Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Detenuti jugoslavi nelle carceri italiane: la casa di pena di Volterra

Durante la seconda guerra mondiale, alcune carceri italiane furono utilizzate come luogh di detenzione per i civili – donne e uomini – condannati dal sistema militare e civile che amministrava la giustizia nei territori occupati o annessi della Jugoslavia. Ci riferiamo al Tribunale militare di guerra della II armata che aveva sedi a Fiume, Lubiana e Sebenico; al Tribunale militare di guerra di Cettigne in Montenegro; e al Tribunale speciale per la Dalmazia, istituzione civile voluta dal governatore Giuseppe Bastianini ma affidata alla gestione di giudici militari.

La funzione di questi apparati – in particolare all’interno del sistema repressivo –, il loro funzionamento, il numero e le tipologie delle condanne, ecc. sono argomenti che solo negli ultimi anni stanno diventano oggetto di studio da parte degli storici italiani.

L’associazione Topografia per la storia, che cura il progetto campifascisti.it, sta portando avanti un lavoro di mappatura dei luoghi di detenzione per i quali sono passate centinaia e centinaia di donne e uomini jugoslavi tra il 1941 e il 1944.

In genere, i detenuti politici in attesa di giudizio erano ristretti nelle carceri prossime alle sedi dei tribunali, quindi nei territori annessi dopo l’occupazione. Successivamente alla condanna definitiva – i processi non duravano a lungo sia perché non esisteva di fatto la possibilità di difesa sia perché era previsto un solo grado di giudizio –, i detenuti erano trasferiti, di solito dopo un passaggio nel carcere di Capodistria che funzionava quindi come luogo di transito e smistamento, in istituti dove i prigionieri avrebbero scontato la pena inflitta.

Tra i molti luoghi che stiamo censendo c’è anche il carcere di Volterra.

Grazie alla direzione del carcere che ci ha autorizzato a consultare il suo archivio storico inedito ancora custodito all’interno della fortezza medicea, e alla Regione Toscana che ha cofinanziato la ricerca, siamo stati in grado di ricostruire le brevi biografie (con la data e il luogo di arresto, il reato commesso, il tribunale giudicante, la pena comminata e il percorso di detenzione) di 436 detenuti politici sloveni, croati e montenegrini. Biografie che si possono consultare in un nuovo data base, in continuo aggiornamento, di recente aggiunto agli altri strumenti disponibili sul sito campifascisti.it.

 Di seguito riportiamo la scheda sul carcere di Volterra pubblicata sul sito.

Il carcere di Volterra e i detenuti jugoslavi 1941-1944

 Dal dicembre 1941 fino alla fine del mese di maggio 1944, la casa di reclusione di Volterra fu uno dei luoghi in Italia destinato alla detenzione dei civili jugoslavi condannati in via definitiva dai Tribunali militari di guerra. I registri del carcere toscano, ancora oggi conservati presso la storica fortezza medicea, riportano i nomi di 436 montenegrini, croati e sloveni che, per periodi più o meno lunghi, furono detenuti nel carcere.

 I primi ad arrivare, nel corso del mese di dicembre 1941, furono 24 montenegrini condannati dal Tribunale militare di guerra che aveva sede a Cettigne (Cetinje), oltre a un detenuto sloveno proveniente dalle carceri di Trieste. Sempre dal Montenegro, il 19 aprile 1942 giunse a Volterra il secondo trasporto composto da altri 47 detenuti.  Da quel momento in poi, gli arrivi alla fortezza si susseguirono con regolarità. Così, alla fine del 1942 si contavano 151 detenuti jugoslavi; alla data dell’8 settembre 1943 il loro numero era salito a 358. Il mese con il maggior afflusso di detenuti fu il marzo 1943, quando giunsero a Volterra 64 jugoslavi, tutti provenienti per sfollamento dal carcere di Capodistria.

Quanto alla provenienza geografica, il maggior numero di detenuti arrivava dal Montenegro (137 condannati dal Tribunale militare di Cettigne). Pochi di meno erano i dalmati (115 condannati dal Tribunale speciale della Dalmazia e altri 18 dalla sezione di Sebenico del Tribunale militare di guerra della II armata) e gli sloveni (111 condannati dalla sezione di Lubiana del Tribunale militare della II armata). Ultimi, in termini numerici, i croati provenienti della provincia di Fiume (53 civili condannati anch’essi dal Tribunale militare della II armata che aveva la sede principale proprio a Fiume).

I reati per i quali erano stati imputati e giudicati colpevoli sono quasi sempre gli stessi: “partecipazione a banda armata”, “associazione sovversiva”, “attentati contro appartenenti alle forze armate italiane”, “detenzione abusiva di armi e munizioni”. Diverse invece sono le condanne comminate: dai pochi anni di carcere previsti per chi ha commesso il solo reato di detenzione abusiva di armi o di concorso in attentato alle forze armate, fino alla pena di morte (poi commutata in carcere a vita) per gli accusati di appartenenza a banda armata e associazione sovversiva.

Nel carcere di Volterra sembrano però concentrarsi i soli detenuti che hanno ricevuto le condanne più pesanti. In genere, i detenuti arrivati a Volterra per scontare pene relativamente leggere (da 1 a 10 anni di carcere) vengono poi trasferiti in altri luoghi. È il caso, ad esempio, di 30 montenegrini trasferiti nel giugno 1942 alla casa di lavoro all’aperto della colonia penale dell’Asinara, tutti condannati a pene che andavano dai 3 ai 10 anni. Oppure dei 13 detenuti inviati a Castiadas, di nuovo in Sardegna, presso una struttura analoga, anch’essi condanni a pene inferiori ai 10 anni. Così, alla data dell’8 settembre 1943, dei 358 detenuti presenti a Volterra, ben 264 sono gli ergastolani (69 dei quali originariamente condannati a morte) e 33 quelli con condanne comprese tra i 20 e i 30 anni.

Conosciamo poco delle condizioni di vita dei detenuti jugoslavi nel carcere di Volterra. L’unica testimonianza diretta fino ad oggi reperita è quella di Filip Pavešić. Nato a Kraljevica (Croazia) nel 1902, arrestato dagli italiani e condannato alla pena di morte, successivamente commutata in ergastolo, per il reato di appartenenza a banda armata, Pavešić arrivò a Volterra il 17 maggio 1942 dopo essere passato per le carceri di Fiume e di Padova. Nel dopoguerra dichiarò alla Commissione distrettuale per l’accertamento dei crimini di guerra di Sušak (Fiume) che: “il carcere di Volterra era noto per essere uno dei più brutali, specialmente per la nostra gente”. Pavešić ricorda anche che uno sciopero dei detenuti organizzato per chiedere condizioni igieniche migliori era stato represso con durezza.

Durante il periodo di detenzione a Volterra morirono sei civili jugoslavi, tutti per tubercolosi polmonare. Un altro detenuto, Milan Mićunović, morì all’ospedale di Trieste subito dopo la liberazione. L’epidemia di tubercolosi portò anche al trasferimento di alcuni detenuti da Volterra al sanatorio giudiziario di Pianosa.  Due furono i casi di detenuti trasferiti al manicomio giudiziario di Montelupo fiorentino.

Da alcuni registri, peraltro incompleti, utilizzati dai carcerieri per segnalare alla direzione gli episodi di insubordinazione da parte dei detenuti, sappiamo che gli jugoslavi in più di un’Ioccasione si rifiutarono di fare il saluto fascista, così come di fare silenzio nelle camerate, o di interrompere canzoni e cori nelle proprie lingue. Episodi che di solito erano puniti con uno o più giorni di cella di isolamento.

Dopo il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, i rapporti delle guardie registrano oltre ai consueti canti e proteste, anche diverse altre iniziative – passaggi di fogli, frasi urlate da una camerata all’altra, ritrovamento di pezzi di latta a forma di coltello, tentativi di manomettere una serratura – alla luce delle quali è lecito immaginare qualche forma di organizzazione dei detenuti in vista o in preparazione della propria liberazione. Questo genere di atti continuerà anche nei mesi di ottobre e novembre 1943, senza però sortire alcun effetto.

L’occupazione tedesca e l’insediamento della Repubblica sociale italiana non influiscono quindi in alcun modo sullo status di prigionieri politici dei detenuti jugoslavi. A decidere la loro sorte sarà invece l’intervento dello Stato indipendente di Croazia (NDH) guidato dal collaborazionista Ante Pavelić.  Su suo incarico il sacerdote Krunoslav Stjepan Draganović arriva in Italia anche come rappresentate delle croce rossa croata, per chiedere la liberazione degli internati e detenuti croati. Con un analogo obiettivo, giunge in Italia un certo dottor Lukan in qualità di rappresentate della croce rossa slovena. Ha inizio così una trattativa per la liberazione dei detenuti cui la RSI prova inizialmente ad opporsi.

Le prime liberazioni dal carcere di Volterra avvengono alla fine del novembre 1943, quando su ordine del comando tedesco vengono scarcerati dieci detenuti sloveni e croati. La gran parte degli jugoslavi sarà liberata nel corso del gennaio successivo, quando lasceranno Volterra 284 detenuti, quasi tutti sloveni e croati. A restare in carcere saranno quindi una cinquantina di Montenegrini. Una parte di loro sarà liberata a marzo, gli ultimi il 31 maggio 1944, poco prima della liberazione di Volterra.

Tra gli ultimi detenuti jugoslavi a lasciare il carcere c’è anche il rabbino Isidor Finci. Nato a Sarajevo nel 1918, Finci – identificato nei documenti italiani come Finzi – era stato arrestato a Spalato il 24 aprile 1942 e condannato dal Tribunale speciale per la Dalmazia a 20 anni di reclusione per il reato di propaganda sovversiva. Nelle note della sua cartella biografica si può leggere: “È un pericoloso comunista, diffusore dell’idea sovversiva, e siccome è colto riesce con facilità ad avvelenare gli animi. È molto astuto e sa dissimulare con abilità sorprendente nello stesso modo come sa spudoratamente mentire. Del resto è un ebreo! Parla italiano”.

Il 31 maggio 1944 Finci, a quanto risulta unico tra tutti i detenuti jugoslavi di Volterra, viene trasferito a Firenze in via Bolognese 67 per essere messo a disposizione del comando militare tedesco. Isidor Finci sarà successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli e da qui inviato ad Auschwitz dove morirà alla fine di agosto 1944.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944)

Aligi_Barducci_detto_Potente

Aligi Barducci “Potente”, comandante militare della Brigata “Lanciotto”

Il 24 maggio del 1944, dalla fusione dei raggruppamenti partigiani “Checcucci”, “Romanelli”, “Lanciotto” e “Fabbroni”, si costituiva formalmente la 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi[1]. La nuova formazione, intitolata al nome di “Lanciotto Ballerini”, leggendario comandante partigiano caduto nel gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti della “Muti”, accorpava le quattro preesistenti formazioni che nei mesi precedenti avevano operato tra Monte Morello, Monte Giovi, il Mugello e l’appennino tosco-romagnolo. Dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona, molte di queste bande erano riparate di nuovo su Monte Giovi, tra Mugello e Valdisieve, dove potevano contare sul riparo e l’estesa solidarietà della popolazione locale. L’idea di accorpare queste bande ponendole sotto un comando unificato – un’ipotesi già discussa nella prima metà di aprile nel corso di un incontro avvenuto tra i capi della resistenza mugellana nella fabbrica Stefanini di Borgo San Lorenzo – presupponeva però l’abbandono di Monte Giovi, non adatto al concentramento di una nuova grande unità partigiana, per trasferirsi in un’area più idonea, individuata dopo qualche discussione nel massiccio del Pratomagno[2]. Il 23 maggio, un gruppo di circa duecento partigiani guidati da Aligi Barducci “Potente” – già membro della banda di Alfredo Bini, poi raggruppamento “Romanelli”, e al quale era stato affidato unanimemente il compito di organizzazione militare della nuova formazione – lasciava Monte Giovi diretto sul Pratomagno, dove già alcuni partigiani guidati dallo stesso Bini e da Giulio Bruschi “Berto” erano stati inviati per predisporre il terreno.

Qualche giorno dopo l’arrivo di Potente in Pratomagno la formazione ebbe il riconoscimento ufficiale da parte della Delegazione toscana del comando delle Brigate Garibaldi[3]. I quattro raggruppamenti originari divennero le quattro compagnie costitutive: la “Checcucci” ne fu la I con Bruno Bertini “Brunetto” comandante militare e “Cecco” commissario politico, la “Fabbroni” la II con Lazio Cosseri comandante e Vasco Palazzeschi “Mara” commissario, la “Romanelli” la III con “Bini” comandante e “Zio” commissario e, infine, la “Lanciotto” la IV con Renzo Ballerini comandante e Pietro Corsinovi “Pietrino” commissario. Il comando militare della brigata fu affidato invece a “Potente”, cui si affiancarono Giulio Bruschi “Berto” commissario politico e Rindo Scorsipa “Mongolo” Capo di Stato Maggiore. La dislocazione sul Pratomagno della formazione vide le quattro compagnie schierarsi sul massiccio a copertura dei versanti del Casentino e del Valdarno secondo il seguente schema: la prima compagnia tra la Consuma e Strada in Casentino, la seconda tra Strada e Poppi, la terza tra Castelfranco e Reggello e la quarta tra Reggello e la Consuma[4]. Il comando della Brigata venne invece installato ben nascosto, tra i faggeti posti al margine di una radura tra l’Uomo di Sasso e il Varco di Gastra, in quota al rilievo.

L’arrivo della Lanciotto diede così luogo sul massiccio a un’alta concentrazione partigiana, considerato peraltro che nel settore più meridionale agivano altre formazioni autonome come la “Mameli” e “La Teppa”, nonché il gruppo di paracadutisti inglesi operanti dietro le linee nemiche del “Long Range Desert Group”, mentre tra il Casentino e il Pratomagno aretino erano attestai anche i partigiani della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri”[5].

Dai primi di giugno e a partire soprattutto dalla liberazione di Roma, il rapido avanzare del fronte di guerra spinge le diverse formazioni lì attestate ad accelerare l’organizzazione e il loro consolidamento, intensificando l’attività militare e di disturbo nei riguardi delle unità tedesche presenti nell’area. Per impedire che il Pratomagno possa divenire «un luogo di rifugio e di sosta per i nazifascisti in ritirata o, peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l’offensiva alleata» in direzione di Firenze, il comando della “Lanciotto” decide di portare alcune squadre della I e II compagnia a Cetica, considerata la «porta d’accesso al Prato Magno»[6]. Nel paese, «un agglomerato di case in pietra» ai piedi del massiccio dove termina la carrozzabile proveniente dal Casentino, si installano in pianta stabile e nello stupore della popolazione locale gli uomini della Lanciotto: «la gente di Cetica» – avrebbe poi scritto nelle sue memorie Fernando Gattini “Lupo”, allora membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia – «sapeva che queste montagne ospitavano un gran numero di partigiani, ma non pensava che un giorno ci saremmo accasermati proprio in paese, come fossimo forze regolari. Perciò, nel vederci arrivare in massa, spavaldi e sicuri del fatto nostro, non hanno nascosto la propria meraviglia e una certa apprensione»[7].

Lazio Berto Mara

Da sinistra a destra: Lazio Cosseri, Giulio Bruschi “Berto” e Vasco Palazzeschi “Mara” sul Pratomagno

Durante tutta la loro permanenza a Cetica si sviluppa con gli abitanti un profondo rapporto di solidarietà, non nuovo in un’area, quella del Pratomagno, dove gli uomini della “Lanciotto”, forti di un controllo del territorio e delle vie di comunicazione apparentemente incontrastato, instaurano secondo alcuni una sorta di «piccola repubblica» partigiana, intervenendo in soccorso e a protezione della popolazione locale[8]. Il 24 giugno, la II compagnia guidata da Lazio Cosseri assalta in località Quorle, non distante da Cetica, il magazzino di un commerciante speculatore asportandovi circa 120 quintali di zucchero che la formazione subito distribuisce agli abitanti di Cetica, Montemignaio, Strada[9]. Sopratutto a Cetica, il rapporto tra partigiani e abitanti è secondo Gattini solidale:

Non c’è famiglia che non si dia da fare per noi, per rappezzare il nostro precario abbigliamento, per confezionare fazzoletti rossi con il nome della formazione ricamato a mano, per farci mangiare in casa, insieme a loro. Gli abitanti del paese vivono con noi un mese di intensa comunione ideale e pratica, contribuendo come pochi altri alla lotta contro il fascismo. Purtroppo, come è accaduto ad altri, pagheranno duramente la loro generosità.[10]

L’attività partigiana nella zona è infatti in rapida ascesa dai primi di giugno con attacchi mirati che si susseguono a danno di tedeschi e fascisti e che contribuiscono a innalzare il livello di tensione. Le azioni di disturbo dirette in particolare dagli uomini della “Lanciotto” sullo snodo viario della Consuma mettono a repentaglio i collegamenti tedeschi tra Valdarno e Casentino. A queste vanno poi sommandosi la cattura e il sequestro a danno degli occupanti di uomini e mezzi. Il 23 giugno, sempre effettivi della II compagnia della “Lanciotto” riescono a catturare  un colonnello e un capitano tedeschi, fermati in auto in compagnia della loro interprete, Fiorenza, una nobildonna fiorentina che li ha ospitati nella propria villetta di Rifiglio, presso Strada. Durante il trasporto dei prigionieri, però, l’alto ufficiale era riuscito a liberarsi e ad avere la meglio su “Giorgio”, il partigiano russo che lo scortava, salvo poi venir ucciso dai partigiani per evitarne la fuga[11]. L’azione aveva creato seri problemi al comando della Brigata, facendo temere una immediata  reazione tedesca[12]. Stando al parere del parroco di Strada don Bozzo, un’incursione analoga compiuta il 26 nei pressi di Strada e conclusasi con il fermo e la requisizione di un’auto della Todt sarebbe stata alla base dell’attacco tedesco a Cetica del 29 giugno[13]. In realtà, anche dopo questo episodio, altri scontri tra unità della “Lanciotto” e reparti tedeschi erano continuati a susseguirsi fino al 29. Il 27, ad esempio, la compagnia di Lazio Cosseri aveva attaccato le postazioni tedesche a Strada «paese abbandonato dai tedeschi due giorni prima e in questo frattempo occupato dai partigiani per un’intera notte»[14], innescando così per rappresaglia la presa in ostaggio di una quarantina di civili, più tardi rilasciati[15]. Ma a quella data il comando della 10° Armata tedesca era già in allarme per la cattura, avvenuta il 26 tra Arezzo e Anghiari a opera dei partigiani della 23° Brigata “Pio Borri”, del colonnello von Gablenz responsabile del Koruck 594 (il comando preposto alla sicurezza delle retrovie), circostanza questa che di fatto determina da lì in poi un sensibile inasprimento tra Pratomagno, Valdarno e Val di Chiana della repressione tedesca contro civili e partigiani. Dal 27 gli uomini del 2° Battaglione del 3° Reggimento Brandenburg avviano infatti un massiccio rastrellamento tra Montemignaio e Cetica[16]. All’alba del 29 giugno (lo stesso giorno in cui in Val di Chiana unità della Herman Goering danno avvio alle operazioni di rastrellamento sfociate tragicamente nei massacri di Civitella, Cornia e S. Pancrazio) i reparti del Brandenburg giungono a Cetica. Allora – è riassunto nel diario della Brigata,

  le vedette del 1° dis.[taccamento] della 2° [compagnia] segnalano spostamento di uomini vestiti in borghese ed armati provenienti da Strada e diretti a Cetica. Erano tedeschi, frammisti con italiani, travestiti da partigiani, che volevano distruggere il centro di resistenza partigiana. La 2° ingaggia battaglia con tedeschi potentemente armati. La 2° è dislocata a S. Maria di Cetica, a Calognole, ed al Mulino, dove due partigiani rimangono feriti. I tedeschi vista la resistenza opposta chiamano in aiuto i mortai; mentre la 1° giunge di rinforzo schierandosi sul ciglione della conca di Cetica. I tedeschi cominciano a subire le prime perdite; però ricevono rinforzi, ma i partigiani rinforzata dalla 4° cp. Continuano il combattimento sebbene vi siano delle perdite tra i nostri. Il nemico posto di fronte a serie difficoltà prese le donne ed i borghesi e gli fece marciare davanti, cosa questa che costrinse i partigiani di desistere dal fuoco, e di ripiegare di poco. I tedeschi giunti in Cetica, si trattengono un’ora circa e danno fuoco a tutte le abitazioni, fucilano prima tre innocenti borghesi. Tentarono fra tanto di raggiungere il mulino per distruggerlo, per toglierci la possibilità di macinare il grano, ma ciò gli fu vietato, poiché si riprese il combattimento. Quando i tedeschi ripiegarono su Strada, i partigiani, osservando le loro mosse, li precedettero, e fra Rifiglio e Pagliericcio tesero loro una imboscata che costò ai tedeschi gravi perdite.[17]

Lupo e Mara

Luglio 1944. Sulla sinistra: Fernando Gattini “Lupo”, membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia della Brigata “Lanciotto” impegnato il 29 giugno nella battaglia di Cetica

Il conflitto tra i due contendenti è piuttosto duro e assume la forma di un vero e proprio scontro frontale, inconsueto per chi come i partigiani della “Lanciotto” è abituato a operare con attacchi a sorpresa, come è nella pratica della guerriglia. Se l’imparità di fuoco è evidente, gli uomini di “Potente” dimostrano però d’aver conseguito un grado di preparazione e di organizzazione militare non trascurabile, considerata la recente costituzione della Brigata e l’endemica mancanza di armamenti, alla quale gli attesi aviolanci alleati previsti in quelle settimane sul Pratomagno non hanno per il momento saputo porre riparo. L’effetto sorpresa ricercato dai tedeschi con lo stratagemma dei soldati camuffati da partigiani è infatti prevenuto dalle sentinelle della “Lanciotto” presenti lungo la via d’accesso al paese che riescono tempestivamente ad avvisare a Cetica il comando di compagnia e sul Passo di Gastra quello di Brigata. Nel poco tempo a disposizione si cerca di porre al riparo i civili mentre i tre distaccamenti delle due compagnie presenti a Cetica vengono disposti a semicerchio a monte dell’abitato. Solo lo scudo che i tedeschi si fanno dei civili rastrellati durante il loro avvicinamento attenua il potenziale di fuoco dei partigiani, i quali, ben nascosti «fra le macchie, dietro le capanne» al limitare del paese, «si mordono le mani» perché costretti a sparare «a raffiche irregolari» per non colpire gli ostaggi, assistendo quindi semi-impotenti all’incendio del paese da parte degli occupanti[18]. Riescono tuttavia a circoscrivere l’azione degli assalitori, cercando di impegnarli verso altre direzioni e ponendo in salvo così il prezioso mulino di Cetica. L’abitato principale, tuttavia, è ridotto in macerie e alla fine della giornata si contano 13 civili (tutti uomini) uccisi dai tedeschi tra quanti erano stati presi in ostaggio. Un prezzo certamente alto, ma – hanno ragione di credere gli uomini della “Lanciotto” – ben diverso da quanto sarebbe potuto accadere in conseguenza di un ipotetico sganciamento delle compagnie partigiane: «a Cetica», avrebbe scritto più tardi Lazio Cosseri, «non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunando donne, vecchi, bambini che trucidavano senza pietà». Ciò in questo caso non si verificò «perché i partigiani non abbandonarono mai il paese»[19]. Fu proprio all’iniziativa personale di Lazio, particolarmente scosso dal brutale colpo inflitto a Cetica dai tedeschi, che allora si dovette un’estemporanea e ardita controffensiva lanciata verso gli assalitori. Alla sera del 29, postosi alla guida di una quindicina di compagni divisi in due squadre, il comandante della II compagnia si diresse rapidamente sulla strada di Pagliericcio tra Cetica e Montemignaio lungo la quale dopo l’azione stavano ritirandosi i tedeschi . Qui Lazio riuscì a tendere un’imboscata a un gruppo in ripiegamento provocando – stando ai resoconti partigiani – l’uccisione di più di 50 soldati e portando a questo modo – sempre secondo le relazioni ufficiali partigiane – il numero complessivo dei caduti nelle file nemiche a 65[20]. In realtà, il bilancio delle perdite, rispetto alle soventi poco attendibili ricostruzioni ex post, fu probabilmente più attenuato, da entrambe le parti. Le fonti tedesche infatti al termine dell’operazione del 29 giugno registrano la morte di soli 2 soldati del battaglione Brandenburg e il ferimento di altri 5 a fronte dell’uccisione di ben 45 «banditi»[21]. Solo 10 invece i caduti accertati nelle file della “Lanciotto” secondo i rapporti della Brigata[22].

Lapide Cetica partigiani

Cippo in memoria dei caduti partigiani durante la battaglia di etica del 29 giugno 1944 (www.pietredellamemoria.it)

Ad ogni modo, quella che fu da lì ricordata come la “battaglia” di Cetica, seppur difficile da descriversi come un completo successo partigiano, ebbe tuttavia grande rilievo ai fini dell’ulteriore sforzo di organizzazione della Brigata “Lanciotto” in vista delle più decisive prove cui sarebbe andata incontro successivamente, quando, col progressivo avvicinamento tra luglio e agosto del fronte di guerra alla linea dell’Arno, la formazione, col concorso delle altre Brigate e sotto il comando di “Potente”, si costituì in Divisione “Arno” contribuendo in modo capitale alla liberazione di Firenze. Qualche giorno dopo gli scontri di Cetica, infatti, in una riunione convocata da “Potente” al valico di Gastra tra tutti i comandanti e i commissari politici di compagnia della Brigata, si provvide alla ricostruzione dei fatti del 29 giugno e, ai fini di un utile ammaestramento per il futuro, a una disamina critica dei limiti e delle manchevolezze di quell’azione. Per quanto l’urto frontale dell’attacco tedesco non era riuscito a scompaginare completamente le forze della “Lanciotto” attestate a Cetica, che anzi erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo contrattaccando tempestivamente, diversi limiti erano emersi nel coordinamento tra i comandi delle diverse compagnie e a causa dell’eccessiva improvvisazione di alcuni di questi. In tal senso, emblematica era stata l’azione a sorpresa intrapresa dalla II compagnia di Lazio su decisione personale di quest’ultimo e in completo disaccordo col suo commissario “Mara”. Il dibattito sulle presunte responsabilità dei singoli o dei comandi si fece a tratti polemico, stando che diversi tra i convenuti erano convinti che «con le forze presenti a Cetica sarebbe stato possibile non solo resistere ai tedeschi, ma assestare un duro colpo al nemico e impedire o almeno limitare i danni al paese»[23]. Anche per questo, a riparazione delle supposte omissioni e manchevolezze, si decise di stanziare subito 100.000 lire distogliendole dalle casse della Brigata in favore dei sinistrati di Cetica e di distribuire loro quanto era rimasto in riserva in termini di alimenti e indumenti. Sulle responsabilità militari, spettò invece a “Potente” dire la parola definitiva, auspicando per l’avvenire un ulteriore potenziamento dei collegamenti tra i comandi e facendo osservare «con paterna dolcezza» a Lazio le imprudenze da lui commesse «nel predisporre lo schieramento senza curare la difesa alle spalle» lanciandosi all’attacco in un momento inopportuno[24].

Dalla condivisa consapevolezza degli errori commessi a Cetica per difetto d’organizzazione o eccessiva avventatezza – non diversamente da quanto nelle stesse settimane avveniva di analogo sui Monti Scalari entro la neocostituita 22° bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia” a conclusione del sofferto esame dei limiti tattici e organizzativi scontati nel corso della “battaglia” di Pian d’Albero[25] – si presentava anche per la “Lanciotto” un’utile, seppur travagliata, occasione per riconsiderare alcuni aspetti operativi e strutturali che erano stato decisi, spesso in modo precario e poco organico, nel corso di un rapido e accidentato processo costitutivo tipico di una grande formazione partigiana in via di sviluppo. In sostanza, il successo che la Divisione “Arno” di Potente avrebbe in seguito ottenuto nei difficili frangenti della battaglia di Firenze richiese il superamento dei limiti che, come nel caso di Cetica,  avevano caratterizzato al pari di altre Brigate le prime fasi di vita e attività  della “Lanciotto”.

[1] La data del 24 maggio è indicata come atto fondativo della brigata nella relazione ufficiale della stessa (cfr. ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, relazione generale della XXII Brigata Lanciotto). Altre testimonianze fanno risalire invece l’atto ufficiale di costituzione della formazione all’8 giugno e a una riunione tenutasi all’Uomo di Sasso, sul Pratomagno, tra tutti i comandanti militari e politici dei raggruppamenti (ivi, b. 3, Relazione di Alessandro Pieri “Stella” presentata all’ANPI provinciale di Firenze nel maggio 1945, p. 17 e V. Palazzeschi, Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”, La Pietra, Milano 1986, p. 66).

[2] Giuseppe Maggi “Beppe” in Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello, a cura del Circolo La Comune del Mugello e del Centro di documentazione di Firenze, La Pietra, Milano 1975, p. 47; L. Tagliaferri, Monte Giovi nella Resistenza, in AA.VV., Monte Giovi: se son rose fioriranno…Mugello e Valdisieve dal fascismo alla Liberazione, Edizioni Polistampa, Firenze 2012, p. 411.

[3] G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi “Arno”, a cura di M. Augusta e S. Timpanaro, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 85.

[4] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”.

[5] G. Verni, Appunti per una storia della Resistenza nell’aretino, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di stermino e Resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, ESI, Napoli 1990, pp. 98-173 (in particolare pp. 142 e sgg.); A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957; C. Biscarini, Soldati nell’ombra. 1944. Operazioni speciali nelle province di Siena, Arezzo, Livorno, Grosseto, La Spezia, Effigi, Arcidosso (GR) 2011.

[6] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 72.

[7] F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1980, pp. 113-114.

[8] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 73.

[9] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 24 maggio 1944.

[10] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 115.

[11] L. Cosseri (a cura di), Lazio. Ribelle tra i ribelli, Aska, Firenze, 2004, pp. 185-187.

[12] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 122.

[13] Per l’episodio cfr. ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 26 giugno 1944. Per il giudizio di Bozzo cfr. G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue. Dal diario personale del tempo d’emergenza nell’alto Casentino, Libreria Salesiana Firenze, 1946, p. 44.

[14] ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 27 giugno 1944.

[15] G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue, cit., pp. 12-20.

[16] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 118-119.

[17] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[18] ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, dattiloscritto, p. 4.

[19] L. Cosseri (a cura di), Lazio, cit., p. 191.

[20] Ivi, p. 192; ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[21] Bundesarchiv-Militärarchiv, Friburg, RH 2/663, Ic-Meldung, 30 giugno 1944.

[22] 12 caduti e 23 feriti sarebbero le perdite partigiane secondo il già citato diario della Brigata. Altre fonti interne indicano invece 10 caduti e 6 feriti, cfr. ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, cit., p. 5; G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., pp. 204-205.

[23] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 129.

[24] G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., p. 234.

[25] M. Barucci, Sulla strada per Firenze. La Brigata Sinigaglia e la strage di Pian d’Albero 20 giugno 1944, Pacini editore, Pisa 2018, pp. 150-152.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




La memoria dei bombardamenti nella città di Livorno

Uno degli aspetti che emerge con maggior forza dalle memorie delle persone comuni riguardo la Seconda guerra mondiale è sicuramente il ricordo delle distruzioni provocate dalle incursioni aeree. Tale memoria tuttavia, per molto tempo non ha trovato del tutto spazio nella narrazione del conflitto e in quella della Liberazione, dal momento che le truppe alleate hanno dato un decisivo contributo alla sconfitta degli occupanti nazifascisti. Sebbene questo contributo sia innegabile, la conduzione da parte del comando alleato della campagna italiana è stata militarmente dura: l’avanzata delle truppe era preceduta da bombardamenti massicci che avevano lo scopo di colpire obiettivi strategici e di fiaccare l’animo della popolazione. Il bombardamento a tappeto di gran parte del territorio italiano messo in atto dalle fortezze volanti faceva parte pertanto della strategia bellica degli alleati.

In questa strategia rientrava anche l’attacco a Livorno che, a partire dalla primavera del 1943, divenne obiettivo di primissimo piano della guerra aerea grazie alla presenza di alcune infrastrutture fondamentali: il porto, il cantiere navale, la Motofides, l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC). Il danneggiamento di tali strutture industriali risultava fondamentale sia per compromettere la capacità bellica dell’Italia, sia (dopo la caduta del fascismo) per evitare che potesse servire alle forze armate tedesche presenti sul territorio italiano. I bombardamenti su Livorno furono complessivamente 56 e si collocano tra giugno 1940 e luglio 1944. Cominciarono da parte dell’aviazione francese subito a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia anche se i danni provocati da tali attacchi furono molto limitati e non particolarmente presenti nella memoria di chi li ha subiti. Il primo attacco avvenne il 16 giugno del 1940 e provocò danni nel quartiere Venezia, in Piazza Grande e in Piazza Magenta; il secondo del 22 giugno dello stesso anno colpì abbastanza gravemente l’albergo Palazzo e i Bagni Pancaldi; il terzo del 9 febbraio 1941 riguardò la zona dell’ANIC nella periferia nord della città.

Un rifugio sugli Scali D'Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il rifugio sugli Scali D’Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

L’incursione che è rimasta fortemente impressa nella memoria collettiva della città è però quella del 28 maggio del 1943 ad opera dell’aviazione americana. Secondo quanto scritto dal generale del corpo d’armata, comandante generale della protezione civile antiaerea (UNPA), alle 11.30 di quella mattina (per pochi minuti) e alle 12.15 (per la durata di un quarto d’ora) circa 60 aerei dell’aviazione americana si abbatterono sulla città e l’intera zona portuale provocando ingenti danni a stabilimenti e attrezzature militari. Secondo le stime prefettizie le bombe sganciate in due ondate successive, a distanza di 30 minuti una dall’altra, corrispondevano a 180 tonnellate: i morti accertati furono 225 (tra cui 13 militari) destinati però a salire dopo poche ore a 280 a causa dei decessi avvenuti in ospedale, i feriti 232. Ma tutta la città venne duramente colpita: vennero completamente distrutti 200 edifici, come anche la Centrale telefonica e il Palazzo del governo.

Dalle testimonianze di molti anziani emerge il ricordo drammatico di quel giorno perché fu il primo bombardamento che coinvolse completamente tutta la città. Per la prima volta la popolazione si è sentita veramente in pericolo, oggetto della guerra totale. Così ricorda il farmacista Aleardo Lattes, esponente di primo piano della borghesia ebraica livornese, in una pagina delle sue Memorie inedite, conservate presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno:

“Il 28 maggio 1943 alle ore 11,30 la sirena di allarme suonò lugubre. Il popolo, ormai abituato ai falsi allarmi, ripetutisi da circa tre anni, passeggiava per le strade non curante quando, dopo pochi minuti, una prima ondata di bombardieri pesanti sganciò alla periferia della città, e principalmente sullo stabilimento Anic, produttore della benzina sintetica, un centinaio di bombe incendiarie seminando ovunque rovina e distruzione.

Ugo ed io, venne anche Emma, eravamo in farmacia. Era con noi anche qualche passante ritardatario   che non aveva fatto in tempo a raggiungere il rifugio di Piazza Cavour, tanto la carica delle bombe fu fulminea. Dal segnale di allarme alla caduta della prima bomba passarono tre minuti esatti. Le muraglie della farmacia ed il rendi resto, collocato sul banco centrale, tremavano come se un violento terremoto ne scuotesse le fondamenta.

Alle 11,45 il bombardamento cessò, o meglio ebbe una sosta. Cautamente uscimmo fuori per constatare il tragico effetto del bombardamento. Una nuvola immensa di fumo nero copriva l’orizzonte. Erano saltati in aria i depositi della benzina sintetica che bruciavano spandendo per l’aria un calore acre e soffocante che rendeva soffocante la respirazione. Le persone uscite, come noi dai rifugi, (poiché non era ancora segnalato il pericolo) si guardavano muti come per dire: E’già finita? E già la popolazione riprese a circolare per le strade quando, alle 12,30 una seconda ondata di bombardieri proveniente dal mare investì la città rovesciandovi un numero imprecisato di bombe di grosso calibro che, a giudicare dagli effetti disastrosi prodotti, doveva essere di circa un centinaio. Fu uno di quei bombardamenti cosiddetti a catena di una violenza tale da far rimanere annichiliti muti e rattrappiti sotto la volta reale della farmacia stretti gli uni agli altri, come se si attendesse da un momento all’altro che una bomba cadesse su di noi, tanto si avvicinavano al centro della città con fragore sempre più assordante. […] Una bomba cadde sugli scali d’Azeglio, al centro della strada proprio sopra un rifugio dove si trovavano una cinquantina di persone. Fu un vero macello, sulla via si aprì una voragine dove un mucchio informe di agonizzanti si dibattevano nel dolore. La violenza delle schegge e lo spostamento di aria aveva fatto crollare, come se fosse di carta, il terzo e il secondo piano dello stabile n.9.

Sebbene da parte dell’autorità podestarile e della Prefettura vennero messe in atto azioni per riportare la vita cittadina ad un livello di relativa normalità, i problemi abitativi, di gestione dei rifugi antiaerei (che si erano rivelati del tutto inefficaci di fronte al pericolo reale), quelli di approvvigionamento di acqua e di materie prime contribuirono a diffondere in città la sensazione di un crollo immanente e di una incapacità da parte delle autorità preposte di assicurare una vera protezione alla popolazione.

In questa situazione già notevolmente compromessa il 28 giugno avvenne un secondo bombardamento che risultò ancora più devastante del primo: in appena nove minuti la città venne sorvolata da 97 fortezze volanti che sganciarono circa 237 tonnellate di  bombe da 500, 1000 e 2000 libbre provocando 209 vittime (tra cui 29 militari italiani e 3 tedeschi), la distruzione di 180 edifici, fra cui gli stabilimenti Moto Fides, Vetreria italiana ed altre industrie, la stazione ferroviaria, il mercato centrale, i cimiteri, i rifugi di recente costruzione nelle vie Galilei, Mastacchi e Garibaldi. Le conseguenze dell’incursione sono descritte, con parole drammatiche, dal prefetto della città accompagnato dal podestà e dal generale dei carabinieri Carlino, nella sua prima ricognizione

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

 “da una rapida visita eseguita in città si poté avere la percezione esatta della potenza del bombardamento nemico e dei gravi danni provocati al centro cittadino, agli stabilimenti della zona industriale e alla stazione ferroviaria (…) si ebbe anche purtroppo notizia che quattro ricoveri pubblici (…) erano stati colpiti in pieno da bombe e che la quasi totalità dei rifugiati erano rimasti o morti o feriti. Qui l’opera di soccorso fu lunga e assai faticosa perché feriti, corpi umani e brandelli di carne si trovavano frammisti a grossi blocchi di calcestruzzo provenienti dal crollo dei ricoveri e per la cui rimozione occorsero argani e lunghe ore di febbrile lavoro. Qualche ora più tardi, alle squadre di pronto intervento si aggiunsero altre squadre di operai da Rosignano e da Pisa e alcune centinaia di soldati e decine di automezzi messi a disposizione dall’Autorità portuale”.

Proprio il crollo dei rifugi antiaerei che fu la causa del gran numero di vittime rafforzò nella popolazione il convincimento della loro inutilità e dell’assenza di ogni protezione. In città non si poteva più panificare, i negozi erano chiusi, le vettovaglie erano portate in autocarro da Firenze, l’acqua arrivava da Pisa con le motocisterne. La città non era più vivibile e moltissimi furono gli sfollati nelle campagne circostanti la città. Il 25 luglio 1943, in concomitanza con la caduta del regime, Livorno subì un terzo bombardamento in piena notte alle 0,15: morirono 43 civili nell’Istituto Maddalena (41 bambini e 2 suore) e vennero colpite numerose fabbriche alla periferia della città. Le incursioni aeree si susseguirono ancora a settembre e dicembre del ’43 e proseguirono nella primavera del ’44 fino alla liberazione della città avvenuta il 19 luglio dello stesso anno.

La memoria del conflitto si presenta pertanto a Livorno soprattutto come memoria della “morte che viene dal cielo”. Per la maggior parte della popolazione locale il periodo tra il ’43 e il ’44 è associato ad un profondo senso di precarietà e di smarrimento che solo lentamente, con la ricostruzione della città e del tessuto sociale al suo interno, verrà superato. Il ricordo però di queste esperienze emerge con prepotenza anche a decenni di distanza nei racconti di chi ha vissuto quei terribili giorni.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Storia di una memoria. Il settantacinquesimo anniversario dell’Eccidio del Montemaggio.

75 anni fa, il 28 marzo 1944, un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Siena, comandata da Renato Billi e Alessandro Rinaldi, attaccò un gruppo di partigiani a casa Giubileo (nel Comune di Monteriggioni) uccidendone uno in combattimento e fucilando, poco dopo, diciotto prigionieri; dell’episodio ci fu un unico superstite, Vittorio Meoni, che riuscì a salvarsi in modo rocambolesco.

Proprio Meoni, venuto a mancare lo scorso anno, in questo lungo periodo, è stato il testimone ma anche il custode di una memoria divenuta esemplare[1] fin dall’azione che la generò.

In particolar modo la fucilazione dei prigionieri (a parte quella del partigiano Giovanni Galli, rimasto ferito durante il conflitto a fuoco e finito sul posto dai fascisti che non tentarono in nessun modo di prestare soccorso) si rivelò un atto calcolato e pianificato a sangue freddo. Una serie di indizi, che vennero ampiamente valutati durante il processo, celebrato tra il 1947 ed il 1949, denunciò in modo inequivocabile la premeditazione dell’Eccidio. Innazitutto il lasso temporale: i partigiani vennero catturati intorno alle otto del mattino; la fucilazione avvenne alle quattordici; ci fu quindi tutto il tempo di prendere ordini dal Prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco (difficilmente l’esecuzione sarebbe avvenuta senza il suo benestare), ma anche di predisporre un eventuale trasferimento dei prigionieri in carcere in attesa di processo.

Altro ancora: l’accuratezza della scelta del luogo. Casa Giubileo venne scartata subito, lo stesso si verificò per la località di Campo ai Meli. Il motivo fu probabilmente la presenza di testimoni: entrambi questi luoghi, case coloniche, erano abitati e passare per le armi anche due intere famiglie di civili fu, probabilmente, valutato inopportuno. La scelta cadde pertanto su La Porcareccia, una radura isolata sulla strada che risaliva da est il Montemaggio partendo da Abbadia Isola.

Racconta Vittorio Meoni che, all’arrivo delle vittime, la piazzola con la mitragliatrice e un drappello di militari erano già stati predisposti: il successivo ordine di sedersi e di togliersi le scarpe non lasciò adito a dubbi[2].

Dopo la fucilazione i cadaveri vennero lasciati sul posto per più di un giorno (furono raccolti soltanto la mattina del 30) e il prefetto di Siena rifiutò il permesso, richiesto dalle famiglie per mezzo della mediazione di un sacerdote, di riesumare i corpi dalla fossa comune dove erano stati frettolosamente seppelliti. Soltanto cinque giorni dopo si procedette alla riesumazione, al riconoscimento e alla traslazione delle salme nel camposanto di Castellina Scalo[3].

Immediatamente dopo la tragedia iniziò a strutturarsi la memoria dell’evento.

IMG_1271La notizia divenne di pubblico dominio ma seguì due canali diversi, quello ufficiale delle autorità fasciste le quali, in un primo momento, dichiararono che i partigiani erano morti nel conflitto a fuoco (versione diffusa dai giornali del Regime e più volte cambiata), e quello spontaneo legato alla rete dei familiari e dei conoscenti dei caduti; quest’ultima tradizione fu considerata senz‘altro più degna di fede per una serie di ragioni, prima fra tutte quella emozionale; in secondo luogo, in un territorio come quello senese, dove la maggioranza della popolazione viveva e lavorava in campagna e dove tante famiglie  nascondenvano un parente o un amico renitente alla leva, il fatto che tutte le vittime fossero giovani nonché di umile estrazione (a parte una, le altre erano contadini e operai)  fece sì che in moltissimi considerassero particolarmente vicina la tragedia.

La condanna fu pressoché totale e già un anno dopo, a liberazione avvenuta ma ancora a guerra in corso (28 marzo 1945), un gran numero di persone, spontaneamente, si recò a Casa Giubileo e alla Porcareccia per ricordare e rendere omaggio ai caduti che nel frattempo avevano assunto una sorta di sacralità e avevano ottenuto la definizione di martiri.

Altra tappa fondamentale per la costruzione della memoria dell’Eccidio fu la celebrazione del processo che portò alla sbarra Chiurco, Rinaldi e altri ottantuno imputati. Le testimonianze degli accusati furono incongruenti, contrastanti e chiaramente finalizzate a dimostrare l’estraneità dei singoli rispetto al gruppo dei carnefici[4], mentre il testimone chiave dell’accusa, Vittorio Meoni, si dimostrò preciso ed esauriente, riconoscendo, tra l’altro, molti militi del plotone d’esecuzione. La ricostruzione puntuale, la chiarificazione delle dinamiche e l’individuazione dei protagonisti fornì una grande mole di dettagli nuovi, fino a quel momento sconosciuti, che si saldarono nell’immaginario della popolazione locale dell’epoca.

Il processo, alla lunga, si concluse con un nulla di fatto (come del resto tutti gli analoghi procedimenti intentati in quegli anni contro i criminali di guerra italiani); in primo grado  per trentaquattro imputati si aprirono le porte del carcere con pene variabili dall’ergastolo ai dodici anni di reclusione, ma in seguito all’amnistia e al successo delle istanze presentate in cassazione, ben presto tutti i protagonisti dell’eccidio della Porcareccia vennero scarcerati[5].

Nonostante l’impunità, la memoria si era tuttavia istituzionalizzata: la neonata Repubblica, dopo il ventennio fascista, aveva bisogno di nuove radici morali e queste passavano anche attraverso gli eccidi e i massacri commessi dai nazifascisti sul nostro territorio[6]; per tale ragione l’anniversario dei fatti del Montemaggio, a partire dalle prime manifestazioni spontanee della primavera 1945, divenne un appuntamento fisso con i propri simboli (il tronco d’albero tagliato a metà, emblema delle vite giovani stroncate con la violenza, i gonfaloni dei comuni di provenienza dei martiri), un inno (O bella ciao!) un cerimoniale e un cerimoniere di indiscusso prestigio (lo stesso Vittorio Meoni).

Parallelamente alla fine della generazione che aveva vissuto e subito il drammatico periodo degli eventi dittatoriali e bellici  si ebbe l’avvento della Seconda Repubblica e, con questo, le radici morali e memoriali dell’età precedente vennero rimesse in discussione da una parte dei protagonisti della nuova classe dirigente. Anche la memoria periferica non fu immune da questa sorta di revisione che ai nostri giorni sta investendo, in modo indiretto, anche il ricordo della tragedia del Montemaggio. Mi riferisco in particolar modo al tentativo di riabilitare  il principale responsabile, ossia il Prefetto fascista di Siena, Giorgio Alberto Chiurco.

L’operazione  è visibilmente campata per aria poiché va contro decenni di ricerche senza presentare alcuna prova né nuova né tantameno decisiva, pertanto non è finalizzata in alcun modo a influenzare la comunità scientifica. L’obiettivo è un altro, ossia riscrivere la storia del fascismo italiano  trasformandolo, da dittatura violenta e sanguinaria che fu, a vittima degna di rispetto; ma tale operazione, oltre che contro la storia, intesa come disciplina legata a una rigorosa  metodologia scientifica è, con tutta evidenza, una mina vagante contro quella forma di memoria che costitusce il fondamento stesso della nostra Democrazia.

 

[1]Sul concetto di memoria esemplare cfr TODOROV T., Gli abusi della memoria, Miliano, Meltemi, 2018, p.63 e ss.
[2]MEONI V., Memoria su Montemaggio, Siena, Pistolesi, 2003, pp.29 e ss.
[3]ELIA D.F.A., Montemaggio. Dall’Eccidio al processo, Bari, Laterza, 2007, pp.142-143.
[4]Archivio I.S.R.S.E.C. Vittorio Meoni, Processo Chiurco, Verbali di dibattimento novembre 1947.
[5]ORLANDINI A. – VENTURINI G., I Giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Milano, La Pietra, 1983, pp.43-46.
[6]Cfr TODOROV T., Gli abusi …, op. cit., p.71

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




Le Ville Sbertoli: un manicomio durante l’occupazione nazifascista

Quando si parla delle Ville Sbertoli, si fa riferimento al manicomio della città di Pistoia. Nate come Casa di Salute nel 1864 per volontà di Agostino Sbertoli e divenute poi Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale nel 1951, le Ville Sbertoli si ergono come monumenti del passato sull’amena collina di Collegigliato, pochi chilometri a nord della città di Pistoia.

Chiuse definitivamente nel 2011 dopo numerosi cambi d’uso, dalla loro fondazione agli anni Quaranta del Novecento, hanno rappresentato un centro di ricovero estremamente raffinato e rivolto ad una clientela internazionale, cosmopolita, aristocratica e alto borghese proveniente dalle principali città italiane e dall’estero. Ancora oggi, nonostante le varie ristrutturazioni operate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e l’abbandono, colpisce la bellezza architettonica del complesso sviluppatosi secondo i desideri dello Sbertoli in una serie di padiglioni disseminati con uno stile liberty ed eclettico.

Malgrado i cambi di gestione, l’andamento della Casa di Salute prosegue senza discontinuità fino all’avvento del secondo conflitto mondiale, in particolar modo fino all’occupazione tedesca di Pistoia iniziata l’11 settembre del 1943 e conclusasi l’8 settembre del 1944.

Così come altre realtà, Pistoia subisce due drammatiche conseguenze derivanti dall’occupazione: i bombardamenti alleati e le persecuzioni contro nemici politici e persone di stirpe ebraica. Entrambe le vicende influiscono direttamente sull’andamento della Casa di Salute. I tre bombardamenti della città, avvenuti tra fine ottobre 1943 ed inizio gennaio 1944, inducono le autorità della Repubblica Sociale Italiana a trasferire i detenuti del carcere cittadino nei Villini della Casa di Salute. Numerosi furono i prigionieri politici, fra cui alcuni ebrei, che furono reclusi dai nazifascisti all’interno del complesso. Tra questi, vi furono anche i giovani renitenti alla leva della Repubblica Sociale Italiana che il 31 marzo del 1944, condotti alla Fortezza Santa Barbara, subirono la fucilazione.

Le notizie più significative riguardo le vicende all’interno delle Ville Sbertoli, emergono direttamente dall’Archivio dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Pistoia, in particolar modo dalla consultazione delle Cartelle Cliniche e dei Registri dei Morti. Nel Registro numero cinque si scopre che il giorno 22 giugno 1944 muoiono cinque uomini originari di Santonuovo per «fucilazione» e che il giorno 16 settembre 1944 viene ucciso, sempre per fucilazione ma con la specifica di «az. guerra», un giovane ragazzo di diciassette anni. Oltre a questi, emergono i casi di T. U., ventinove anni, bracciante, che il giorno 29 luglio 1944, viene «fucilato dai tedeschi» a Tizzana, e di N. E., ventiquattro anni, che il giorno 30 luglio 1944, viene «mitragliato dai tedeschi» nella località di Ponte del Gatto, S. Baronto, Lamporecchio, perendo per «ferite a. d. f. alla testa» (armi da fuoco).

Dalla consultazione delle cartelle cliniche emerge, poi, il fatto che durante il periodo bellico i ricoveri crescono progressivamente e che oltre alle degenze annoverabili pienamente alla malattia mentale, vi sono due ulteriori profili ascrivibili uno alla categoria dei ricoveri derivanti dalla guerra e dai bombardamenti, l’altro a quella dei ricoveri artefatti.

Riguardo i primi, le cartelle ci riportano la vicenda di tre ex combattenti sconvolti psicologicamente dal servizio militare.

Il giovane ventisettenne B. E., fu chiamato il 1° settembre 1938 «sotto le armi e inviato in Libia ove incominciò a soffrire disturbi nervosi tanto gravi che per un mese e mezzo venne ricoverato nell’Ospedale di Bengasi». D. A., ventitré anni, soldato ferito con pensione di guerra «nel 1940 combatté in Russia dove diceva talvolta di sentire delle forze telepatiche. Tornato in Italia rimase per un certo periodo in casa, ma avendo commesso delle stranezze fu internato nell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano (Lucca)». C. G., avendo militato in Montenegro, «ebbe un forte esaurimento in seguito al quale cadde in stato di depressione. Fu rimpatriato con diagnosi di “sindrome depressiva”».

Dall’analisi delle cartelle emergono, poi, numerosissimi casi di ricoveri ascrivibili agli shock da esplosione che testimoniano chiaramente la diretta conseguenza dei tre bombardamenti della città. Le degenze spesso si svolgono nell’arco di pochi mesi e dall’assenza di quasi la totalità della documentazione medica, si comprende come l’allontanamento dalla città in una zona separata dal teatro di guerra, bastasse a lenire la psiche dei ricoverati. Sono persone definite sane la cui condizione di «agitazione» si verifica a seguito dei bombardamenti «vedendo cadere le bombe a poca distanza». Come il caso del commerciante ventunenne T. R., di cui si dice che «a seguito di trauma psichico dovuto allo scoppio di una bomba si cambiò improvvisamente in uno stato di particolare fatuità»; o il caso più dettagliato di P. G., venti anni, che «in uno dei bombardamenti su Pistoia rimase per circa un’ora sotto le macerie dove perirono la madre e i cinque fratellini. Ebbe per questo un forte shock, ma seguitò a lavorare nelle ferrovie. In altro bombardamento fu nuovamente ferito. Da allora egli rimase nel terrore di non poter sfuggire alle incursioni. Durante gli allarmi egli è incapace di qualsiasi iniziativa anche se si tratta di mettersi al sicuro».

Nella categoria dei ricoveri causati dalla guerra sono degni di nota anche due casi di delirio paranoico a sfondo politico e persecutorio, nei quali, a detta dei ricoverati, la persecuzione era messa in atto dai fascisti o dai nazisti.

Come P. M., che «a seguito degli avvenimenti del 25 luglio scorso cominciò ad avere preoccupazione prima, poi addirittura mania di essere arrestato e fucilato. Susseguentemente subentrò autoaccusa, mania persecutiva»; o di B. O. che «subitò un trauma psichico il 2 giugno 1944, per una perquisizione avvenuta in casa sua, cominciò ad avere degli accentramenti ideologici. Poco tempo dopo a causa della morte di un tedesco, profondi rimorsi cominciarono a dar noia al soggetto e dopo, grado a grado, si sviluppò la mania di persecuzione. Dice che è stato condannato a morte e che da un momento all’altro devono venire a prenderlo e giustiziarlo».

Per quanto riguarda i ricoveri artefatti, la figura principale attorno a cui le varie vicende si dipanano è quella del direttore sanitario Marcello Silvestrini. Poche le informazioni che si riescono a ricavare su di lui, ma, grazie al suo silenzioso lavoro di assistenza e solidarietà, firmando ricoveri, tenendo i contatti con le famiglie e allontanando i controlli dei militari dai reparti, permise a molti di eludere l’arruolamento forzato o la deportazione.

Numerose sono le cartelle che al loro interno non presentano alcuna documentazione medica se non i decreti di ammissione e dimissione del tribunale. Ricorre spesso, negli atti del Silvestrini, specie in quelli indirizzati alle famiglie del ricoverato, la formula «al giorno della dimissione Vi terrò informato», o nella cartella clinica, nella sezione destinata ai motivi della dimissione, l’espressione «rilasciato/a per insufficienza titolo». Non è poi casuale il fatto che dei centoundici ricoveri avvenuti durante il periodo d’occupazione nazifascista, ventitré vengano dimessi nei due mesi successivi la liberazione della città, quasi tutti per «insufficienza titolo». Tra questi troviamo il caso di un giovane di ventiquattro anni, R. R, ricoverato con un generico certificato del medico di famiglia, Dott. Aldo Benelli, con l’avallo del comando tedesco datato 1° agosto 1944. Troviamo poi anche alcuni ebrei. Visto l’intento, le cartelle non solo sono prive di qualsiasi documentazione, ma non presentano neppure riferimenti dell’estrazione ebraica degli ospiti; ma, dall’analisi dei cognomi, compare distintamente l’origine ebraica dei ricoverati.

In un caso, quello del paziente D. V., la cartella ci riporta interessantissime e toccanti informazioni. D. V. nato a Charkow, in Ucraina si legge che:

                 Essendo di origine ebraica, le nuove disposizioni di Legge l’hanno obbligato a dimettersi dal posto di Imp. alla Banca e ciò ha influito fortemente sulla sua costituzione nervosa, che non ha mai dato l’impressione di energia. Essendo fortemente esaurito con mania persecutiva, in seguito allo scoppio della guerra (1939-40) viene arrestato come straniero, e le sue condizioni fisiche e psicofisiche ne richiesero il ricovero alla Villa Aprica in Como per circa 2 anni.

 Trasferito alle Sbertoli, gli viene redatta la diagnosi di neuropsicastenia, malattia caratterizzata da stanchezza, malinconia e depressione. Viene rilasciato per impossibilità di sostenere la retta. Una toccante lettera del 1958 da lui scritta indirizzata direttamente al Silvestrini – segno evidente di quanto il suo operato significò per la sua vita – riporta:

                 Io lasciai le Ville Sbertoli nel Luglio 1946 […] in attesa e nella speranza di poter ritrovare la mia famiglia, dalla quale ero stato separato dagli eventi della guerra. Purtroppo però, ciò non è avvenuto, in quanto riuscii a sapere poi che mia madre e mia sorella, deportate dai nazifascisti in Germania ed ivi rinchiuse in un campo di concentramento e sterminio, vi trovarono la morte, dopo infinite sofferenze […]. Recentemente è stata emanata in Italia una legge che concede un sussidio di benevolenza (una specie di pensione) da parte dello stato, a favore di coloro che sono stati vittime di persecuzioni politiche e razziali in regime fascista e a causa di tali persecuzioni hanno contratto malattie, per effetto delle quali hanno perduto o visto menomata la loro capacità lavorativa. Ho presentato la relativa Domanda ed ora mi è stato richiesto di corredarla con un Certificato Medico, della Casa di Cura, dove sono stato ricoverato.

 Nonostante il Silvestrini non fosse più direttore delle Ville Sbertoli, dal manicomio di Perugia, dove si era trasferito, si adopera, ancora una volta, per la situazione di uno dei suoi ex pazienti, facendo richiesta al nuovo direttore. Non rimase inascoltato: dagli incartamenti risulta che il nuovo direttore si adoperò per la produzione del certificato «per uso pensione» riportando fedelmente tutti i dati del paziente. Se, infine, D. V. abbia ottenuto effettivamente il sussidio, questo, purtroppo, non emerge.

Mattia Eleni ha conseguito il Diploma di Liceo Classico presso il Liceo Statale Niccolò Forteguerri di Pistoia, quindi la Laurea Triennale in Storia presso Università degli Studi di Firenze, attualmente è studente di magistrale di storia all’Università di Pisa. 

Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.
Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.



Dispersi sì, dimenticati mai.

Ricostruire le vicende del Piroscafo Oria e dei soldati italiani che vi morirono durante la seconda guerra mondiale. È di prossima pubblicazione un’inedita ricerca sulle vicende del Piroscafo Oria, partito da Rodi e affondato il 12 febbraio 1944 presso l’isola di Patroklos in Grecia con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania. A firma di Luisa Ciardi, Michele Ghirardelli e Matteo Grasso, il libro, frutto di un progetto regionale che vede dal 2013 la collaborazione di più enti e istituzioni (Fondazione CDSE, Regione Toscana, Istituto storico per la Resistenza di Pistoia e la Rete dei Parenti delle Vittime del Piroscafo Oria) pone ulteriori sviluppi nella ricostruzione storica e nella ricerca dei singoli caduti del naufragio.

Il progetto nel corso degli anni si è arricchito di nuovi tasselli che hanno portato il Comune di Monsummano Terme a strutturare una collaborazione che portasse le vicende dell’Oria nelle scuole, attraverso progetti didattici, e all’attenzione della cittadinanza, grazie agli studi storici e all’intitolazione di un giardino. Questa fase è incominciata nel 2016, quando il monsummanese Renato Mazzei, nipote del disperso Righetto Pierattini, è entrato in contatto con Elena Sinimberghi, assessore alla cultura di Monsummano Terme; l’incontro ha poi trovato compimento fra il 2017 e il 2019 nell’ambito di un progetto triennale di ricerca.

Righetto Pierattini era un giovane di 21 anni quando, dopo l’Armistizio del settembre 1943, fu fatto prigioniero dalle forze naziste, rifiutando in seguito l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana. Un atto di Resistenza e di fedeltà ai propri ideali: da un lato un giuramento fatto al Re d’Italia, dall’altro un’avversione verso il nuovo regime fascista. Fece parte della schiera di internati militari italiani, ma non riuscì a giungere in un campo di concentramento nazista: trovò la morte all’interno di una nave – appunto, il Piroscafo Oria – che lo stava trasferendo sulle coste greche per la deportazione in Germania.

Partendo da questo episodio, la ricerca ha dato vita ad un volume a più mani, curato dal docente universitario Michele Ghirardelli (nipote del disperso Ugo Moretto, fra i fautori delle prime ricerche sull’argomento una decina di anni fa e fra i sostenitori della nascita della Rete dei parenti delle vittime dell’Oria), dalla storica Luisa Ciardi (Fondazione CDSE, coordinatrice del primo progetto regionale sull’Oria) e dal sottoscritto (direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e autore delle indagini sui dispersi nella provincia pistoiese).

Nell’introduzione, Luisa Ciardi traccia un bilancio del percorso che in questi anni ha coinvolto l’Oria, partendo dalla sua memoria collettiva e giungendo al riconoscimento pubblico. La prima ricerca è affidata a Ghirardelli che si sofferma su alcuni aspetti fondamentali, nei quali fornisce un quadro storico molto approfondito e passa in rassegna la bibliografia sulla vicenda. Il suo testo non si limita a considerazioni di carattere generale e a pure riflessioni storiografiche, ha il merito di entrare nel dettaglio delle singole memorie e di intrecciare microstoria e macrostoria.

La seconda parte della ricerca interessa i caduti pistoiesi ed è strutturata su tre livelli, secondo il metodo scientifico dell’incrocio fra fonti diverse: archivistica, orale e bibliografica. Partendo dall’indagine a cura della Fondazione CDSE iniziata nel 2013, ho ripreso i nominativi riconducibili alla Provincia di Pistoia e li ho confrontati prima con i fogli matricolari conservati all’Archivio di Stato di Firenze, dove è possibile consultare le carriere militari dei soldati, poi con gli atti di nascita e di morte registrati presso gli archivi comunali. Solamente in una seconda fase e con queste informazioni in possesso, sono riuscito a rintracciare i familiari. Alcuni di loro erano già a conoscenza dell’Oria ed erano entrati a far parte della Rete delle famiglie dei dispersi. Altri, invece, non avevano avuto informazioni sufficienti riguardo il proprio caro, né in passato né di recente: le dichiarazioni di irreperibilità, quando arrivarono, nel caso pistoiese furono emesse fra il 1946 e il 1953, quindi con un ritardo minimo di due anni e massimo di nove rispetto alla tragedia, dati che confermano la tendenza nazionale. Vennero tutti liquidati dal distretto militare di Pistoia con la dichiarazione di irreperibilità e una frase rituale generica e ripetitiva che non rendeva giustizia alle loro storie: “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra”.

Il contatto con i parenti ha permesso di attingere a un’ampia parte di patrimonio documentario, costituito da fotografie, lettere dal fronte, documenti e oggetti personali. In questa maniera la memoria privata delle singole persone si lega indissolubilmente –e contribuisce- alla grande storia dell’Oria. L’indagine locale ha una caratteristica determinante che può essere punto di forza: nonostante temi, fonti e metodi restino sostanzialmente quelli della storia generale, essa vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra fondi archivistici inediti e talvolta sconosciuti, come quelli comunali e familiari.

Sono state così ricostruite le biografie militari di 16 pistoiesi dispersi nella tragedia, corredate di lettere, immagini e testimonianze che andranno ad arricchire i caduti già rintracciati dalla grande famiglia dell’Oria.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2019.