Il “crudele morbo” dell’autunno 1918.

L’influenza spagnola del 1918-19, tornata d’attualità a causa del Covid-19, non risparmiò la Toscana. Nella regione, come nel resto del Paese, il momento di maggior difficoltà fu vissuto nell’autunno 1918, con la seconda ondata. Tuttavia, la pandemia seminò morte in un clima di silenzi e false notizie. Il governo impose una “propaganda tranquillante” volta a minimizzare l’emergenza, con il contributo della stampa, della politica interventista e dei comitati patriottici, censurando quanti non si fossero allineati. Tuttavia, lo sfoglio della stampa coeva rivela che la pandemia era un elemento onnipresente: lunghe colonne di necrologi dove figuravano giovani (i più colpiti dal virus) uccisi da “crudele morbo” (nome dietro cui si celava l’influenza), articoli che ridimensionavano la crisi sanitaria, pubblicità di prodotti antinfluenzali (come il Lindol, antisettico il cui «uso preserva dalla Febbre di Spagna») e, occasionalmente, trafiletti sulla grave situazione. Allo stesso modo, le testimonianze popolari offrono importanti informazioni sull’incedere del virus. Il soldato Lorenzo Meleddu, di stanza a Pisa, scrisse al fratello una lettera per descrivergli le processioni funebri che andavano e venivano dai cimiteri «come la formica», perché «qui ne muore anche cinquanta tre e quattro a famiglia e per questo dico io peggio di stare in zona di guerra». L’angoscioso racconto contrastava con la narrazione pubblica delle autorità sanitarie pisane, che alla fine di settembre annunciarono che l’influenza era «stata subito debellata» ed era «in grande decrescenza».

La politica censoria mirava a tutelare lo spirito pubblico e a occultare le mancanze assistenziali dello Stato, tra le cause principali del disastro sanitario. In Toscana, come altrove, gli abitanti, soprattutto delle aree periferiche, patirono la carenza di medici e infermieri, in gran parte mobilitati. Il Ministero della Guerra fu parco, nonostante gli appelli: l’ispettore sanitario fiorentino richiese con urgenza farmaci e personale, ma venne solo parzialmente soddisfatto. Alcuni medici privati e locali benefattori offrirono i propri servigi e risorse: la ex first lady Rose Elisabeth Cleveland finanziò l’ospedale di Bagni di Lucca, dove perì confortando i malati. Tuttavia, il concorso privato non poteva risolvere le deficienze dello Stato.

Il governo demandò molte incombenze alle autorità locali, il cui spazio di manovra fu assai limitato (le quotidiane mancanze furono aggravate dalla congettura bellica e dalla presenza dei profughi), soprattutto se non coadiuvate dai comitati di preparazione civile. Le amministrazioni ritardarono a novembre-dicembre l’apertura delle scuole, chiusero cinema e teatri, organizzarono massicce disinfezioni dei luoghi pubblici. Il prefetto di Firenze tentò di ridurre gli accessi sui treni, ma il provvedimento era inattuabile in tratte affollate, come la Firenze-Pistoia, difettando di materiale rotabile (risorse assorbite dall’esercito). Misure profilattiche non furono imposte alla attività industriali e produttive. Inoltre, l’eccesso di mortalità aggravò le difficoltà di pulizia mortuaria. Per la mancanza di materiali e di necrofori, nelle aree rurali seppellire i deceduti senza cassa e avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato divenne la prassi.

La questione più delicata riguardò la gestione annonaria. Gli assembramenti fuori dagli spacci alimentari agevolavano il contagio, ma non si imposero limitazioni per non turbare i ceti popolari, timorosi di rimanere senza viveri. I modesti sforzi dei municipi, tra cui Firenze, Pistoia e Sesto fiorentino, per regolare la distribuzione, sollevarono critiche. «L’Avanti» attaccò l’autorità fiorentina che «si preoccupa di evitare la frequenza di agglomeramento nei teatri e non agisce […]  onde far cessare il continuo e veramente pericoloso agglomeramento di centinaia e centinaia di persone, per la massima parte donne e bambine, pigiate all’ingresso degli spacci di generi alimentari». All’ansia della popolazione contribuì la contrazione dei rifornimenti e l’aumento dei prezzi, causati dell’impatto della spagnola sui cicli produttivi. Nel Mugello, i lavori agricoli patirono estese interruzioni: «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro».

Tutti questi aspetti incisero sulle mentalità e sui comportamenti, come prova il generalizzato smarrimento della popolazione toscana. Si registrarono avvelenamenti per l’ingerimento di disinfettanti, nel tentativo disperato di curarsi. Avvennero suicidi di persone soverchiate dalla paura, come la donna che, nel Mugello, si gettò in un fiume con la figlia una volta contratto il virus. Al pari della guerra, il “cataclisma pandemico” favorì la domanda “dal basso” di funzioni religiose propiziatrici: a Campi Bisenzio il SS. Crocifisso della pieve di S. Stefano, venerato nelle calamità, fu esposto nel novembre 1918 per ottenere la cessazione del morbo.

La seconda ondata si attenuò nel dicembre 1918. Il demografo Giorgio Mortara stimò 30.000 vittime (490-600.000 in Italia, 50-100 mln nel mondo). Le zone più colpite furono le aree urbane di provincia. La malattia continuò a colpire la regione, con aggressive recrudescenze (nel febbraio 1920, vi furono oltre 2.200 vittime).

La pandemia aggravò i lutti di una popolazione già flagellata dall’altro cataclisma, la guerra mondiale. Eppure, la spagnola è ricordata nelle memorie familiari, mentre in ambito pubblico ha lasciato flebili tracce. In Toscana, si è individuata una sola lapide, a Borgo San Lorenzo, in ricordo dei combattenti del locale distaccamento morti «per fiero morbo […] nell’anno della vittoria». Poco: forse, al pari di altre nazioni, potrebbe essere il momento di erigere una testimonianza concreta e durevole alla memoria delle vittime della pandemia novecentesca.

 

Mortalità per spagnola nei capoluoghi di provincia toscani (attuali) nel 1918.

 

Morti imputabili alla pandemia nel 1918 Morti imputabili alla pandemia ogni 1.000 abitanti
Arezzo 524 10
Firenze 2.761 10,4
Grosseto 307 18,7
Livorno 1.071 9,4
Lucca 630 7,4
Massa 452 13,2
Pisa 754 10,8
Pistoia 957 12,7
Prato 483 8,3
Siena 323 7,1
 Francesco Cutolo è dottorando in Storia alla Scuola Normale di Pisa. Si è laureato all’Università di Firenze nel 2016 con un lavoro sull’influenza spagnola. E’ membro del consiglio direttivo dell’Isrpt e della redazione della rivista “Farestoria”. Ha pubblicato nel 2020 “L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (Isrpt). 



Piccole filosofie portatili. Filosofia con i bambini come educazione alla cittadinanza

Sei anni sono un tempo abbastanza lungo per un bilancio dell’esperienza grossetana di filosofia con i bambini, non con gli strumenti dell’analisi statistica, ma con il racconto di tante piccole storie. Sembrò scelta temeraria, una sfida per un istituto che coltiva prioritariamente interessi disciplinari – storia, soprattutto contemporanea – e trae dalla ricerca e dal patrimonio archivistico e bibliotecario materiale per l’impegno nella didattica. Nel tempo, il duplice programma di formazione e sperimentazione è stato accolto da un numero crescente di insegnanti (e dirigenti scolastici), nello spazio dell’educazione alla cittadinanza, da quest’anno per legge nuova materia1. Questo è un campo che abbiamo sempre coltivato attraverso la storia, cui riconosciamo un ruolo pedagogico «non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale [nella ricerca di] “un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese”»2. Non lo abbandoniamo, perché portiamo in classe una filosofia che non è ricostruzione storica del pensiero o ingresso in temi disciplinari specifici, ma una strada in più per sollecitare un uso precoce del pensiero critico.

Luca Mori (foto di L. Zannetti)

Luca Mori (foto di L. Zannetti)

È una storia iniziata a Grosseto nel 2015, con un corso di formazione per insegnanti di primaria e secondaria di primo grado, seguito da un percorso di sperimentazione in due istituti comprensivi, prima a Grosseto, poi a Monte Argentario. I primi esperimenti in classe sono stati con un filosofo di scuola pisana, ormai voce autorevole, grazie all’esperienza di centinaia di incontri con insegnanti e di dialoghi con bambini, in scuole di tutt’Italia. Luca Mori, autore di libri con una circolazione non solo nazionale, fino alla pubblicazione in Corea dei suoi “Giochi filosofici”3 – è stato la guida esperta per un numero crescente di insegnanti, a poco a poco divenuti capaci di dare forma a un lavoro che utilizza gli esperimenti mentali e gli enigmi della filosofia per migliorare l’apprendimento e le relazioni.

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Alfonso Maurizio Iacono e Luciana Rocchi, incontro con gli insegnanti e la cittadinanza nella sala consiliare del Comune di Grosseto, 28.10.2019

C’è però una preistoria più lontana, nelle idee nate nel Dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa e nella pratica di un maestro. Si sono incontrati – Alfonso Maurizio Iacono il filosofo e Sergio Viti il maestro – e ne è scaturito un corto circuito dagli effetti di lungo periodo. Non è il primo né l’unico modello di filosofia per i più piccoli, dalla materna fino alla secondaria di primo grado. Si cominciò a parlarne negli Stati Uniti, negli anni Settanta, in un contesto pedagogico di matrice deweyana. La Philosophy for children si è diffusa prima nel mondo anglosassone, suscitando poi grande interesse altrove, anche in Italia, dove nel 1991 è stato fondato il CRIF (Centro di ricerca per l’indagine filosofica)4.

Accanto ad elementi comuni, il modello cui s’è ispirata la nostra esperienza ha già in una differenziazione linguistica – filosofia con i bambini – un segno di distinzione e forse una prima ragione di curiosità, per il fatto di offrire la suggestione di un protagonismo dei bambini nella ricerca. Suggestione che ricevette immediato conforto da una lettura: la cronaca dell’ingresso del filosofo nella quinta elementare di Sergio Viti, in un libro dallo strano titolo: Le domande sono ciliege. Vi è spiegato «il complesso gioco di autonomia e dipendenza grazie a cui gli alunni imparano (o dovrebbero imparare) a uscire di minorità»5. È esplicito il richiamo al lungo lavoro, che aveva condotto con i suoi studenti Iacono, docente di storia della filosofia politica nell’ateneo pisano; minorità è la parola-chiave di quella fase della sua ricerca. Ne dà testimonianza un volume scritto vent’anni fa, che sembra anticipare fenomeni attuali, ma di attuale ha soprattutto un invito a «uscire collettivamente dallo stato di minorità» e non rassegnarci «a restare prigionieri dentro la nostra stessa, protettiva tana»6.

È una lettura che aiuta a guardare con altri occhi idee di grande potenza pedagogica, utili a dare concretezza a un progetto ambizioso, com’è quello di stare dentro conversazioni filosofiche insieme ai bambini.

20_origÈ accaduto, quando, seguendo le tracce dell’interpretazione di Iacono, abbiamo proposto a una classe il racconto del mito della caverna di Platone. Il fuoco della discussione è stato la contrapposizione fra la faticosa liberazione dall’oscurità della caverna di uno degli schiavi e la resistenza dei prigionieri incatenati a seguirlo. Alla domanda sul se e il come lo schiavo liberato potrebbe convincere gli altri a seguirlo, hanno risposto che dovrebbero essere loro stessi a sentire le catene e decidere di volersene liberare. Alla caverna si era arrivati partendo dall’esperienza comune a loro e a noi, ma per loro più forte, del mondo virtuale. Nella descrizione di Marco Laurito, l’insegnante coinvolto nella conversazione:

Schermo, visione, rappresentazione dell’immagine, ombre sulla parete, false credenze (anche storiche), verità sono state affrontate attraverso una discussione dove i ragazzi inizialmente sono stati i veri esperti della materia, spiegandoci il mondo dei social media e dei videogame. Poi, c’è stato il racconto del mito della caverna e i ragazzi, inizialmente perplessi, sono stati condotti a colmare quell’ambiguità (quella di cui si nutre la filosofia, come più volte ha ribadito il professor Mori nel corso di formazione) tra la “caverna digitale” e la caverna platonica […]. Passaggio fondamentale della discussione è stata naturalmente l’uscita dello schiavo, con la scoperta della verità e la difficoltà a farsi credere dagli altri. Le risposte dei ragazzi: siamo noi chiusi in casa a giocare e uno di noi esce e vede che il mondo è diverso da come sono i videogame7.

Si è trattato di un esperimento mentale che li riguardava, in cui hanno esercitato il dubbio e si sono avventurati in una relazione fra il noto e l’ignoto, che, sostengono gli insegnanti, lascia tracce nella formazione del pensiero critico incide sull’apprendimento disciplinare.

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Altre esperienze sono partite da letture non filosofiche. Da miti dell’Iliade o dell’Odissea hanno tratto, oltre a rappresentazioni immaginifiche, la spinta a interpretare i significati di storie non solo fantastiche. Si sono immaginati nei panni di Ulisse, volontariamente legati per ascoltare il canto delle sirene, o in quelli dei compagni trasformati in porci da Circe. Da lì la discussione è andata oltre; ciascuno si è inventato una metamorfosi per assumere un’identità diversa dalla propria. Quasi tutti hanno scelto uccelli e pesci: “per esplorare”, “per infilarsi dappertutto”, per “essere libera” sintetizza una bambina, per poi cimentarsi in una definizione di libertà. Per Gioele sentirsi libero è come “correre in un campo immenso a braccia aperte, all’alba” e “godere della salute”.

È stato il giorno conclusivo del lavoro con una quinta primaria. Nel bilancio delle due insegnanti di classe, c’è un giudizio su «riflessione e dialogo come strumenti utili per la costruzione di un pensiero critico, per la consapevolezza che possono esistere “mondi paralleli” e che è possibile rompere gli schemi convenzionali per trovare nuove risposte»8. Quello esplorato è stato il territorio della «riflessione metacognitiva», che ha fatto scoprire un’altra Odissea.

Il riferimento ai “mondi paralleli” è l’eco di alcuni concetti-chiave con cui insegnanti e filosofi hanno preparato insieme la sperimentazione. Parole come “meraviglia”, “mondi intermedi”, “creazione-imitazione” sono state elaborate nei percorsi di formazione che hanno preceduto il lavoro in classe. Così non è stato stupefacente vedere che il dialogo riusciva ad estrarre dai bambini molto di più che fantasticherie: come nella descrizione aristotelica delle origini della filosofia, si comincia a “filosofare a causa della meraviglia”. Meraviglia e logica sono strumenti che i bambini hanno saputo utilizzare spontaneamente per elaborare le esperienze.

Nelle classi in cui ha potuto lavorare con continuità Luca Mori, il cuore delle conversazioni filosofiche è stata l’idea di utopia. L’utopia era il tema su cui erano già stati coinvolti da lui più di cinquecento di bambini, nel corso di dieci anni di viaggi in scuole italiane e dialoghi, raccontati con grande rigore, avendo cura “della fedeltà alle parole e alle costruzioni delle frasi”9. Un gran numero di scuole vi era stato coinvolto – 10.000 chilometri solo nel 2016 in diverse regioni d’Italia – prima dell’approdo dell’isola di utopia in un istituto comprensivo grossetano. Centinaia di disegni documentano domande e risposte, un dialogo ricchissimo cui nessun bambino, nemmeno il più timido, si è sottratto al confronto con il filosofo e i compagni: le domande sono percepite come il cammino della ricerca, le risposte tutte degne di essere discusse, non esistono censura o soluzione precostituita agli enigmi morali. Così è accaduto anche da noi. Negli anni successivi le domande sull’utopia si sono spostate sulla città: a Porto Santo Stefano è nata Happytown, presentata in una mostra a Grosseto nel 2018.happy-town-9_orig

Una terza primaria grossetana ha concluso l’anno delle conversazioni su: la città che vorrei esplorandola con un architetto, dopo aver teorizzato che dovesse essere accogliente e “non respingere nessuno”. Una bambina ha scelto un albergo come luogo di utopia: non per turisti o viaggiatori comuni, ma per rendere felice chi arriva e non ha casa. Lavagne piene delle loro proposte documentano la spontaneità di scambi di “pensieri in libertà”. Dopo un percorso di due anni di lavoro, una delle insegnanti di questa terza ha valutato un mutamento negli stili di apprendimento.

Il cammino che si ha alle spalle ha permesso di sommare una nuova rete di relazioni a quelle tradizionali di un istituto storico. Ci siamo cimentati con la frequentazione di testi di filosofia e pedagogia; abbiamo archiviato materiali didattici creati da scuole che hanno esperienze analoghe; abbiamo scoperto che a Modena, sede di un Festival della filosofia di grande rilievo culturale, la Fondazione Collegio San Carlo da anni accoglie o addirittura sollecita progetti di sperimentazione, puntando in particolare sulla scuola dell’infanzia; si sono comparate esperienze, anche attraverso documentazioni sempre più facili da rintracciare, in librerie e biblioteche o in rete.

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Nell’archivio ISGREC è conservato tutto il materiale dei corsi di formazione, con un caso interessante: il prodotto di tre anni di formazione e sperimentazione consegnatoci dagli insegnanti di Monte Argentario. Si può pensarli ormai come formatori, se vorranno spendere le loro competenze, considerando la passione con cui hanno seguito le lezioni, aggiornato conoscenze pedagogico-filosofiche con nuove letture, elaborato e attuato percorsi didattici sperimentali.

Il lavoro con i bambini in classe, sempre registrato, rende trasmissibile l’insieme delle esperienze.

La domanda più significativa, per ora priva di una risposta attendibile, è se quello sperimentato è un modello di educazione alla cittadinanza efficace oggi. Il tema non è l’emergenza che rende l’avvio dell’anno scolastico carico di inquietudini, ma la necessità di misurare l’apprendimento e le relazioni sociali nel contesto scolastico con una crisi più ampia, dai contorni indefinibili e dalle prospettive ancora del tutto incerte.

Sono poche le certezze. Una è la consapevolezza della straordinaria urgenza di fornire alle nuove generazioni l’attrezzatura mentale e l’educazione alla socialità adeguate. La pratica del dialogo potrebbe essere capace – è auspicabile almeno che lo diventi – di far apprezzare la relazione con l’altro, nella forma della cooperazione piuttosto che della competizione. Vecchi e nuovi fenomeni rendono indispensabile la formazione molto precoce del pensiero critico come strumento per decifrare messaggi ambigui e false notizie, sempre più difficili da identificare.

Fin quando la conoscenza del passato sarà giudicata indispensabile per affrontare il presente e la storia rimarrà, come si è dichiarato in premessa, un veicolo per costruire (o ricostruire) un ethos per il paese, l’allenamento alla critica continuerà a essere il primo fra gli attrezzi in dotazione per lo storico (e lo studente di storia). Se l’immagine di una carica di energia positiva che i bambini ci hanno trasmesso reggerà alla distanza non è dato sapere. È una sfida che vale la pena tentare.

*** NOTE ***

1 Il Ministero dell’Istruzione ha inviato alle scuole le linee guida per la formazione di cittadini responsabili: “Studio della Costituzione, sviluppo sostenibile, cittadinanza digitale”,(https://www.miur.gov.it/web/guest/-/), per attuare la legge 20 agosto 2019 n. 92 “Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica” (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/21/19G00105/sg.).
3 L. Mori, Giochi filosofici. Sfida all’ultimo pensiero, Erickson, Trento 2018.
4 La Philosophy for Children (P4C), secondo il modello di Matthew Lipman e Ann M. Sharp e altri, è un curricolo per educare al pensiero, fondato sul presupposto che si possa imparare a pensare. Con precisi protocolli si può sviluppare un processo di ricerca utile a conquistare abilità e competenze cognitive e relazionali. Dopo aver raccontato in un libro la storia di un bambino che scopre a scuola le regole del pensiero, in realtà i principi della logica aristotelica, (Harry Stottlemeier’s Discovery, IAPC, New York, 1974; trad. it. di C.Iannuzzi, Il prisma dei perchè, Liguori Editore, Napoli, 2004), M. Lipman osò iniziare un percorso in varie scuole, incoraggiato dal suo fondamentale ispiratore, John Dewey.
5 A. M. Iacono, S. Viti, Le domande sono ciliege. Filosofia alle elementari, Manifestolibri, Roma 2000, p. 9.
6 A. M. Iacono, Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 8.
7 M. Laurito, Dal mito della caverna al cellulare, in L. Rocchi (a cura di), Piccole filosofie portatili. L’esperienza di filosofia con i bambini, Tipografia Stylographic, Grosseto 2020.
8 S. Mataloni, S. Parri, Benevenuti a Happytown; Se io fossi Ulisse…, ivi.
9 L. Mori, Utopie di bambini. Il mondo rifatto dall’infanzia, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 13.



8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani

8 settembre 1943: per centinaia di migliaia di soldati italiani presenti sui fronti di guerra in Grecia, nei Balcani, di stanza in Italia, la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio significa la cattura e la deportazione nei lager nazisti. Questo il destino di circa 650000 Internati militari italiani, la cui esperienza è stata a lungo dimenticata.
La notizia dell’armistizio infatti in pochi casi comporta la realizzazione di azioni armate di resistenza ai tedeschi, come a Cefalonia, ma anche come a Pisa, dove il maggiore Gian Paolo Gamerra, il 9 settembre decide di andare incontro alle truppe tedesche con la 12° batteria, rifiuta di cedere le armi e cade nello scontro armato insieme a otto dei suoi soldati. Nella maggior parte dei casi però i soldati non ricevono ordini dai superiori e si sbandano, nel tentativo di tornare a casa. I più fortunati riescono a salvarsi, spesso grazie a donne, madri e mogli putative, che forniscono loro abiti civili e cibo, riuscendo così a metterli in salvo, in quella sorta di maternage di massa di cui ha parlato Anna Bravo. È il caso anche dell’appena citata 12° batteria che, dopo il combattimento coi tedeschi, riesce a rientrare al comando di Riglione, dove le donne del paese, dopo aver dato sepoltura ai nove martiri, che vengono accolti nel cimitero cittadino come membri della comunità locale, assistono i soldati sbandati, riuscendo a farli fuggire prima dell’arrivo dei tedeschi.
Per 650000 soldati però il destino è invece quello del disarmo, della cattura, del rifiuto di combattere nelle file dell’esercito nazista e del rinnovato esercito fascista repubblicano, e dunque della deportazione in Germania. I diari e le memorie degli internati toscani, che sono raccolti in molti archivi, tra cui nel fondo ANEI dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, fondi da cui questi appunti sono ispirati, si aprono infatti spesso con l’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio, la mancanza di direttive, lo sbando e la cattura.
Al viaggio verso il lager sono dedicate pagine cariche di emozioni: vengono infatti raccontate il sovraffollamento e le inumane condizioni in cui avviene il viaggio, alcuni tentativi di fuga, talvolta le conseguenti punizioni o fucilazioni e il viaggio insieme ai cadaveri. Vengono descritti anche gli espedienti che alcuni soldati escogitano per riuscire a sopportare meglio il viaggio. È il caso per esempio di un soldato che con alcune coperte crea una sorta di amaca legata alla struttura del treno. Infine viene talvolta ricordato l’aiuto e i tentativi di assistenza che la popolazione civile fornisce ai militari durante il trasporto.
Arrivati nel lager, vengono poi sempre descritti i momenti della disinfezione, della schedatura e della requisizione degli oggetti personali. Sono in molti a fare cenno del sentimento di spersonalizzazione provato dopo essere stati spogliati delle proprie cose ed essere divenuti numeri.
La realtà del lager mostra dunque da subito tutta la sua crudezza. In ogni diario o memoria sono infatti descritte le inumane condizioni di vita nei campi di concentramento e nei comandi di lavoro: il vestiario inadeguato, gli zoccoli di legno, gli interminabili appelli fuori al gelo, il freddo, il lavoro duro, la fame.
immagine imi gavettaCostante è il riferimento allo scarso e disgustoso vitto, alla “sbobba”, e ricorrenti sono i racconti sull’arte di arrangiarsi, sulle modalità di reperire il cibo e sulle strategie di sopravvivenza. Numerosi sono gli episodi di furti di cibo sia ai tedeschi che ai compagni di prigionia. Inoltre gli internati riferiscono dei commerci e degli scambi di cibo che avvenivano anche con annunci su bacheche. Altrettanti i racconti in cui gli internati decidono di sfidare le punizioni e la fucilazione per uscire dai reticolati, soprattutto la notte, per reperire qualche patata o rapa nei campi vicini al lager. Si descrivono poi i racconti di litigi coi compagni per il cibo “che riduceva uomini fatti a livello di ragazzacci di strada per non dire peggio” e dunque l’ideazione di stratagemmi per dividere in modo equo le razioni. Numerosi anche i racconti in cui gli internati ricercano nell’immondizia o tra le macerie resti di alimenti e in cui escogitano e mettono in atto piani per catturare ogni genere di animali di ogni sorta. (cfr. testimonianza allegata)
È sottolineata spesso la sensazione di essere diventati come bestie, talvolta in racconti tragicomici, in cui si tenta di abbeverarsi come aveva fatto un cane, si ruba e si mangia il cibo che veniva dato alle anatre o si divide un osso trovato nell’immondizia con un cane. (cfr. testimonianza allegata)
Molti i riferimenti al lavoro, alle violenze e alle punizioni messe in atto dagli aguzzini nazisti per i più disparati motivi, che giungevano anche alla fucilazione anche solo per un’esitazione di fronte alla fatica per il duro lavoro.
Gli ultimi aspetti che vengono spesso delineati sono quelli della liberazione, dell’arrivo degli alleati “che fanno di tutto per far[li] risentire esseri umani”, offrono agli internati cibo a volontà tanto che alcuni ne fanno indigestione e rischiano anche la vita. Alcuni descrivono poi l’attesa del rientro e i campi alleati post-liberazione. In alcuni casi viene denunciato un sentimento di rabbia per il fatto di venire considerati nuovamente prigionieri, nonostante la liberazione, e di non ricevere un buon trattamento. Infine alcuni si soffermano sul tema del rientro, e sul rimpatrio disorganizzato realizzato con ogni mezzo di fortuna: carretti, biciclette, a piedi. L’uscita dal lager è l’inizio di un viaggio a ritroso nello spazio, la strada per tornare a casa spesso compiuta lungo le linee ferroviarie dissestate o a piedi, ma anche un percorso intimo, un primo momento di rielaborazione di quella tragica esperienza, spesso non compresa una volta rientrati.
L’ultimo aspetto che emerge dalle memorie riguarda infatti l’incomprensione e l’isolamento rispetto alla società italiana postbellica, che celebra la Repubblica nata dalla Resistenza e la vittoriosa lotta di liberazione antifascista del “popolo alla macchia” nelle narrazioni e nella storiografia dominante marginalizzando e escludendo dalla memoria pubblica le esperienze degli IMI, che resteranno a lungo taciute.




Il Prefetto della Liberazione

Il patrimonio bibliografico della Biblioteca Franco Serantini si è appena arricchito di alcune importanti acquisizioni, tra queste il «Bollettino Ufficiale della Regia Prefettura di Pisa», periodico “amministrativo” pubblicato dal 1871 al 1972. Il bollettino rileva le più importanti e significative comunicazioni del Prefetto ai Sindaci della Provincia, al Questore, al Rettore dell’Università, ai vari Ordini professionali (medici, farmacisti…), all’Ufficio delle Imposte e ad altre istituzioni del territorio. Si tratta di comunicazioni di varia natura che richiamano l’attenzione dei destinatari sull’applicazione di norme e circolari che intervengono su molteplici tematiche.

Il ruolo che traspare in modo evidente dalla lettura del «Bollettino della Prefettura», riguarda la competenza dell’istituto in oggetto rispetto ai rapporti tra lo Stato e quelle che oggi chiamiamo le autonomie locali, istituzioni delle quali la prefettura deve assicurare il regolare funzionamento.

La figura del prefetto, nelle varie normative che hanno regolamentato l’istituto, si caratterizza infatti come rappresentante del potere esecutivo e supremo organo dell’amministrazione statale della provincia, assumendo ruolo di controllo delle attività delle amministrazioni locali: da un lato rappresenta l’accentramento politico e amministrativo, dall’altro il decentramento burocratico.

Attraverso le comunicazioni del Prefetto di Pisa, contenute nei bollettini relativi agli anni 1944 e 1945, proviamo ad inserire ulteriori elementi di riflessione per una lettura della condizione economica, sociale e politica della provincia pisana, nel periodo immediatamente successivo alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista.

Prima di entrare nel merito delle comunicazioni contenute nel bollettino, è utile ricordare due aspetti che, negli anni precedenti e nel periodo in analisi, hanno caratterizzato la figura del prefetto.

Il primo aspetto da sottolineare, riguardante il periodo immediatamente precedente a quello preso in analisi, vede il ripetuto tentativo da parte del regime di permeare il corpo prefettizio con uomini del partito, con l’obiettivo di creare una nuova figura, quella del prefetto fascista.

La seconda questione riguarda invece il periodo immediatamente successivo alla liberazione del centro Italia, quando si assiste ad una sorta di braccio di ferro fra il Governo italiano e i C.L.N., convinti della necessità di epurare i prefetti provenienti dal partito fascista e di sostituirli con funzionari più vicini ai valori della lotta di liberazione. Questo ultimo aspetto ha fortemente marcato l’agenda politica del momento e ha contribuito a mettere seriamente in discussione, nel nuovo sistema democratico in fase di costruzione, la figura stessa del prefetto. Il 17 luglio 1944 il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi pubblica, con lo pseudonimo Junius, sul  supplemento della «Gazzetta Ticinese» dedicato all’Italia, un articolo intitolato Via il Prefetto! con il quale esprime senza mezzi termini la propria posizione: «Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico». Il tema viene successivamente assunto nel dibattito della Costituente: il Partito d’Azione, per voce di Emilio Lussu, chiede espressamente la formale soppressione della figura del prefetto. In sede di Assemblea costituente non viene però adottata alcuna deliberazione precisa in merito, nonostante anche le discussioni della competente sottocommissione si erano orientate per l’abolizione dell’istituto prefettizio. Il tema viene più volte ripreso nel dopoguerra a partire dal convegno di Napoli, del 1950, dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.). Negli anni successivi il dibattito sull’opportunità di mantenere questa figura prosegue, con le voci contrarie provenienti per lo più da parti politiche avverse al centralismo: movimenti e partiti sia autonomisti che di sinistra.

Un altro utile approfondimento, introduttivo alla lettura del «Bollettino», riguarda la storia della Prefettura di Pisa dalla data dell’Armistizio alla liberazione della città. Nel periodo che va dal 8 settembre 1943 alla liberazione della provincia di Pisa (stabilita nella data del 3 settembre) i prefetti che si susseguono sono Ferdinando Flores (12/08/1943–30/09/1943), poi Francesco Adami (1/10/1943–24/10/1943) ex Console della milizia e fondatore del Fascio Repubblicano locale. Ad Adami, che aveva caratterizzato il suo incarico con atti di violenza e arresti di antifascisti e badogliani, succede Mariano Pierotti (25/10/1943–1/07/1944) ex Segretario dei Sindacati dell’Agricoltura, anch’egli uno dei fondatori del Fascio Repubblicano di Pisa. Durante l’estate del 1944, quando il fronte si ferma sulle rive dell’Arno, con la città di Pisa occupata dalle forze nazi fasciste e, a sud del fiume gli alleati, il Prefetto Pierotti, dopo aver tentato improduttivi contatti con il CLN locale, si dà alla fuga dopo aver fatto scarcerare alcuni detenuti politici. Il successore di Pierotti è il pisano Enzo Leoni che rimane in città fino al 19 luglio, quando fugge al nord con altri fascisti locali portando con sé una cospicua somma di denaro sottratta alla Prefettura e abbandonando la città sotto il continuo cannoneggiamento delle forze alleate[1]. Il nome di Leoni non è riportato sulla pagina ufficiale della Prefettura di Pisa nella quale sono ricordati i prefetti che ivi hanno ricoperto l’incarico. Nel periodo che va dalla fuga di Leoni alla liberazione della città, avvenuta il 2 settembre, il commissario prefettizio è Mario Gattai, nominato dell’Arcivescovo Gabriele Vettori unica autorità rimasta in città[2].

Il 7 settembre del 1944 si insedia il Prefetto Vincenzo Peruzzo, persona che nella memoria collettiva rimane un prefetto democratico, ma che non ha buon rapporto con il CLN, con la sinistra pisana e soprattutto con Italo Bargagna, primo sindaco di Pisa liberata[3].

Appena insediatosi, il Prefetto Peruzzo si dedica celermente alla cura dei rapporti con il territorio: venti giorni dopo la sua nomina incontra i trentotto sindaci della Provincia ai quali comunica personalmente le direttive più significative sui problemi più urgenti che interessano i loro comuni[4]. Il Prefetto, nel suddetto incontro, tra le varie questioni trattate, pone l’accento sulla necessità di prevenire, con azione equilibrata, ogni turbamento dell’ordine pubblico e di favorire la ripresa immediata della civile convivenza, stroncando sul nascere eventuali velleità di ritorni reazionari.

Apriamo adesso il «Bollettino della Regia Prefettura». Dalla lettura degli atti e delle comunicazioni pubblicate si percepisce il quadro delle priorità istituzionali e amministrative del momento e il ruolo di controllo esercitato, attraverso l’istituto prefettizio, dal governo sul territorio.

Il nuovo Prefetto nel dicembre del ‘44 interviene su vari quesiti giunti da diversi comuni della provincia riguardo la questione dei sussidi, ricordando che il soccorso giornaliero militare spetta ai soldati che, dopo l’8 settembre non sono rientrati in famiglia (o comunque per il periodo in cui non siano rientrati) e per i partigiani, purché abbiano l’attestazione dei ministeri militari competenti o dei relativi Comandi partigiani. Il rilascio dei sussidi è, in questo periodo, competenza degli uffici di assistenza dei comuni. In un momento di povertà e di difficoltà molti degli interventi del Prefetto vertono principalmente proprio sulla questione dei sostegni economici, non solamente per chi ha combattuto, ma anche per chi è stato prigioniero, per i parenti bisognosi dei dispersi in guerra, per i confinati politici e comuni, per i profughi dell’ex Africa Italiana, per i connazionali rimpatriati, per gli infortunati civili e militari di guerra. Il governo italiano riconosce forme di assistenza e di sostegno anche ai cittadini dei paesi alleati internati nei campi di concentramento sul territorio italiano. La questione del sussidio per il caro pane rimane oggetto di comunicazione anche durante tutto il 1945 e la Carta annonaria – entrata in vigore con la Legge n. 577 del 1940 relativa al razionamento dei generi alimentari – la cui emissione è di competenza del comune di residenza, rimane, per tutti gli anni quaranta, lo strumento di accesso al sussidio.

I bollettini della Prefettura riportano anche varie comunicazioni riguardanti la questione della gestione dei medicinali forniti dagli alleati, con particolare attenzione al prezzo. Per evitare speculazioni su una popolazione allo stremo, il Prefetto, in una nota ai sindaci e all’Ordine dei farmacisti, precisa che il prezzo di vendita non può essere superiore a quello previsto dalla tabella con la quale gli stessi medicinali vengono distribuiti ai punti di smercio.

Altro aspetto di particolare attenzione riguarda la questione del cibo, il controllo sulle contraffazioni dei prodotti, il sollecito ad un’attenta e continua verifica da parte degli uffici comunali dei pesi e delle misure utilizzati nelle rivendite e, in ultimo, la revisione di tutte le licenze di commercio. In questo momento, per favorire la ripresa del paese, sono molte le forme di agevolazione tributaria, in particolare per le località danneggiate dal passaggio del fronte di guerra, una di queste riguarda l’esenzione del pagamento dell’imposta di consumo sui materiali utilizzati per la riparazione degli immobili danneggiati in seguito ad eventi bellici.

La questione sanitaria è un’altra materia insistentemente trattata nelle comunicazioni riportate dal bollettino: riguarda le modalità di macellazione e conservazione della carne,  l’obbligo della vendita su ricetta dei prodotti antibatterici, le modalità di distribuzione dell’insulina, le misure di difesa profilattica contro le malattie di importazione esotica in occasione del rimpatrio dei reduci, la profilassi della poliomielite e della febbre tifoide e il controllo della potabilità dell’acqua. Di rilievo sanitario in questo periodo è la lotta contro la scabbia che diventa una malattia con un elevato livello di diffusione, per la quale vengono istituiti, nei singoli comuni, i centri di bonifica dotati di docce, di sapone e di sali di medicazione. Una specifica circolare prefettizia è dedicata all’utilizzo della penicillina che, essendo un prodotto estremamente limitato nella disponibilità, viene assegnato solamente alle città capoluogo di regione dove viene costituito un comitato che decide a quali cittadini della regione dovrà essere somministrato il farmaco.

Una circolare prefettizia dei primi mesi del 1945 ci dà il senso dei bisogni presenti in questo primissimo dopoguerra e riguarda l’impiego lavorativo dei fanciulli bisognosi. In una nota ai sindaci il Prefetto ricorda le deroghe previste dalla Legge n. 653/1934 che interviene sulla tutela del lavoro delle donne e dei minori. Scrive il Prefetto che il Ministero dell’Industria, del Lavoro e del Commercio, resosi conto della necessità di sottrarre dall’ozio e da attività illecite o immorali i fanciulli abbandonati o appartenenti a famiglie in stato di povertà, ha deciso di avvalersi dell’ipotesi di deroga prevista dalla suddetta norma, riguardo ai limiti di età relativi all’impiego di manodopera minorile. Il Ministero, avvalendosi di suddetta deroga, apre così le porte del lavoro ai bambini con meno di dodici anni, un fenomeno sociale poi raccontato con maestria, in questi stessi anni, dal cinema neorealista italiano. La questione del lavoro e della sopravvivenza come sempre genera il fenomeno della migrazione, ma in un paese distrutto e appena liberato non vi sono città che fuggono alla miseria. Anche Milano è in ginocchio e i migranti che arrivano, non trovando lavoro, si presentano agli uffici di assistenza che già non riescono a garantire supporto ai residenti: nel luglio del 1945 il Prefetto di Pisa, su indicazione del Ministero dell’Interno, invita tutti i sindaci della provincia a fare opera di persuasione e ad adottare le misure che riterranno più opportune per bloccare il flusso migratorio verso Milano e le altre città del nord Italia.

Altro aspetto interessante, recuperabile dal Bollettino, riguarda il rastrellamento degli ordigni esplosivi; il Prefetto scrive a tutti i Sindaci dei comuni per assicurarsi se, per iniziativa privata o da parte dell’Amministrazione comunale, sia stato provveduto al rastrellamento di armi, munizioni e ordigni esplosivi eventualmente esistenti sul territorio e se sono stati costituiti depositi occasionali. La circolare prefettizia svela anche la preoccupazione del governo: si chiede se gli eventuali depositi sono sotto controllo e se sotto le dovute norme di sicurezza. Il Prefetto chiede ai Sindaci di fornire l’esatta ubicazione e la quantità del materiale contenuto negli eventuali centri di raccolta adibiti, in modo che il Comando Artiglieria di Firenze possa disporre sopralluoghi, interventi di competenze e procedere alla distruzione del materiale. È evidente che si tratta di un’azione volta al controllo dell’attività di occultamento delle armi praticato da alcuni gruppi che avevano partecipato alla Resistenza.

Ultimo aspetto, non per importanza, che andiamo a evidenziare dalla lettura del Bollettino della Regia Prefettura di Pisa, riguarda la toponomastica stradale, una nota del Prefetto ai sindaci, datata gennaio 1945, riporta la loro attenzione sul tema, ricordando che la necessità di cambiare il nome delle strade e delle piazze che inneggiano al fascismo e ai suoi personaggi non deve assolutamente coinvolgere anche le denominazioni riferite ad avvenimenti storici, personaggi o date  riguardanti il Risorgimento,  periodo storico che rimane un riferimento intoccabile per il futuro. Con la nota prefettizia del 9 agosto 1945 (N. 6576) ad oggetto: “Scritte murali fasciste. Toponomastica stradale”, il Prefetto ritorna sul tema e riprende la circolare del Ministero dell’Interno del 17 luglio: È stato rilevato che in molti comuni non si è ancora provveduto alla cancellazione delle scritte murali fasciste. Esse, come è ovvio, rappresentano una tipica sopravvivenza delle manifestazioni esteriori di megalomania di cui il cessato regime usava far pompa per accattivarsi l’ammirazione delle masse. Ora che l’Italia si è liberata […] si impone l’eliminazione, anche nelle apparenze esteriori, di ogni falso orpello che ha nell’animo degli italiani la triste risonanza di una amara e dolorosa esperienza. La circolare ministeriale invita i sindaci a procedere celermente ad una accurata revisione della nomenclatura stradale eliminando nomi e date che richiamano eventi del cessato regime o che comunque tendono a conservarne il ricordo. Analoga revisione deve essere fatta anche per quanto concerne monumenti, targhe o ricordi dedicati a persone o eventi del fascismo […] un regime che il paese ha ripudiato.

Due anni dopo la nomina, nel settembre del 1946 Peruzzo viene nominato Prefetto di Verona e conclude la sua esperienza pisana; nelle sue memorie ricorda così il suo saluto alla città:

Riporto volentieri le parole che il sindaco comunista di Pisa, Italo Bargagna, volle rivolgermi nel Palazzo Gambacorti, sede del Comune:

A Vincenzo Peruzzo, Prefetto della Liberazione, esprimo la riconoscenza di Pisa e la mia personale gratitudine per l’opera meritoria da lui svolta per la rinascita della città. […] Nella mente e nel cuore dei Pisani rimarrà sempre vivo il ricordo della sua bontà e della umana comprensione dimostrata nello svolgimento del suo alto ministero.[5]

 Note:

[1] Per una breve storia della Prefettura di Pisa nel periodo che va dal 8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945 cfr. A. Cifelli, I Prefetti della Liberazione. Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 2008.
[2] Sul periodo relativo alla reggenza di Mario Gattai cfr. Pisa nella bufera: note dell’avvocato Mario Gattai commissario del Comune di Pisa. Giugno Settembre 1944, a cura di G. Bertini. Pisa, Circoscrizione 6, 2001.
[3]  C. Forti, Dopoguerra in provincia microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, p. 105.
[4]  Il contenuto della prima riunione con i sindaci della provincia è riportato in Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione a cura di C. Forti. pp. 57-61. Pisa, Pacini, 2012. La pubblicazione raccoglie i ricordi della vita personale e professionale di Peruzzo.
[5]Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione, cit., p. 79.




Il terribile agosto del 1944 a nord delle Alpi Apuane

Nell’estate del 1944 l’attività partigiana nell’area apuano-lunigianese stava crescendo a ritmi sostenuti. Piccole bande formate da giovani provenienti da Carrara, dalla Lunigiana toscana, dalla Val di Magra e dalla Spezia contendevano il controllo del territorio alle autorità fasciste e ostacolavano i lavori di fortificazione tedeschi lungo la futura Linea Gotica/Linea Verde.

E’ in questo contesto che si colloca l’operato della 16a Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS” nell’area apuana durante l’agosto 1944. Analogamente a quanto stava già facendo in Versilia, la divisione comandata dal generale Max Simon s’impegnò infatti a isolare i partigiani e a rendere sicura l’area per i tedeschi colpendo in modo indiscriminato e terroristico la popolazione civile.

Il primo scontro tra SS e partigiani locali avvenne il 24 luglio presso Canova di Aulla, quando due automezzi tedeschi furono attaccati dai partigiani. Per l’uccisione di un militare SS e il ferimento di altri tre furono fucilati quattro uomini e il paese incendiato. Alcuni giorni dopo, il 2 agosto, membri di un battaglione genieri SS di stanza a Fosdinovo furono attaccati dai partigiani della formazione “Ulivi” nei pressi del paese di Marciaso. Non ci furono vittime, ma la sparizione di due militari, datisi alla fuga e ritenuti morti, diede l’avvio a una nuova rappresaglia. Le SS circondarono Marciaso e catturarono decine di uomini, donne e bambini, poi liberati alla ricomparsa dei militari dispersi. L’intero paese fu comunque minato e fatto saltare il 3 agosto e sei anziani che non avevano lasciato le proprie case rimasero uccisi.

Walter Reder

Walter Reder

Lo spaventoso salto di qualità nelle pratiche repressive avvenne però nella seconda metà di agosto: il 17 i partigiani dell’ “Ulivi” si scontrano nuovamente con un reparto di genieri SS a Bardine di S.Terenzo Monti, nel comune di  Fivizzano. Nel combattimento i partigiani subirono alcune perdite, ma ebbero la meglio: 16 militari tedeschi rimasero uccisi e uno gravemente ferito. Nello stesso giorno le SS recuperarono i corpi dei loro commilitoni, incendiarono alcune case e uccisero due anziani coniugi, ma la vera rappresaglia sarebbe avvenuta due giorni dopo.

Il 19 agosto quattro compagnie del battaglione esplorante della 16a divisione SS, sotto il comando del maggiore Walter Reder, si portarono insieme ad altri reparti della stessa grande unità sul luogo dello scontro con i partigiani e vi uccisero 53 uomini rastrellati in Versilia alcuni giorni prima, lasciandone esposti i corpi legati agli alberi e ai pali dei filari delle viti. SS agli ordini di Reder si diressero poi a S.Terenzo Monti, dove uccisero il parroco, e nel vicino podere di Valla, presso il quale catturarono più di cento persone sfollate dalle proprie case per paura della rappresaglia. I prigionieri, in maggioranza donne e bambini, furono uccisi con raffiche di mitragliatrice. Si salvarono solo una donna e sua figlia, fuggite prima del massacro, e una bimba di sette anni che si  finse morta.

Come in Versilia, anche nel territorio apuano la “Reichsführer-SS” aveva ormai oltrepassato i limiti della semplice rappresaglia giungendo a pratiche di sterminio generalizzato di un’intera comunità che richiamavano quelle attuate sul fronte russo. La zona immediatamente a nord delle vette delle Alpi Apuane era stata inoltre identificata dalle SS come un covo di pericolosi “banditi”. Nei giorni successivi il comando della 16a divisione SS pianificò quindi un rastrellamento generale destinato a “ripulire” l’area da partigiani e presunti fiancheggiatori.

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il 24 agosto i rastrellatori circondarono da tutti i lati il basso fivizzanese, mentre il battaglione esplorante SS e reparti della Brigata Nera di Carrara risalivano la valle del torrente Lucido fino alla conca montana di Vinca. L’operazione, diretta dal maggiore Reder, si trasformò presto in un eccidio generalizzato di civili lungo tutto il percorso dei rastrellatori e soprattutto nell’area di Vinca.

Un totale di 171 persone, quasi tutti donne, bambini, anziani, infermi, furono uccisi nei giorni del rastrellamento. I partigiani presenti nell’area, formalmente uniti in un’unica brigata ma incapaci a coordinarsi, non furono in grado di contrastare efficacemente i rastrellatori.

Fino al suo trasferimento in Emilia, verso la metà di settembre, la “Reichsführer-SS” continuò a seminare il terrore nell’area settentrionale delle Apuane, mietendo vittime innocenti sia nel fivizzanese che nel carrarese.

Maurizio Fiorillo, dottore di ricerca presso l’Università di Pisa, collabora con l’Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea; si occupa di storia della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Ha pubblicato saggi su riviste e un volume sulle formazioni partigiane della Lunigiana.




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




“Distruggono Firenze!”: la notte dei ponti, 3-4 agosto 1944

Da poco era cominciato ad imbrunire lievemente perché siamo nel plenilunio, quando cinque minuti avanti le ventidue è parso che un terremoto scuotesse la terra, abbiamo udito un boato prima sordo e poi fragoroso […] Ci siamo guardati in faccia: evidentemente i tedeschi cominciano la loro opera di infame distruzione”.

Con queste parole l’avvocato Gaetano Casoni rievoca nel suo diario il momento in cui, chiuso nella propria abitazione con i suoi familiari, avverte come tutti i fiorentini che i nazisti hanno iniziato a far saltare le mine posizionate ai piloni dei ponti. L’ora da tempo attesa è scoccata.

La rapida avanzata degli eserciti Alleati, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione di Roma, da questi agevolmente attraversata grazie allo status di “città aperta” riconosciuto dalle parti belligeranti, aveva spinto i comandi nazisti a rapide contromisure. Per consentire il completamento dei lavori della linea Gotica fra Spezia e Rimini, lungo la dorsale appenninica, viene attuata una strategia di “ritirata aggressiva” che grava sui comuni e sulle popolazioni della costa e dell’interno. Ai disagi e alle rovine causate dal passaggio delle truppe dei diversi eserciti si uniscono quelle dei combattimenti lungo le diverse linee di difesa tracciate sul territorio, oltre che ad una specifica strategia di “guerra ai civili” con il conseguente stillicidio di saccheggi, rappresaglie, singole uccisioni, stragi delle comunità delle aree attraversate dalle truppe in ritirata.
L’Arno rappresenta l’ultima grande trincea naturale su cui potersi attestare. Il passaggio del fiume deve essere impedito. Firenze, che ne è attraversata, diviene così centrale nelle strategie naziste. Il destino dei ponti è segnato.  I comandi nazisti non vogliono ripetere l’esperienza di Roma, anche se il confronto sull’attribuzione dello status di “città aperta” anima le giornate di luglio fra illusorie speranze e volontà di attribuire al nemico la responsabilità della mancata proclamazione. Al tempo stesso  si fa riferimento al presunto impegno  nazista a risparmiare la città dalle conseguenze “di un’azione combattuta entro l’abitato urbano”, come si legge nell’Avvertenza ai fiorentini, fatta pubblicare sulla “Nazione” del 27 luglio, viene usato per premere sulla popolazione affinché non compia atti di sabotaggio o aggressione nei confronti delle truppe tedesche.

Ma ogni illusione viene meno il pomeriggio del 29 luglio quando viene affissa sui muri della città l’ordinanza di sgombero dei Lungarni, pubblicata il giorno dopo sull’ultimo numero della “Nazione”. Consapevoli del pericolo imminente, a sera si riuniscono in Arcivescovado con il cardinale Elia Dalla Costa, il vice prefetto Gigli, il vice podestà De Francisci, il Soprintendente alle Belle Arti, il console svizzero Steinhäuslin. Dopo la fuga delle autorità fasciste repubblicane, gli ultimi rappresentanti delle Istituzioni cercano di adoperarsi per Firenze. Redigono un “Memorandum” per ricordare le precedenti assicurazioni date da Hitler e da Kesselring a tutela della città, che, insieme anche al rettore Marsili Libelli consegnano il giorno dopo al colonnello Fuchs, da pochi giorni comandante in capo della piazza di Firenze. Precedentemente, fino alla sua partenza il giorno 25, anche il console tedesco Gerhard Wolf si era mosso nella stessa direzione, cercando di tutelare il patrimonio artistico della città. Ma Fuchs non lascia spazio ad illusioni, richiamando le conseguenze negative subite dall’esercito nazista a seguito della proclamazione di Roma “città aperta” e mostrando un volantino lanciato da aerei inglesi in cui si invitava la popolazione a difendere la città e favorire la rapida avanzata alleata. La scelta è già stata presa. L’ultimo tentativo avanzato dalla delegazione di ottenere un lasciapassare per raggiungere il comando Alleato e ottenere precise garanzie sulla loro condotta si spenge, infatti, nella mancata risposta tedesca.

Il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) non aveva creduto nella possibilità di una trattativa e riteneva che la città potesse essere salvata solo da un’azione insurrezionale, ma è colto di sorpresa dall’ordinanza del 29 luglio. Le truppe alleate sono ancora troppo distanti dalla città, così come le formazioni partigiane, e il caos diffusosi fra la popolazione dei lungarni rende impossibile qualsiasi azione immediata.

Subito dopo l’annuncio dello sgombero, decine di migliaia di persone devono abbandonare le proprie case, con la consapevolezza di non farvi più ritorno, e trovarsi un luogo sicuro dove potersi riparare nell’imminenza della battaglia. Il carcere delle Murate, chiese, caserme, abitazioni di amici e conoscenti diventano mete ambite. In Oltrarno moltissimi sfollano a Palazzo Pitti. La reggia dei Granduchi e dei re d’Italia diviene l’alloggio del popolo di Firenze che ne occupa sale, corridoi, cortili e loggiati, dove vivranno i giorni della battaglia e trascorreranno il mese di agosto in condizioni di grave precarietà, ma sperimentando anche diffuse manifestazioni di solidarietà umana, grazie all’organizzazione che viene approntata per gestire i bisogni più imminenti e naturali.

Il precipitare della situazione è palesato il 3 agosto dalla proclamazione dello stato d’emergenza. Il comando tedesco ordina ai fiorentini di non uscire dalle proprie case. Chiusi nelle abitazioni, spesso senza adeguate riserve di acqua e di vivere, i fiorentini attendono la battaglia imminente. A sera squadre partigiane cercano di tagliare i fili delle mine al Ponte della Vittoria e alla Carraia, ma sono respinti dalle preponderanti e ben armate truppe tedesche.

I resti di Ponte Santa Trinita

I resti di Ponte Santa Trinita

Nel corso della notte fra il 3 e il 4 agosto le esplosioni provocano boati e scosse che fanno tremare la città, come un terremoto. Scrive sempre Casoni: “Ogni due ore circa si rinnovano gli scoppi di grossissime mine, i boati, i colpi che sembrano determinati da proiettili destinati a cadere su di noi; nuove nuvole si innalzano paurose quasi a precipitare l’enormità del disastro”. Ad uno ad uno sono abbattuti i ponti, fino a quello di Santa Trinita che è così saldo sui suoi piloti da richiedere tre cariche di esplosivo prima di crollare. La scelta di salvare Ponte Vecchio, particolarmente ammirato da Hitler nelle sue visite in città, comporta la distruzione del cuore medioevale di Firenze, alle sue estremità, su entrambe le sponde dell’Arno. I quartieri di Por Santa Maria e di Borgo San Jacopo, via Bardi e via Guicciardini, con le antiche e caratteristiche case torri e la casa di Machiavelli, sono dilaniati e rasi al suolo.

Al mattino, quando i fiorentini più coraggiosi salgono sui tetti o cercano di raggiungere i lungarni si trovano di fronte uno spettacolo spaventoso: monconi di pietre al posto dei piloni in Arno e montagne di macerie fumanti ai lati di Ponte Vecchio. Le esplosioni sono state così forti che pezzi del Santa Trinita sono giunti fino in via Cerretani. L’avvicinarsi del fronte ha così drammaticamente marchiato Firenze e la sua popolazione. Mentre le primi truppe delle truppe coloniali britanniche avanzano da via Senese ed entrano da Porta Romana in città e le brigate partigiane, dopo i primi combattimenti a Gavinana il giorno precedente, penetrano in Oltrarno fra l’entusiasmo della popolazione, la città è divisa in due nell’imminenza della battaglia per l’insurrezione.