Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Una Toscana fascistissima?

L’11 novembre 2019, presso l’Archivio di Stato di Prato, Alessandro Bicci e Marco Palla hanno presentato il volume di Andrea Giaconi intitolato La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo. In quell’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’autore: proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 

Ha senso parlare di un “fascismo toscano”? Il fascismo ebbe cioè nella regione dei tratti distintivi, in parte diversi da quelli che il movimento presentava a livello nazionale?

Parlare di “fascismo toscano” ha senso nella misura in cui si voglia da una parte sottolineare il ruolo primario svolto dalla Toscana nella conquista e nel mantenimento del potere da parte del fascismo; dall’altra esaltare alcuni tratti che indubbiamente furono comuni all’intera regione. La realtà fascista toscana si distinse sia per una nascita tarda del movimento ma anche per una sua tanto rapida quanto violenta ascesa che nel giro di pochi mesi (tra il dicembre 1920 e il marzo 1921) portò a raddoppiare i fasci e quintuplicare gli iscritti. Fu quello toscano un fascismo “insonne”, combattente, che si segnalò soprattutto come componente essenziale nella scalata al potere del biennio 1921-1922, carico di tutti i miti e i riti squadristi volti a fomentare la violenza contro le opposizioni e a rinsaldare la retorica poi divenuta componente essenziale nel consolidamento del regime. In tal contesto, la regione si allontana soprattutto da realtà (soprattutto nell’Italia meridionale) in cui il fascismo quale fenomeno di massa è un elemento successivo alla marcia dell’ottobre 1922. Eppure, a ben vedere, piuttosto che di “fascismo toscano” è forse più esatto parlare di “fascismo in Toscana”. Toscana che fu, infatti, contenitore di manifestazioni del fascismo tra loro tanto vicine quanto distinte. La non uniformità corografica, economica e sociale della regione si riflesse in una difformità politica che dette vita ad esperienze tra loro assai diverse. Così come la grande mezzadria conviveva con la piccola proprietà e le significative realtà industriali, egualmente la supremazia di ras come Renato Ricci (Carrara) e Carlo Scorza (Lucca) si affiancava ad aree in cui il PNF fu attraversato da vibranti lotte per la conquista della leadership locale (che molto spesso ponevano di fronte opposte visioni del movimento) dalle quali seppero avvantaggiarsi protagonisti (Ciano a Livorno, Sarrocchi a Siena) non immediatamente assimilabili al movimento della prima ora. Infine vi furono pure zone (Prato, Grosseto) in cui larga parte del fascismo fu riassorbita nell’orbita del servilismo agli agrari e all’imprenditoria industriale.

 

Gli industriali e gli agrari toscani appoggiarono senza riserve il movimento fascista durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-22) o è necessario articolare meglio il discorso?

Sicuramente la quasi totalità di industriali e agrari appoggiò il movimento negli anni precedenti alla conquista del potere vedendolo come necessario strumento di repressione contro le richieste provenienti dalle organizzazioni operaie e mezzadrili e dalle organizzazioni tanto socialiste (e poi anche comuniste) quanto cattoliche. Tuttavia, la stessa retorica “rivoluzionaria” della “prima ora” mal si conciliava con le intenzioni di restaurazione dell’ordine (sociale prima ancora che politico) del notabilato e della grande imprenditoria. Ne conseguì un progressivo avvicinamento alle gerarchie di partito e l’istituzione di un sistema clientelare volto ad emarginare l’elemento più sincero del movimento fascista delle origini e delle forze che ne avevano appoggiato la carica radicale attraverso un connubio tra antiche classi dirigenti, le frange più corruttibili del partito e comunque caratterizzate da una pronunciata vena d’arrivismo e una cospicua componente criminale.

 

Quali furono i rapporti fra la massoneria toscana ed il fascismo locale, prima e dopo la marcia su Roma?

Pur distinguendo tra le due principali obbedienze, la massoneria tout court fu uno dei principali punti d’appoggio del fascismo antemarcia. Si può anzi sicuramente affermare che tanto Palazzo Giustiniani (salvo tanto isolate quanto eclatanti eccezioni, come il pratese Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto) quanto Piazza del Gesù fiancheggiarono e finanziarono il fascismo nello stesso evento della Marcia. Di fatto, la visione delle massonerie fu offuscata dalle dinamiche successive al dopoguerra, quando dinanzi alle rivolte del “biennio rosso”, esse intravidero nel fascismo una forza radicale capace di riportare un ordine democratico comunque lontano dalle precedenti consorterie. Fu un tragico equivoco di cui si ravvidero solo dopo l’ottobre 1922 e ancor di più, dopo il febbraio 1923, con la dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Da allora le strade si divisero. Il fascismo tese ad emarginare e ad epurare le proprie componenti massoniche o le obbligò a ripudiare l’istituzione. Dinnanzi a ciò il Grande Oriente si pose progressivamente in opposizione al Partito fascista. La Gran Loggia, almeno nei suoi vertici, si attestò (pur non mancando isolati casi di resistenza) in un piatto ossequio al regime. Ma egualmente non si può ridurre il rapporto tra massoneria e fascismo ad uno scontro tra partito e istituzione. Di fatto, il vincolo massonico (almeno per il fascismo toscano) fu una delle corde sulle quali vibrarono più fortemente le tensioni interne al partito, per l’imposizione di una propria visione politica o anche per la più gretta conquista del potere. Sotto questa prospettiva potevano essere letti gli scontri tra Enrico Spinelli e Dino Philipson (Pistoia), tra Tullio Tamburini e Dino Perrone Compagni (Firenze), tra Bruno Santini e Filippo Morghen (Pisa), tra Dario Lupi e Alfredo Frilli (Arezzo). Le lotte tra obbedienze, la carica antimassonica del partito e la coerenza liberomuratoria, con i dettati della “prima ora”, furono forse i principali motori delle lotte intestine al PNF. Non a caso, la piena normalizzazione e acquiescenza alle direttive del partito si realizza con atti di violenza contro la massoneria, quali le spedizioni squadriste della “notte di San Bartolomeo” (ottobre 1925).

 

E quale fu l’atteggiamento della chiesa?

È ormai noto da tempo come il fascismo adoperasse una distinzione tra struttura ecclesiastica e movimento cattolico. Laddove l’associazionismo bianco era forte e ben radicato (Lucchesia, in alcune zone del Pistoiese e dell’Aretino…), il fascismo non esitò ad utilizzare qualsiasi mezzo per disarticolarne la struttura. Ben diverso era l’atteggiamento verso la gerarchia ecclesiastica, intesa come possibile punto d’appoggio e fattore di legittimazione del regime anche a livello locale. Eppure, non mancarono casi di vescovi toscani come il pistoiese Gabriele Vettori che denunciò le violenze squadriste. Non fu un fatto limitato alla gerarchia: molti parroci si schierarono contro le azioni squadriste e, per questo, ne furono bersagli. Basti pensare che, nei tre mesi precedenti alle elezioni politiche del 1924 quasi quaranta furono i parroci aggrediti tra la Lucchesia e il Pistoiese.

 

Antonio Gramsci ha individuato nella mobilitazione violenta della piccola borghesia contro il proletariato l’elemento caratterizzante del fascismo. Questa analisi è valida anche per la Toscana?

Questo può essere valido solo in parte. Basti pensare che quasi il 40% degli iscritti ai fasci di combattimento era costituito da lavoratori della terra e dell’industria e che un campione di marciatori toscani su Roma ricavato da pubblicazioni coeve abbassa tale percentuale non di molto. Vero è che le cifre si modificarono abbastanza rapidamente quando, una volta al potere, il fascismo si trovò a gestire la redistribuzione dei poteri anche a livello locale. Significativa è infatti la composizione dei primi sindaci fascisti, laddove circa la metà degli eletti (49%) era formata da possidenti e nobili. Si andava così assistendo quasi a un ritorno dei potentati terrieri in un negoziato tra antiche gerarchie e nuovi regimi. Ne riuscivano bilanciamenti dai quali vennero progressivamente escluse le forze riformiste e radicali che pure erano entrate nel “calderone” del primo fascismo (ed ovviamente le organizzazioni “rosse” e “bianche” che al fascismo si erano opposte). Emersero invece il grande interesse, l’opportunismo e, in parte, l’elemento criminogeno e criminale (quest’ultimo poi parzialmente estromesso a seguito della linea epurativa guidata da Augusto Turati successivamente alla “notte di San Bartolomeo”, dell’ottobre 1925).

 

Nella primavera del 1921 un foglio comunista fiorentino ravvisò nei fascisti del Carmignanese “tutta la delinquenza del vasto comune di campagna, assoldata dalla borghesia terriera locale” (L’azione comunista, 21 maggio 1921). Puoi dirci qualcosa a proposito del ruolo dell’elemento criminale all’interno del movimento fascista nella regione?

L’elemento criminale fu una componente che sempre caratterizzò lo squadrismo fascista, prima convivendo con gruppi formatisi in opposizione alle rivolte del cosiddetto “biennio rosso”, ma con sinceri intendimenti radicali e di ritorno all’ordine (ne fu un esempio l’ex-combattente Bruno Santini a Pisa), poi assumendo una rilevanza che fu alla base dei potentati dei ras, delle lotte interne al PNF per la conquista del potere locale, della seconda violenta ondata squadrista. Per comprenderne la consistenza che aveva assunto in alcune zone, basti citare un dato relativo all’adunata squadrista svoltasi nella violenza a Firenze nel dicembre 1924. Su 3.000 fascisti provenienti da Lucca, l’allora prefetto locale Enrico Cavalieri segnalava il coinvolgimento «in atti criminali anche comuni» per «almeno la buona metà» di essi.

 

Il fascismo fiorentino era diviso in due filoni, spesso in contrasto fra loro. Uno faceva capo a Dino Perrone Compagni, l’altro a Tullio Tamburini. Quali erano le principali differenze fra queste due correnti?

La divisione tra Perrone Compagni e Tamburini può essere in larga parte circoscritta a una lotta per la conquista del potere locale. Fascinazioni per le quali le rispettive iscrizioni alle obbedienze massoniche potevano dar adito a uno scontro tra ordini libero-muratori deve necessariamente rimanere sullo sfondo (tant’è che lo stesso Tamburini sarebbe divenuto tristemente famoso per le violenze utilizzate sui suoi stessi “fratelli”). Di fatto, i due schieramenti potevano essere assimilati alle “bande criminali” in lotta per il controllo di un territorio. Il fascismo fiorentino poteva segnalarsi per la propria inquietudine, per gli scontri e per le divisioni interne alle proprie file già nel biennio 1921-1922. Era questo un periodo che vide anche la compresenza di tre fasci fiorentini di cui uno ufficiale e due autonomi. Di questi ultimi due, uno poteva addirittura contare più iscritti del fascio ufficiale. Il prosieguo di tali divisioni doveva molto alla mancata rassegnazione alla sconfitta dei leaders fascisti perdenti. Sicuramente ciò vale per Perrone Compagni, il cui avvicinamento a gruppi dissidenti come la nota “Banda dello sgombero” o all’esperienza dei Fasci nazionali, deve necessariamente essere letta quale sostegno all’azione antitamburiniana in prospettiva di un ritorno al potere.

 

Tullio Tamburini era un pratese. Cominciò la sua carriera come squadrista e la concluse come capo della polizia della Repubblica di Salò. Vuoi parlarci brevemente di lui?

Di Tamburini, nato a Vaiano, allora frazione del comune di Prato, hanno scritto diffusamente molti storici del fascismo, eppure ancora oggi manca una biografia che ne inquadri il percorso. Già membro attivo dell’interventismo pratese al tempo della guerra di Libia, ex impiegato alla Forti, grande industria tessile della Valle del Bisenzio, si era ridotto a vivere d’espedienti. Nota è la sua attività di calligrafo, creando biglietti da visita o per eventi quali nozze e battesimi. Combattente decorato durante il primo conflitto mondiale, fu segnalato per furto e appropriazione indebita. Si evince sin da ora come Tamburini fosse un personaggio per lo meno contiguo all’elemento criminale dal quale il fascismo attinse una parte non trascurabile dei propri appartenenti. Iscrittosi al fascio di combattimento fiorentino già nel 1919, egli fu protagonista della scissione tra i due fasci fiorentini, divenendo uno dei più diretti responsabili delle violenze che imperversarono tra il 1921-1922. Espulso per indisciplina nel marzo 1922 dal PNF, non tardò a rientrarvi, guidando la piazza di Firenze nei giorni della Marcia e dirigendosi egli stesso a Roma a capo della prima legione fiorentina. Negli anni seguenti Tamburini fu, nonostante le frizioni con Perrone Compagni, a capo del fascismo fiorentino, gestendo le reti delle bische clandestine e di altre attività criminose nel capoluogo toscano. Lo fece attraverso la violenza e legami clientelari che gli permisero di uscire indenne dagli scontri interni al fascismo fino almeno al 1925. Di questi anni sono per lo meno da ricordare le violente spedizioni del dicembre 1924 e dell’ottobre 1925. Quest’ultima, di carattere ferocemente antimassonico, fu identificata come la “notte di San Bartolomeo” e chiuse di fatto il cerchio sugellando la formazione del regime. Fu proprio però per tali recrudescenze e per il ripetuto ricorso all’illegalità che Tamburini fu allontanato dalla Toscana e inviato in Libia. Da qui egli tornò prima come ufficiale della Milizia forestale di Trento e poi come prefetto del regno nelle sedi di Ancona, Avellino e Trieste. Aderì alla RSI, di cui fu capo della polizia. Coinvolto in un losco  giro di appropriazioni indebite anche a danno di altri gerarchi, fu arrestato e inviato nel campo di concentramento di Dachau nel reparto riservato ai criminali comuni. Liberato dalle truppe alleate, fu processato e condannato a sei anni di carcere ma, in seguito, amnistiato. Espatriato in Argentina, dal paese sudamericano inviò finanziamenti al Movimento sociale italiano. Tornato in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, Tamburini morì a Roma nel 1957. Di fatto può essere identificato come il volto del più brutale squadrismo e allo stesso tempo uno dei protagonisti non troppo secondari del consolidamento del regime.

 

Renzo De Felice distingue un “fascismo movimento”, che avrebbe avuto in sé una carica in qualche modo innovativa, da un “fascismo regime”, risultato di una serie di compromessi con i centri di potere tradizionali. Questa distinzione è valida anche per la Toscana?

La distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” ha alcune sue basi anche in Toscana, a patto di non considerare una divisione netta tra le due parti. In realtà gli anni del “movimento” furono segnati da pesanti infiltrazioni ed importanti interessi da parte dei centri tradizionali del potere e, anche alla luce di tali vincoli tra fascismo e potentati locali, si può ben dire che la compresenza delle due componenti fosse all’origine delle lotte interne per il controllo del territorio e del partito. Lotte che, di fatto, si intensificarono in momenti apicali di scontro ma, paradossalmente, anche di coalizione tra le componenti del PNF, quali le fasi di campagna elettorale. A ben vedere, le svolte elettorali se da un lato amplificarono e inacerbirono gli scontri interni, dall’altro furono capaci di riassorbire i malumori e di catalizzarli verso gli avversari politici. In sintesi, in Toscana questi due tipi di fascismo coesistettero con svariate sfumature in base alla zona considerata e, proprio tale compresenza fu alla base delle lotte che caratterizzarono gli anni compresi tra il 1922 e il 1925.

 

Nel tuo lavoro si parla anche della tristemente nota “notte di San Bartolomeo” fiorentina. Siamo nell’ottobre del 1925. Che bilancio si può fare dei primi tre anni di dominazione fascista in Toscana?

La “notte di San Bartolomeo” (il 3 ottobre 1925) fu un punto di svolta dopo il quale non fu più possibile un’opposizione al fascismo da parte dei suoi avversari. Né tantomeno fu più possibile un dissenso interno al PNF. È da tale svolta violenta che, di fatto, giunge a maturazione il regime in Toscana. Prima di tale evento non è giusto parlare di “dominazione” quanto piuttosto, parafrasando l’ormai classico studio di Lyttelton, di conquista e di consolidamento del potere. Conquista che avvenne non solo con la violenza delle spedizioni squadriste ma con un ripetuto esercizio retorico ed evocativo di miti e ritualità volti da un lato a cementare le file interne del partito e dall’altro ad emarginare gli avversari esterni. Per cui, il computo finale di quei tre anni trascorsi tra la Marcia e la nascita del regime non può esimersi da notare che in Toscana si manifestarono per intero ed assai pronunciate le tensioni interne al PNF post-marcia. Esse non permisero di definire il fascismo come un dato definitivo quanto piuttosto come un oggetto politico in divenire, alla ricerca di una sua compiutezza, acquisita solo attraverso la totale eliminazione delle voci discordi. E questo lo si ebbe solo col 1925. Era in definitiva la nomalizzazione.

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




BANCA E GUERRA.

Nel 1914 il Monte dei Paschi di Siena – organizzato in Sezione Centrale, Credito Fondiario, Monte Pio, Cassa di Risparmio – era un istituto di credito di livello regionale – 19 succursali, 11 affiliate e 5 agenzie – che con preoccupata prudenza guardava all’eventualità della guerra, anche perché non aveva interessi di rilievo nei settori della cantieristica e degli armamenti, quegli stessi interessi che spingevano importanti ambienti della finanza italiana a farsi sostenitori convinti di politiche imperialiste e belliciste.

A conflitto deflagrato, il momento più difficile che la banca senese dovette affrontare nell’intero arco della durata fu proprio quello inziale a causa dell’onda generale di panico fra i risparmiatori seguita all’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia e al rapido estendersi dei combattimenti su diversi fronti. Anche agli sportelli del Monte dei Paschi si assieparono i clienti per riavere i propri soldi, cosicché i rimborsi, nei mesi di agosto e settembre 1914, superarono i versamenti.

Al fine di non alimentare ulteriormente la spirale della sfiducia, la direzione della banca scelse di applicare con elasticità il decreto governativo che limitava al 5% i rimborsi e di lasciare intatta la disponibilità a Province, Comuni, Opere Pie, fin quando, già a ottobre, rinunciò alla limitazione.

La strategia risultò premiante. Mentre i depositi fiduciari delle Casse di Risparmio di Firenze, Verona, Bologna, e di molti istituti di credito più piccoli, fra cui la Banca Popolare di Montepulciano e la Cassa Rurale di Volterra, videro, alla fine dell’anno, una sensibile diminuzione, quelli del Monte dei Paschi fecero registrare il segno più.

La crescita dei depositi, per quanto falcidiata dall’inflazione, sarebbe proseguita anche negli anni successivi per effetto sia dell’aumento della massa monetaria circolante deciso da governo e Banca d’Italia per far fronte allo sforzo bellico, sia dei risparmi provenienti dall’economia di guerra con le commesse per l’esercito che dalle industrie giungevano a pioggia fino agli artigiani, con le anticipazioni di capitali e i rapidi pagamenti da parte dello Stato, con l’occupazione femminile in luogo degli uomini richiamati al fronte che portava reddito inaspettato a molte famiglie, ed infine con i provvedimenti assistenziali che, nel medio periodo, se non migliorarono le condizioni di settori non secondari di strati popolari senesi, ne contennero tuttavia l’impoverimento ulteriore, come pare indicare il fatto che, durante la guerra, i pegni al Monte Pio – la sezione del Monte dei Paschi addetta a questo tipo di prestito – subirono una decremento.

A migliorare furono anche gli utili e gli indici di rendimento sia dell’attivo che del patrimonio, in un contesto che vide il Monte dei Paschi cambiare il profilo del suo portafoglio. Fin dal 1915 entrò a far parte del gruppo di duecento istituti bancari che costituirono il Consorzio di garanzia per i prestiti nazionali – sarebbero stati cinque – ed accrebbe progressivamente la quantità di titoli pubblici in proprio possesso rispetto ai mutui a privati che risultarono in calo. Il prestito di soldi allo Stato divenne dunque il principale settore di impiego e si rivelò l’affare più remunerativo, anche se esposto al rischio della possibilità che la guerra si concludesse in modo infausto per l’Italia con conseguente disastro economico e finanziario.

L’andamento dei conti di bilancio dette fiducia e consentì addirittura di osare il superamento dei confini regionali aprendo una sezione del Credito Fondiario a Roma al fine di partecipare al finanziamento della bonifica dell’agro romano.

Con le comunità locali – senese e grossetana – il rapporto della banca rimase forte e si adattò progressivamente a far fronte alla solidarietà che le vicende belliche richiedevano, destinando però le donazioni, più che ai vari comitati sorti a favore dei soldati al fronte, delle loro famiglie, dei feriti, dei mutilati, degli orfani, dei profughi in arrivo dalle terre redente e poi da quelle invase, alle amministrazioni comunali e provinciali, individuate come i soggetti istituzionali più adatti a ricevere risorse a scopo benefico.

Sul versante dell’assetto interno, rimanendo saldo il controllo da parte di un ceto dominante composto da nobiltà e da notabilato borghese, il Monte dei Paschi vide l’ascesa alla carica di Provveditore – l’avrebbe mantenuta fino al 1936; poi Presidente fino al 1944 – di Alfredo Bruchi, un avvocato grossetano all’epoca legato ad ambienti politici del liberalismo e del mondo cattolico. Fu Bruchi che, per riassumere l’andamento della banca nelle drammatiche incertezze della guerra, così si espresse: “A somiglianza di ciò che avviene nel mondo biologico, solo gli organismi forti e sani possono vittoriosamente resistere alle crisi che le minacciano. A questa categoria di organismi dimostrò di appartenere il nostro Monte”.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Per una storia del movimento politico cattolico livornese

Pierangelo Zari (1917-2006) ha avuto un ruolo importante nella storia del movimento politico cattolico livornese, ma non ha avuto certamente una posizione di primissimo piano. Lo troviamo tra il ristretto gruppo di livornesi che il 22 luglio 1944, tre giorni dopo la liberazione della città dal nazifascismo, diede vita alla prima sezione della Democrazia Cristiana livornese. Fu poi segretario amministrativo della DC livornese negli anni ’50, consigliere provinciale dal 1956 al 1960, assumendo un ruolo pubblico defilato, ma mosso da interessi variegati, che lo mise in contatto con tanti ambienti della cultura e del potere cattolico: lavorò per lunghi anni alla Cassa di Risparmi di Livorno, fu governatore dell’Arciconfraternita Misericordia, consigliere dell’Istituto Case Popolari, console del Touring Club italiano. Eppure, oggi possiamo dire che quella di Zari è una figura fondamentale per la storia della Democrazia Cristiana livornese, e in generale, per la storia della cultura cattolica a Livorno. Perché Zari nel corso della sua vita è stato una sorta di archivista autodidatta conservando tra le mura domestiche un patrimonio documentario molto interessante relativo non solo alla storia del partito democristiano e della cultura cattolica livornese, ma più in generale alla storia politica e sociale, locale e nazionale a partire dagli anni del fascismo.

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Le carte appartenute a Zari fanno luce in particolare sull’attività del partito democratico cristiano tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50: oltre alla corrispondenza con la sede centrale e con le varie sezioni zonali, tra i suoi documenti si trovano anche dettagliate relazioni sulla gestione economia del partito e dati e commenti relativi alle varie tornate elettorali. La famiglia Zari ha poi conservate carte riguardanti l’attività dell’associazionismo cattolico livornese degli anni ’30 e ’40 e degli anni del dopoguerra. Ma la passione di Zari per libri, giornali, riviste lo ha portato ad accumulare un patrimonio che va ben oltre il movimento cattolico: si va dalle pubblicazioni e riviste della propaganda fascista, relative all’attività politica, alla politica scolastica, ai costumi sociali, all’attività dell’Ovra, alla propaganda di guerra. Fino alla pubblicistica varia prodotta dalla Democrazia Cristiana (riviste, opuscoli, materiali di propaganda) e ad alcune collezioni di riviste locali molto rare come il settimanale diocesano livornese “La Domenica” di fine anni ’30.

Il patrimonio di Pierangelo Zari, grazie alla disponibilità della sua famiglia, è stato oggi raccolto e depositato presso l’Istoreco Livorno, come parte fondamentale di un fondo archivistico dedicato al movimento politico cattolico livornese costruito con la collaborazione dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Il progetto ideato dall’Istoreco e dall’Istituto Sturzo ha inteso rispondere ad una problematica di natura archivistica molto comune per quanto riguarda la storia della Democrazia Cristiana: come è accaduto in molte parti d’Italia, la fine non indolore della DC alla metà degli anni Novanta ha significato a Livorno e provincia una dispersione del suo patrimonio documentario: nessuno cioè si è preoccupato di salvaguardare l’archivio del comitato provinciale e comunale della DC di Livorno che dunque si è disperso in mille rivoli. Si è dunque provato a dar vita ad una operazione di “salvataggio” di carte e materiali che documentano la storia politica e culturale dei cattolici di Livorno attraverso una attività di indagine volta a scoprire se e dove questa documentazione potesse ancora trovarsi.

L'insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell'ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

L’insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell’ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

Ciò che ne è risultato è la costituzione di una sorta di archivio provinciale del movimento politico cattolico livornese, depositato all’Istoreco, strutturato come raccolta di tanti piccoli o grandi fondi privati. Si tratta di un progetto che, oltre ad esser parte integrante dell’articolata operazione varata dell’Istoreco sulla conservazione degli archivi politici, si inserisce all’interno di un progetto nazionale di lungo periodo che l’Istituto Sturzo ha dedicato agli archivi locali. Il progetto “Archivi locali in rete”, cominciato nel 2001, consiste nel recupero degli archivi delle organizzazioni periferiche della Dc (al momento sono stati recuperati 18 archivi di Comitati Provinciali e 5 archivi di Comitati regionali) e nella creazione di un sistema nazionale di informazione sulle fonti archivistiche relative alla storia della Democrazia Cristiana. La novità del progetto livornese sta nel fatto che si tratta del primo caso di costituzione di un archivio come raccolta di fondi privati. Un metodo che ha ricevuto anche l’appoggio della Soprintentenza Archivistica della Toscana che lo ha definito «meritevole del più ampio sostegno», sostenendo che «il tipo di intervento è […] scientificamente valido e ben disegnato, ed è probabilmente l’unico modo per arrivare ad un recupero il più possibile ampio di questa memoria storica».

Grazie a questa operazione oggi il fondo archivistico del movimento politico cattolico livornese conservato all’Istoreco ammonta a circa 200 buste, provenienti da 12 fondi distinti. Oltre alle carte Zari, sono in particolare da segnalare i documenti depositati da Enrico Dello Sbarba – che fu segretario della DC livornese alla metà degli anni ’70 e che ha avuto un ruolo essenziale nelle fasi iniziali di ideazione del progetto Istoreco-Sturzo – e il fondo della Sezione DC di Campiglia Marittima (Livorno). Quest’ultimo fondo, in particolare, si distingue, insieme alle carte Zari, per la consistenza e il valore della documentazione conservata: grazie ad una operazione di “salvataggio” particolarmente fortunata è stato infatti possibile recuperare buona parte dei materiali (tutti destinati al macero) che documentano l’attività della sezione campigliese della DC dal 1945 al 1994 e quella relativa all’attività del Partito Popolare e della Margherita (regolamenti, statuti comunali, verbali di sezione, protocolli di sezione, carteggi e manifesti).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.




La Guerra Partigiana

A Pistoia, ormai da anni, le storie dei combattenti partigiani entrano, a buon diritto, nelle aule delle scuole elementari e medie della città: questo risultato è reso possibile dal progetto “La guerra partigiana”, promosso da Spi Cgil-Lega “Ugo Schiano” e Fondazione Valore Lavoro. Grazie alla collaborazione di Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPt), ANPI sezione “P. Gherardini”, Croce Verde, Sezione Soci Coop, Circoli Arci di Bonelle e “L. Bugiani” e Comune di Pistoia questo progetto ha coinvolto, nell’anno scolastico 2018/2019, un totale di 391 bambini e ragazzi, confermandosi una realtà consolidata al servizio delle scuole pistoiesi.
Scopo del progetto è quello di attivare una vera e propria didattica della storia della Resistenza pistoiese, rivolta agli insegnanti e agli studenti, per intensificare il dialogo con le nuove generazioni e far loro conoscere un passato che, purtroppo, lo scorrere del tempo rischia di rendere sempre più sfumato agli occhi degli alunni di oggi. È Spi-Cgil ad occuparsi degli aspetti organizzativi riguardanti il coinvolgimento delle scuole; la docenza è invece svolta dai ricercatori ISRPt, che diventano per l’occasione “insegnanti per un giorno” allo scopo di rendere partecipi i piccoli studenti della storia della nostra Resistenza. In particolare, per quanto riguarda i bambini della scuola primaria, ognuno dei ricercatori ISRPt “prende in consegna” una classe terza e la accompagna nel suo percorso scolastico fino alla classe quinta: così facendo, oltre a crearsi una benefica continuità nella pratica didattica, si consolida il rapporto del ricercatore con la classe da lui seguita, stimolando un clima reciproco di conoscenza e fiducia fra gli alunni e il ricercatore. Ma come rendere accessibile a bambini e ragazzi un argomento tanto complesso come quello della Resistenza? Grazie alla preziosa collaborazione degli insegnati delle diverse scuole, il tema della Resistenza è introdotto in anticipo nelle classi, in modo tale che gli alunni abbiano un primo approccio alla tematica in oggetto; solo in seguito a questa premessa, i ricercatori ISRPt possono recarsi nelle aule e tenere la loro lezione. Ma, più che delle lezioni, questi incontri diventano dei veri e propri dibattiti: la curiosità degli studenti riguardo alla Resistenza è molta, e i ragazzi non mancano mai, infatti, di porre numerose e molteplici domande di vario genere, alle quali i ricercatori si impegnano a rispondere per soddisfare l’interesse dei giovani studiosi. Le lezioni giungono a parlare ai ragazzi della “guerra partigiana” dopo aver introdotto quegli avvenimenti fondamentali che ne furono i precedenti: questo perché gli studenti possano comprendere il più autonomamente possibile quando e perché essa ebbe luogo. I temi trattati preliminarmente sono quindi la presa del potere da parte di Mussolini e il fascismo, la politica espansionista della Germania hitleriana e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, per poi arrivare, infine, alla “guerra partigiana” e ai suoi protagonisti nella zona del pistoiese.
Grazie al supporto di fotografie d’epoca, selezionate dai ricercatori ISRPt, gli alunni entrano in contatto, spesso per la prima volta, con la Resistenza pistoiese e le sue figure (ad esempio il giovane partigiano Silvano Fedi, morto in uno scontro a fuoco con i tedeschi, la cui memoria è ancora ben viva nella città di Pistoia) e con la vita delle popolazioni dell’epoca. La lezione in classe costituisce solo la prima parte del progetto didattico della “guerra partigiana”: a essa fa infatti seguito una vera e propria esplorazione sul campo dei luoghi della memoria pistoiese. In questa esplorazione i ragazzi sono accompagnati dai loro insegnanti e dai ricercatori ISRPt che, novelli ciceroni, conducono gli studenti a vedere con i loro occhi i siti più significativi della Resistenza cittadina. Una delle mete di queste “gite partigiane” è il centro di Pistoia: durante questo tour vengono illustrati agli alunni le lapidi e i cippi commemorativi di cui il centro è punteggiato, e vengono loro spiegate le storie e le vicende che tali monumenti ricordano. Un’altra meta particolarmente evocativa è il Monumento votivo militare brasiliano, sito alla periferia della città: un vero memoriale all’aria aperta (dotato anche di un suo piccolo ma significativo museo) che ricorda le vicende della Força Expedicionária Brasileira, attiva sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera 1945 e che si trovò a passare anche da Pistoia. Molto significativa è anche la visita al Passo della Collina sopra Pistoia, dove, nella località del Signorino, si snodava la Linea Gotica: ancora oggi, vi si ritrovano alcune fortificazioni in cemento armato ben conservate, parte del sistema difensivo tedesco a protezione delle vie di accesso al valico.

La terza e ultima parte del progetto della “guerra partigiana” è quella della restituzione: in questa fase conclusiva i ragazzi, assistiti dai loro insegnanti, producono i loro personali elaborati, illustrando nel modo che preferiscono (disegni, interviste, articoli, presentazioni multimediali) ciò che più li ha colpiti ed interessati durante questo “viaggio nella storia”. Questi elaborati diventano poi il centro di una mostra aperta al pubblico cittadino, dove a ognuno degli studenti viene consegnato un attestato di partecipazione: un piccolo omaggio dedicato ai ragazzi per ringraziarli della loro partecipazione attiva a questo progetto didattico sulle tracce della nostra Resistenza. Perché, adoperando le parole di Gabriella Valdesi, curatrice del progetto per Spi-Cgil Lega “Ugo Schiano”, lo scopo finale è quello di ricordare: «Bisogna ricordare e avere rispetto per i sacrifici compiuti da tante persone giovani e non, che hanno dato la vita per un ideale, intensificando il dialogo con le giovani generazioni, per conoscere il passato per costruire il futuro e guardare avanti».




Gli ebrei senesi tra le leggi razziali e il secondo dopoguerra

La comunità ebraica senese era una delle più antiche e integrate dell’intero territorio nazionale. A differenza di altri gruppi di correligionari, sparsi in varie aree d’Europa, gli israeliti senesi avevano superato con poche burrasche il medioevo e l’età moderna. La prima grande catastrofe era avvenuta in piena età napoleonica con il pogrom devastante del 28 giugno 1799, in seguito al quale 19 persone avevano perso la vita e 200, su un totale di 500, avevano preso la via dell’esilio. Coloro che decisero di rimanere ricostruirono con tenacia le proprie case e la sinagoga costituendo, negli anni a seguire, una parte vivace della vita sociale, politica e economica della città[1].

La Sinagoga di Siena

Un nuovo sconvolgimento si profilò quando, a partire dal settembre del 1938, la politica razzista di Mussolini, già presente nelle colonie ai danni delle popolazioni autoctone, venne estesa anche agli italiani di religione ebraica e ciò causò un sensibile peggioramento della vita di molti israeliti senesi. Una delle prime misure adottate (ancor prima dell’emanazione della prima legge razziale italiana[2]) fu il censimento degli ebrei disposto dalla Direzione generale per la demografia e la razza l’11 agosto 1938[3].

I dati ricavati rivelano che al momento dell’emanazione delle disposizioni antisemite, sul territorio senese vivevano 235 ebrei, più o meno tutti appartenenti alla piccola media borghesia. Le prime vittime della discriminazione furono una ventina di ebrei stranieri che studiavano presso la locale università; questi ultimi furono costretti ad abbandonare gli studi e venne loro impedito di trovare un lavoro.

Il successivo giro di vite colpì gli stessi ebrei senesi che furono costretti a lasciare scuole (sia in qualità di insegnanti, che di studenti nonché impiegati) e i posti di lavoro presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi[4].

Lo smantellamento dei diritti degli ebrei italiani procedeva spedito pur concedendo alcuni trattamenti di favore a coloro che, agli occhi del regime, avevano acquistato determinati meriti come l’essere familiari di caduti nelle guerre di Libia, mondiale, d’Etiopia e di Spagna; dei caduti, feriti e mutilati per la «causa fascista» oppure coloro che si erano iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-22 e nel semestre successivo al delitto Matteotti nonché i legionari fiumani[5].

Dopo la dignità di un posto di lavoro o di un banco di scuola il fascismo decise di colpire i patrimoni e in base al Regio decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126, si previde, per quanto riguarda i beni immobili appartenenti agli ebrei, di individuare una quota di proprietà consentita, calcolata in base alla rendita catastale, ed una eccedente destinata a essere incamerata dall’erario che, come indennizzo, avrebbe dovuto rilasciare un certificato trentennale con un interesse al 4%[6].

In questa prima fase soltanto una persona subì una confisca a Siena[7], ma il peggio doveva arrivare e ciò sarebbe avvenuto ben presto. Dopo l’8 settembre, con

l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale italiana, la persecuzione fascista dei diritti conobbe la sua tragica evoluzione in persecuzione delle vite[8]. La comunità israelitica senese ebbe il secondo pogrom della sua storia con il rastrellamento della notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, quando 15 ebrei vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento da cui soltanto una farà ritorno[9]. Fortunatamente, molti israeliti vennero avvertiti in tempo e poterono mettersi in salvo nascondendosi presso amici o enti religiosi, ma la persecuzione non si fermò nemmeno davanti a questo abbattendosi sistematicamente sui loro beni: le autorità fasciste repubblicane, nello spazio di pochi mesi, disposero il sequestro di 26 immobili[10], alcuni dei quali vennero persino saccheggiati.

Con il passaggio del fronte e la liberazione della città, avvenuta il 3 di luglio del 1944, pian piano la situazione tornò alla normalità e gli ebrei che si erano salvati poterono tornare alle loro case ma in molti casi, ad attenderli, avrebbero trovato amare sorprese. Quegli imprenditori le cui aziende erano state espropriate e affidate a amministratori nominati dalle autorità, al loro ritorno, trovarono la richiesta di corresponsione delle imposte che, pur avendo intascato gli utili, gli amministratori non avevano versato[11]; altre famiglie trovarono le loro case occupate da inquilini o depredate.

Emblematica la testimonianza di Edmea Forti Castelnuovo[12], il cui marito, Aldo, gestiva un negozio di stoffe insieme al fratello Geremia. Dopo la loro fuga, avvenuta nelle ore immediatamente precedenti il rastrellamento del 5-6 novembre, il negozio e il magazzino vennero depredati, l’appartamento espropriato per ordine del Capo della Provincia e ceduto dall’Egeli[13] a un ufficiale dell’esercito.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

I Castelnuovo, in seguito alla liberazione di Siena e alla revoca dei provvedimenti di confisca emanati dal Governo dell’Italia liberata[14], decisero di tornare in città per riprendere, per quanto possibile, la loro vita normale; tuttavia, al loro arrivo, scoprirono che l’attività non esisteva più e che la casa era occupata; ma non era tutto. Al momento della restituzione dell’immobile, un solerte funzionario dell’Egeli richiese, a Aldo Castelnuovo, il pagamento dell’indennità di gestione delle sue proprietà nella misura applicata ai sudditi nemici. Di fronte a quell’affermazione, racconta il figlio Renzo, Castelnuovo, che solitamente era un uomo mite, sbottò con forza. Non era stata, a ferirlo, la richiesta di pagare un’indennità a chi gli aveva portato via la casa costringendolo a fuggire, quanto il fatto di essere trattato come un nemico dell’Italia[15].

 

[1] Cfr PAVONCELLO N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, scritti in memoria di A. Milano in «Rassegna mensile d’Israele», 1970, pp. 289-313.
[2] Il Regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.
[3] CIONI P., MASOTTI F., MATTEI L., 1938-1944 documenti, storie e memorie. Gli ebrei senesi raccontano, Siena, Nuova Immagine editore, 2010, p.27
[4] Ivi p.35
[5] Cfr. Regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
[6] Regio decreto 27 marzo 1939, n. 665, art. 13.
[7] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[8] Cfr. SARFATTI M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, capp. IV e V.
[9] Cfr. VALECH CAPOZZI ALBA, A24029, Siena, Soc. anonima poligrafica, 1946.
[10] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[11] Voci di carta. Le leggi razziali nei documenti della città di Siena. Catalogo della mostra documentaria. Archivio di Stato di Siena 26 ottobre 2018 -31 gennaio 2019, a cura di Cinzia Cardinali, Anna Di Castro, Ilaria Marcelli, Pisa, Pacini editore, 2019, p.103.
[12] Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Multimediale, dvd 58, Edmea Forti Castelnuovo.
[13] Acronimo di Ente Gestioni e Liquidazioni Immobiliari; era l’istituto incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei e ai cittadini di Paesi nemici. L’Ente, per operare sul territorio della Toscana, aveva stipulato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena. Cfr Atti della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, «Rapporto generale», aprile 2001, http://presidenza.governo.it/DICA/beni_ebraici/.
[14] Cfr Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» e Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 26 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica».
[15] 1938-1944. La politica razziale del regime fascista a Siena, documentario di J. Guerranti, Siena 2014, https://www.youtube.com/watch?v=v_4FXd6N-4w

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.




Il 1917 in Toscana

Il 1917 è stato un anno di svolta generale nella storia della prima guerra mondiale. Eventi eccezionali come la rivoluzione russa, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel conflitto, la gravissima crisi alimentare e la rotta di Caporetto sottoposero a molteplici ansie e a notevoli sfide i “fronti interni”, intensificando il senso di stanchezza verso le condizioni sempre più dure imposte dallo stato di guerra.

L’Italia, come la Germania e la Russia, fu uno dei paesi maggiormente interessati dalla cosiddetta “crisi dei fronti interni”. Dopo quasi due anni di rassegnazione o di proteste sommesse, in tante aree del paese riesplosero tensioni che riportavano con il pensiero a due anni prima, ai momenti più caldi delle mobilitazioni che avevano preceduto il tardivo e osteggiato ingresso del Regno dei Savoia nel conflitto.

In tale contesto conflittuale, la Toscana è stata tradizionalmente percepita come un territorio assai coinvolto da quella nuova esplosione di agitazioni e proteste espressione del disagio popolare verso il conflitto. Una fama legata un po’ alla leggendaria notorietà di alcuni episodi, come la grande marcia per la pace delle donne della Valle del Bisenzio del luglio 1917 guidata da Teresa Meroni, in parte a quanto messo in luce dagli esiti di alcuni sporadici e specifici studi o ancora al vivo ricordo delle forti e spesso radicali proteste antinterventiste del periodo della neutralità che avevano agitato non poco i sonni delle autorità in tutta la regione. Questa impressione è ampiamente confermata adesso da una mappatura organica di quel ciclo di manifestazioni di rivolta, e delle variegate forme che esse assunsero, effettuata da un recente volume promosso dalla rete degli Istituti toscani della Resistenza e curato da Roberto Bianchi e da Andrea Ventura dal titolo Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali. Il testo affronta infatti il tema in maniera ampia, grazie a un complesso di saggi di vari autori dedicati alle diverse province della regione (da Massa Carrara a Lucca, da Pisa a Livorno, dall’area pratese e pistoiese alle zone rurali del territorio fiorentino, maremmano, aretino e senese).

La geografia delle proteste finì effettivamente per abbracciare l’intera regione, e per coinvolgere, dal punto di vista ambientale e socio-economico, aree urbane e medie cittadine, ma anche borghi di campagna e realtà rurali in cui forse per la prima volta risultarono scossi i consolidati equilibri della “pace sociale” garantita dal proverbiale regime mezzadrile. Lotte operaie in grossi centri urbani come Livorno si intrecciarono dunque con grandi e piccole mobilitazioni contadine come quelle ad esempio di aree tipicamente mezzadrili quali Greve o San Casciano nel Chianti.

Teresa Meroni, fine anni ’20.

Dal punto di vista della composizione sociale, la crescente conflittualità vide assai attivi le donne e i ragazzi, che come la storiografia sul primo conflitto mondiale ha largamente messo in luce furono un po’ ovunque i soggetti privilegiati delle mobilitazioni avvenute a conflitto in corso. Nella Toscana del 1917 tali soggetti diedero vita a un’estate particolarmente «incandescente» in tante realtà del contado pisano, dove grossi opifici artigianali che impiegavano numerose operaie coabitavano con la perdurante centralità del mondo agricolo, e per intensità e durata il fenomeno della protesta femminile investì in maniera significativa e con diversi episodi di mobilitazione anche diversi comuni interni e costieri della provincia di Massa-Carrara. Un’altra zona calda di forte attivismo delle donne in piazza contro la guerra furono il circondario pistoiese e quello immediatamente confinante del pratese che si segnalarono in particolare per la diffusione e il successo delle cosiddette “marce della pace” che si svolsero nel corso dell’estate. A ruota del particolare protagonismo di queste aree, il fenomeno non mancò però di di lambire contesti per tradizione ritenuti politicamente assai più quieti come la città di Lucca, dove a distinguersi furono le agitazioni delle numerose sigaraie della grande Manifattura tabacchi cittadina, o spaccati esemplari della placida Toscana rurale come appunto il Chianti fiorentino o località della profonda campagna senese. Queste agitazioni fortemente connotate in chiave di genere e generazionale, cominciate a inizio anno con petizioni e preghiere alle autorità, presero nel corso delle settimane la forma di presidi di fronte a palazzi ed uffici delle istituzioni e si radicalizzarono nei mesi a venire con veri e propri cortei e manifestazioni contrassegnati da grida ed espliciti slogan contro la guerra, spesso animati da centinaia di popolane e fanciulli e che giunsero in molti casi a infrangere con fare minaccioso l’ordine costituito e a scontrarsi apertamente con la forza pubblica. Arresti e processi colpirono numerose partecipanti a queste azioni e con particolare durezza alcune delle leader riconosciute delle proteste; esemplare in tal senso il destino di Teresa Meroni, la sindacalista milanese attiva da un paio di anni nel pratese e postasi a capo degli scioperi e delle marce nella Valle del Bisenzio che prontamente punita con diversi mesi di carcere e una cospicua multa fu poi internata in Garfagnana fino al termine della guerra.

Laddove vi erano numerosi, grazie al vasto operare del meccanismo degli esoneri per la presenza di fabbriche di interesse bellico dichiarate “ausiliarie”, anche gli operai maschi non si astennero altesì dal prendere sempre più parte col trascorrere dei mesi a episodi di protesta. Emblematico da questo pinto di vista il caso di una delle non molte realtà a forte industrializzazione della Toscana dell’epoca come quella livornese. Negli stabilimenti militarizzati del capoluogo o del polo siderurgico di Piombino si assiste infatti a un escalation di proteste culminate nella seconda metà dell’anno in grandi e massicci scioperi, pur vietati dal regime di guerra, e in eclatanti forme di rifiuto della propaganda patriottica e antidisfattista imposta dopo Caporetto; spicca in proposito il caso delle conferenze patriottiche inaugurate a fine anno in pompa magna nei grandi stabilimenti del proprio cantiere dai fratelli Orlando e sospese nel giro di un solo mese per l’ostinata, massiccia e “imbarazzante” diserzione opposta ad esse da parte delle maestranze operaie.

Per quanto concerne le caratteristiche e le forme della protesta antico e moderno si mescolarono, consueti bisogni e nuove idealità si sovrapposero. Così a deferenti istanze verso le autorità superiori e a tumulti spontanei per il pane, ad atti di ostruzionismo e di sabotaggio che attingevano al tradizionale repertorio della protesta popolare, si associarono sempre più pratiche d’azione più avanzate quali scioperi, cortei di protesta e altre agitazioni in cui non mancarono occasionalmente di fare capolino segnali o simboli di espresso carattere politico (di intonazione pacifista e rivoluzionaria), che contribuirono a un mutamento del clima generale con cui le autorità e la società in guerra furono chiamate a fare i conti.

Del resto a lungo la storiografia è stata incline a considerare le dimostrazioni contro la guerra del primo conflitto mondiale quali espressioni di protesta frutto di un’istintiva reazione popolare a un concreto disagio economico e sociale (l’assenza di mariti e fratelli, carichi di lavori insostenibili, il carovita, l’insufficienza dei sussidi). Rivolte per il pane a cui è stata fondamentalmente negata ogni valenza politica di fondo. In realtà nei grandi stabilimenti cantieristici e metallurgici di Livorno, ma anche fra le “fabbrichine” del pisano, o fra le lavoratrici del pratese dietro i comportamenti che segnavano una presa di distanza dallo sforzo di mobilitazione interna trame e movimenti – ma finanche gesti simbolici – di natura politica, come affiora da alcune delle pagine del libro, appaiono largamente riscontrabili. Sembra peraltro di osservare nel corso dei mesi un mutamento di tono dello stato della protesta in cui il semplice rifiuto della guerra quale aspirazione al ripristino del tradizionale ordine di cose si trasforma sempre più in richiesta ed esplicito desiderio di pace, percepita quale un orizzonte ideale nuovo e alternativo rispetto al presente.

Non un’effervescenza prodotta da uno stato di bisogno dunque, ma qualcosa di più profondo e radicato pare muoversi dietro il disagio e le tensioni. Un altro aspetto di parziale novità che pare affiorare dagli spunti offerti dalle ricerche di questa recente mappatura, rispetto alle consuete conclusioni della storiografia sulla protesta, è non a caso l’emergere di una scansione temporale variegata delle agitazioni che non sempre mostrano una ciclicità lineare nei diversi territori. Dopo il picco del 1917 infatti non dappertutto si registra un rapido riflusso della conflittualità fino alla scomparsa delle lotte e delle inquietudini dell’anno precedente, ma il fenomeno conflittuale non sempre si spegne e tenderà semmai a saldarsi con le agitazioni e le rivendicazioni dell’immediato dopoguerra e più avanti ancora del “biennio rosso”.

*Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nel settembre del 2019.




Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2019.