanza di più di cento anni dalla sua realizzazione ancora godibile, che meriterebbe di essere riproposto nella città che ha dato i natali al regista.

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.