Ai mondiali noi non tifavamo Unione Sovietica

A Bologna il 12 Novembre 1989 Occhetto annunciò di voler cambiare nome al Partito comunista italiano, lei sapeva che lo avrebbe fatto?

Non sapevo che lo avrebbe fatto a Bologna e in quella circostanza, ma sapevo che avrebbe affrontato radicalmente la questione.

 

Quali furono le sue reazioni? Quali le speranze, quali i timori?

Soprattutto in Toscana e in Emilia il Pci era una forza socialista riformista. A Bologna, per esempio, c’era una delle amministrazioni più progressiste d’Europa, per questo l’idea di andare oltre il nome per me non era un trauma. Anche Berlinguer aveva riconosciuto la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Sentivamo la necessità di andare oltre il Pci per salvare il meglio del suo patrimonio.

Il timore invece era che quegli elettori che avevano vissuto il partito come una forza progressista, che non aveva niente a che vedere con la realtà sovietica, non comprendessero la decisione di cambiare nome. Il problema più grande fu infatti far capire loro che non veniva messo in discussione quello che avevano fatto fino ad allora.

 

Quindi a Pistoia, per esempio, furono organizzate iniziative per spiegare la svolta ai militanti?

Non ci sono state differenze sostanziali tra le città toscane, i dibattiti furono organizzati ovunque. In Toscana ben il 35% degli iscritti non era d’accordo con la svolta. Per esempio, mi ricordo di un confronto che ebbi con Lido Romanelli, un personaggio storico pistoiese che ha costruito la Cooperazione agricola a Lamporecchio. Ci scrivemmo, «L’Unità» pubblicò le due lettere, una di fronte all’altra, e le differenze apparirono tanto chiare quanto nette. Fu un periodo quindi personalmente molto intenso, di scontro duro tra i vari orientamenti, nelle sezioni, tra iscritti e iscritti; però anche bello da un punto di vista politico, perché in Toscana ci fu una partecipazione tesa, ma molto ampia.

 

Cosa pensava chi era contrario al cambio di nome?

I contrari alla svolta pensavano che, cambiando nome, una parte del patrimonio del Pci venisse smarrita. «Se siamo diversi dall’Urss perché dobbiamo cambiare nome?» si chiedevano in molti, ritenendo la svolta come un’autocertificazione dell’omogeneità con l’esperienza sovietica, che invece non era stata la nostra.

 

Come fu gestita la svolta annunciata alla Bolognina?

Il partito non ha saputo darsi un’organizzazione nuova e ha perso del tempo. È venuta meno un’attenzione all’organizzazione che, anche se non può sostituire la politica, la deve accompagnare. Durante il secondo congresso, per esempio non ci si accorse che mancava il numero legale per la votazione del segretario: questo voleva dire aver perso il polso della situazione. Fu deciso di convocare un secondo congresso perché si ritenne il primo insufficiente, passarono così due anni che, sommati ai ritardi di prima, sono stati micidiali, non soltanto per il tempo trascorso, ma perché ci costrinsero a stare a discutere sul tema del nome, anziché discutere di quale progetto di società cercavamo, di quale organizzazione del partito volevamo. Fu clamoroso quando Occhetto propose di parlare di una carta di intenti del nuovo partito, ma non ne fu discusso perché tutto ormai era inchiodato solo sul nome.

E questa fu una responsabilità di chi era contrario alla svolta. Questi ritenevano infatti che la loro posizione si mantenesse più forte fintantoché si fosse rimasti a parlare solo del nome. Invece, se si fosse discusso dei valori, delle alleanze internazionali, dell’Europa, del progetto di società, la contrapposizione sul nome sarebbe stata superabile.

 

Il problema era quindi il rapporto con l’Unione Sovietica. Lei fu sindaco dopo Renzo Bardelli che già nel 1981 aveva rilasciato un’importante intervista a «La Repubblica» dove criticava duramente la situazione in Urss. Lei cosa pensò di quella presa di posizione pubblica?

La critica all’Unione Sovietica era giusta, forse però avrebbe potuto trovare parole diverse. Con Bardelli avevamo una diversa concezione della politica: lui riteneva giusto condurre una battaglia personale, convinto che gli altri avrebbero seguito; io pensavo invece che fosse necessario costruire un percorso per portare dalla nostra parte quante più persone possibili. La differenza tra noi due risiedeva in questo e non sulle posizioni che lui aveva esplicitato nell’intervista (anche se penso che di quell’articolo molto sia stato frutto della penna di Giampaolo Pansa che lo intervistava).

 

Esistevano quindi delle questioni aperte nel rapporto con l’Unione Sovietica?

La questione del rapporto con l’Unione Sovietica è stata sottovalutata: mi ricordo per esempio quando ero ragazzino che, nel paese de Le Grazie, dove sono cresciuto, durante i mondiali di calcio noi tifavamo Italia, ma alla Casa del Popolo eravamo solo due o tre, i ragazzi, la parte più matura invece, non quella di 80 anni, ma di 40, tifava Unione Sovietica.

Questo è stato il limite della nostra generazione. Per noi l’Unione Sovietica non era un problema, non era né un limite né un modello, per noi non esisteva. Quindi non avvertivamo la pesantezza di questo problema perché non si poneva. E questo è stato un grande errore di sottovalutazione.

A un certo punto ci siamo resi conto che ciò che per noi non era un problema, in realtà lo era, e che quella sovietica era una famiglia che condizionava la nostra credibilità nei confronti degli altri. Era un peso vero e bisognava affrontarlo. Ci rendevamo tutti conto che i paesi sovietici, oltre a non essere un modello, erano diventati qualcosa di profondamente negativo. Quando i carri armati entrarono a Praga ero entrato da pochi mesi nella direzione provinciale del Pci a Pistoia e, se non ci fosse stata una presa di distanza chiara, mi sarei dimesso. La presa di posizione ci fu, e fu quindi diverso rispetto al ‘56, ma, col senno di poi, anche quella del ‘68 non fu sufficiente. Il partito prese posizione ma non ruppe definitamente il vincolo con l’Urss.

 

È possibile dire che è stato anche un problema di “tempi”?

Si. Il momento giusto per prendere definitivamente le distanze dall’Unione Sovietica, per fare una forza unica di sinistra in Italia, era stato il 1956. Quello è stato l’errore più grande del gruppo dirigente di Togliatti.

Noi più giovani abbiamo la responsabilità di non aver percepito il problema e di aver pensato che non fosse un problema. Su questo aveva ragione Renzo Bardelli: già dalle vicende di Praga ci rendemmo conto del peso negativo, ma ci è voluto troppo tempo per rompere il vincolo con l’Urss, perché dal ‘68 all’89 son trascorsi vent’anni. Occhetto già percepiva il problema: «attenzione – diceva – il fallimento dei paesi dell’Unione Sovietica riguarda innanzitutto quei partiti che ne sono stati protagonisti, ma tocca anche noi che ci chiamiamo così, pur non avendo quelle responsabilità, e toccherà anche tutte le forze della sinistra europea». Durante quegli anni di passaggio sono stato convinto di due cose: bisognava andare oltre e la campana suonava per tutti.

 

Vannino Chiti, nato a Pistoia nel 1947, è entrato nel Pci a vent’anni. Nel 1989 era consigliere regionale del Pci, già sindaco di Pistoia dal 1982 al 1985, e futuro presidente della Regione Toscana dal 1992 al 2000. Eletto deputato nel 2001, è stato Ministro per le riforme istituzionali e i rapporti con il Parlamento dal 2006 al 2008. È stato eletto senatore nel 2008 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Senato dal 2012 al 2013.

 

Francesca Perugi collabora da anni con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e ha appena concluso un dottorato in storia del cristianesimo contemporaneo presso l’Università Cattolica di Milano. Si è occupata di storia repubblicana italiana e pistoiese. Tra le sue pubblicazioni: Racconti di vita e di lotta. Storie di mezzadri pistoiesi, in S. Bartolini, La mezzadria nel Novecento, Settegiorni 2015 e “Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «QF. ​Quaderni di Farestoria», I.S.R.Pt Editore, Pistoia, Anno XVI, n. 3, settembre-dicembre 2014,​ pp. 43-50​​.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




Nel 10 di febbraio del 2020

È il sedicesimo anno di una data del calendario civile italiano, il 10 febbraio, non facile, come nulla è facile, nella costruzione della coscienza storica e civile, anche in presenza di leggi che fissano i giorni dell’obbligo di ricordare; rimane “passato che non passa” quello di cui non c’è solida conoscenza storica.

In Toscana si raccoglie l’eredità di un lungo e fertile impegno per la conoscenza e la disseminazione di sapere storico e la creazione di opportunità educative, partito già nel primo anno di istituzione del Giorno del Ricordo. Si sono susseguiti progetti importanti, che hanno incrociato le scelte culturali dell’ISGREC e della rete regionale di Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea con la volontà della Regione Toscana di applicare questa ed altre leggi nazionali o europee di memoria con interventi non occasionali.

La storia del confine alto-adriatico di cui parla la legge istitutiva del Giorno del ricordo era già stata scritta, non in piccola parte, ma non era ancora compiutamente patrimonio collettivo, prima del 2004. Se ne erano assunti il compito per primi storici appartenenti o originari dell’area giuliana. Sono lontane le opere di Ernesto Sestan, o gli studi di Teodoro Sala, per citarne alcune. È vero che nell’ultimo quindicennio si è fatta lunga la lista di opere pubblicate. Né era poca la memorialistica, specchio di sofferenze vissute dai sopravvissuti alle violenze degli anni della guerra o alle precedenti, di quando erano slavi e antifascisti ad esserne vittime.

Un piccolo libro, autore lo storico Guido Crainz, aggiunse nel 2005 uno strumento prezioso, per sua ammissione destinato a offrire proprio agli insegnanti un impianto concettuale alla difficile storia del confine “laboratorio della storia del Novecento”, italiana ed europea. Fu un contributo di metodo e merito, utilissimo a dare una dimensione europea alle storie di confine, dove le guerre del Novecento hanno lasciato ferite di violenze e, nell’Europa centrale, determinato spostamenti epocali di popolazione, milioni di profughi. Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa1 costituì un breviario per molti insegnanti di storia. È una storia che guarda di qua e di là dalla linea del “confine mobile”, fino all’ultimo, definitivo tratto di penna sulla carta geografica, tirato nel 1975 dalle diplomazie italiane ed europee. Queste parlavano un linguaggio diverso da quello delle memorie della gente di confine, che racconta storie di sofferenze e di abbandoni, di spaesamenti vissuti altrove, nell’esilio. Sono stati spesso i poeti e gli scrittori a dare voce ai loro sentimenti. Anche qui potremmo comporre una lunga lista, da toscani richiamare alla memoria il legame storico fra Trieste e Firenze, alleanze fra intellettuali, che sono state evocate in opere importanti. Allo straniamento di una lunga incertezza sul futuro, che per tanti precedette il dolore dell’abbandono e dell’esilio, dava forma poetica – solo un esempio scelto fra tanti – Giani Stuparich, nel 1948:

Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia, quando i potenti del mondo giocavano col ostro piccolo destino. Speranze e delusioni si alternavano, si passava dall’esasperazione all’abbattimento, dall’abbattimento alla rivolta. I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, o guardando da ogni parte, se non fosse per sopraggiungere qualche sorpresa che li scotesse, o li annientasse per sempre. I fuggiaschi di Pola e dell’Istria sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie.2

Una gran parte di quelle masserizie è ancora ammassata nelle stanze di Padriciano, uno dei centri profughi triestini. Una delle guide di Padriciano raccontò agli studenti toscani nel viaggio di studio del 2018 il senso dello sguardo sbigottito, che ci mostrò, nella foto di una donna che stringeva una sedia, fuori dall’edificio del campo. D’improvviso aveva riconosciuto qualcosa che le apparteneva, visitando quel luogo, e dopo aver urlato: “La mia sedia!” , l’aveva afferrata, stretta come per paura di perderla di nuovo e portata via.3

copertinaQuando alla progressiva crescita di conoscenza della storiografia si aggiunse la somma fra le suggestioni della letteratura, la scoperta delle testimonianze di gente comune, l’esperienza dei luoghi, per il lavoro dell’ISGREC e di altri istituti toscani, iniziò la stagione della produzione di strumenti utili non a coprire un vuoto, ma a farsi carico della scarsità di risorse per la scuola. In pochi anni: un primo viaggio di studio, un libro di strumenti didattici, una mostra e il primo fra i documentari4. Vale la pena di ricordare – lo abbiamo fatto poche settimane fa con Raoul Pupo – un convegno grossetano che risale al 1996 (Guerre civili nell’Europa del Novecento, i cui atti furono pubblicati a cura di due insegnanti5). Nel tempo a Grosseto è nata la curiosità per una storia che ci riguardava: quanto e come la storia di quell’esilio aveva toccato la comunità grossetana?

Così ha avuto inizio l’esplorazione di archivi locali e nazionali di Laura Benedettelli, insegnante-ricercatrice, che prima e più di altri frequentò letture importanti, appassionandosi in particolare alla scrittura femminile: Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori…

Le carte dell’Ufficio affari di confine, a Roma, quelle dell’Archivio di Stato e della Prefettura, a Grosseto, la ricognizione sulla stampa locale andarono per anni di pari passo con lo studio. Non è stata impresa facile per la complessità che ognuno riconosce alle vicende del Novecento giuliano-dalmata e istriano. Abbiamo imparato da subito che era un terreno complicato, a ogni passo con il rischio di malintesi e contestazioni. È accaduto e accade, ora più che mai, con le ombre del Novecento, di cui sono una rappresentazione gli accadimenti affrontati dalla ricerca di Laura Benedettelli, impossibile da racchiudere nei limiti degli anni della seconda guerra mondiale.

Sono stati trovati numeri e nomi dei profughi arrivati a Grosseto, spesso dopo viaggi in più tappe, tra cui i campi profughi disseminati in tutto il territorio nazionale. Ogni storia personale e familiare ha similitudini e singolarità, rivelate dalle interviste. La ricerca ha riportato alla luce i dibattiti, sorti nelle sedi istituzionali e testimoniati dalle cronache della stampa locale. Fino alla definitiva accoglienza, alla costruzione del “palazzo dei profughi”, dove molti trovarono infine casa.

La prima edizione è stata un e-book6, che oggi si è deciso di stampare, anche se le risorse disponibili hanno consentito solo un piccolo numero di copie. Allegati all’e-book erano documenti sulla storia generale, dai trattati alle norme di legge, alle circolari applicative emanate nel corso degli anni, che rimangono consultabili on line, nel sito web dell’ISGREC Questi dati sono utili a comprendere il contesto di questo frammento di una storia che ha messo l’Italia, in analogia con il più vasto contesto europeo, di fronte a scelte politiche. I popoli, e dunque gli individui coinvolti, sono stati messi di fronte a scelte personali. Le guerre del Novecento hanno prodotto, anche se in forme diverse, il fenomeno della profuganza, dell’esilio, della migrazione, volontaria o forzata.

esodo pola

L’esodo da Pola, 1947

È una lezione per ogni tempo, anche se per i nuovi profughi del XXI secolo il distacco dalla patria ha una fenomenologia diversa e più estesa, da quando il mondo è diventato di fatto globale e le distanze si sono accorciate. Nella “letteratura di confine” del Novecento, che abbiamo letto insieme agli studenti, il viaggio sembra il sostrato di ogni vicenda narrata, in una accezione non certo turistica. Come ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris7, dove si parla di spaesamenti per chi si allontana dal proprio luogo e anche di ritorni. Per lo scrittore triestino, che ha dedicato gran parte della sua scrittura al tempo della guerra e alle sue conseguenze, al tema del viaggio corrisponde l’idea di frontiera. Magris evoca, richiamando i ricordi della sua infanzia, il paesaggio che gli era stato familiare, guardato dal Carso. Quello stesso paesaggio era diventato la “Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due”, dietro alla quale c’era “…l’ignoto…il mondo dell’est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato”8  Col tempo, altri mutamenti hanno dato altri significati agli stessi luoghi, portando alla scoperta che si è sempre sia di qua che di là dalle frontiere.

Non è stato facile decifrare fino in fondo i ricordi degli esuli ascoltati da Laura Benedettelli, capire se hanno percepito la comunità grossetana come estranea e sentito una frontiera fra loro e “gli altri”. Gli atti concreti sembrano configurare una comunità accogliente, anche se non è scontato che non ci fosse traccia di indifferenza o diffidenza. Le nuove, attuali migrazioni hanno origini e motivazioni inedite, ma hanno una similitudine con quelle degli esuli istriano-fiumano-dalmati, perché esito di viaggi analogamente tortuosi, di attraversamenti di frontiere.

Fra i caratteri originali della Maremma c’è il suo essere terra di migrazioni, di inserimento nel lunghissimo periodo di nuclei di popolazioni, che sono state indispensabili e l’hanno resa migliore. Grosseto è diventata città solo grazie a migrazioni dalle provenienze più diverse; qui si ha la consapevolezza di avere origini “oscure”. Pensando a questo dato storico, probabilmente quell’accoglienza, dal secondo dopoguerra in poi, è stata reale.

Perché conviene ricostruire un itinerario noto, più volte documentato in queste stesse pagine? Ce lo suggerisce quel che era sperato e non è avvenuto: la presa d’atto di una uscita dal silenzio della storia del “confine difficile”, della disseminazione di sapere e coscienza critica nella scuola, di un impegno finalizzato a sottrarre a diatribe politiche vicende complesse e dolorose. Il 2020 sembra essere l’annus horribilis per i tentativi di annullare l’eredità di tanto lavoro. Il presente è fotografato da lapidi in memoria di crimini razzisti imbrattate, dalle stolpersteine (le pietre d’inciampo con cui l’artista tedesco Gunter Demnig sta riportando a casa, almeno con la memoria, i deportati europei nei lager nazisti) deturpate. I segni di antisemitismo crescono con un razzismo a tutto campo. Episodi di discriminazione e rifiuto, fino alle aggressioni fisiche ai diversi, per colore della pelle, culture e credo religioso sono quasi quotidiani.

In questo clima, il racconto del dolore delle vittime delle foibe o di altre forme di violenze e di perdite – l’abbandono di luoghi della propria vita e la profuganza, che vecchie e nuove memorie testimoniano, è scagliato come un proiettile, in un dibattito pubblico che ha come protagonista la politica. Rischia di entrare in crisi il dialogo avviato da tempo fra popoli e Stati del confine – Italia, Croazia e Slovenia – se si spingono le memorie personali verso il rancore. Quanto alla memoria collettiva, è ancora in corso la faticosa elaborazione del lutto per le vicende del confine alto-Adriatico, dopo troppo lunghi silenzi. Silenzi erano seguiti anche alla persecuzioni di ebrei e alla deportazione politica, da poco si sta recuperando quella degli internati militari italiani nei campi del III Reich. La legge istitutiva della Giornata della memoria precede solo di quattro anni la fissazione del 10 febbraio per ricordare foibe ed esodo.

esodo 2

Profughi si imbarcano a Pola, 1947

Le memorie, individuali e collettive, sono situate nel tempo, del mutare del clima sociale e politico. Sono verità mutevoli, fonti accanto ad altre. Ora che l’era del testimone sta finendo, a maggior ragione dovrebbe prevalere la voce della storia, lo sguardo al passato con il filtro di domande, che servono a superare il semplice racconto con la spiegazione. È devastante, rispetto al bisogno di verità storica, la confusione fra eventi e fenomeni diversi, la frammentazione di racconti che rimangono inspiegabili cronache, se rifiutano la stratificazione dei tempi lunghi e brevi, dei diversi livelli di responsabilità individuali e collettive. Non è per sminuire le violenze di confine, opera dei partigiani titini, che si pretende di interpretare foibe ed esodo nel tempo lungo del Novecento, o di fare luce sulle responsabilità italiane per le violenze taciute dei Balcani, o ricordare che non furono solo gli italiani ad essere infoibati.

Da un esule, Predrag Matvejevich, riceviamo una lezione di cogente attualità, seppure tratta da uno scritto datato 2005, all’indomani del primo giorno del ricordo:

…esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono9.

Quello scritto metteva in guardia da strumentalizzazioni e storie monche, generatrici di rivendicazioni rancorose, se fondate su fissazioni identitarie di tipo nazionalista e rigide ideologizzazioni. Se ne comprende meglio il senso pensando alla sua storia di vita. Padre ucraino, madre croata, eredità linguistiche plurime, che lo spingono a un destino di cosmopolita, a lui congeniale, ma duro da sostenere, “peccato originale” che, dice “non sarebbe piaciuto né ai nazionalisti né ai comunisti [e] ha avvelenato la [sua] infanzia”, fin quando ha scelto l’esilio10.

Scrive Walter Barberis a proposito della Shoàh che “l’abuso della memoria non è meno dannoso del cattivo uso della storia”11. Non è l’oblio la soluzione, ma l’uso critico delle memorie, un ripensamento alla luce del tempo presente degli appuntamenti con il passato, nei giorni stabiliti per legge. Il rumore di orazioni pubbliche celebrative, spesso retoriche, se non strumentali, non dovrebbe coprire i discorsi della storia, che procedono con lentezza e a voce più bassa.

Se sarà così, scrive in questi giorni lo storico Luca Bravi, non tutto sarà perduto.

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NOTE:

1 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. Le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

2 G Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Grazanti, Milano 1948, cit. ivi, p. 78-79.

3 L’episodio è avvenuto a Padriciano, nel febbraio 2018, durante il viaggio di studio degli studenti toscani. È stato il primo dei due progetti educativi promossi dalla Regione Toscana (Storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento) ed attuati grazie agli Istituti storici toscani sopra citati, giunti come impegno sistematico, dopo numerosi progetti minori, sostenuti fin dal 2007. Il prossimo 11 febbraio partiranno nuovi studenti, accompagnati da nuovi insegnanti, resi esperti da una formazione intensiva sulla storia del confine nel Novecento, con la summer school di Rispescia (Grosseto, agosto 2019).

4 Al primo documentario del 2010 – La nostra storia e la storia degli altri – , è seguito La conoscenza scaccia la paura, ambedue produzione Regione Toscana-ISGREC, regia di Luigi Zannetti.

5 C. Albana, P. Carmignani (a cura di), Guerre civili nell’Europa del Novecento, Editrice Il mio amico, Roccastrada (GR), 1999. Contiene il saggio di Raoul Pupo: Guerra civile e conflitto etnico: italiani, croati e sloveni.

6 In www.isgrec.it

7 C. Magris, L’infinito viaggiare, Grazanti, Milano 2005.

8 Ivi, p. XIII.

9 P. Matvejevic, in “Novi list”, 14 febbraio 2005 (traduzione di L. Zanoni per “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”) in https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-i-crimini-che-le-hanno-precedute

10 P. Matvejevic, Mondo “ex”. Confessioni, identità, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 1996, p. 24.

11 W. Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




Resistenza antinazista in Germania. Una mostra a Livorno

Dal 3 all’8 febbraio si terrà a Livorno la mostra L’altra Germania. L’opposizione tedesca al regime nazista, organizzata in collaborazione da Istoreco e dal Centro Filippo Buonarroti Toscana. Si tratta della presentazione al pubblico italiano di una mostra promossa in Germania dall’Associazione dei Perseguitati del regime nazista (Die Berliner Vereinigund der Verfolgten des Naziregimes). Particolarmente significativo che l’impulso iniziale alla sua realizzazione sia venuto da tre donne i cui padri sono stati condannati a morte dai nazisti: Barbel Schindler-Saefkow, figlia di Anton Saefkow, Susanne Riveles, discendente di Johannes Kreiselmaier e Annette Neumann, figlia di Erwin Freyer. Ospitata nelle sale del Cisternino di Città e inserita nel quadro delle proposte per il giorno della memoria, la mostra prevede anche alcune iniziative collaterali, fra cui la proiezione riservata alle scuole del film Lettere da Berlino di Vincent Pèrez (2016), ispirato alla vicenda ricostruita dall’avvincente romanzo di Hans Fallada (che reca invece il titolo di Ognuno muore solo). Nel libro si narra la storia realmente accaduta di due anonimi coniugi di un quartiere operaio di Berlino che, una volta ricevuta la notizia della morte al fronte del figlio, decidono di avviare una forma di personale protesta, ingenua quanto coraggiosa, contro la guerra del Führer.

Foto SaefkowQuella del “Widerstand” (la resistenza tedesca al nazismo) è una pagina di storia poco conosciuta, e in parte persino rimossa, per la difficoltà di mettere a fuoco la questione dell’opposizione interna alla Germania al totalitarismo hitleriano e per l’imbarazzo a lungo prodotto dal tema sul senso di colpa dell’opinione pubblica tedesca. Diversamente dai paesi occupati dall’espansione militare del Terzo Reich, nella patria del nazismo non si svilupparono infatti, neppure nei momenti più critici per il fronte interno, forme di lotta armata contro il regime. Un fenomeno che gli storici hanno in parte spiegato con la capillarità e la ferocia preventiva della repressione, le cui maglie strettissime si manifestarono fin dal marzo del 1933 con la costruzione dei primi campi di concentramento inizialmente sperimentati proprio su antifascisti e oppositori interni. In questo contesto il dissenso, piegato nelle sue premesse, si sarebbe manifestato solo in forme isolate e sparse attorno alle trame di alcuni circoli militari o alla sfortunata propaganda di circoscritti e ristretti gruppi borghesi, come gli universitari di Monaco di Baviera facenti capo alla Rosa Bianca, o ancora a figure eroiche espressione di una sorta di resistenza etica al nazismo come il teologo e martire Dietrich Bonhoeffer.

Al di là del notevole ruolo testimoniale di questi episodi e di singole individualità di cui anche in Italia si conosce ormai abbastanza grazie alla produzione negli ultimi anni di film e pubblicazioni, poco si sa invece dell’esistenza di aree o di forme di avversione alla penetrazione del serrato progetto totalitario nazionalsocialista. La completa e rapida conquista della società all’ideologia del Terzo Reich viene di norma data per assodata, anche con riguardo a quei ceti sociali, come la classe lavoratrice salariata delle cinture industriali e dei quartieri operai delle maggiori città, a cominciare da Berlino, elettoralmente più ostili all’avvento di Hitler. Non si deve dimenticare che ancora nelle ultime elezioni libere del marzo del 1933, già pesantemente condizionate dall’inquietante incendio del Reichstag e dai primi rilevanti provvedimenti repressivi verso le forze di opposizione, i due partiti della sinistra (comunisti e socialdemocratici) continuarono a sopravanzare largamente nella capitale (52,6% contro il 31,3%) il partito della croce uncinata.

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Dietrich Bonhoeffer

Già dalla ricostruzione del più ampio contesto in cui si muovevano i coniugi Quangel (Hampel nella realtà) del citato romanzo di Fallada, rappresentato da storici quartieri rossi come Wedding, Moabit o Neukölln, era possibile scorgere l’intenzione dell’autore di descrivere un ambiente popolare non pienamente piegato al nazismo, un microcosmo sommerso che nel suo vissuto quotidiano non sempre si muoveva secondo i comportamenti d’ordine e le pretese e di disciplina auspicati dal Fuhrer e dai suoi uomini. Non un’opposizione organizzata certo, ma una forma di istintiva ripulsa esistenziale a una nazificazione completa che sembrava esprimere un ethos fondamentalmente resistenziale a un ordine che pretendeva adesione assoluta. La mostra ospitata a Livorno, e relativa non a caso soprattutto all’esperienza di Berlino, va un passo oltre, cercando di far emergere una serie di vicende in cui la politica ha un ruolo indubbio e attivo e da cui emerge come nella metropoli la resistenza al nazismo sia stata essenzialmente operaia. Dalle molte storie personali presentate dai pannelli in esposizione emerge quanto in segreto si mossero e si attivarono, soprattutto sotto lo stato di guerra, cellule e trame clandestine in cui protagonisti furono soprattutto soggetti già legati alle formazioni politiche e sindacali della sinistra tedesca liquidate dopo l’assunzione dei pieni poteri da parte del neocancelliere di origini austriache. In particolare i capi di questa rete come Anton Saefkow, Franz Jacob, Bernhard Bästein erano stati quadri del Partito Comunista tedesco (KPD) e dopo il 1933 avevano conosciuto lunghi periodi di dura detenzione in penitenziari e in campi di concentramento. Ma a questo movimento organizzato, che giunse a reclutare circa cinquecento persone (di cui un quarto donne) si unirono anche molti che non avevano avuto in precedenza esperienze partitiche ma che avevano motivi concreti o ideali che li spingevano a sperare nell’immediata fine della dittatura. Dai diversi pannelli tematici è possibile conoscere con ampiezza di dettagli le sconosciute biografie di questi resistenti, i luoghi di azione delle loro reti cospirative (in cui un ruolo di spicco ebbero le fabbriche), le collaborazioni instaurate (con ebrei e lavoratori coatti, con elementi borghesi, con soldati arruolati nella Wehrmacht o con medici ospedalieri) e le modalità della loro azione alle prese con i costanti problemi posti dai rischi rappresentati dalla delazione e dal controllo capillare sulla società degli apparati nazisti.

La gran parte delle vicende individuali ricordate e raccontate nella mostra finirono tragicamente. Uomini e donne delle organizzazioni berlinesi di resistenza furono giustiziati o morirono in carcere e nei campi di concentramento. Non riuscirono dunque a salutare la liberazione della città, né a prepararne di fatto l’avvento che fu dovuto esclusivamente allo sforzo delle truppe sovietiche impegnate nella sanguinosa battaglia di Berlino. Il loro principale lascito si materializzò dunque in un martirio soprattutto testimoniale. A chiudere l’esposizione è infatti una sezione, dal titolo Ultime lettere, che contiene una piccola selezione di commoventi messaggi di commiato scritti ai famigliari, nelle ore immediatamente precedenti alla loro esecuzione, da alcuni dei condannati alla decapitazione dalla famigerata Corte popolare di giustizia del Reich. Parole da cui traspare soprattutto il profondo dolore privato per l’abbandono dei più cari affetti famigliari, ma nelle quali l’umanissima paura della morte non si abbandona neppure per un attimo a un sentimento di pentimento. Perché la Germania di Hitler era un luogo in cui non era possibile vivere, né immaginare un futuro, un inferno in terra rispetto al quale ogni scelta, per quanto rischiosa, appariva ai nostri resistenti preferibile e ammessa.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Memorie del ’73: Livorno a fianco del popolo cileno

Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, che portò alla tragica morte del presidente Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare del generale Augusto Pinochet, attivò una delle più straordinarie mobilitazioni di solidarietà per un fatto di politica estera nel mondo, con l’Italia in primo piano nell’accoglienza dei rifugiati cileni. Secondo i dati dell’Istituto Cattolico per le Migrazioni su una popolazione di 13 milioni, circa un milione di cileni fu costretto ad abbandonare il paese per ragioni politiche a causa della dura e massiccia repressione inaugurata dal regime. L’interessamento italiano agli affari cileni fu, ancor prima del golpe, di carattere eminentemente politico e ad esso contribuirono in maniera rilevante gli intensi rapporti fra i partiti della sinistra cilena e di quella italiana. Per questo appare interessante l’atteggiamento tenuto in quella vicenda da una “città rossa” per antonomasia come Livorno.

La raccolta di alcune testimonianze orali di ex militanti e amministratori comunisti e i ricordi personali di uno degli esuli cileni che furono accolti a Livorno all’indomani del colpo di stato hanno consentito di mettere in luce aspetti dell’opera svolta dalla società civile e dal Pci nell’organizzare pratiche di solidarietà in favore dei rifugiati cileni.

Il punto di partenza di questa ricerca è un ex cinema di Livorno dove il nostro testimone cileno, Rafael Aguirre, si ritrova ogni settimana insieme ai suoi compagni del coro per provare.

Dopo poco i coristi decidono di preparare per la prossima esibizione “El pueblo unido jamás será vencido”, una delle più note canzoni legate alla presidenza di Salvador Allende (1970-1973) e al movimento di Unidad Popular.

IntiQuesta canzone è più attuale che mai: recentemente la tensione tra la popolazione civile cilena e le forze armate è sfociata in violenze che ricordano il passato e in migliaia sono scesi in strada a Santiago in segno di protesta intonando questo inno alla resistenza. Perché l’impatto emotivo suscitato da questo brano è ancora così forte? Cosa ha rappresentato per la generazione di cileni che ha vissuto il ‘73? E dalla prospettiva dei comunisti italiani cosa ha significato?

Come ricorda Mauro Nocchi, storico militante comunista di Livorno, l’esperienza della «via cilena al socialismo», sperimentata per la prima volta nella storia dal presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, fu salutata dai comunisti italiani con grande entusiasmo:

Era un’esperienza importantissima, per noi rappresentava l’applicazione concreta di quello che già Togliatti aveva teorizzato nell’VIII Congresso (del Pci) fino alla morte, che era la «via italiana al socialismo». L’unità popolare era il fulcro di questo tentativo di trasformazione della società.

Tra i vari provvedimenti previsti dal progetto di riforma di stampo socialista cileno vi era anche il proseguimento della riforma agraria, che era già stata avviata dal governo precedente, guidato dal democristiano Eduardo Frei Montalva e che aveva portato alla nazionalizzazione di numerosi latifondi e a svariate occupazioni di terreno (“tome”). Il 3 novembre 1970, in un clima di fermento popolare, anche la famiglia di Rafael Aguirre, ottenne un piccolo appezzamento di terreno; da quel momento la sua vita inizierà ad intrecciarsi in modo indissolubile con l’esperienza allendista.

Dal 23 giugno 1973, data in cui avviene il primo tentativo fallito di golpe conosciuto come il “Tanquetazo”, si profila una minaccia concreta all’assetto democratico del paese. Successivamente a questo evento Aguirre (insieme ad altri cinque compagni che faranno parte del gruppo di rifugiati politici a Livorno) entra in contatto con le milizie di protezione di Allende, il cosiddetto «Grupo de amigos del Presidente» (Gap) e viene portato in incognito alla scuola di addestramento paramilitare presso la località montana di Cañaveral:

Noi eravamo lì da circa dieci giorni quando è iniziato il golpe. Quella mattina (11 settembre ‘73) ci hanno avvisato che i militari si erano sollevati a Valparaiso, di Santiago ancora non sapevamo niente; ci hanno dato delle armi e ci hanno mandati alla casa privata di Allende, in Tomás Moro. Quando siamo arrivati lì Allende era già partito per la Moneda, era rimasta la moglie, “la Tencha”, con le figlie. Quando iniziarono i bombardamenti, alcuni compagni del Gap portarono via i familiari del Presidente. Circa a quattro o cinquecento metri dalla casa c’erano i militari. Noi eravamo disposti a difendere il governo. Il combattimento non è durato molto, ma abbiamo resistito, i militari provarono ad entrare, ma non ci riuscirono. Io sono stato colpito da alcune schegge alla testa, il taglio più grande era quello al costato, senza conseguenze per fortuna. Abbiamo dovuto lasciare le armi e siamo scappati […] Bisognerebbe cominciare a prepararsi prima e non all’ultimo momento quando le cose precipitano. Forse è stato quello lo sbaglio dell’Unidad Popular e dei partiti di sinistra.

Una delle prime zone che perquisirono [i golpisti] fu il quartiere dove abitavamo noi, Lo Hermida, con un dispiego di forze enorme, c’erano i carri armati in strada […] Per più di una settimana non ho visto i miei compagni, cambiavo sempre casa e cercavo di evitare le pattuglie dei militari […] Durante quel periodo, durato almeno un mesetto, ci vedevamo sporadicamente e scappavamo per salvarci la pelle. Non sapevamo se i nostri nomi erano caduti nelle mani dei militari o no, di quelli che avevano occupato il Cañaveral, non sapevamo se i dirigenti erano riusciti a salvare i nostri documenti.

E aggiunge che negli anni seguenti:

a mano a mano venne pubblicato l’elenco con i nomi delle persone che non erano più ricercate [dalla Junta Militar]. Il mio nome faceva parte della lista. Era una lista enorme.

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“Il Telegrafo” di Livorno, 13 settembre 1973

Il golpe cileno segnò profondamente la società civile italiana, già di per sé inquieta e profondamente politicizzata, ma resa ancor più ricettiva dai timori di un’involuzione autoritaria del paese. Furono organizzate sin dai primi giorni in diverse città italiane, tra cui Livorno, numerose manifestazioni a sostegno del popolo cileno. Il quotidiano di Livorno “Il Telegrafo” in data 13 settembre ’73 riporta la notizia di reazioni di ferma protesta per il golpe cileno in tutti gli ambienti politici e sindacali cittadini, ma anche di astensioni al lavoro in segno di solidarietà con il popolo cileno e di una manifestazione unitaria presso il teatro “4 Mori”. Anche le parole di Mauro Nocchi ritraggono una città profondamente solidale:

Alcuni giorni dopo il golpe si organizzò al Goldoni un concerto con gli Inti-illimani (gruppo musicale andino n.d.a.). Questa fu la prima cosa che si fece. Con le canzoni che cantavano avevano già la linea politica.

Queste azioni di solidarietà si fondavano su valori condivisi da una parte consistente della società italiana, di giustizia sociale e antifascismo, proprio come testimonia il sindacalista della Cgil, Bruno Picchi:

I lavoratori si ritrovarono in Piazza della Repubblica […] C’era la consapevolezza di cosa significasse quel gesto. C’era tensione, nel senso di dover difendere i valori che ci avevano lasciato i nostri padri.

Intanto si diffondono le prime notizie delle terribili violenze subite dagli oppositori politici del regime di Pinochet. A livello istituzionale, l’Italia non riconosce il nuovo governo cileno.

Sempre Nocchi ci fornisce un’importante testimonianza riguardo alle azioni di protesta contro il regime:

Venne fuori l’idea di non far giocare la coppa Davis in Cile come atto di protesta. Io mi ricordo feci un manifesto, c’era lo stadio di Santiago con i prigionieri e la polizia che li sorvegliava con scritto sotto: “non si gioca nei lager”

Il Pci si impegnò in una mobilitazione organizzativa e propagandistica senza precedenti per un fatto di politica estera. La stampa di partito fu letteralmente tappezzata da notizie provenienti dall’America Latina a partire dall’autunno del 1973, in modo da fare del golpe che aveva affossato la democrazia cilena un motivo di discussione con l’intento esplicito di creare un clima utile al rilancio del Pci e della sua strategia.

L’allora segretario di partito Enrico Berlinguer, assieme ad altri dirigenti, aveva compreso già da tempo che l’«immobilismo dignitoso» in cui stagnava il partito non poteva più continuare. Il golpe cileno fece da catalizzatore, infatti a un mese da questo tragico evento Berlinguer decise di pubblicare una serie di articoli sulla rivista «Rinascita», nei quali espose l’idea del «compromesso storico» fra i principali partiti di sinistra: Pci, Dc e Psi, per impedire che l’Italia fosse colpita dallo stesso destino.

Dal punto di vista di Picchi la proposta di Berlinguer significava:

Ricercare nell’avversario di sempre le migliori forze, le migliori energie, per rafforzare la democrazia e una politica che fosse utile ai più deboli.

Per Daniela Bertelli (militante del Pci di Livorno):

Fu un fenomeno che portò ad un ripensamento sulla linea del Pci e non ebbe scarsa influenza sulla nostra politica […] Io ho creduto nel compromesso storico. Il discorso della differenza, che è un punto forte del femminismo italiano, per me era molto presente come modo di stare nel mondo. Questo perciò mi faceva anche essere aderente ad un tipo di impostazione come quella del compromesso storico.

Nel frattempo Rafael Aguirre, insieme ai suoi cinque compagni (e a molti altri oppositori di sinistra), decide di mettersi in salvo saltando il muro dell’Ambasciata italiana a Santiago, in modo da sfuggire alla spietata “caccia all’uomo” che si stava svolgendo all’esterno.

Quando eravamo all’Ambasciata i familiari passavano di fronte al cancello, noi li vedevamo, ma non potevamo dire niente, perché c’era sempre una pattuglia di militari; potevamo solamente mandare delle lettere alla famiglia tramite i funzionari del Consolato.

Dopo alcune settimane, Aguirre ed altri rifugiati ottengono il salvacondotto ed hanno circa 24 ore di tempo per abbandonare definitivamente il paese; grazie ai voli umanitari organizzati dall’ONU raggiungono Roma il 23 dicembre 1973 dove vengono in un primo momento accolti presso l’hotel Imperator, che era uno degli alloggi messi a disposizione dalla città capitolina per ospitare gli esuli cileni.

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La scheda di un esule cileno (Archivio Istoreco, Livorno)

Il palazzo romano di largo Torre Argentina diviene la sede dell’associazione “Italia-Cile” e dell’organizzazione internazionale “Chile Democratico”; in poco tempo Roma si trasforma nel maggiore centro propulsore, su scala internazionale, della massiccia azione di sostegno alla causa cilena.

Nel marzo del 1974 ad Aguirre e ad altri cinque compagni viene assegnata come città ospitante Livorno, partono quello stesso mese alla volta della città toscana. Solo nell’agosto del 1974 viene raggiunto dalla moglie Lina e dai figli, il ricongiungimento familiare era stato possibile grazie alla richiesta avanzata da Aguirre alla Croce Rossa internazionale presso l’Ambasciata italiana a Santiago.

Come testimonia Nocchi:

Alcuni cileni vennero anche a Livorno. Noi li aiutavamo come potevamo, alcuni trovarono lavoro nelle cooperative, poi piano piano si sono dispersi, c’è chi si è sposato, chi è tornato in Cile; poi nel tempo non li conosci più come cileni, sono livornesi […]

Inoltre, ci tiene ad evidenziare che:

Tutti i cileni che venivano stavano zitti. Erano talmente allibiti, addolorati da quello che era successo in Cile, che non se la sentivano di parlare. Sembra un po’ quello che accadde agli ebrei che tornarono dai lager nazisti.

Questo silenzio durato ben 46 anni che viene interpretato da Nocchi come reazione ad un sentimento di vergogna e sdegno per quanto accaduto, a mio avviso, può essere letto in parte anche come la conseguenza del sentimento di paura che, come affermato in un suo intervento dall’ex ambasciatore italiano Enrico Calamai dopo le sue esperienze in Argentina e in Cile durante gli anni Settanta, lascia tracce profonde anche a distanza di anni.

Questa testimonianza, come molte altre raccolte in questi anni da altri studiosi, è una memoria traumatica; un indicatore di questa sofferenza è il documento rilasciato dall’Ambasciata italiana a Santiago al nostro testimone, il quale successivamente deciderà di strapparlo. Oggi più che mai, è necessario rimettere insieme i pezzi di quel documento e ricomporre quella storia fatta di violenza e di nostalgia, ma anche di solidarietà e vicinanza.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




«E si divisero il pane che non c’era»*

[*Riprendo il titolo da quello dal volume: R. Borri Marinucci, M. L. Fabiilli Faraglia, M. Setta (a cura di), E si divisero il pane che non c’era, ricerca interdisciplinare del Liceo Scientifico ‘E. Fermi’ di Sulmona, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi, 2009.]

Vissuto dall’intero Paese con incredulità-stupore-gioia-preoccupazione-smarrimento, l’annuncio dell’armistizio si era propagato rapidamente anche all’interno dei circa 62 campi per internati militari –in  Toscana ne esistevano cinque: PG 12 Candeli (Bagno a Ripoli), PG 27 San Romano (Pisa), PG 38 Poppi, PG 60 Colle Compito (Lucca), PG 82 Laterina, assieme a quelli di Gavorrano, Niccioleta e Ribolla, classificati come campi di lavoro, ma di cui non si hanno notizie certe circa il reale funzionamento- divenendo per gli oltre 70.000 prigionieri inglesi e americani, trattenuti per mesi o anni dietro il filo spinato, la concreta speranza di una rapida riconquista della libertà.

Manca un numero certo che dia conto di quanti fossero complessivamente i soldati alleati allora detenuti in Italia. La cifra oscilla tra i 75.000 uomini – secondo il Basic Document  – e quanto riportato da Winston Churchill, che parla di circa 85.000 militari.

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Campi e ospedali per prigionieri di guerra in Italia. (Fonte: R. Absalom, L’Alleanza inattesa)

Come testimoniato dalle meticolose annotazione prodotte dall’Ufficio Prigionieri dello Stato Maggiore dell’Esercito, il numero di internati anglo-americani in mano italiana – per lo più britannici della madrepatria, “altri sudditi di sua Maestà” soprattutto sud-africani e oltre un migliaio di americani – era cresciuto in modo esiguo nel corso dei primi sei mesi del 1942 (dai 15.179 censiti in data 1° aprile, ai 15.495 del 1° giugno) aumentando, poi, rapidamente in seguito alla vittoriosa battaglia di Rommel a Tobruk del 21 giugno 1942; dopo quella data il numero di prigionieri era rapidamente triplicato, arrivando a toccare, alla fine di ottobre, i 75.529; un incremento così cospicuo da richiedere sia lavori di ampliamento nei campi già operativi, sia la messa a punto, ex novo, di altre soluzioni.

Fonti alleate raccontano che, nei giorni successivi alla resa, nelle ore antecedenti l’arrivo delle truppe tedesche, circa 30.000 militari ebbero la possibilità di abbandonare i luoghi di detenzione. Sebbene migliaia di uomini tornarono ben presto a essere prigionieri, questa volta in Germania – secondo il War Office, al 20 dicembre 1943, circa 50.000 internati detenuti in precedenza in Italia erano stati trasferiti oltre confine- circa 12.000, riuscì a mettersi in salvo, rifugiandosi nelle campagne, il paesaggio più comune al di là del filo spinato.

Mentre a Nord, ma pure in Toscana ed Emilia Romagna, l’assistenza agli evasi si avvalse anche dell’opera di vere e proprie organizzazioni gestite dagli Alleati, dai partiti politici nazionali (A Firenze, ad esempio, il Partito d’Azione aveva costituito la Commissione di Assistenza ai Prigionieri) o da gruppi di religiosi (ne era esempio la Rome Organization sorta tra le mura dei palazzi vaticani); più a Sud, nelle Marche, in Abruzzo, Molise e nel Lazio, la sopravvivenza di migliaia di prigionieri si legò essenzialmente alla libera iniziativa dei singoli e all’azione di gruppi locali auto-gestiti. E fu questa, in generale, la tendenza dominante: isolato e di portata minore, il soccorso in forma organizzata finì, ben presto, con l’essere l’eccezione piuttosto che la regola e i fuggitivi si trovarono, assai più di frequente, a dover fare affidamento sulle capacità d’improvvisazione dei contadini.

In modo del tutto inatteso e con dinamiche che spesso si ripetevano di villaggio in villaggio, di casa in casa, uno spicchio della popolazione rurale italiana accolse e assorbì all’interno del proprio universo i fuggiaschi, rendendoli parte integrante della quotidianità di singole famiglie o di intere comunità. Il soccorso offerto a ogni prigioniero fu il risultato di giorni o mesi caratterizzati dal costante impegno per sfamarlo, vestirlo, nasconderlo.

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Esempio di volantino diffuso dal Comando Militare Tedesco in Italia per incoraggiare la consegna di prigionieri alleati (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Modena)

In tal senso, né la minaccia del «chiunque presti aiuto in qualsiasi modo ai prigionieri di guerra evasi […] sarà punito con la pena di morte» – secondo l’Art. 1 del decreto ministeriale 9 ottobre 1943 «Norme penali di guerra relative alla disciplina dei cittadini» della Repubblica Sociale Italiana- né le lusinghe dell’«a coloro che riconsegnino i prigionieri di guerra inglesi e americani fuggiti verrà immediatamente corrisposta una ricompensa di 1.800 lire» -del Comando Militare Tedesco in Italia- ebbero l’effetto di dissuadere molti dall’intervenire in sostegno dei fuggitivi.

Era la fame, più forte della paura, a indurre gli evasi, ignari del come sarebbero stati accolti, a bussare alle porte di masserie e di piccoli poderi o, al contrario, erano proprio i locali, che li scoprivano malconci e affamati a vagabondare tra gli orti e le vigne, a invitarli nelle case affinché potessero rifocillarsi con un pasto caldo o un bicchiere di vino.

Tra le colline toscane, lasciatosi alle spalle il campo di Laterina, Frank, soldato della Royal Artillery, catturato a Tobruk nel giugno 1942 e poi trasferito in Italia, aveva trovato rifugio a Montebenichi (Bucine, Arezzo) fino al maggio 1944, quando aveva deciso di raggiungere il fronte a Sud venendo però ricatturato dai Tedeschi nella zona di Sinalunga.

Il vino era stato immediatamente messo a disposizione di tutti i commensali, mentre la moglie Rosa e le due figlie preparavano la cena: minestra con fagioli, patate e spinaci, ingredienti tipici della cucina contadina:

un pasto semplice, ma a noi quattro era sembrato un banchetto. Era una famiglia di contadini molto povera e la volontà di condividere il loro cibo con quattro estranei è stata encomiabile […] Una bella dimostrazione di quanto la moglie di un contadino toscano possa fare con pochissimo (F. Unwin, Roll on Stalag)

Case, fienili, grotte, capanne fagocitarono i prigionieri e, in molte occasioni, l’ospitalità richiesta per una notte divenne offerta di accoglienza per settimane o anche mesi. Non era cosa rara che i padroni di casa cedessero ai prigionieri i propri letti, preparati con la biancheria migliore; e, tuttavia, quando la permanenza si prolungava, diveniva necessario trovare loro nascondigli più sicuri, all’interno dell’abitazione o nella stalla; oppure all’esterno, nelle baracche che sorgevano tra i campi circostanti o in buche e anfratti naturali, occupandosi, poi, di rifornirli, con regolarità, del cibo necessario.

Mentre coloro che si erano nascosti in città erano essenzialmente rimasti isolati e anonimi, dal momento che le loro vere identità erano note ai soli coadiuvanti e alle organizzazioni che se ne prendevano cura, la situazione era del tutto diversa nei villaggi, dove i fuggitivi divennero presto personaggi locali ben noti, conosciuti da tutti con il nuovo nome italiano. Quando non costretti all’immobilismo e all’isolamento per ragioni di sicurezza, questi partecipavano attivamente alla vita della casa: lavoravano nei campi, davano una mano nelle faccende domestiche e alla sera si ritrovavano con il resto della famiglia nella stalla o di fronte al camino a chiacchierare, pregare o a giocare a carte.

Così Frank, “adottato” dagli abitanti di Montebenichi, era stato invitato a partecipare all’annuale uccisione del maiale: un momento importante per l’intera comunità, uno “spettacolo disgustoso” per chi era chiamato ad assistervi ma che metteva, tuttavia, in evidenza la capacità contadina di saper sfruttare al massimo tutto ciò che l’animale poteva offrire:

Gli abitanti del villaggio uccidevano due o tre maiali ogni anno, a gennaio. […] Un uomo di nome Lello era l’addetto all’operazione. […] Sebbene sia stata una visione scioccante ho ammirato la velocità e l’efficienza con cui tutto era stato fatto. Una volta che l’animale era stato ucciso da Lello la famiglia lo raggiungeva. Le due gambe posteriori erano legati a ganci affissi alla parete e la carcassa veniva fatta penzolare. Il maiale era squarciato da un taglio che andava dalla coda alla gola e le interiora e le frattaglie erano rimosse. I bambini della famiglia arrivavano a tagliare tutti i frammenti di carne magra: quei piccoli pezzi, cotti con olio d’oliva, vino, aglio in un pentola di piccole dimensioni adagiata su una brace, erano parte della cena di quella sera. La carcassa era quindi pronta: Lello e gli uomini di famiglia preparavano vari tagli di prosciutto, carne, salsicce, braciole, lonza, salame, spiedini, trippa e varie altre delizie. Perfino la testa era cucinata e portata in tavola. […] Fui sorpreso nello scoprire che pure il sangue era utilizzato  (F. Unwin, Roll on stalag, cit. p. 15, cap. 3)

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Esempio di ‘chitties’: i biglietti lasciati dagli ex prigionieri ai propri soccorritori, affinché questi potessero usarli come prova dell’aiuto offerto (NARA, Allied Screening Commission)

Sono migliaia le storie di assistenza e in tutte c’è memoria di una pietanza o di un bicchiere di vino; di un pantalone “da contadino” indossato in sostituzione dei vecchi abiti militari, troppo corto o pieno di toppe; di una stalla o di un sotto-tetto in cui si era trovato rifugio per la notte; di un viso rugoso di donna o di un bimbo magro e chiassoso. La «solidarietà» fu per chi ne aveva beneficiato, non un concetto astratto, ma un ricordo toccato con mano: aveva il nome di persone, di luoghi, di oggetti.

E non è un caso che molti soldati, nel raccontare su carta o a voce di quei giorni, scelgano di non tradurre in inglese, ma di riportare direttamente in italiano tutti quei termini che avevano scandito e accompagnato la loro vita nei campi: non peasants, ma «contadini»; non mummy, ma «mamma». E così per tante altre parole.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




La Linea Gotica in Toscana

Con l’avvio della campagna Alleata in Italia nel luglio 1943, l’8 settembre, e la lenta risalita delle truppe angloamericane nel sud della penisola, la strategia difensiva adottata dai tedeschi diviene quella della “ritirata aggressiva”. Essa presuppone un lento ripiegamento dal sud al nord della penisola su successive linee difensive fino a un tracciato fortificato principale individuato sugli Appennini centro-settentrionali. Questa è la Linea Gotica (ribattezzata poi Linea Verde), pensata dai nazisti per arrestare il più possibile l’avanzata Alleata e alleggerire la pressione militare su altri fronti di guerra. Inoltre, questo tracciato serve per sfruttare il più a lungo possibile il bacino padano ricco di fabbriche, risorse agricole, macchinari e capi bestiame.

I lavori per costruire la linea difensiva tra Massa (sul Tirreno) e Pesaro (sull’Adriatico), circa 300 km di fortificazioni che si inerpicano tra le Alpi Apuane e l’Appennino (per una profondità che varia tra i 15 e i 40 km), iniziano tuttavia solo nel febbraio 1944.

I tedeschi affidano la realizzazione della Gotica all’organizzazione TODT che arriverà a mobilitare 75.000 operai italiani. Nelle opere di costruzione della Gotica vengono impiegati prigionieri e lavoratori coatti, ma anche volontari: lavorare alle fortificazioni significa disporre di un reddito, poter accedere alle mense e alle infermerie e non essere deportati in Germania.

Lungo la Gotica vengono allestiti dei campi di lavoro per la TODT o sotto il controllo diretto della Wehrmacht: nell’estate del 1944 ne esistono ad esempio a Castelnuovo Magra (La Spezia), ad Anchiano (Borgo a Mozzano, Lucca) alla Futa ed a Traversa nel Comune di Firenzuola (Firenze), a Sasso Marconi (Bologna). Diversi rastrellati toscani sono condotti a Monzuno, Pianoro, Loiano e Medicina in provincia di Bologna, mentre a Nord della Gotica e nell’area del Po, oltre a una serie di campi mobili, fra le principali destinazioni fra agosto e settembre si contano Sala Baganza (Parma) e Vigarano Mainarda (Forlì).

Nonostante gli sforzi tedeschi i lavori procedono a rilento e, a metà di luglio del 1944, la Gotica non è ancora pronta: per questo le operazioni di approntamento si fanno frenetiche e il paesaggio diviene un campo di battaglia attraversato da carri armati e soldati, disseminato di campi minati, sbarramenti anticarro, postazioni in cemento per mitragliatrici, bunker e fortini.

Lo spazio appenninico e apuano preesistente alla costruzione della Gotica è caratterizzato dal mondo dei contadini di montagna e scandito dal lento e circolare ciclo delle stagioni, delle consuetudini e delle abitudini secolari. E’, in sintesi, un paesaggio fisico e culturale che viene violentato e trasformato dalla costruzione della Gotica. Le comunità vengono investite, quasi sorprese, dall’arrivo dei reparti tedeschi. La guerra, il fronte e il nazismo irrompono in casa.

Agli inizi di agosto 1944 gli Alleati hanno raggiunto la linea dell’Arno e, sull’Adriatico, Pesaro. A partire dalla metà del mese le operazioni si spostano così sulla Gotica.

Il settore orientale (romagnolo e marchigiano) e quello centrale (tra Firenze e Bologna) dell’ultimo baluardo tedesco in Italia sono teatro di dure battaglie. Il settore occidentale tirrenico, invece, viene ritenuto meno importante da entrambi i contendenti.

Il 25 agosto del 1944 ha inizio l’operazione Olive, l’offensiva Alleata che si concentra sul settore orientale del fronte. Per quanto riguarda la Toscana una della più importanti battaglie in questo periodo è quella del passo del Giogo (Firenze), vinta dagli Alleati il 18 settembre dopo ingenti perdite.

Tuttavia, l’avanzata delle divisioni britanniche e statunitensi viene bloccata dal terreno sfavorevole, dal maltempo, dall’ostinata resistenza tedesca e soprattutto dalla scelte strategiche dei vertici politico-militari Alleati che preferiscono concentrarsi sul fronte francese. L’attacco termina così alle porte di Bologna e, a fine ottobre, il fronte si arresta. Nel frattempo molte zone della Toscana occidentale rimangono in mano ai tedeschi: l’Alta Versilia, la Garfagnana e Apuania (Massa Carrara).

Il punto di svolta per quest’area toscana giunge solo dopo un altro durissimo inverno, nell’aprile del 1945, in concomitanza con lo sfondamento finale su tutto il fronte: il 10 è liberata Massa, l’11 Carrara e il 27 Pontremoli.

Lo spazio della Gotica non è solo uno spazio di scontro tra eserciti: l’attività delle formazioni partigiane, soprattutto a partire dall’estate del 1944, è un serio pericolo militare e politico per i nazisti e i collaborazionisti fascisti.

Innanzitutto, perché la guerriglia partigiana sollecita o provoca la fuga degli operai dai cantieri della TODT ritardando il completamento dei lavori di fortificazione.

In secondo luogo perché proprio a partire dall’estate si moltiplicano sulla Gotica le incursioni contro presidi fascisti e tedeschi, i sabotaggi, gli attacchi contro autocolonne e i convogli ferroviari. L’attività partigiana cresce di intensità anche perché dalle prime bande si passa a raggruppamenti più numerosi e meglio armati, capaci di impegnare militarmente il nemico, come ad esempio riesce a fare nel settore pistoiese e garfagnino della Gotica la formazione XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo”. Questa crescita qualitativa e quantitativa della Resistenza è il frutto di una più efficiente organizzazione in cui i comandi partigiani cercano di coordinarsi tra loro e le diverse bande presenti tendono a unirsi in formazioni più ampie.

Il settore versiliese, apuano e lunigiano vede attive già da prima numerose bande: comuniste, gielliste e anarchiche, ma anche formazioni autonome come i “Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice o il battaglione internazionale di ex prigionieri Alleati guidati dal maggiore inglese Gordon Lett. Nel luglio e nell’agosto del 1944 in queste zone si tenta di unificare alcune formazioni: nascono con questo intento, ad esempio, la Brigata Lunense e la X Bis Garibaldi Gino Lombardi.

La guerriglia partigiana costituisce inoltre un problema per i nazisti e i fascisti perché libera e controlla intere porzioni di territorio strategicamente necessarie alla tenuta della Gotica. L’esempio più noto è quello di Montefiorino, un’area di importanza strategica perché a ridosso degli assi viari di attraversamento degli Appennini (da La Spezia a Reggio Emilia, e da Pisa e Lucca a Modena), cruciali per rifornire le truppe che combattono a sud della Gotica. Montefiorino diviene uno spazio partigiano nel cuore della Gotica: attira centinaia e centinaia di uomini, anche dai territori vicini, dal bolognese e dalla Garfagnana. Ma altri esperimenti di “territorio libero partigiano”, benché più brevi e modesti, si hanno sul settore centrale della Gotica, nei comuni della Romagna Toscana e tra i valichi della Futa e di Casaglia a opera rispettivamente delle Brigate Garibaldi 8° “Romagna” e 36° “Bianconcini”.

In ultimo, i partigiani, i quali stringono rapporti di intesa e di protezione comunitaria con le popolazioni contadine, si presentano a queste come autorità legittima e alternativa ai nazifascisti.

Per tutte queste ragioni, tedeschi e fascisti rispondono alla minaccia partigiana, che opera alle spalle del fronte, con rastrellamenti e operazioni di bonifica del territorio che non risparmiano le popolazioni locali dando luogo lungo la Gotica a una serie di stragi di civili.

Come rilevato da Luca Baldissara, la Gotica è nello stesso tempo «una linea del fronte e di confine» che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud) e due sistemi di occupazione (tedesco e Alleato). «Ma che diviene anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano alla costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati si insediano e si preparano al combattimento», dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono (anche autonomamente) stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano, dove i civili vivono una quotidianità stravolta dalla guerra[1]. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della seconda guerra mondiale.

Inoltre, qui non si combattono solo statunitensi, inglesi, tedeschi ed italiani, ma uomini in uniforme provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Australia.

«Tanti percorsi si incrociano sulla Gotica e nel suo spazio allargato, dove molti uomini giungono da mondi diversi e lontani, incontrandosi con gli abitanti e i partigiani, trovandosi nemici o alleati in guerra, costretti alla prossimità nei momenti di sospensione del conflitto, in una convivenza più o meno forzata. E’ una grande esperienza collettiva filtrata dalla guerra, che fa della Gotica anche una linea mentale»[2].

[1]L. Baldissara, Gotenstellung. Linea del fronte, linea di confine, linea “mentale”, in M. Carrattieri e A. Preti, Comunità in guerra sull’Appennino. La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, Roma, Viella, 2018, p. 43.
[2]Ivi, p. 60.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.




Migrazioni sarde e circoli tra Siena e Toscana

L’Italia, come nazione dai forti tratti regionali e dalla intensa attività migratoria, ha sviluppato nel tempo delle catene di rappresentanza degli emigrati all’estero. A New York o a Sidney sono nate intorno alle ambasciate o ai centri culturali, o per conto proprio, associazioni di aiuto e di rappresentanza regionale all’estero. Eoliani, molisani, ma anche laziali, veneti, piemontesi, ogni area regionale ha visto nascere associazioni che spesso hanno siti e si ritrovano on line. Così è avvenuto anche per l’emigrazione sarda. La pagina “Sardegna migranti – Regione Sarda” mostra una mappa di sardi e di circoli in America ed Europa e Australia assai fitta.

Per ciò che riguarda l’emigrazione italiana in Italia centrale e la relativa nascita dei circoli occorre riconoscere una particolarità e cioè che – a parte gli storici circoli dei sardi a Roma – essa è legata in modo significativo al fenomeno della migrazione dei pastori tra gli anni ‘60 e ‘80 del Novecento. Infatti approfittando della situazione favorevole per via dell’abbandono delle campagne nell’Italia centrale da parte dei mezzadri, e la crisi di quel tipo di agricoltura, molte famiglie di pastori della Sardegna interna hanno affittato la terra e si sono trasferite con greggi, cani e bambini in Continente.

La sollecitazione a partire veniva dalla storica assenza di proprietà terriera pastorale in Sardegna, dove le aziende erano caratterizzate dalla continua ricerca di pascoli e da un pesante nomadismo. E veniva qualche volta anche dal disagio di situazioni locali fortemente caratterizzate da storiche faide familiari. Nel tempo anche in Sardegna sono state realizzate aziende pastorali moderne con proprietà della terra con l’espansione dei pastori verso il Campidano e il progressivo acquisto dei pascoli. Ma i primi successi della nuova azienda pastorale, in provincia di Siena, si sono avuti nell’area della agricoltura ex mezzadrile e nelle zone più scabre e inadatte alla agricoltura vera e propria, dove i pastori sardi si sono insediati in zone come le Crete senesi, in aree interne del Monte Amiata, ma anche in classiche zone di piano-colle mezzadrile come la Val di Chiana e la Val d’Arbia.

Questa colonizzazione è stata positiva sia per i sardi che per l’agricoltura toscana. L’emigrazione, difficile per lo sradicamento sociale e culturale, ma di successo imprenditoriale, ebbe dei problemi di immagine per l’incontro di tradizioni e culture diverse, ma anche per il verificarsi di casi di sequestro di persona che avevano utilizzato la nuova rete insediativa pastorale. Il Circolo dei sardi Peppinu Mereu (un poeta popolare sardo, morto assai giovane) nacque nel 1985 per dare una risposta alla difficoltà di ambientazione dei migranti e per affermare l’onestà e la laboriosa vita produttiva dei pastori, contro l’immagine che rischiava di affermarsi a causa di alcune frange delinquenziali. Il primo presidente, Pietro Siotto di Orune, era pastore e poeta in ottave.

Negli anni ’80 una attenzione al fenomeno venne dalla Regione Toscana, che promosse a Siena una Conferenza dell’Agricoltura che mostrò l’importante ruolo nel PIL agricolo della pastorizia sarda. Inoltre nel tempo il pecorino toscano, prodotto con il latte di pecore sarde, fu riconosciuto come prodotto DOP, con uno straordinario e felice ibridismo culturale. Il Circolo di Siena accomunò vari aspetti dell’emigrazione sarda, tra questi anche i professori e gli studenti universitari. Vi ebbe un ruolo importante Luigi Berlinguer, docente e poi Rettore a Siena, che era stato anche consigliere regionale per la Toscana. Il Circolo entrò nella FASI, la rete nazionale dei circoli sardi , e quindi ebbe il riconoscimento e un contributo da parte della Regione Sardegna per le spese finalizzato alla valorizzazione della cultura sarda. Negli anni ‘90 venne avviato anche un programma di iniziative culturali finalizzato alla valorizzazione degli scrittori sardi, ma anche dei vini e dei prodotti della gastronomia. L’emigrazione sarda aveva anche favorito la creazione di un piccolo universo di allevatori di cavalli e di fantini che entrarono nel quadro della vita del Palio e delle contrade di Siena dove sono ancora ben radicati. Fantini e cavalli sardi (ben oltre il famoso ‘Aceto’) sono ancora all’ordine del giorno nei Palii passati e futuri. Il circolo serve anche a restituire una immagine di autonomia e di non-subalternità della cultura sarda, della sua storia, della sua letteratura ed arte.

Nel panorama dei circoli regionali Firenze, con l’ACSIT (Associazione Culturale Sardi in Toscana), ha un ruolo importante per fare rete. A Firenze ci sono state mostre importanti sull’archeologia nuragica, concerti ed eventi culturali. Così la grande stagione del romanzo sardo, avviatasi dopo gli anni ’80 e ancora assai viva, ha visto autori e libri presentati nella rete dei Circoli. Negli ultimi anni è stato dato rilevo alla valorizzazione di Emilio Lussu, (figura centrale della Sardegna del ‘900) e del suo ruolo nella elaborazione costituzionale delle autonomie. Sempre nel 2019 si è evidenziato il contributo degli emigrati sardi alla Resistenza in Toscana, ma anche nell’Italia del centro-nord.

I Circoli hanno acquisito dimensioni che vanno oltre l’incontro nostalgico con il cibo e il ballo tradizionale, cercando di essere ambasciatori di una cultura regionale dinamica cui gli emigrati continuano a dare un contributo.

Negli anni ‘80 la Provincia di Siena promosse una ricerca sull’immigrazione dei pastori sardi, che fu condotta dall’Università e diretta dal Prof. Pier Giorgio Solinas, docente di Etnologia a Siena. Questa ricerca raccolse storie, vissuti, innovazioni sociali e culturali di questo mondo innestato nella cultura toscana. Si trattava allora di circa 1000 famiglie. Nel 1998 una indagine di Famiglia cristiana, parlava di 2000. In quegli anni una indagine del sociologo Benedetto Meloni approfondì questi temi, mentre anche in Sardegna nascevano studi sulle nuove forme del pastoralismo[II].

Il Circolo di Siena vorrebbe rinnovare quella indagine per vedere come si è evoluto quell’insediamento e come ha funzionato nel passaggio delle generazioni. Nel 2019 anche in Toscana il mondo pastorale di origine sarda ha segnalato il proprio disagio riguardo il prezzo del latte aderendo alle manifestazioni promosse in Sardegna, ed ha avuto il drammatico onore delle cronache per alcuni assalti alle greggi da parte di lupi o di cani inselvatichiti. Un mondo aperto e dinamico , sul quale dopo ormai 60 anni sarebbe utile fare un bilancio e un aggiornamento: forse oggi sono i Circoli a potere essere protagonisti dello studio della propria storia vicina sulla nuova terra della loro vita. La Toscana dove sono nati figli e nipoti. Toscani a tutti gli effetti.

Note
[I] Immagine tratta da «Famiglia Cristiana», 7, 1998.
[II] Ρ. G. Solinas, Pastori sardi in provincia di Siena, Laboratorio Etno-Antropologico, Dipartimento di filosofia e scienze sociali, Siena 1990, 3 voll.; A. G. Murru Corriga, Dalla montagna ai campidani, Edes, Sassari 1990; B. Meloni, Pastori sardi nella campagna toscana, in «Meridiana», 25, 1996.

Articolo pubblicato nel dicembre 2019.