Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.

Articolo pubblicato nel maggio del 2017.




Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Il Conservatorio di San Giovanni Battista

La storia del Conservatorio di San Giovanni Battista si sviluppa dagli inizi del secolo XIV fino ai giorni nostri con una particolare continuità all’interno della vita religiosa, artistica e sociale della città di Pistoia e può essere suddivisa in due distinte fasi.

 La fase della vita religiosa

È costituita dall’aggregazione di tre monasteri femminili.

 Il Monastero di San Giovanni

Costituisce il nucleo iniziale del complesso e viene edificato al di fuori della seconda cerchia di mura cittadina secondo il lascito testamentario del 1287 di Giovanni Ammannati che aveva stabilito che se il figlio Gherardo fosse morto senza successori fosse edificato un convento femminile nell’area di un palazzo di sua proprietà.

Gherardo morì nel 1321 e, assecondando la volontà del testatore, il palazzo fu trasformato in monastero femminile dedicato a San Giovanni Battista.

Venne quindi ampliato tra il 1469 e il 1531 quando fu completata la chiesa ad opera di Ventura Vitoni e nel 1783 inglobò il contiguo monastero di S. Lucia ed ospitò anche le suore di S. Chiara.

 Monastero di S. Lucia

Fu fondato nel 1328 su testamento di Iacopo Bellebuoni nei pressi dell’attuale fortezza di Santa Barbara ma venne demolito nel 1539 per consentire l’ampliamento della fortezza e le monache furono trasferite nell’area dello spedale di S. Gregorio confinante con il monastero di S. Giovanni mentre lo spedale fu trasferito in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il monastero fu soppresso e unificato con quello di San Giovanni.

 Monastero di S. Chiara

Viene fondato nel 1310 da Piccina di Bonaventura in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il Vescovo Ricci soppresse il monastero per realizzarvi il nuovo edificio del Seminario e le monache furono trasferite nel monastero di San Giovanni.

La fase dell’educazione e dell’istruzione.

Nel 1785 all’interno dell’opera riformatrice del Granduca Pietro Leopoldo fu chiesto alle monache di San Giovanni di scegliere tra la vita monastica o la trasformazione del complesso in Conservatorio per l’educazione delle fanciulle.

Le suore optarono per il Conservatorio e iniziò così un periodo completamente nuovo in cui sotto la guida di suore e oblate venivano accolte e istruite le fanciulle pistoiesi.

Dopo l’unità d’Italia con la legge del 1867 i conservatori passarono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione e quello di san Giovanni si aprì progressivamente alla città divenendo una delle principali istituzioni educative pistoiesi. Accoglieva fanciulle tra i 7 e i 12 anni e a partire dal 1872 ospitò la scuola elementare femminile cittadina pubblica e privata.

Nel 1883 ne fu dichiarato lo stato laicale e il Conservatorio divenne un istituto pubblico educativo con amministratori nominati dal Ministero.

Nel 1898 il Conservatorio divenne sede dei corsi della Scuola normale femminile trasferita da Sambuca Pistoiese comprendente il corso complementare, la scuola di tirocinio e l’asilo infantile a sistema froebeliano.

Divenne così il principale polo educativo femminile pistoiese e attraeva alunne a convitto da tutta Italia. Il complesso fu ristrutturato nel 1877 e continuamente ammodernato nel corso del Novecento. Nel 1901 vi operavano la direttrice, tre istitutrici, una guardarobiera, una dispensiera-economa, una cuoca, due aiutanti di cucina, un giardiniere, un portiere, due inservienti, un medico, un ragioniere, un cassiere, il direttore spirituale, un chierico, un agente di campagna e quattro maestre e nel 1910 contava oltre 400 alunne.

Dal 1915 al 1919 una parte dei suoi locali fu destinato a ospedale militare di riserva e dal 1924 accolse la sede dell’Istituto commerciale “F. Pacini” e dell’Istituto magistrale.

Alla fine degli anni trenta si verificò un momento traumatico all’interno della struttura educativa con il licenziamento nel 1939 della direttrice Alba Mantovani perché di “razza ebraica” che venne riassunta solo nel dopoguerra.

Il complesso subì gravi danni con l’incursione aerea alleata del 18 gennaio 1944, quando fu distrutta completamente la chiesa e la maggior parte dei locali dove avevano sede gli istituti superiori.

Le attività vennero sospese e solo nel gennaio 1945, a liberazione di Pistoia avvenuta, si iniziò a rimuovere le macerie e si riaprì l’Istituto magistrale mentre nel 1947 ripresero a funzionare il convitto, l’Istituto tecnico e la scuola materna.

La ricostruzione integrale fu compiuta tra il 1951 e il 1957 con fondi del Ministero dei Lavori pubblici per oltre 205 milioni di lire e la direzione dell’ingegnere Adalberto Del Chicca. A partire dagli anni settanta le alunne ospitate diminuirono progressivamente e nel 1982 il convitto fu chiuso e il complesso ospitò solo le scuole pubbliche mentre nel 1983 il giardino è stato affittato al Comune e aperto al pubblico e la Chiesa è stata allestita a spazio espositivo.

Dal 2006 il Conservatorio è stato trasformato in “Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista” e oggi è agenzia formativa accreditata presso la Regione Toscana, inoltre nei suoi spazi ha sede la Fondazione Luigi Tronci con la collezione di strumenti musicali.

Nel 2016 si sono conclusi due importanti operazioni di recupero e salvaguardia del suo patrimonio storico e architettonico. Si è concluso il restauro delle coperture e della facciata della Chiesa di San Giovanni con la direzione dell’architetto Gianluca Giovannelli, e, ad opera dello scrivente, è stato concluso il riordino e l’inventario dell’Archivio storico ed è stata allestita una mostra permanente sulla storia del Conservatorio.

Andrea Ottanelli, docente di lettere, dottore di ricerca in storia contemporanea, compie studi e ricerche sulla storia contemporanea di Pistoia, ha curato mostre e iniziative e pubblicato articoli e volumi sulla storia delle industrie e delle infrastrutture pistoiesi tra cui: La città e la sua fabbrica in La San Giorgio. Gli albori della grande industria a Pistoia, a cura di Piero Roggi, Pistoia, Gli Ori 2015; La Ferrovia Porrettana. Progettazione e costruzione (1845-1864), Pistoia, Settegiorni editore 2014. Economia e società a Pistoia dalle riforme leopoldine alla Restaurazione. Le arti e le manifatture; Gli anni del cambiamento (1878-1914) in Storia di Pistoia IV, a cura di Giorgio Petracchi, Firenze, Le Monnier 2000. Ha curato il riordino e l’Inventario di numerosi archivi storici pistoiesi tra cui quello del Conservatorio di San Giovanni Battista. È direttore della rivista “Storia Locale”.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

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La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Le industrie di Colle Val d’Elsa tra Ottocento e Novecento

Pur essendo al centro di un’area a vocazione agricola, la città di Colle Val d’Elsa, posta nel nord della campagana senese, tra Otto e Novecento si presentava come una realtà industriale ormai talmente solida da essere denominata la Biella di Toscana. Un censimento effettuato nel 1927 ci dice che, pur avendo vissuto lo shock della Grande Guerra, a quell’epoca erano ancora attive in città 350 ditte, per la maggior parte piccoli artigiani e commercianti, ma tra queste si trovavano anche quarantotto industrie, delle quali ben ventisette definite grandi e ventuno minori; un numero di tutto rispetto.

Ma come era stato possibile uno sviluppo del genere? I fattori furono fondamentalmente tre: la presenza di un microtessuto di artigiani, imprenditori e maestranze specializzate attive fin dal medioevo (realtà legata alla produzione della carta), la favorevole posizione viaria, posta sulla strada volterrana e a ridosso dell’asse viario Firenze-Siena e infine, ultima ma fondamentale, la presenza di risorse naturali a buon mercato come le acque del fiume Elsa (da secoli regimate per permetterne lo sfruttamento manifatturiero a mezzo canali -le gore-), il legname della Montagnola e delle Colline Metallifere, nonché un certa potenzialità mineraria.
Lo sviluppo industriale decollò definitivamente nel XIX secolo con la nascita della prima vetreria della città, fondata dal francese Françoise Mathis nel 1820 e della ferriera impiantata dal savoiardo Stefano Masson nel 1863, realtà accanto alle quali si era conservata attiva l’industria cartiera e si erano sviluppati altri comparti come quello della ceramica.
L’esplosione della seconda rivoluzione industriale a Colle Val d’Elsa, legata anche ad una certa lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali dell’epoca, portò ad un deciso incremento del tessuto imprenditoriale, sviluppo, quest’ultimo, parzialmente fondato sulla scommessa, da parte degli investitori, della costruzione di un nuovo ramo della strada ferrata, ossia la tratta Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Saline di Volterra, Cecina.

Come è noto la ferrovia per il mare non venne mai ultimata, tuttavia lo sviluppo industriale della città valdelsana, tra alti e bassi, continuò a fare il suo corso portando, da un lato ricchezza e sviluppo ma dall’altro un brutale sfruttamento nei confronti della manodopera; le condizioni di miseria di quest’ultima generarono varie forme di protesta, come agitazioni e scontri e scontri di piazza, ma dettero un segnale ancora più forte quando nel 1897 portarono a sedere sullo scranno di sindaco il pittore socialista Antonio Salvetti, uno dei primi sostenitori di questo forza politica ad occupare tale carica nel nostro Paese.

Schizzo della città di Colle val d'Elsa

Schizzo della città di Colle val d’Elsa

Va detto infine che dopo il vertiginoso aumento di popolazione degli ultimi trent’anni dell’Ottocento (il periodo in cui il ministro Luzzatti aveva definito la cittadina valdelsana la Biella di Toscana), dovuto alle iniziative imprenditoriali richiamate poco sopra, nel ventennio successivo il numero degli abitanti di Colle Val d’Elsa rimase sostanzialmente stabile (eccettuati due sensibili shock, uno nel 1901, probabile conseguenza della crisi della ferriera, destinata a chiudere di lì a poco, e un secondo negli anni della Grande Guerra) segnando un modesto incremento, costante, dovuto al saldo attivo delle nascite rispetto ai decessi.

Del tutto ininfluente era il flusso migratorio, composto in massima parte dal tradizionale spostamento da e verso i territori dei comuni vicini delle famiglie mezzadrili e in parte marginale da lavoratori del mondo industriale e manifatturiero (vetrai, operai metallurgici, cartai, ceramisti e calzolai) che si spostavano in altri distretti produttivi (Murano, Pozzolo Formicaro, Milano, Genova, Terni, Livorno, Empoli) per periodi di tempo spesso limitati, facendo, nella maggior parte dei casi, ritorno al paese natale dopo pochi anni.
I residenti del comune valdelsano, in questo periodo superavano di poco le diecimila unità, equamente ripartite tra abitanti della campagna e borghigiani; buona parte di questi ultimi si guadagnavano da vivere nelle industrie e nei laboratori manifatturieri ad esse connessi.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956

È una fredda sera quella del 9 febbraio 1947, quando giunge a Lucca il primo contingente di profughi proveniente dalla città di Pola. Si sono imbarcati nel porto della città istriana sulla motonave “Toscana”, insieme alle poche masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. Giunti a Venezia, sono stati fatti salire sul treno che li ha portati nella città toscana. Altri profughi, di Pola, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia lasceranno le loro case nei mesi e negli anni successivi, per essere sistemati negli oltre cento campi di accoglienza che verranno allestiti in tutta Italia.

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo "Toscana".

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo “Toscana”.

Quando arrivano a Lucca, mancano poche ore alla firma a Parigi del Trattato di Pace che sancisce il passaggio dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Jugoslavia, diventata alla fine della guerra uno stato federale socialista guidato dal maresciallo Tito, capo indiscusso della lotta armata contro gli invasori fascisti e nazisti che occuparono lo stato balcanico nella primavera del 1941. Un’occupazione feroce e sanguinaria, che aveva visto le truppe e le camicie nere responsabili di crimini di guerra, in parte riscattati dai numerosi soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, si erano messi al fianco della Resistenza jugoslava. Finita la guerra, Tito si trova al vertice di uno stato che annette all’interno dei suoi confini i territori che dopo la Prima Guerra Mondiale l’Italia aveva stappato all’ormai agonizzante Impero austro-ungarico: anche Trieste, insieme a Trento simbolo dell’irredentismo e del nazionalismo italiani, viene occupata dai partigiani jugoslavi. Tuttavia, quest’ultima città deve essere abbandonata dagli occupanti e consegnata alle autorità alleate.

Nei giorni e nelle settimane che seguono la fine della guerra, si segnala anche la sparizione di migliaia di italiani, alcuni compromessi con il passato regime fascista, oppressore degli slavi residenti dentro i confini nazionali, altri ancora oppositori delle politiche annessionistiche messe in atto dalle autorità jugoslave. Molte di queste sparizioni si concludono con la morte degli arrestati, o dentro le cavità carsiche chiamate foibe, o nelle marce forzate e nei campi di lavoro e concentramento allestiti in Jugoslavia. A causa dei nuovi confini tracciati dagli Alleati e ratificati a Parigi, la popolazione di lingua, cultura e sentimenti italiani si trova ad essere inglobata nel nuovo stato jugoslavo. La scelta di andarsene ha molte motivazioni: identitarie, politiche, di sicurezza personale e un futuro, rimanendo nelle proprie città, percepito in termini molto incerti. Nei vari campi di raccolta profughi (CRP) allestiti in Italia, i profughi istriani, fiumani e dalmati saranno costretti a vivere, spesso in condizioni pessime, per molti anni (l’ultimo campo profughi chiuderà infatti nel 1963).

Fra 1947 e 1956, l'ex-Real Collegio di Lucca funse da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati.

Fra 1947 e 1956, i locali dell’ex-Real Collegio nel centro storico di Lucca, proprio dietro la basilica di San Frediano, funsero da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati in fuga dalle truppe titine.

A Lucca i profughi sono alloggiati in due luoghi del centro storico: in via del Crocifisso, in uno stabile adiacente la Manifattura Tabacchi di cui molti di loro sono dipendenti, e presso il CRP allestito presso l’ex-Real Collegio dietro la basilica di S. Frediano. In questo ultimo edificio risiede la maggioranza dei circa 1000 profughi che decidono di stabilirsi definitivamente a Lucca. La vita all’interno di queste strutture è molto precaria e la dignità dei profughi è messa a dura prova, tanto che nell’estate del 1953 la stampa locale è costretta a lanciare un grido di allarme. Tuttavia, con l’assegnazione progressiva dei primi alloggi popolari, il CRP di Lucca comincia a svuotarsi, per chiudere definitivamente nel febbraio del 1956.

Questo e molto altro ancora può essere letto nel libro “Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956”, scritto da Armando Sestani (vicepresidente ISREC Lucca) e recentemente pubblicato dall’editore Maria Pacini Fazzi.

In allegato, fra i “Documenti dalle fonti”, sono visionabili alcuni interessanti documenti familiari dell’autore del presente articolo, istriani di Pola rifugiatisi in Toscana a bordo dell’omonimo piroscafo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.