“Non fare giustizia significa rendersi complici dell’ingiustizia”

Benché la Linea Gotica attraversi la Garfagnana, la valle – al contrario di quanto avviene in altre zone dell’Italia centro-settentrionale occupate dai nazifascisti – già prima del proclama Alexander (13 novembre 1944) non è al centro di attività belliche o partigiane particolarmente importanti. Resta un fronte tutto sommato secondario fino alla Liberazione, che avverrà il 20 aprile 1945.

Nonostante ciò, negli ultimi mesi del 1944 la guerra civile raggiunge da queste parti livelli impensabili soltanto pochi mesi prima. La 36° Legione Brigate Nere “Benito Mussolini”, comandata da Idreno Utimpergher, nelle poche settimane in cui è rimasta di stanza in Garfagnana ha contribuito parecchio a surriscaldare il clima, con soprusi, razzie, rappresaglie contro i civili (il 23 settembre vengono uccise otto persone e saccheggiate diverse abitazioni, in risposta a un attentato nel quale è rimasta ferita una donna, cognata di un ufficiale fascista) e atti di barbarie contro i partigiani catturati e uccisi. Luigi Berni per esempio viene legato con una corda a un autocarro e trascinato sulla strada fino alla sua morte. Racconta in una testimonianza inedita un partigiano garfagnino, Franco Bravi:

«Di eroi tra noi non ce n’era. Però si era presi da questo sistema: “…altrimenti ci portano in Germania, altrimenti ci distruggono, bisogna combattere questa gente”. Non che avessimo idee politiche. L’odio venne dopo i fatti del Berni. A quel punto, triste a chi capitava. Si era saputo di questo fatto, le voci giravano, si sapevano più o meno le cose, si sapeva che avevano trascinato questo Berni sulla strada e quindi l’idea “se si chiappa un fascista gli si fa uguale” c’era».

Nelle settimane successive a questi episodi, nonostante le Brigate Nere abbiano lasciato la Garfagnana, i partigiani della Divisione Garibaldi Lunense, operante nella zona ancora occupata, iniziano una sorta di epurazione. A farne le spese sono alcuni uomini segnalati dai locali CLN comunali come collaborazionisti nazifascisti e accusati di aver organizzato i fasci repubblicani, denunciato i renitenti alla leva fascista, fornito notizie alle truppe nazifasciste o, infine, esser stati dirigenti in aziende impiegate ai fini bellici del nemico. La corte marziale è guidata dal comandante Anthony John Oldham e dal commissario di guerra Roberto Battaglia. Si tratta ovviamente di processi sommari, la cui tragicità è aumentata dall’impossibilità di infliggere pene detentive: chi viene giudicato colpevole viene ucciso (e un errore giudiziario sarebbe irrimediabile), chi viene giudicato innocente viene rilasciato (e anche in questo caso, la rimessa in libertà di un collaborazionista potrebbe rivelarsi esiziale per la formazione partigiana). Lo spirito di queste settimane e di questi processi è ben riassunto in un’ordinanza del 28 ottobre 1944, firmata da Oldham e Battaglia:

“Epurazione

Chiedere ai CLN comunali elenchi di spie e favoreggiatori del nemico tenendo però presente che il giudizio definitivo spetta solo al Tribunale militare di guerra regolarmente costituito presso ogni comando di Brigata. Arrestare solo quando si è sicuri della colpevolezza in modo da poter procedere con la necessaria rapidità al giudizio. Conservare documentazione dell’istruttoria e della sentenza sottoscritta dai membri del Tribunale. Nel caso che una denuncia risulti falsa punire il delatore con la stessa pena che sarebbe stata inflitta al denunciato se riconosciuto colpevole. In ogni caso nessuna pietà, nessun compromesso, nessuna via di scampo per il nemico. Non fare giustizia significa rendersi complici dell’ingiustizia.”

In calce all’ordinanza, un appello del Corpo Volontari della Libertà Comando Settore Garfagnino, che avverte la popolazione dell’arrivo nella zona della Divisione Italiana Monterosa, diffidandola dall’aver qualsiasi rapporto con elementi della suddetta divisione, pena la fucilazione. (Si veda trascrizione del documento allegato).

Questa è la situazione in Garfagnana ai primi di novembre. Il 4 di quel mese, a Foce di Careggine, dove ha sede il comando partigiano, viene fucilato Saul Grandini, accusato di aver collaborato con la Guardia Nazionale Repubblicana.

Due giorni dopo i tedeschi prelevano dalle carceri di Castelnuovo tre uomini, Antonio Bargigli, Ferruccio Marroni, Telmo Simoni, e una donna, Natalina Peranzi: l’accusa è di far parte della Resistenza e di avere istigato alla diserzione soldati repubblicani. I quattro vengono uccisi al cimitero di Castelnuovo Garfagnana.

Il 7 novembre i partigiani uccidono tre uomini, sempre a Foce di Careggine. Uno è un tenente abruzzese della Monterosa, catturato pochi giorni prima, Paolo Carlo Broggi. Gli altri due sono uomini del posto: Aristide Contadini, segretario del fascio di Careggine, e Fedele Bianchi, medico condotto del paese. In questi ultimi due casi, le accuse sono controverse e la loro effettiva attività antipartigiana è più presunta che acclarata. Contadini ha assunto la carica mesi prima forzatamente per ordine dell’ispettore di zona del fascio repubblicano, il medico pare abbia addirittura aiutato qualche partigiano.

Ma, come detto, la guerra civile è all’apice in questa zona d’Italia e un sospetto sottovalutato può risultare decisivo per la vita di una intera formazione partigiana. E anche per Contadini e Bianchi non c’è speranza di salvezza. Sono in totale sedici (quindici civili e il militare Broggi) in poco più di un mese i condannati a morte fascisti dalla Corte marziale della Garibaldi Lunense nella sola Garfagnana.

Oldham, Battaglia e i partigiani che eseguono le sentenze verranno processati negli anni successivi: le esecuzioni verranno considerate azioni di guerra e gli imputati assolti in virtù del Decreto Luogotenenziale 194 del 12 aprile 1945.

 

Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”.

Articolo pubblicato nell’aprile 2014.




Guerra e sfollamento in Versilia.

Il 18 maggio 1944, mentre le truppe alleate riuscivano a sfondare la Linea Gustav, cadevano le prime bombe americane sulla Versilia storica, dirette a colpire il ganglio stradale e ferroviario di Ponterosso, a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu), allo scopo di ostacolare i movimenti dei reparti tedeschi destinati al fronte sud. I versiliesi, già stremati da quasi quattro anni di lutti e sofferenze, si ritrovarono così direttamente coinvolti nella “guerra guerreggiata”: dopo quel giorno, infatti, le incursioni aeronavali sull’entroterra si sarebbero moltiplicate. Fu allora che le prime famiglie decisero volontariamente di sfollare: uomini, donne, vecchi e bambini, raccolte le poche cose che riuscivano a portare in spalla o su un semplice carrettino, scelsero di lasciare la propria abitazione, divenuta ormai troppo pericolosa per rimanere. Nella maggior parte dei casi, ritenendole più sicure, gli sfollati s’incamminarono verso le montagne, cercando rifugio presso amici e parenti. Più spesso, tuttavia, dovettero accontentarsi di una sistemazione di fortuna: un materasso in una stanza sfitta, un giaciglio di paglia in un metato diroccato, un tetto sotto cui passar la notte, in attesa di tempi migliori.

Nell’estate del ’44, mentre gli attacchi partigiani riuscivano efficacemente a rallentare i lavori di fortificazione della Linea Gotica portati avanti dall’Organizzazione Todt, le SS prendevano il controllo dell’area versiliese, compiendo rastrellamenti e violenze contro la popolazione, al fine di reciderne i legami con le formazioni. Per potersi muovere più liberamente ed isolare le sacche di resistenza, i nazifascisti decisero infine di evacuare completamente il territorio: a partire dal 30 giugno 1944, giorno in cui fu sgomberato il Comune di Forte dei Marmi, gli occupanti emanarono una serie di ordinanze di “sfollamento totalitario”, con le quali, spesso lasciandole soltanto poche ore a disposizione, si costringeva tutta la popolazione ad abbandonare le proprie case. Nel giro di qualche settimana, la medesima sorte toccò ai Comuni di Seravezza, Pietrasanta e Stazzema. Secondo i manifesti, la popolazione avrebbe dovuto incolonnarsi a piedi verso il Passo della Cisa, fino a Sala Baganza (Pr), dove sarebbe stata alloggiata provvisoriamente, in attesa di passare il Po: chiunque fosse stato sorpreso a circolare in zona di evacuazione dopo il termine ultimo senza valido motivo, sarebbe stato arrestato e passato per le armi. Nel frattempo, squadre di genieri nazisti procedevano alla sistematica distruzione di tutte le infrastrutture che ostacolavano la linea di vista dalle alture retrostanti la piana.

Nonostante le minacce, la stragrande maggioranza dei civili decise di rimanere in Versilia, impegnandosi in una dura, massacrante lotta per la sopravvivenza, in condizioni di fame, angoscia, scarsissima igiene e sovraffollamento, in trepidante attesa degli Alleati. Gli anglo-americani arrivarono nell’autunno del ’44, ma gli sfollati versiliesi non poterono subito far ritorno alle proprie case: fino all’aprile del 1945, infatti, l’avanzata alleata restò impantanata ai piedi della Gotica, e tutta la zona rimase terra di battaglia, costantemente battuta dalle opposte artiglierie. Quando i cannoni tacquero, la popolazione poté gradualmente rientrare: di fronte a lei, un paesaggio irriconoscibile, completamente devastato dalle bombe, tutto da ricostruire.

La storiografia ufficiale del Dopoguerra riservò scarsissima attenzione alla tragedia dei civili nel corso del conflitto. Proprio per questo, oggi, ricostruire lo sfollamento con l’ausilio delle fonti orali permette di conoscere quella sofferenza direttamente dalla voce di chi la visse sulla propria pelle: attraverso i racconti dei testimoni, in altre parole, diviene possibile conferire dignità e valore alla quotidiana battaglia per la vita che i civili della Versilia combatterono nei lunghi mesi della Gotica, in nome della solidarietà umana e dell’amore per la propria terra.

Federico Bertozzi si è laureato in storia contemporanea, presso l’Università di Pisa, nel novembre 2013, con una tesi dal titolo “Attaccarono i fogli: si doveva sfolla’!” dedicata alla ricostruzione dello sfollamento in Versilia con l’ausilio delle fonti orali. Attualmente si sta occupando di raccogliere le memorie del passaggio della guerra in Versilia. 

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Articolo pubblicato nell’aprile 2014.




Morire sotto le mura di Santa Barbara

CalugiE’ la sera dell’otto settembre 1943 quando dagli apparecchi radio il popolo italiano apprende della firma dell’armistizio tra l’Italia e gli alleati. Ciò che potrebbe significare la conclusione del conflitto per il nostro Paese e il nostro malcapitato esercito si rivela l’opposto poiché nei venti mesi successivi una durissima e pesantissima occupazione militare da parte delle truppe nazifasciste condurrà a stragi di civili, danni ingentissimi al patrimonio architettonico, artistico e storico ma anche alle stesse infrastrutture.

La quasi contestuale nascita della RSI portò, proprio per contrastare le nascenti formazioni partigiane, all’emanazione di bandi di leva per le classi 1924 e 1925, anche se vi risponderà soltanto il 40% dei richiamati e tra gli arruolati sono in tanti a disertare.

Proprio dai bandi della RSI ha origine la storia di Aldo, Alvaro, Lando Vinicio e Valoris ciascuno con una propria storia personale, con vicende di vita diverse e anche con formazione culturale differente anche se in realtà solo Valoris aveva terminato gli studi elementari. I quattro provenivano da famiglie con un tenore di vita non particolarmente elevato e aiutavano i propri cari a “sbarcare il lavoro”, chi operaio, chi calzolaio, chi chiamato alle armi e inviato nell’ARMIR sul fronte orientale.

L’aver rifiutato di aderire ai bandi della RSI fa si che siano arrestati dalla GNR e rinchiusi nelle carceri mandamentali delle Ville Sbertoli in attesa del processo, presso il Tribunale Militare di Guerra che si sarebbe insediato di lì a pochi giorni. Il processo si concluderà con una sentenza già scritta: la condanna a morte per i 4 ragazzi e la reclusione a 24 anni per Vannino Urati, e a 10 e 12 anni di carcere per Secondo Fibucchi e Salvatore Crescione.

All’alba del 31 marzo 1944, i quattro saranno fucilati presso la Fortezza S. Barbara dove saranno schierati appena fuori della piazza interna, nello stessa dove un secolo prima, Attilio Frosini era stato fucilato dalle truppe austriache. Nessuno dei condannati vuole essere bendato, i quattro vogliono vedere in faccia i loro aguzzini fisicamente finiti da una raffica di mitra da un fascista di Larciano.

Questo delitto compiuto dai fascisti cittadini come altri avvenuti nello stesso periodo contribuirono ad accelerare il distacco del popolo italiano da un regime sempre più in agonia, sempre meno credibile, che aveva condotto il paese ad una tragedia dalle incalcolabili proporzioni, mentre all’opposto si erano rafforzate le formazioni partigiane, il cui ruolo insieme a quello degli alleati si rivelerà decisivo per la liberazione della città di Pistoia e del Paese dal nemico tedesco.

Ogni 31 marzo, alla presenza delle autorità cittadine, di studenti e cittadini comuni viene celebrata alla Fortezza la commemorazione dei quattro ragazzi, evento che desta ancora oggi una emozione particolare poiché vide il coinvolgimento di giovani vite che si erano battute per la costruzione di una societˆ libera e democratica.

Il sacrificio di questi quattro eroi  stato riconosciuto nel 2007 dal Presidente della Repubblica con la concessione della medaglia d’oro al merito civile ad Aldo,Alvaro, Lando Vinicio e Valoris.celebrazione 31 marzo Pistoia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Report di una strage: il 24 luglio 1944 a Empoli

Luglio 1944.

I tedeschi si muovono verso Firenze, incalzati dall’avvicinarsi delle truppe alleate impegnate nell’opera di liberazione.
E’ lunedì, il 24 per la precisione, e alcuni soldati tedeschi si avvicinano ad un casupola alla periferia di Empoli, in una zona conosciuta come Pratovecchio. Probabilmente cercano informazioni, ma si scontrano con i partigiani che sono riuniti proprio lì. Ne nasce uno scontro a fuoco e diversi soldati muoiono. Scatta la rappresaglia e molti uomini vengono rastrellati a forza nel circondario e senza spiegazioni costretti a spengere un incendio appiccato dai tedeschi. Qualcuno riesce a fuggire, ma in trenta vengono condotti verso il centro di Empoli e fucilati.

Solo uno si salva, dandosi alla fuga poco prima dell’esecuzione. Ventinove persone rimangono a terra nella piazza F. Ferrucci, ventinove nomi sono ricordati nella stessa piazza che ora commemora il “XXIV luglio”. Arturo Passerotti è l’unico superstite alla strage.

Muoiono Luigi Bagnoli (61 anni), Mario Bargigli (22 a.), Guido Bartolini (28 a.), Arduino Bitossi (60 a.), Orlando Boldrini (60 a.), Pietro Capecchi (50 a.), Bruno, Francesco e Giulio Cerbioni (18, 66 e 28 a.), Gaspero e Gino Chelini (46 e 52 a.), Giuseppe, Pietro e Virgilio Ciampi (55, 48 e 51 a.), Giulio Cianti (55 a.), Pasquale Gimignani (55 a.), Corrado Gori (64 a.), Giulio e Pietro Martini (66 e 59 a.), Gino Morelli (56 a.), Palmiro Nucci (56 a.), Gaspero Padovani (78 a.), Alfredo Parri (34 a.), Antonio Parrini (56 a.), Carlo Peruzzi (62 a.), Gino Piccini (48 a.), Alfredo Pucci (51 a.), Gino Taddei (38 a.) e Domenico Vizzone (45 a.).
Quello stesso giorno il comando tedesco mina i campanili del Duomo e degli Agostiniani e la porta Pisana.

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Articolo pubblicato nel gennaio 2014