Egemonia e potere: 40 anni di governo comunista in provincia di Grosseto.

Grosseto e la sua provincia sono stati governati per tutto il secondo dopoguerra dal PCI; un governo egemonico, protagonista della modernizzazione e autore delle più importanti scelte politiche, economiche e sociali che ancora oggi caratterizzano questa provincia. Sin dalle prime consultazioni elettorali post-Liberazioe il PCI risultò partito di maggioranza relativa nel capoluogo e in molti comuni della  provincia di Grosseto. Amministrò con giunte di coalizione, mantenendo un’alleanza con il Partito Socialista che, al di là di brevi parentesi di cui si dirà più avanti, non venne rotta dall’inaugurazione dei governi nazionali e in qualche caso locali di centro-sinistra. Caso che ha una sua singolarità, l’ inaugurazione del  sostegno a una giunta a guida repubblicana già nei primi anni ‘70. Tema rilevante è il rapporto con la Democrazia Cristiana, partito egemone a livello nazionale, soggetto localmente rilevante in certi momenti storici, soprattutto nella fase di attuazione della Riforma Fondiaria.

Osservando la società grossetana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 è facile notare una fitta trama di associazioni e di gruppi fortemente connotati da una più antica tradizione repubblicana, garibaldina, anarchica che mostra chiaramente un carattere identitario ribelle e sovversivo.

In questo contesto si svilupparono facilmente le idee socialiste e soprattutto quelle comuniste. Nel 1921 quando la frazione comunista decise la scissione dal Partito Socialista Italiano anche a Grosseto vennero immediatamente fondate numerose sezioni comuniste. Una sentita tradizione sovversiva della zona rendeva ancora forte l’attaccamento ideologico delle masse operaie e contadine locali al partito socialista; i comunisti non erano invece riusciti né a fare proselitismo né a strutturare il partito e nelle elezioni politiche del maggio 1921 i socialisti risultarono il primo partito in provincia; i comunisti non riuscirono a eleggere nessun deputato. Da lì a poco, sotto la spinta delle violenze fasciste, le sezioni comuniste si svuotarono velocemente e i pochi militanti rimasti si organizzarono in partito clandestino.

Dunque, da cosa deriva il consenso dei comunisti nel secondo dopoguerra?

È sicuramente fondamentale il periodo clandestino durante il regime, in cui il partito assume un ruolo dominante nella compagine antifascista. I comunisti grossetani, infatti continuarono sotto il fascismo la propria attività politica, tanto che un protagonista dell’epoca, Aristeo Banchi, detto Ganna, così descriveva la fortuna che i comunisti raccolgono in quegli anni:

“Il fatto che molti comunisti fossero arrestati e continuamente perseguitati nelle forme più diverse, attirò l’attenzione e la simpatia di molti, per lo più giovani, di tendenze politiche diverse e appartenenti alla media borghesia cittadina: studenti, impiegati, artigiani e commercianti. Il comportamento di questi uomini, tenaci, entusiasti della loro attività antifascista, onesti nel lavoro e nella vita, li fece riflettere e cominciarono ad interessarsi della loro attività e vollero conoscere questo Partito Comunista, che era riuscito, a differenza degli altri partiti che erano spariti, a dare speranza per periodi migliori” (Aristeo Banchi, Si va pel mondo).

Ma il consenso verso i comunisti si accrebbe senza dubbio durante i difficili anni della Resistenza, quando il Partito comunista ebbe un ruolo predominante nella guerra partigiana; è in quei pochi mesi che vanno dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel giugno del 1944 che il Partito Comunista iniziò a costruire la propria egemonia nella provincia di Grosseto.

Una volta liberata, la provincia visse un periodo di grande fermento sociale ed economico con le numerose proteste dei contadini che chiedevano la terra e quelle dei minatori che volevano migliorare le proprie condizioni di lavoro ed economiche. È in questo contesto che il partito comunista locale riesce a legarsi con le masse popolari del territorio creando una solida e indissolubile base elettorale e di consenso per il futuro. Per i comunisti grossetani le lotte ebbero una duplice importanza, poiché, da una parte, furono il luogo dove si formò politicamente ed umanamente la classe dirigente che dopo pochi anni prenderà in mano il partito, e dall’altra, le lotte rappresentarono un’opportunità di crescita di consenso. Grazie ad un attento e duro lavoro di propaganda i comunisti grossetani riuscirono a mettersi alla guida di quelle battaglie; era grazie al lavoro di massa, come si diceva all’epoca, che il PCI riuscì a guidare le proteste e a condurle, attraverso le parole d’ordine che il partito stesso decideva, verso il voto comunista.

È necessario sottolineare che le lotte sociali in quei primi anni della Repubblica rappresentarono per un partito di massa come il PCI la vera e propria ragione d’essere: grazie a queste il PCI aumentava la propria forza e il proprio radicamento sociale. Ma non bisogna dimenticare che il PCI a Grosseto era anche un partito di governo che, fin dalla Liberazione, iniziò ad amministrare la quasi totalità degli enti locali. Non potendo prescindere dalle masse popolari e dalle proteste, questi due aspetti costringevano il PCI ad avere un duplice e parallelo modus operandi: da una parte, dovendo governare localmente il territorio, era obbligato a mantenere basso lo scontro sociale verso gli enti locali ma dall’altra parte, continuava a dirigere i movimenti di protesta e il conflitto sociale convogliando il malcontento contro il governo nazionale democristiano. La vera sfida che il PCI dovette affrontare nelle province come Grosseto, dove aveva un ruolo di governo, era quella di riuscire ad avere il monopolio della critica sociale subordinata alla propria idea politica.

Ma la costruzione del consenso comunista nel grossetano doveva passare anche da una capillare organizzazione territoriale e da una forte militanza.

Il PCI, fin dal primo congresso di Lione, aveva scelto una forma di organizzazione non verticistica ma basata su un forte rapporto con il territorio attraverso le federazioni, le sezioni e le cellule. Quest’ultime rappresentavano una vera e propria novità del movimento operaio italiano ed avevano lo scopo di propagare e diffondere le idee del partito sul territorio; con le cellule il partito poteva riuscire a conquistare e a coinvolgere le masse popolari. Il segretario della Federazione comunista Grossetana Guglielmo Nencini, nel Comitato Federale del 28 ottobre 1944 (uno dei primi dopo la liberazione di Grosseto) così riassumeva l’importanza dell’organizzazione cellulare del partito:

“La cellula è il tipo di organizzazione che più di ogni altro permette una intensa vita di partito, una più facile e continua opera di chiarificazione ideologica ed è quella che permette una maggiore tutela del partito contro ogni frazionismo o scissionismo. Ma non basta: la cellula è lo strumento più perfetto e potente di penetrazione politica nella massa popolare, è l’organismo che meglio di ogni altro permette al partito di orientare, guidare le classi popolari e quindi di stringerle attorno alla classe operaia in un blocco unitario veramente inscindibile” (Fondo Nencini, Isgrec).

Fin dalla Liberazione, nella provincia di Grosseto furono aperte numerose sezioni comuniste tanto che il PCI ben presto ottenne una enorme e capillare diffusione territoriale. Ogni paese, ogni città, aveva una sezione; soltanto a Grosseto fino alla prima metà degli anni ’80 si contavano ben 5 sezioni cittadine e altre 15 sparse per tutto il territorio comunale; mentre in provincia si contavano all’incirca altre 135 sezioni per un totale di circa 155 in tutta la Federazione. La nascita, e spesso la costruzione, delle sezioni comuniste era possibile grazie alle sottoscrizioni dei militanti che raccoglievano denaro o che spesso mettevano a disposizione del partito le proprie competenze o il proprio lavoro per la costruzione materiale delle sedi. sottoscrizione sedeLa vecchia sede della Federazione provinciale di Grosseto venne realizzata grazie alla sottoscrizione e al lavoro volontario dei militanti comunisti; una volta ultimata, venne inaugurata nel 1957 da Palmiro Togliatti. Stessa cosa avvenne per la Casa del Popolo di Bagno di Gavorrano che venne inaugurata nel 1973 da Pietro Ingrao.

Ovviamente l’organizzazione e la diffusione sul territorio non poteva reggere senza la militanza di migliaia di grossetani che accrebbero e favorirono l’egemonia comunista in provincia. I militanti comunisti, nei loro luoghi di lavoro e nei loro paesi di residenza donavano volontariamente e con passione il proprio tempo libero al partito, per migliorarne l’organizzazione, per le campagne elettorali e per le Feste de l’Unità.

La rigida morale comunista del primo dopoguerra obbligava i militanti ad una vita sobria e completamente donata alla causa comunista. Questi avevano il dovere, come si legge nell’articolo 9 dello Statuto del PCI del 1951, oltre a “partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di partito secondo le direttive dell’organizzazione”, ad avere rapporti di lealtà e fratellanza con gli altri militanti; vigilare sulle buone sorti del partito e mantenere una “vita privata onesta, esemplare”. Il militante comunista, quindi, doveva dare l’esempio morale anche nella propria vita privata e aveva l’obbligo di “esercitare la critica e l’autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del partito” attraverso anche una continuo miglioramento della propria “conoscenza della linea politica e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione”.

Purtroppo non è possibile descrivere uno scenario organico per quanto riguarda le iscrizioni dei militanti poiché mancano molti dati nell’archivio della Federazione comunista, conservato presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea; tuttavia è possibile affermare che il numero degli iscritti in provincia di Grosseto rispecchiava le medie delle altre province toscane.

L’egemonia comunista non aveva bisogno solo di una forte base sociale su cui fondare la propria organizzazione, ma necessitava anche di rapporti stabili con le altre forze politiche locali. Infatti, senza una solida politica delle alleanze, il partito non avrebbe potuto mantenere la propria posizione.

Manifestazione comunista a ribolla (anni '50)

Manifestazione comunista a ribolla (anni ’50)

Osservando i risultati elettorali del PCI nelle varie elezioni amministrative, si notano due tendenze distinte. La prima mostra, dagli anni ’50 fino alle elezioni regionali del 1970, un sostanziale consolidamento del consenso elettorale del PCI, a scapito chiaramente sia delle opposizioni (DC, Psdi, Pli, Pri), che del principale alleato di sinistra ovvero il PSI. La seconda tendenza, che riguarda il periodo dal 70 fino alle fine del 90, mostra invece una lenta e parziale erosione del consenso elettorale comunista a favore degli alleati socialisti. Questa perdita di voti però non si traduce in una diminuzione di consenso e l’egemonia comunista rimane ben salda; piuttosto la lieve crisi elettorale va imputata alla crescente fortuna politica che il PSI vive in quegli anni.

Il PCI, quindi, costruì il proprio potere locale sull’alleanza strategica con il PSI, creando una sostanziale continuità di governo e dando alle istituzioni locali una forte stabilità politica. Questa alleanza non solo aveva radici ideologiche, ma si basava su un preciso accordo elettorale politico e programmatico che tra le altre cose prevedeva una ferrea e rigida distribuzione, sia delle cariche politiche elettive, che delle cariche di nomina politica nei vari enti locali e collaterali. Nella distribuzione di questi vari incarichi il PCI, forte del suo peso elettorale, faceva valere la propria egemonia ed aveva la meglio sugli alleati socialisti, creando così non pochi malcontenti. Leggendo i verbali dei Comitati federali comunisti di quegli anni è facile trovare numerose notizie a riguardo ma bisogna tenere ben presente che le nomine politiche all’interno degli Enti Locali erano una pratica diffusa, considerata normale ed erano soprattutto permesse dalla legge.

Spesso però le alleanze politiche locali venivano influenzate dalla politica nazionale, come nel caso dell’unificazione socialista del 1966 che portò all’allontanamento del PSI dalle giunte locali. Nel 1967, i socialisti uscirono dalla Giunta provinciale e i comunisti dettero vita ad monocolore con il Presidente Palandri; stessa dinamica avvenne nelle altre amministrazioni locali compreso il Comune di Grosseto. Nel comunicato stampa che i comunisti grossetani diffusero in quell’occasione si legge della grande preoccupazione comunista nel constatare che

“la gravità di questa decisione che avviene con motivi estranei ai problemi e agli impegni programmatici di quelle assemblee elettive nelle quali, da 20 anni e con un sensibile lavoro unitario, la collaborazione tra PCI e PSI ha consentito il conseguimento di estesi successi nell’interesse della città e delle masse popolari” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Per i comunisti grossetani la crisi dell’alleanza con il PSI era palesemente influenzata dalla politica nazionale ma metteva in serio pericolo la stabilità stessa dei governi locali:

“il disimpegno del PSI-PSDI unificati non è altro che il primo passo di una politica che obbiettivamente può portare le amministrazioni pubbliche grossetane a serie difficoltà, con la conseguenza immediata di sacrificare e ritardare soluzioni urgenti ed inderogabili e con il pericolo di aprire la via a gestioni commissariali in ossequio agli obbiettivi e alla volontà della DC di cancellare la posizione di potere delle forze di sinistra” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Il PCI, nonostante l’unificazione socialista e la crisi che ne scaturì, rimase al governo con le proprie forze e quando nel 1970 la riunificazione naufragò, i socialisti grossetani rientrarono in tutte le amministrazioni locali e la crisi poté dirsi conclusa. Se il rapporto con i socialisti fu continuo e costruttivo, ben diverso fu il rapporto politico con le altre formazioni democratiche locali.

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

Con il Partito repubblicano italiano, ad esempio, non ci fu mai una vera e propria alleanza politica-elettorale, nonostante il dialogo portato avanti dai comunisti dagli anni ’70 e che vide l’entrata dei repubblicani nell’amministrazione Valentini del Comune di Grosseto negli anni ’80.

Nonostante questo, il massimo punto di avvicinamento politico tra PCI e PRI, sia a livello politico, ma soprattutto mediatico, si ebbe nel 1974, durante le elezioni amministrative del Comune di Monte Argentario, quando Susanna Agnelli, eletta consigliera comunale per il PRI, ottenne l’astensione dei comunisti per varare la propria giunta. Quella di Monte Argentario, con l’astensione comunista a favore dell’amministrazione Agnelli, fu la prima esperienza di maggioranza alternativa all’alleanza social-comunista.

La crisi a livello nazionale che si andò a creare tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 tra il PCI e il PSI ebbe degli echi anche in provincia. Nel 1976 Aldo Tonini, Segretario provinciale del PSI, nel suo discorso durante il XXXI Congresso Provinciale descriveva i rapporti tra il PSI e il PCI “sempre tranquilli e senza problemi” pur tuttavia sottolineando un malcontento:

“in virtù della politica del compromesso storico che il PCI persegue ad ogni livello, nella ricerca costante di un rapporto privilegiato con la DC si verificano contrasti e tensioni all’interno della maggioranza di sinistra. In tempi anche recenti autorevoli esponenti comunisti locali hanno affermato che le difficoltà che di volta in volta sorgono nei rapporti tra PSI e PCI all’interno delle maggioranze sono dovute alla riottosità dei socialisti di fronte ad ogni ipotesi di allargamento delle maggioranze stesse e persino alla chiusura ed agli ostacoli verso ogni tentativo di realizzare un rapporto nuovo con le minoranze” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Quando poi, sulla scia dei successi elettorali nazionali, il PSI migliorò i propri risultati elettorali locali, la crisi tra i due alleati si fece ancora più palese soprattutto perché il PSI iniziò a chiedere sempre più peso e potere politico. A riguardo può essere utile la posizione democristiana che, dopo anni di isolamento, negli anni ’80 iniziò a cercare di scalzare il potere comunista, proponendo un accordo con i socialisti. Hubert Corsi, durante il Congresso provinciale della Democrazia Cristiana del 22 febbraio 1981, nel suo discorso da Segretario provinciale lamentava l’atteggiamento frontista e la chiusura politica del PCI, affermando che il PCI “è stato abile a cedere certe posizioni [al PSI], talora anche contro la logica elettorale, pur di coinvolgerlo in un’alleanza di carattere generale” in modo da soddisfare “le crescenti aspettative di potere” ottenendo in cambio “certezze e potere”; il PSI di contro, nella lettura democristiana “è stato abile a cercare di trarre dalle difficoltà del tradizionale alleato, il maggiore vantaggio; assicurandosi posizioni di forza superiore alla propria forza elettorale”.

Tra minacce di maggioranze alternative e miraggi pentapartitici, la crisi tra PCI e PSI si rese ancora più palese quando nel 1988 problemi di natura giudiziaria coinvolsero membri socialisti della giunta comunale.

In quella situazione però furono chiari almeno due aspetti: da una parte le opposizioni e i socialisti non avevano una forza tale per rappresentare una vera alternativa al governo comunista; dall’altra invece, ancora una volta, risultò evidente, a Grosseto e in provincia, come il PCI fosse l’unica forza egemonica.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2015.




“Tombolo paradiso nero”, il film che gli Usa non volevano vedere

«Un sabato scorso aprimmo il televisore – channel 7 – e sentimmo annunciare, come una primizia, il film Incontri della fatalità. Primo attore quell’Aldo Fabrizi che fu l’eroico Prete di Città aperta. Vediamo. Un film nostrano è sempre, un po’, un “bagno di italianità”. Ma trasecolammo. Quegli Incontri della fatalità non erano altro che il rimaneggiamento dell’ignobile film Tombolo. Non c’era altro “documentario” da presentare a quegli eterni “contenti e gabbati” che sono gli italo-americani? Evidentemente no». Con questo articolo del 27 febbraio 1954 il giornale dei cattolici italo-americani Il Crociato-The Crusader sferrava il suo attacco al film Tombolo, paradiso nero, prodotto qualche anno prima, nel 1947, dalla Incine. Edito a Brooklyn e collegato alla National Catholic Welfare Conference (la conferenza episcopale statunitense), il settimanale dei cattolici newyorkesi era solo una delle molte voci che Oltreoceano si erano alzate duramente contro la pellicola italiana.

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una "segnorina"

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una “segnorina”

Del resto il film del regista Giorgio Ferroni scoperchiava una realtà che, in patria come al di là dell’Atlantico, non poteva non dar fastidio nelle stanze dei bottoni del potere politico. Nell’immediato dopoguerra, il caso Tombolo, località che identifica la vasta pineta tra Livorno e Pisa, era assurto a emblema nazionale delle conseguenze più deleterie dell’occupazione americana. Dall’ultimo anno di guerra lo scalo portuale livornese aveva assunto una centralità logistico-strategica per le operazioni belliche nello scacchiere Mediterraneo: dopo essere divenuta una ghost town per i massici bombardamenti e il forzato sgombero del cento imposto dai tedeschi (12 novembre 1943), con la liberazione (19 luglio 1944) la città si era dunque ripopolata immediatamente soprattutto di soldati angloamericani. In un rapporto alleato del luglio 1945 si affermava che in quei mesi tra i 50mila e gli 80mila militari si erano ammassati in città (su una popolazione residua, al momento della liberazione, di appena 20mila livornesi). La massiccia presenza di truppe, che si protrasse fino al dicembre 1947 e che portò Livorno a divenire anche un immenso magazzino-emporio di materiale bellico di ogni tipo, richiamò dal Sud del paese già liberato migliaia di individui in cerca di fortuna.

In tale contesto, la pineta di Tombolo divenne il simbolo del degrado prodotto dalla “lunga liberazione”. Una sorta di terra di nessuno – spesso al di fuori del controllo perfino della Military Police (MP) – in cui stanziavano disertori, trafficanti, contrabbandieri, prostitute. Nell’estate 1948, un delegato della Santa Sede in visita alla città la descriveva come «una piccola Napoli» e «sotto alcuni punti di vista, peggio di Napoli», denunciando specialmente le conseguenze che la realtà di Tombolo provocava sull’infanzia. «Le truppe alleate (bianchi e neri) – scriveva il rappresentante pontificio – soltanto da pochi mesi hanno lasciato la zona! E i giovani, i ragazzi, i bimbi? Hanno formato la legione degli sciuscià. […] Sono stati ladri a sette anni, ruffiani nell’età delle favole, contrabbandieri nell’età dell’asilo».

Intorno a Tombolo si creò ben presto una leggenda, alimentata da romanzi (come Dopo l’ira di Silvano Ceccherini e Tombolo città perduta di Gino Serfogli, cronista di «nera» del quotidiano social comunista «La Gazzetta di Livorno») e inchieste giornalistiche che contribuirono a dare della pineta un’immagine tetra, di luogo di perdizione. Nel novembre 1946 era ad esempio la popolarissima «La Domenica del Corriere» a dedicare una copertina al rastrellamento delle «segnorine», sciuscià e disertori della Quinta Armata operato dalla MP a Tombolo. Inchieste apparvero su «L’Europeo» o su «Crimen».

La copertina della "Domenica del Corriere" dell'ottobre 1946

La copertina della “Domenica del Corriere” dell’ottobre 1946

Non stupisce che, con un tale concentrato di ingredienti paradigmatici, Tombolo e Livorno attirassero le attenzioni di registi e produttori cinematografici. La “pineta proibita” regalava lo scenario letterario e traslato della discesa agli inferi delle miserie del dopoguerra. Lo spazio avventuroso che questo contesto offriva, permetteva al cinema neorealista di attingere alla cronaca «per riadattare al nuovo orizzonte del dopoguerra vecchi codici di genere: gangster movie, spy story, noir, western e, soprattutto, commedia e melodramma». Non a caso l’intreccio di Tombolo, paradiso nero trasse spunto da un fatto di cronaca raccontato da Indro Montanelli sul “Nuovo Corriere della Sera” del 10 aprile 1947 nell’articolo Vive a Tombolo un uomo che si fa ricco con l’onestà. Il giornalista toscano figurò perfino tra gli sceneggiatori del film di Ferroni, prestandosi ad acconciare al grande schermo la storia di Giovanni R., ex vicebrigadiere che, tornato a casa, in Ciociaria, dopo aver servito tre anni in Libia, aveva trovato la propria abitazione distrutta da una bomba, la moglie morta sotto le macerie e l’unica figlia dispersa. Nel film Aldo Fabrizi impersonava l’ex brigadiere che nel suo viaggio nella «selva oscura» di Tombolo alla ricerca della figlia perduta (Adriana Benetti) riusciva – sacrificando la sua stessa vita – a salvare la figlia, riportandola sulla retta via e assicurandole un avvenire di amore e onestà.

Ma questa sorta di mito omerico moderno fu, come detto, osteggiato dalle alte sfere di governo. Approdato nel maggio 1947 a capo dell’ufficio che aveva in mano le chiavi della cinematografia nazionale, Giulio Andreotti aveva del resto fatto capire in poco tempo quale sarebbe stata la sua linea di governo. Il giovane Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo si sarebbe battuto, in un raccordo stretto con gli uffici vaticani, per «un cinema politicamente e sessualmente innocuo». Tombolo, paradiso nero faceva luce su certe conseguenze dell’occupazione alleata che non erano per niente in linea con la virata atlantica a cui, proprio nei mesi dell’uscita del film, stava lavorando il governo De Gasperi. Nel film di Ferroni non c’era alcuna celebrazione del ruolo salvifico degli americani: anzi veniva in rilievo l’impatto violento della cultura americana con i valori della tradizione italiana, la corruzione delle «segnorine», la degradazione a cui giungevano molti soldati statunitensi, soprattutto neri, che sceglievano la diserzione. Non a caso un altro film ambientato a Tombolo l’anno successivo, Senza pietà di Alberto Lattuada, non trovò calda accoglienza nelle stanze del potere democristiano e presso il pubblico statunitense. Qui oltre a presentare i topoi classici della disgregazione di valori del dopoguerra imposti dalla “lunga liberazione”, si proponeva la storia d’amore tra un soldato nero (John Kitzmiller, protagonista anche di Tombolo, paradiso nero) e una bianca (Carla Dal Poggio) che era ancora ritenuto un tabù nella società americana.

Il manifesto del film riadattato per l'estero

Uno dei manifesti che accompagnò l’uscita del film

Il film di Ferroni non trovò particolari ostacoli (salvo qualche taglio di poco conto imposto dalla censura) a ricevere il nulla osta alla proiezione in patria (concesso da Andreotti il 24 ottobre 1947), ma assai più complesso fu l’iter per la sua esportazione. Nel corso 1950 la Incine fu costretta a ripresentare il film alla Direzione generale della cinematografia in versione rivista «ai soli fini dell’esportazione avendone mutato il titolo in “Verso la vita”» e apportando «alcuni tagli e modifiche al montaggio del film». Le prime proiezioni negli Stati Uniti del film nella sua versione integrale avevano suscitato un esplicito malcontento sulla stampa Usa.

Nel gennaio 1950 il ministero degli Affari Esteri aveva inviato al Servizio informazione e spettacolo della Presidenza del Consiglio dei ministri una nota con oggetto Film “Tombolo” a New York in cui si riferiva sulla cattiva accoglienza della prima visione del film nei cinema della Grande Mela da parte della stampa: il New York Herald Tribune pur riconoscendo i meriti di Fabrizi («ottimo attore») bollava il film come un povero dramma giallo male ideato e peggio congegnato. Sulla stessa linea il più influente New York Times, sulle cui colonne però ci si soffermava anche su altri aspetti: a far problema non era tanto la mediocre qualità del film quanto la non onorevole parte che in esso avevano «i negri americani soldati in uniforme». «Non ci può essere scusa per così allegro travisamento dei fatti – commentava il critico del quotidiano americano -, ma è ancora più difficile comprendere come il sig. Kitzmiller e gli altri negri consentirono a partecipare a un così aperto e scurrile attacco non solo alla loro razza ma anche all’uniforme del loro paese».

Eppure anche nella sua versione “epurata” il film, come si è visto, continuò a trovare una pessima accoglienza al di là dell’Atlantico. Non stupisce quindi che a poche settimane dall’attacco del giornale cattolico Il Crociato-The Crusader il deputato Odo Spadazzi, si premurasse di rivolgere un’interrogazione al Presidente del Consiglio che aveva per oggetto la versione televisiva di Tombolo. Nel suo intervento del maggio 1954 Spadazzi chiedeva se non fosse «urgente e doveroso – a tutela della dignità della Nazione e degli italiani – disporre l’immediato ritiro del film in questione, anche nelle edizioni rielaborate ed accertare le responsabilità dell’ente e dei funzionari che, con colpevole leggerezza, autorizzarono l’esportazione del film, rassicurando l’opinione pubblica che non sarà ulteriormente permessa la denigrazione della Patria ad opera degli stessi italiani».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2015.




Sulle tracce della memoria

La guida pubblicata nel 2015 dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e curata dagli storici Matteo Grasso, Michela Innocenti, Chiara Martinelli e Francesca Perugi, è dedicata ai percorsi della memoria novecenteschi nella provincia di Pistoia.
Pubblicata in occasione del 70° anniversario della Liberazione, con il finanziamento della Regione Toscana, propone a turisti, scuole e appassionati alcuni itinerari da percorrere per conoscere i luoghi e le vicende della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Un grande museo all’aperto per valorizzare il territorio pistoiese con particolare attenzione al valore didattico ed educativo, oltre che utile strumento di promozione turistica del territorio. Sono presentati una serie di luoghi simbolo che fanno parte della memoria storica locale tramite un pratico volume di consultazione per cittadini, storici e studenti, utilizzabile anche come supporto per varie realtà associative, enti pubblici e uffici scolastici regionali presenti nel territorio e segnalati all’interno di ogni percorso.
La Fortezza Santa Barbara a PistoiaL’opera è suddivisa in cinque itinerari ideali, percorribili in alcuni casi a piedi, in bicicletta o con altri mezzi di trasporto, e toccano monumenti, lapidi, targhe, cippi disseminati in provincia di Pistoia. A colori, corredata di mappe e fotografie, unisce notizie sul contesto storico e naturalistico della zona.
Punto di partenza la città capoluogo, oggetto del primo itinerario, spostandosi poi verso la Montagna pistoiese (secondo itinerario), la Valdinievole, la Svizzera pesciatina e il Padule di Fucecchio (terzo e quarto itinerario), fino alla Piana pistoiese, comune di Montale e dintorni (quinto itinerario).
Nel corso degli ultimi anni, gli Istituti storici della Resistenza in Toscana hanno realizzato studi, siti web, pubblicazioni e ricerche riguardo i luoghi della memoria dall’antifascismo alla Resistenza. La guida pistoiese s’inserisce in questo percorso memorialistico e si evidenzia come strumento utile per legare storia e territorio: l’obiettivo principale è quello di avere una visione d’insieme della regione e conservarne il ricordo del passato per le future generazioni.
A tal proposito possiamo ricordare il progetto avviato dall’Istituto Storico della Resistenza di Livorno attraverso il sito “Luoghi della Memoria”: in ogni luogo è stato collocato un cartello riconoscibile per la sua grafica; a ogni cartello è collegata una sezione del sito; in ogni sezione è possibile trovare materiali aggiuntivi per approfondire i temi affrontati. Si tratta di una pratica guida per chi voglia andare a visitare fisicamente i luoghi dove sono conservate le tracce lasciate dagli uomini e dalle donne dell’antifascismo e della Resistenza. Tutti i cittadini, gli studenti e i visitatori possono lasciare i loro commenti e inviare dei materiali aggiuntivi: “Luoghi della Memoria” è un sito aperto e vivo, come aperta e viva deve rimanere la memoria dei fatti narrati.
Oltre all’Istituto livornese, anche quello lucchese ha avviato un importante percorso che potremmo definire di “memoria condivisa” con la mappatura dei luoghi più significativi in cui rimangono tracce lasciate dagli uomini e dalle donne che hanno partecipato alla Resistenza antifascista. Si tratta di un percorso multimediale: una piccola targa lasciata su questi “luoghi della memoria”, grazie a uno smartphone o a un tablet puntato su un QR Code, introduce a una pagina web con le principali informazioni e approfondimenti su quanto avvenuto in quel luogo negli anni della seconda guerra mondiale. Oppure, al contrario, partendo da un luogo indicato sulla cartina geografica scoprire la storia e la memoria celati dietro quel luogo.
Riguardo all’eccidio del Padule di Fucecchio è inoltre presente online un’utile mappa interattiva con l’indicazione di ogni luogo connesso alla strage: targhe, lapidi, cippi, giardini, parchi e musei (www.eccidiopadulefucecchio.it/mappa).

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo.
Attualmente collabora con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia sia attraverso la partecipazione a progetti sia come membro del consiglio direttivo e come membro del comitato di redazione della casa editrice.
Lavora inoltre per l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che pubblica il mensile Orizzonti. Precedentemente ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione storico-artistica di Villa La Quiete a Firenze.
Fra le pubblicazioni ricordiamo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti la resistenza europea sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Ha altresì partecipato a presentazioni di libri, tra i quali La gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi riguardanti la storia locale.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.




Agguato a Montechiaro

Il 29 luglio 1944, verso le 14.00, tre giovani partigiani erano seduti ai bordi di un campo, accanto alla Croce di Montechiaro, una località posta ai piedi della collina di Vinacciano, vicino Pistoia. Aspettavano qualcuno di loro conoscenza, ma, improvvisamente, dal boschetto posto sopra la strada, sbucò un nutrito gruppo di tedeschi. I tre furono falciati dal fuoco nazista: Marcello Capecchi, seppur ferito, riuscì a mettersi in salvo; Giuseppe Giulietti fu ferito gravemente e si trascinò fino alle case più vicine, dove venne finito a freddo dai nazisti; Silvano Fedi fu immediatamente fulminato da una raffica di mitra al petto. I primi due erano capisquadra e il terzo il comandante delle Squadre Franche Libertarie.

Nel giugno del 1944 la formazione si era dovuta occupare di una faccenda piuttosto spinosa: alcuni ladri, detti la “banda del Ponte” (riferendosi al Ponte alla Pergola, da dove veniva la maggior parte di loro), avevano compiuto dei furti nella zona di Silvano. Il 29 giugno quattro di loro furono catturati dai tedeschi e, tre, furono fucilati. Il 17 luglio Silvano li «processò». Li perdonò a patto di restituire la refurtiva e di impegnarsi nella lotta antinazifascista.

Perché parlare di questo episodio? Perché sembra strettamente correlato alla morte di Silvano. Nel dopoguerra, prima velatamente e poi sempre più esplicitamente, quelli della banda del Ponte sono stati accusati di essere i delatori che causarono la morte di Silvano: il 29 luglio Fedi li stava aspettando alla Croce perché dovevano restituire la refurtiva. Questa è sicuramente un’ipotesi plausibile, ma non è la sola e, noi crediamo, nemmeno la più probabile.

disegno silvanoIl 24 luglio Silvano aveva avuto un incontro con rappresentanti del PCI e del PdA per concordare le azioni delle bande in vista del passaggio del fronte. Già il 25 aveva iniziato a riposizionare le sue squadre e, il 29 luglio, quasi tutte erano dislocate nei dintorni di Vinacciano. Quindi, fissando «un appuntamento nei pressi di Montechiaro con diverse persone», doveva sentirsi al sicuro.

In un documento depositato presso l’ISRT si legge che tale appuntamento era «a carattere informativo», ma ci risulta difficile credere che si possa definire in tal modo l’incontro per la restituzione della refurtiva. Inoltre, da vari documenti risulta che Silvano avesse addosso le carte della formazione. Perché avrebbe dovuto portare con sé documenti così importanti e compromettenti ad un appuntamento con dei rapinatori?

È pensabile che uno dei più importanti comandanti partigiani del pistoiese, il 29 luglio, coi tedeschi in ritirata e il fronte dietro la collina, passi il pomeriggio ad aspettare che dei ladruncoli riportino su un barroccio radio, fisarmoniche e prosciutti (i soldi, quelli non spesi, li avevano in parte già restituiti)? E perché farli andare fino a Montechiaro quando la refurtiva doveva tornare nella zona dalla quale i ladruncoli provenivano?

Ma non è tutto. Se fosse stato così lampante che i responsabili della morte di Silvano e Giuseppe erano quelli della banda del Ponte, i partigiani avrebbero potuto trovarli (li conoscevano tutti molto bene) e giustiziarli, e nessuno avrebbe avuto niente da eccepire.

Invece non venne torto nemmeno un capello ai ladri. Non solo, ma almeno due di loro, che avevano militato nella formazione di Fedi prima dei furti, furono ripresi in formazione fino alla Liberazione.

A questo punto, o si immagina un gigantesco complotto per eliminare Silvano, in cui erano coinvolti i suoi stessi uomini, o l’ipotesi della delazione da parte dei ladri non regge.

Se l’incontro era veramente «a carattere informativo», dobbiamo pensare ad un confronto di natura politica o militare che presuppone la presenza di antifascisti di altro orientamento politico (che effettivamente erano presenti quel giorno nella zona) e allunga di molto la lista dei sospetti.

Allora chi furono i responsabili della delazione? Dai documenti che abbiamo trovato finora, non siamo stati in grado di stabilirlo, ma, se non altro, possiamo mettere in dubbio in maniera documentata alcune ipotesi improbabili.

 

Roberto Aiardi, nato a Pistoia nel 1945, ha lavorato prima come maestro elementare, poi al museo civico e, infine, ai servizi sociali del comune di Pistoia. Attualmente in pensione, dal 2007 si è dedicato alla ricerca storica sul periodo della Resistenza a Pistoia.

Ilic Aiardi, nato a Pistoia nel 1971, laureato in biologia, lavora come docente di scienze naturali presso il Liceo Statale «Forteguerri» di Pistoia.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Firenze, luglio ’45: il ritorno della bellezza

«Il San Giorgio di Donatello! Quale perdita più dolorosa poteva subire Firenze?», esclamò il “monument man” Frederick Hartt quando, nell’agosto del 1944, si scoprì che l’esercito tedesco, nella sua ritirata verso Nord, aveva requisito centinaia di opere d’arte custodite nelle ville toscane e provenienti dagli Uffizi, dal Bargello, da Palazzo Pitti.

Da quel momento iniziò un lavoro congiunto, almeno nelle fasi iniziali, tra Soprintendenza fiorentina e ufficiali della MFAA (Monuments Fine Art and Archives subcommission, la commissione dell’esercito alleato per la salvaguardia delle opere d’arte), per capire intanto la possibile ubicazione delle opere, in un’Italia divisa in due e con il Nord ancora molto lontano da una definitiva liberazione dalle truppe tedesche.

Foto apertura Resistere per l'arte versione_1

Luglio 1944: soldati tedeschi trasportano a Nord il dipinto di Botticelli “Pallade e il Centauro” degli Uffizi, prelevato da villa Bossi Pucci a Montagnana (Montespertoli) [Archivio Museo Casa Siviero]

Con i tedeschi in ritarata, infatti, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili non fu costituito solo dai bombardamenti alleati e dalle mine tedesche, ma anche dalle requisizioni che i nazifascisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso Nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania.

A tali ritiri, effettuati per motivi diversi (sincera protezione delle opere, tesaurizzazione di beni in vista della imminente fine della guerra, illecite sottrazioni destinate a singoli collezionisti), si aggiunsero furti di intere collezioni di famiglie ebree o “nemiche”.

Se nel senese e nel pisano si registrarono solo casi isolati di requisizioni o furti, nell’area fiorentina l’estate del 1944 fu un momento cruciale per i ritiri e le razzie di opere d’arte. Tra la fine di giugno e l’inizio del luglio 1944 dalla villa di Montagnana nel comune di Montespertoli furono sottratti centinaia di quadri della Galleria Palatina e degli Uffizi (come il Bacco di Caravaggio e Pallade e il centauro di Botticelli). A fine agosto fu la volta della villa medicea di Poggio a Caiano, dove furono prelevate in più giorni 58 casse contenenti sculture come la Venere dei Medici degli Uffizi e le più note sculture rinascimentali del Bargello, come il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelangelo.

Già dall’agosto 1944, il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi e gli uomini della MFAA lavorarono senza sosta per capire dove potevano trovarsi le opere requisite: la ricerca comportò l’indispensabile azione diplomatica dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, e le sue indagini attraverso i canali del Vaticano. Nell’autunno del 1944 iniziarono a trapelare le prime informazioni sulla possibile presenza in Alto Adige dei depositi e finalmente nel maggio 1945 furono individuati i due rifugi: si

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

trovavano oltre Bolzano, uno a San Leonardo in Passiria e l’altro a Campo Tures a Neumelans. Al castello di Neumelans a Campo Tures furono ritrovate le opere asportate da Poggio a Caiano, Poppi, Dicomano e Soci, mentre nel deposito di San Leonardo in Passiria si trovavano i dipinti prelevati a Montagnana. La resa nazista era oramai già avvenuta quando gli ufficiali tedeschi consegnarono le chiavi e gli accurati inventari dei due depositi.

La settimana dopo arrivarono a Campo Tures da Firenze anche Frederick Hartt e Filippo Rossi, direttore della Galleria degli Uffizi, non solo per accertarsi dell’effettivo ritrovamento delle opere dei musei fiorentini, ma anche per organizzare le non semplici operazioni per il “ritorno a casa” delle opere. Dopo aver scartato la possibilità di un trasporto con autocarri, fu scelta la via del treno, nella speranza di un’imminente riattivazione dei collegamenti ferroviari tra Centro e Nord Italia.

Il 10 luglio 1945 il primo ministro sudafricano Jan Smuts scoprì finalmente all’imbocco nord della Grande Galleria dell’Appennino la targa commemorativa dell’opera di ricostruzione della Direttissima fatta dagli uomini del Railway Construction Engineers. Dieci giorni dopo, un convoglio ferroviario che trasportava, come stimò Filippo Rossi, «mezzo miliardo di opere d’arte», attraversò la Direttissima. Il 20 luglio 1945 da Bolzano erano partiti tredici vagoni con all’interno, tra gli altri capolavori, anche il San Giorgio; alle due di pomeriggio del 21 luglio il convoglio giunse a Firenze, alla stazione di Campo di Marte, accolto da Giovanni Poggi.

La cerimonia di restituzione delle opere d'arte a Firenze, 22 luglio 1945

La cerimonia di restituzione delle opere d’arte a Firenze, 22 luglio 1945

Il giorno seguente, il 22 luglio 1945, fu organizzata in piazza della Signoria la solenne cerimonia di restituzione delle opere, con la Loggia dei Lanzi stipata di dignitari alleati e italiani, il generale Edgar Hume e il sindaco di Firenze Gaetano Pieraccini. Insieme a loro, oltre alla folla esultante al passaggio del convoglio, che con le grida e gli applausi copriva il suono dei trombettisti in costume, si trovavano tutti coloro che, come Ugo Procacci, avevano trascorso gli anni della guerra a tutelare il patrimonio artistico e, gli ultimi mesi, con grande fatica, a ricollocare, ricostruire, restaurare. In vista di un’imminente riapertura di tutti i musei.

Sicuramente la cerimonia del luglio 1945 rimase un evento storico, e nella nota biografica che Procacci stilò, su richiesta di Pieraccini, per motivare la cittadinanza onoraria ad Hartt, ricordò con emozione quel giorno in cui «furono fatti i festeggiamenti per la riconsegna dei grandi tesori delle nostre gallerie», il giorno in cui Hartt «diceva, commosso fino alle lacrime, che quello era uno dei momenti più belli della sua vita».

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno

Sono ormai passati 70 anni dal 25 aprile 1945: gli studi storici non hanno mai smesso di indagare le vicende della Resistenza e della società italiana in tempo di guerra, questioni fondamentali per la comprensione del nostro paese oggi. Ogni tempo pone domande differenti al passato, segno del cambiamento degli strumenti concettuali e delle sensibilità interpretative.

Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno, Ets, Pisa, 2015, pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), cerca di portare un contributo articolato e innovativo su temi poco frequentati dalla storiografia, partendo da alcune ricerche relative al territorio di Livorno. Il volume verrà presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istoreco il prossimo 21 luglio.

Lo spaesamento è la parola chiave che riunisce tutti i saggi, in primo luogo come disorientamento soggettivo, provato dalle persone a causa delle distruzioni e dei drastici cambiamenti imposti dalla guerra. Ma uno spaesamento vi fu anche in senso figurato: sia come alterazione oggettiva del paesaggio tradizionale che come negazione del concetto stesso di Paese, ormai in balia di forze militari straniere. In questa accezione Livorno rappresenta certamente un caso limite: nella seconda metà del 1943 la città venne completamente evacuata dai bombardamenti alleati e dall’esercito di occupazione nazista.

Spaesamenti_CopertinaTra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò infatti radicalmente il volto della città. Col suo porto e le sue grandi industrie, il capoluogo pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. La provincia fu così privata del capoluogo, la sua popolazione completamente rimescolata.

I saggi contenuti nel volume curati da quattro giovani storici (Stefano Gallo, Matteo Caponi, Enrico Acciai e Gianluca della Maggiore) e dal direttore Istoreco, Catia Sonetti, partono da questa riflessione per declinare domande differenti che toccano molteplici aspetti della società livornese nel corso della guerra. Il faticoso tentativo di organizzare una rete clandestina antifascista nel territorio provinciale (Gallo), la storia della deportazione di un nucleo di famiglie ebraiche rifugiate al Gabbro, nelle colline livornesi (Acciai), la ricostruzione delle giornate a ridosso del 25 luglio ’43 a Rosignano, piccola città-fabbrica della costa (Caponi), lo straordinario resoconto del vissuto quotidiano di Ivo Michelini, un internato militare in Germania (Sonetti), lo sfollamento del clero della diocesi di Livorno impegnato nella ricerca di salvezza fisica ma anche nel dare sostegno spirituale alle comunità (della Maggiore). Si tratta di lavori che pongono nuove domande alla nostra storia, proponendo altrettante piste di ricerca per la storia locale e non solo.

“A lungo – scrive Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea presso la Scuola Normale di Pisa, nell’introduzione al volume – gli studi storici sulla Resistenza nel nostro paese, a differenza di quanto al contempo accadeva in diverse storiografie europee, si sono concentrati sulla lotta armata condotta dalle bande partigiane. Negli ultimi due decenni si è però assistito ad un mutamento di indirizzo. Una crescente attenzione è stata rivolta ad indagare fenomeni che di volta in volta, a seconda degli autori, sono stati definiti con diverse categorie: “Resistenza civile”, “Resistenza passiva”, “Resistenza non armata”, “Resistenza non violenta” o più semplicemente e genericamente “lotta non armata nella Resistenza”. Un sintagma, quest’ultimo, utilizzato per sottolineare l’unità del processo resistenziale in tutte le sue dimensioni, con l’intento di evitare il ricorso a scelte linguistiche che potrebbero, anche involontariamente, introdurre elementi di divisione e di gerarchizzazione nelle varie forme dell’impegno contro la barbarie nazifascista”.

Michelini

Ivo Michelini da militare. Fonte: archivio privato famiglia Michelini.

“Senza dubbio – continua Menozzi – un contributo a questi nuovi orientamenti è venuto dal diffondersi della consapevolezza, maturata sulla base della considerazione delle tragedie che hanno percorso il Novecento, che la pratica della violenza bellica ha comportato, per il livello degli strumenti di distruzione messi in campo, drammi, orrori, distruzioni terribili. In questa chiave si è profilata la tendenza a valorizzare sul piano storico i comportamenti di coloro i quali, individualmente e collettivamente, hanno deciso di manifestare la loro intenzione di opporsi all’aggressione e all’oppressione senza ricorrere all’uso delle armi. Ovviamente la pratica di questa linea storiografica non voleva dire sminuire il significato della scelta compiuta da quanti, offrendo una testimonianza alta della loro disponibilità al sacrificio, avevano in coscienza ritenuto che non vi era altra strada per sottrarsi agli ordini delle dittature che intraprendere la lotta armata. Si trattava soltanto di indagare in maniera più estesa e diffusa la varietà di forme che aveva assunto la Resistenza per restituire, con un evidente intento pedagogico nei confronti di un presente in cui minacce di guerra si facevano di nuovo incombenti, le modalità con cui si era ritenuto di poter reagire alla violenza senza cedere ai suoi stessi metodi”.

“Il volume collettaneo che l’Istoreco ha deciso di pubblicare in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione – conclude lo storico della Normale – si inserisce perfettamente in questo nuovo filone di studi sulla Resistenza, fornendo una serie di originali apporti conoscitivi su diverse manifestazioni dell’opposizione al nazifascismo che si sono verificate nella provincia di Livorno. […] Proprio saggi come quelli qui raccolti evidenziano che le fonti disponibili possono aprire una nuova stagione di ricerche che, private delle connotazioni politico-ideologiche a lungo coltivate dalla storiografia resistenziale, assumono un particolare rilievo per il nostro presente. Mostrano infatti che la democrazia italiana non è stata costruita soltanto sulle armi degli alleati e dei partigiani, ma anche sulla base di un passaggio di larghi strati popolari dal consenso al rifiuto del totalitarismo. Un atteggiamento che si è poi declinato nella storia repubblicana, a partire dal processo costituzionale, in forme politiche diverse e molteplici, ma di cui – anche per evitare pericolosi sbandamenti che le odierne propagande politiche non ci risparmiano – gli studi storici sono chiamati a tener ben viva la memoria”.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




7 luglio 1944: le donne salvano Carrara

Il 7 luglio del 1944, nelle strade di Carrara, compare un bando di sfollamento: il comando tedesco ordina che di lì a due giorni venga evacuata la città, a esclusione delle famiglie degli operai impiegati nell’Organizzazione Todt che stanno fortificando le difese della futura Linea Gotica occidentale. Le forze di occupazione vogliono una città deserta, che non dia problemi amministrativi né di ordine. Soprattutto, vogliono fare il deserto attorno alle prime forme nascenti del movimento partigiano. Le cose, però, non andranno secondo i piani delle autorità nazifasciste: a fermarle saranno le donne di Carrara.

La città apuana, in quel momento, ospita migliaia di sfollati provenienti dai territori limitrofi: la zona costiera tra La Spezia e Marina di Massa, infatti, deve restare sotto il controllo tedesco per respingere eventuali sbarchi delle forze alleate. Alle spalle di Carrara, inoltre, il naturale catenaccio delle Alpi Apuane viene individuato come elemento strategico: una difesa naturale per stabilire l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’esercito di liberazione. Così, da settembre del ‘44 ad aprile del ‘45, il fronte si stabilirà lungo la Linea Gotica.

Nei mesi precedenti i comandi nazisti ordinano di «pulire» il territorio dalla presenza di civili, per trasformarlo in una gigantesca no man’s land che consenta alle loro truppe di muoversi liberamente, ricevere rifornimenti e approntare le difese. E’ la strategia della «terra bruciata», che oltre alle stragi porta anche una lunga serie di ordini di evacuazione: per la Provincia di Apuania si tratta di prelevare e trasferire oltre duecentomila persone verso la bassa padana; per la popolazione significa lasciare tutto ciò che non si riesce a racchiudere in un’unica valigia.

1_francesca rola coi partigiani della ulivi

Francesca Rola con i partigiani della “Ulivi”

La Resistenza apuana, in quel momento, è ancora in stato embrionale: il movimento partigiano ha messo radici dapprima nelle colline dell’alta Lunigiana, ideale rifugio per le tattiche della guerriglia; sui monti di marmo, invece, si vanno formando i primi gruppi ancora disorganizzati ma che, già il 14 luglio, riusciranno ad assaltare con successo la caserma di polizia del «Colombarotto», nel pieno centro di Carrara. Non hanno ancora, però, la forza di scendere in città, assumerne il controllo e costringere il nemico a scendere a patti, cosa che avverrà qualche mese dopo, l’11 novembre del 1944. In altri termini, in quel momento non possono essere i partigiani della formazione garibaldina «G. Ulivi» a salvare Carrara fermando il piano di evacuazione.

L’occasione, però, può essere propizia per due motivi: saggiare la forza e la capacità organizzativa del nemico, per vedere se è davvero in grado di deportare decine di migliaia di persone in un solo giorno; verificare la presa popolare del movimento resistenziale sui cittadini carraresi. Il Cln e i Gruppi di difesa della donna (Gdd) cominciano a mobilitarsi: appaiono per le strade di Carrara dei volantini che invitano gli apuani alla disobbedienza. Si attiva anche un passaparola che sfugge alle maglie della polizia fascista: «non abbandonare la città» è la parola d’ordine che corre di casa in casa. Il giorno previsto per lo sfollamento, il 9 luglio, passa senza che accada nulla e il movimento prende corpo e coraggio: all’avanguardia c’è un ristretto nucleo composto da militanti come Ilva Babboni, Francesca Rola, Sandra Gatti, Nella Bedini, Renata Bacciola, Lina Boldi, Lina Del Papa, Dorina Mazzanti, Mercede Menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi. Preparano cartelli con scritte «Noi non vogliamo sfollare» o «Non ci muoviamo dalla città»: l’obiettivo è una grande dimostrazione davanti al comando tedesco.

La mattina dell’11 luglio, un martedì, qualcosa si muove. Le militanti vanno per le vie e le case a chiamare a raccolta le donne di Carrara. Attorno alle 9.30 si ritrovano nella Piazza delle Erbe dove si tiene il mercato ortofrutticolo. Serve un gesto, qualcosa che coinvolga le altre donne che tengono le ceste del mercato, provenienti perlopiù da Massa e Montignoso, e che trasformi un piano ristretto in una manifestazione di popolo: rovesciano le ceste. Un atto spregiudicato e, al contempo, simbolico: la donna che rovescia e rovina del cibo è un attacco diretto al suo ruolo nella società di quegli anni, e il tutto avviene non nell’intimità del nucleo familiare, né tra un ristretto nucleo di avanguardiste. Il rovesciamento, non solo delle ceste ma del ruolo della donna, avviene alla luce del sole, ben visibile a tutti e ottiene lo scopo prefissato. Il corteo, ora composto da centinaia di donne e ragazzi, compie un altro passaggio cruciale: lascia lo spazio pubblico femminile per definizione, il mercato, e si dirige verso la via Garibaldi (odierna via 7 luglio) per invadere un luogo pubblico-militare esclusivamente maschile, il comando tedesco. Questo è presidiato da soldati nazisti e militi fascisti repubblicani che, immediatamente, sbarrano i due ingressi alla strada con mezzi pesanti precludendo tutte le vie di fuga. Le manifestanti, cui si mescolano partigiani in borghese con le armi nascoste sotto dei camici lunghi, urlano, cantano, si sdraiano a terra e si scagliano contro i soldati nemici che gli puntano contro le armi – tra cui due mitragliatrici – pronti a far fuoco. Alcune vengono arrestate e tradotte in caserma, ma la loro furia non si ferma e, infine, l’ordine di evacuazione viene sospeso.

S

Il murale che Carrara ha dedicato a Francesca Rola

Nei mesi successivi saranno emanati altri bandi di sfollamento in rapida successione, coi Gdd pronti a riprendere la contestazione. In ottobre saranno effettivamente evacuate Massa e Montignoso, con circa ventimila profughi che si riverseranno su Carrara, accolti in ogni spazio che la città può offrire tra cui abitazioni private, magazzini, fondi commerciali, cinema e teatri. La città apuana, però, non verrà più sfollata, consentendo al movimento partigiano di mettere salde radici e trovare sostegno nella popolazione, fino a divenire una delle forme resistenziali meglio organizzate del territorio.

La rivolta di Piazza delle Erbe rimane nella memoria come momento di emancipazione collettiva. Le donne carraresi, da quel momento, si sentono protagoniste dei destini non solo di un nucleo familiare, ma di un intero popolo. Non si tratta di «Resistenza civile» come qualcosa di diverso e complementare a quella partigiana e armata, né di allargare il concetto alla forma plurale delle «Resistenze» per comprenderne la variante di genere; si tratta, invece, dell’atto fondante della Resistenza apuana.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

pal21

Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

2luglio54

Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

2luglio14

Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.

Articolo pubblicato nel giugno 2015.