Togliatti e il PCI di fronte ai “fatti d’Ungheria”

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da  Alexander Höbel, assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Dopo varie manifestazioni per commemorare Rajk e chiedere il ritorno al potere di Imre Nagy, il 23 ottobre una manifestazione che rivendica l’“indipendenza dell’Ungheria” è seguita da assalti alle sedi della radio e del partito, con le prime vittime da entrambe le parti [Dalos, 37-48]. Alla richiesta di intervento di truppe sovietiche si affianca la nomina a capo del governo di Nagy. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora a capo dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai”, la presenza “di gruppi di provocatori, veri e propri commandos”, legati alla “vecchia classe agraria” e al clero reazionario [Barca, 156-7].

Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato. Il 27 Nagy forma un governo comprendente anche non comunisti, che ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento della polizia politica e il ritorno della vecchia bandiera. Il 30 è abolito il monopartitismo e si chiede all’URSS “di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria”, ciò su cui il PCUS mostra una cauta disponibilità. I rivoltosi parrebbero aver vinto; solo l’uscita dal Patto di Varsavia – “una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro” – non è accolta [Dalos, 86-8, 97-101, 107-11].

Tuttavia la rivolta prosegue: un gruppo armato occupa il ministero della Difesa; inizia la “caccia al comunista”. La sede del partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: vari funzionari vengono linciati o fucilati, e i loro cadaveri appesi agli alberi [Dalos, 76-7, 103-4, 122, 203]. In Italia si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità”, mentre una lettera di 101 intellettuali chiede “un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito” [Ajello, 401-6, 535-8]. “Poli di contestazione” emergono a Roma (la sezione “Italia”, Natoli, Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, l’Istituto Feltrinelli); Torino (la cellula dell’Einaudi). L’intero partito è scosso da una discussione serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato che indica nei fatti ungheresi “la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione”; Di Vittorio in persona conferma tale linea.

Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” [Höbel(b), 127-30]. In Direzione il Segretario afferma che la critica anche aspra va bene, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni”. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”. Per Pajetta “chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio è aspramente criticato. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa […]. In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” [Righi, 210-40]. Il comunicato riconduce la crisi alla “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia e alle tradizioni nazionali”: da ciò “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; tuttavia “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie [Höbel(b), 151-61].

Intanto il gruppo dirigente sovietico, anche sotto l’influenza dell’attacco anglo-francese a Suez, si orienta per un secondo intervento [Kramer]. Il 1° novembre Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione delle proprietà della Chiesa. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo [Dalos, 117-20, 125-8, 135-7].

Per Togliatti, l’alternativa sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. L’ intervento, quindi, è “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato [“l’Unità, 6.11.1956; Bonchio et alii, 97-102]. La difesa delle ragioni dell’iniziativa sovietica procede quindi di pari passo con la critica avviata nell’intervista a “Nuovi Argomenti”.

L’articolazione della posizione del PCI sui “fatti d’Ungheria” è confermata dai colloqui di Parigi tra Velio Spano e una delegazione del PCF in vista di una eventuale posizione comune. La divergenza, però, è netta. Gli italiani imputano gli eventi a due fattori: “i gravi errori compiuti” e la “disgregazione” del Partito ungherese. Ciò ha reso “possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale”, in cui si sono inserite “forze reazionarie e fasciste”. Un emendamento inviato da Togliatti ribadisce che “una correzione degli errori […] avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito” di evitare quell’appello alle forze sovietiche, che ha prodotto una “esasperazione del sentimento nazionale”. È un’aggiunta non marginale, respinta dai francesi. L’idea di una posizione comune sfuma [Höbel(a)].

La linea dei comunisti italiani è insomma lontana da un allineamento acritico. L’accento è posto in particolare rapporto partito-masse e sulle questioni più generali dell’egemonia, che non a caso saranno rilanciate di lì a poco con l’VIII Congresso, quello della “via italiana al socialismo”.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




La tubercolosi a Siena fra XIX e XX secolo

Tra le gravi patologie infettive che colpivano gli abitanti della città di Siena, tra la fine dell’ ‘800 ed i primi del ‘900, quella più letale fu senz’altro la tubercolosi.

Particolarmente falcidiato era il proletariato urbano, composto soprattutto da operai e artigiani, anche se il morbo colpiva in percentuali non irrilevanti anche le classi più abbienti.
Le zone più esposte all’infezione erano i quartieri popolari fatiscenti e sovraffollati nonché le aree manifatturiere caratterizzate dalla presenza di numerosi magazzini umidi e malsani; man mano che ci si spostava verso le zone più aperte del suburbio o verso i quartieri ricchi, il numero dei contagiati diminuiva gradualmente.
Maglia nera, in questa poco invidiabile classifica del dolore, spettava alle zone più miserabili e sovraffollate come Salicotto, i Pispini, i Servi, Malborghetto, Castelvecchio, Vallepiatta, Fontebranda, Vallerozzi e la contrada del Bruco.

La prima a tentare un pur parziale intervento contro questo atavico problema fu, a fine ‘800, l’Associazione dei bambini poveri scrofolosi, la quale offriva un certo numero di soggiorni marittimi presso Talamone a dei bambini della città affetti da tubercolosi linfatica. Nel 1898 nacque in città il “Comitato Antitubercolare”, istituzione tra le prime in Italia, sorta per affrontare il problema con determinazione, ma quest’ultima, a causa degli scarsi mezzi, si limitò ai buoni propositi.
Sempre un impatto limitato ebbe la costituzione di un reparto di isolamento all’ospedale S. Maria della Scala: tale sezione risultò immediatamente troppo piccola per il fabbisogno effettivo, ma anche i pregiudizi delle famiglie degli ammalati giocarono un ruolo decisivo: il ricovero in isolamento era visto come l’anticamera della morte e quindi evitato nel modo più radicale contribuendo ad azzerare l’efficacia del provvedimento.

Lo scoppio della prima guerra mondiale aumentò in modo consistente la diffusione del morbo: soltanto nel 1917, a Siena, i decessi certificati per tubercolosi aumentarono del 41,5% rispetto alla media del triennio 1912-1914.
Di fronte a questi dati, assai simili su buona parte del territorio nazionale, il Governo e le gerarchie militari, a partire dal 1917, misero in cantiere provvedimenti meno duri nei confronti dei combattenti e della popolazione civile.
Nacque pertanto l’Opera nazionale per la Protezione e l’Assistenza degli Invalidi di Guerra, vennero approvati dei decreti sulle pensioni per le malattie derivanti da cause belliche, si stabilì che coloro che avevano contratto la tubercolosi nell’esercito fossero ricoverati a carico dello Stato e ricevessero un sussidio.

Il problema venne tuttavia affrontato in modo incisivo soltanto a partire dal 1919, quando una nuova normativa gettò le basi per la creazione di una rete di istituti di profilassi antitubercolare; proprio in virtù di questa normativa nacque a Siena l’Associazione Senese Antitubercolare, la quale poteva contare su quattro medici, un assistente radiologo, due segretarie, cinque dame visitatrici ed una infermiera delegate queste ultime a ‘dare la caccia’ ai malati per la città.
Nel primo anno di attività, l’Associazione effettuò 63 visite e 26 richiami, eseguì 32 esami di laboratorio e accertò 15 casi di malattia: era l’inizio. Nel 1920 venne aperto un piccolo dispensario, nella cripta della chiesa di S. Sebastiano, nel Fosso di S. Ansano.
Già nel 1920 gli accertamenti diagnostici, compresi quelli di richiamo, salirono a 776 (casi accertati 50), per arrivare a 1.092 tre anni dopo (casi accertati 71) e a 2.285 nel 1930 (casi accertati 125). In queste cifre rientravano anche le 898 prestazioni – visite, terapie, distribuzione di medicinali, promozione di pratiche per la pensione di guerra – fornite ai 178 militari senesi riconosciuti invalidi per tare tubercolari.

Ormai la strada era segnata: la successiva nascita di strutture sanitarie sempre più idonee e la riqualificazione edilizia delle zone degradate della città, intrapresa durante il ventennio fascista, portò, nei decenni successivi, alla progressiva scomparsa della malattia all’interno delle mura di Siena.

Il quartiere Salicotto dopo il "risanamento" compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Il quartiere Salicotto dopo il “risanamento” compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




Ebrei in Toscana, XX-XXI secolo

Il 20 dicembre 2016, alle ore 13, si aprirà presso la Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi a Firenze la prima grande mostra sulla storia degli ebrei in Toscana nel XX e XXI secolo. Un arco di tempo a cavallo di due secoli, due guerre mondiali e migliaia di storie di vite che appartengono a questa regione e si legano al mondo intero.

La Mostra, aperta dal 20 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017, promossa e coordinata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO), realizzata col contributo determinante della Regione Toscana, racconta attraverso un percorso narrativo di immagini, documenti, testi e produzioni multimediali la vita delle comunità ebraiche toscane e i loro legami con la comunità ebraica italiana e internazionale.

L’importanza delle comunità ebraiche nella storia della Toscana è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi, da quello di Livorno – sicuramente il più numeroso – alla comunità di Firenze, a quelle di Pisa, Siena, il piccolo nucleo di Pitigliano, e altri gruppi familiari sparsi sul territorio.

Ogni comunità, grazie ai suoi membri, ha legami con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall’antica emigrazione iberica, altre dal bacino del Mediterraneo, altre ancora dall’Europa dell’Est. Ogni comunità ha poi relazioni con la tradizione sionista nazionale ed internazionale, con i fermenti culturali che attraversano il paese e con gli orientamenti più significativi che lo agitano.

Il racconto di questa storia permette di cogliere i rinvii ad una cornice che non è solo locale ma nazionale ed europea, con un allestimento espositivo rivolto anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani.

I testi, in italiano e inglese, si prestano ad una molteplicità di letture trasversali e di connessioni e sono arricchiti da riproduzioni di carte d’archivio, copertine di libri e disegni ma soprattutto da uno straordinario apparato di riproduzioni fotografiche generosamente messo a disposizione da archivi familiari privati e da fondazioni culturali. L’idea è rivolgersi a tutte le generazioni per rafforzare i fili della nostra memoria democratica e soprattutto costituire un antidoto alle pulsioni razziste e discriminatorie che attraversano la nostra realtà.

Il progetto scientifico è curato da un gruppo di studio e di lavoro costituito dalla Direttrice dell’ISTORECO Catia Sonetti e tre ricercatrici di storia ebraica contemporanea: Barbara Armani (Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Pisa), Elena Mazzini (Università di Firenze), Ilaria Pavan (Scuola Normale Superiore di Pisa). La traduzione dei testi è stata curata da Johanna Bishop.

L’allestimento è progettato da Frankenstein-Progetti di vita digitale di Firenze.

La mostra è organizzata con il supporto della Regione Toscana; il sostegno della Città Metropolitana di Firenze; col patrocinio della Scuola Normale Superiore, dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, dell’UnicoopFirenze.

NOTIZIE UTILI sulla MOSTRA

20 DIC | 26FEB

FIRENZE, Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi

Via Camillo Cavour, 5

ORARI DI APERTURA E VISITE GUIDATE

Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, ingresso gratuito

Info: +39 0586 809219 | +39 055 284296 | +39 334 112 3981

istoreco.livorno@gmail.com | isrt@istoresistenzatoscana.it

Per prenotare visite guidate (massimo 25 persone), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO)

Mail: istoreco.livorno@gmail.com

Per prenotare visite alle scuole (singole classi), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza in Toscana (ISRT), referenti: Paolo Mencarelli e Silvano Priori

Mail: isrt@istoresistenzatoscana.it

Tel: 055 284296 (lun-ven, ore 10-13)

Ufficio stampa e comunicazione

Frankenstein S.r.l.

055-06516906

info@frankenstein.sm

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




Il riscatto della bellezza

ll 6 novembre 1966, appena due giorni dopo l’Alluvione, pochi trattennero le lacrime davanti all’imponente Crocifisso di Cimabue sfigurato nella sua quasi totalità.
Sicuramente non le trattennero Ugo Procacci, allora soprintendente di Firenze ed eroico monument man civile durante la II Guerra Mondiale, e Umberto Baldini, direttore del Gabinetto dei Restauri. Accorso in Santa Croce all’alba del 6, dopo una segnalazione dei gravi danni che avevano colpito la Basilica e il suo Museo, Procacci registrò che “la rovina della grande opera d’arte era ancora maggiore di ogni più infausta previsione; e fu questo forse per me il più tragico di questi tragici giorni”. Non un’ora ancora poteva essere ancora rimandata per tentare di salvare l’enorme tavola, capolavoro di ebanisteria e di pittura, opera simbolo di tutta l’arte medievale italiana. Fu così che, come come continuò a registrare Procacci nella relazione stilata per il Ministero della Pubblica Istruzione il 30 novembre 1966, “chiesto invano l’intervento e l’aiuto dei vigili del fuoco, la cui opera era invocata ovunque, si dové operare da soli”, come lo “smontaggio della smisurata croce dal supporto, eseguito in condizioni veramente disastrose, tra il fango altissimo con il solo aiuto di alcuni operai delle ditta Mugelli”.
il-crocifisso-di-cimabue-irrimediabilmente-danneggiatoIl Crocifisso di Cimabue fu sicuramente uno dei simboli della devastazione che colpì una quantità incredibile di opere d’arte, danneggiate sia dalla violenza dell’acqua che travolse oggetti anche pesantissimi, sia dall’azione chimica dovuta alla prolungata immersione e al conseguente deposito di fango, detriti, nafta, olio combustibile. Secondo i dati riportati da “Il Corriere UNESCO” del 1967 15 furono i musei colpiti, fra cui il Museo Nazionale del Bargello, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo dell’Opera di Santa Croce, i Chiostri monumentali di Santa Maria Novella, il Museo Horne, il Museo Bardini, il Museo Mediceo, Casa Buonarroti, il Museo di San Salvi, il Museo di Storia della Scienza; 18 le chiese monumentali invase dalle acque con conseguente danneggiamento di tutti gli oggetti artistici ivi conservati; un migliaio circa le opere d’arte complessivamente colpite, tra le quali 321 dipinti su tavola, 413 dipinti su tela, 3000 metri quadri di cicli di affreschi, 14 complessi di sculture, 144 sculture singole. Un complesso imponente, tra cui si ricordano la porte bronzee del Battistero, con le cornici spezzate e le formelle cadute, e la Maddalena lignea di Donatello.
Gli stessi Uffizi, così vicini all’Arno e fin da subito assediati dalle acque, avevano vissuto momenti di grande drammaticità; solo la presenza in loco del personale e la repentina messa in sicurezza delle opere collocate al piano terra impedì perdite ancora più ingenti. Verso le nove e mezzo di mattina del 4 novembre il museo era già diventato irraggiungibile da parte di chiunque; rimasero isolati e arroccati tra la furia delle acque Procacci e una quindicina di dipendenti, tra cui la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci e Umberto Baldini, “tagliati fuori da ogni comunicazione anche telefonica, e uniti solo attraverso il soprapassaggio con Palazzo Vecchio, dove erano assediati come noi il Sindaco e diverse altre persone”, ricorda il Soprintendente. Fin dalle prime ore della mattina si cercò di contrastare i danni della velocissima inondazione dei locali posti al piano terra degli Uffizi, adibiti a deposito di opere in attesa di restauro, per cui “senza perdere neanche un minuto furono incominciati a trasportare subito ai piani superiori numerosissimi quadri che si trovavano al piano terreno della Vecchia Posta. Questo intervento, fatto affannosamente, mentre l’acqua già invadeva i locali, crescendo poi con notevole velocità, valse la salvezza di un gran numero di dipinti di eccezionale importanza, ed evitò quindi una catastrofe di immense proporzioni: basti citare tra i tanti quadri posti in salvo il polittico di Giotto della Badia, la Incoronazione di Filippino Lippi degli Uffizi, la tavola centrale del trittico di Masaccio della Chiesa di San Giovenale a Cascia”. Mentre alcuni uomini trasportavano a mano, per le scale, tali opere (in alcuni casi di ingenti dimensioni), altri si precipitarono nel Corridoio Vasariano per rimuovere, in una lotta contro il tempo, tutta la collezione -unica al mondo- degli Autoritratti di artista. Il terrore di quei momenti fu infatti che la furia delle acque potesse travolgere, da un momento all’altro, il Ponte Vecchio e il loggiato. Solo nel tardo pomeriggio del 4 novembre, con il defluire delle acque, i colleghi della soprintendenza da Palazzo Pitti si avventurarono con coraggio lungo il Corridoio Vasariano per portare i primi viveri a coloro che erano rimasti agli Uffizi.
Alla devastazione delle opere d’arte si era quindi aggiunto il danneggiamento dei luoghi della conservazione: il Laboratorio della Vecchia Posta presso gli Uffizi era stato inondato e oramai impraticabile e i relativi macchinari completamente fuori uso.
5-13-gli-angeli-del-fango-alla-biblioteca-nazionaleNonostante la mancanza di luoghi e strumenti, Procacci decise con repentina lucidità che il grande cantiere per il salvataggio delle opere d’arte dovesse essere allestito a Firenze e non altrove. In una Firenze che, già moralmente colpita, non avrebbe visto la partenza di tutte le opere d’arte alluvionate, con l’ulteriore rischio di danneggiamenti dovuti ai trasferimenti in laboratori di restauro italiani ed europei. I luoghi di ricovero allestiti in tempi record furono Villa Petraia e alcuni ambienti di Palazzo Pitti per i mobili, il salone grande della Galleria dell’Accademia per le tele, il Forte Belvedere per la maggioranza dei libri, Palazzo Davanzati per le sculture e le arti minori e la Limonaia di Boboli per le tavole. Quest’ultime, appena conclusa la prima fase di deumidificazione, furono trasferite nel nuovo Laboratorio di restauro costruito appositamente alla Fortezza in un capannone militare in disuso.
Superati i primissimi giorni di emergenza, arrivarono immediatamente contributi economici e scientifici dai più importanti centri e istituti italiani e mondiali. Fu così, che, come auspicato da Ugo Procacci, la città riuscì, grazie anche agli uomini e agli strumenti messi a disposizione da pioneristici istituti e laboratori- a curare i propri malati e sfruttare la grande tragedia da cui era stata colpita per risollevarsi e crescere, per diventare un polo d’avanguardia del restauro e della cultura, per riscattarsi nuovamente in nome della bellezza e di un patrimonio artistico amato e aiutato da tutta la comunità internazionale.

Le immagini qui sono tratte da M. Carniani, P. Paoletti, Firenze. Guerra e Alluvione, Firenze, Becocci Editore, 1991.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




L’anticomunismo italiano e il ’56

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da Andrea Mariuzzo, ricercatore in Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Riflettendo sul valore periodizzante, finanche di crisi esistenziale, che il 1956 ebbe anche nel contesto della sinistra italiana, può apparire curioso il fatto che le elezioni politiche tenute appena due anni dopo, il 25 maggio del 1958, si siano risolte in una generale stabilizzazione del quadro di consensi ai vari partiti, dopo un decennio di lotte al calor bianco e di conseguenti continue ridefinizioni degli equilibri, e che addirittura il Partito comunista italiano si sia rivelato capace di incrementare di 600.000 voti il proprio corpo elettorale rispetto al già positivo risultato della campagna del 1953 contro la cosiddetta “legge truffa”, passando in termini percentuali dal 22,6% al 22,7%. Di fronte a questo quadro generale viene soprattutto da chiedersi perché le rodate centrali di mobilitazione anticomuniste non siano riuscite ad avvantaggiarsi appieno della crisi esplosa con la denuncia dei crimini staliniani al XX Congresso del PCUS e della denuncia della violenta repressione dell’insurrezione ungherese, punta dell’iceberg di una più generale violenta agitazione nei paesi del blocco orientale di fronte alle attese generate della “destalinizzazione” e ai significativi mutamenti nella classe dirigente al potere.

Per quanto riguarda l’agenzia socio-culturale di gran lunga più influente nel confronto col comunismo nell’opinione pubblica italiana, la Chiesa cattolica, è innanzi tutto necessario notare che gerarchie ecclesiastiche avevano da tempo elaborato un’interpretazione teologico-politica e pastorale del comunismo ateo e materialista come assoluta manifestazione dell’errore e dell’allontanamento dell’uomo da Dio. Essa sembrava definitivamente confermata tanto dalla requisitoria di Chruščëv nei confronti di Stalin, quanto dall’intervento militare a Budapest a fine anno. Tuttavia i protagonisti delle battaglie contro il “pericolo rosso”, dal “microfono di Dio” padre Lombardi al potente presidente dell’Azione cattolica Luigi Gedda, apparivano ormai appannati nel loro smalto, intenti più che altro a curare la disciplina interna al mondo ecclesiale e al cattolicesimo organizzato, e scottati dalla difficoltà con cui negli anni passati il successo delle mobilitazioni anticomuniste aveva dato inizio al tanto agognato percorso di conversione della società italiana e al suo ritorno all’obbedienza alla Chiesa.

Dal canto suo, nel primo decennio dopo la fine della Seconda guerra  mondiale la stampa liberal-conservatrice di parte laica o comunque non apertamente confessionale si era rivelata un importante volano per la diffusione di un “senso comune” anticomunista nel pubblico meno politicizzato, con una scelta di campo che si era fatta chiara in vista dell’appuntamento elettorale del 18 aprile 1948 e che si era confermata negli anni successivi. Di fronte ai moti dell’Europa orientale e in particolare al dramma ungherese, però, i fogli quotidiani più “istituzionali” evitarono di seguire le voci più radicali nelle polemiche sulle violenze sovietiche, da Oggi, a Epoca, al Candido guareschiano, al Borghese di Longanesi. In molti casi, poi, l’area della destra intellettuale non riuscì neppure ad offrire un’interpretazione pienamente condivisa dei fatti. Basti pensare alla polemica tra Longanesi stesso e un suo autore di punta, inviato a seguire i fatti da vicino, Indro Montanelli. Quest’ultimo, firma di prestigio del Corriere della Sera inviato tra Vienna e Budapest in occasione delle sollevazioni, usò spesso la rivista longanesiana per esprimere posizioni meno controllate e legate alla cronaca di quanto stava accadendo a Budapest. Tuttavia, il giornalista di Fucecchio si rivelò pronto a smentire ogni semplicistico tentativo di etichettare in senso tradizionalista genuinamente filo-occidentale il complesso e variegato fronte dell’opposizione antisovietica attivo in Ungheria, giungendo fino alla rottura col direttore, più propenso a trovare senza contraddizioni nella rivolta la conferma della propria diffidenza anticomunista.

In generale, la ricezione degli sconvolgimenti del ’56 in Italia tra le voci più critiche nei confronti dell’esperienza comunista appare segnata dal fatto che il gioco politico si svolgeva ormai in larga misura su altri tavoli, specie dopo i risultati delle elezioni del 1953. Con essi, da un lato si vedeva consolidata la presenza sociale del PCI, ormai ineliminabile il suo ruolo di “opposizione istituzionale”. Dall’altro, la maggioranza di governo centrista era uscita da quel voto definitivamente indebolita, al punto che la sua classe dirigente doveva cercare nuovi spazi vitali: in questo termini si potevano spiegare tanto la maggiore autonoma della Democrazia cristiana dalla Chiesa con l’operazione di radicamento del partito messa in opera durante la leadership di Amintore Fanfani, quanto la trasformazione della pur persistente ostilità alla minaccia comunista nei termini positivi della crescente attenzione al Partito socialista liberato dalla zavorra del “frontismo”. Per queste ragioni il discorso anticomunista aveva perso centralità, ed era destinato a restare un “basso continuo” nel sottofondo del dibattito pubblico almeno fino alla crisi definitiva dei grandi partiti di massa e della loro capacità di aggregare e dirigere il consenso.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

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San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.