Un’ora di dolore per il proletariato pisano.

«L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del Partito socialista, nel numero del 15 aprile 1921 con un titolo a tutta pagina, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, annuncia la barbara uccisione, per mano fascista, di Carlo Salomone Cammeo, il ventiquattrenne segretario provinciale del partito.

Sulla prima pagina del periodico pisano l’apertura di questo numero è simbolicamente lasciata ad un comunicato congiunto a firma della «Federazione pisana del Partito socialista», del «Gruppo comunista», della «Camera confederale del lavoro» e della «Camera sindacale del lavoro», della «Lega proletaria reduci», dell’«Unione anarchica pisana» e della «Lega arti tessili». Fin dal primo momento non si fa di Cammeo un martire di parte socialista, ma il dolore per la sua morte è il dolore del proletariato pisano, dei lavoratori colpiti dalla violenza fascista, sotto lo sguardo compiaciuto dello stato e della borghesia pisana più reazionaria e conservatrice. Sulla prima pagina della citata edizione de «L’Ora nostra», il richiamo all’unità è di nuovo ribadito in un trafiletto a chiusura del comunicato del fronte antifascista pisano: «Questo numero è compilato da socialisti e comunisti, congiunti nel rendere al Caro Estinto il loro tributo di affetto». Sembrano di colpo allontanarsi, anche se per poche ore, le grida e il clamore delle reciproche accuse scambiate fino al giorno precedente, scontri che hanno visto l’apoteosi poche settimane prima a Livorno al 17° congresso del PSI; contrasti vissuti nelle singole sezioni del partito socialista dove si discuteva animatamente dei tempi della rivoluzione, di soviet e di «fare come in Russia» e reciprocamente si accusavano, con epiteti quali traditore e canaglia, proletari con proletari, lavoratori con lavoratori.

Questi primi mesi del 1921 sono contrassegnati da alcuni episodi regionali e nazionali che turbano l’opinione pubblica e accendono gli animi delle contrapposte forze politiche avviando l’intero paese verso una strisciante guerra civile che causerà lutti e profonde lacerazioni. A Pisa i fascisti con un concentramento di squadre proveniente da tutta la regione hanno impedito l’insediamento del nuovo consiglio provinciale eletto alle ultime elezioni amministrative di novembre. Il nuovo presidente, Ersilio Ambrogi, sindaco di Cecina, socialista rivoluzionario con precedenti libertari passato nelle file comuniste, a fine gennaio viene arrestato dopo un conflitto a fuoco con i fascisti[1]. Il 27 febbraio l’eco della morte del sindacalista e comunista, Spartaco Lavagnini, scatena la reazione delle forze di sinistra che proclamano lo sciopero generale. Nei giorni successivi in tutta la regione, oltre che nel capoluogo, si succedono scontri armati tra fascisti, forze dell’ordine e antifascisti con numerosi morti e feriti. Il primo marzo a Empoli un reparto di marinai scortati da carabinieri di transito nella città è fatto segno di numerosi colpi d’arma da fuoco da parte di militanti delle forze di sinistra e dalla popolazione che temono una nuova incursione dei fascisti. Al termine degli scontri rimarranno sul terreno 9 morti e 18 feriti. Empoli il successivo 19 marzo sarà poi devastata dai fascisti. Il 4 marzo è la volta di Siena dove i fascisti assaltano la Casa del popolo che viene conquistata e incendiata, dopo un duro conflitto armato. Il 23 marzo, infine, giunge la notizia dell’attentato dinamitardo al Teatro Diana a Milano che causa 21 morti e una ottantina di feriti. I responsabili dell’attentato, un gruppo di anarchici individualisti, saranno poi successivamente arrestati. Il fronte antifascista è sconvolto e indebolito dalle divisioni davanti ad una reazione, che si compatta dietro Mussolini e le sue squadre, pronta a legittimare ogni violenza che possa in qualunque modo impedire che l’Italia diventi «bolscevica».

Non sono parole di odio quelle che escono da «L’Ora nostra» in ricordo del proprio segretario, sono parole che invocano giustizia e pace:

Noi, lo ricordino i fascisti, non giuriamo sul corpo esangue di Carlo Cammeo, la vendetta, né la facciamo giurare ai lavoratori[2].

 Carlo Cammeo, maestro elementare, la mattina del 13 aprile viene ucciso nel cortile della scuola dove insegna, davanti agli occhi atterriti dei propri alunni, «sul limitare del tempio che è sacro anche ai delinquenti più comuni […] sul quale sono ancora impressi l’amore per il suo ministero e il sorriso dei suoi bimbi innocenti»[3].

Secondo la testimonianza di alcuni alunni, due donne, Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti, bussano al cancello della scuola chiedendo di poter parlare con il maestro Cammeo. Il custode della scuola le fa entrare e le donne vengono ricevute dal maestro proprio sulla soglia dell’aula dove sta tenendo lezione. Visto che le due fasciste si agitano ed esigono maggiore attenzione, Cammeo risponde che la scuola non è il luogo adatto per queste discussioni e, per evitare che gli alunni ascoltino questa conversazione, chiede loro di rimandare il confronto a lezione finita. Le due donne iniziano ad inveire contro il maestro e lo invitano a uscire nel giardino; una volta fuori una delle due gli consegna un foglio che, secondo la testimonianza di un alunno, Cammeo restituisce loro dicendo «Questo non è per me»[4]. In questo frangente entrano nel cortile della scuola tre uomini e uno di questi, Elio Meucci, studente universitario in Farmacia, ferisce mortalmente il maestro, con due colpi di rivoltella, mentre gli alunni assistono alla scena dalle finestre della classe. Nel fuggire lo stesso Meucci ferisce a una gamba la Lupetti, forse per errore o per simulare una colluttazione[5]; ma la tesi della morte di Cammeo durante uno scontro, inizialmente sostenuta dai fascisti, decade subito con le prime testimonianze[6].

La morte di Cammeo sconvolge la città di Pisa e l’intera provincia. Il «Sindacato Magistrale» scrive:

 Insegnanti di tutti i gradi! Nel Tempio sacro della Scuola è stata perpetrata la più nefanda violazione. Un vostro collega è stato ferocemente assassinato, mentre compiva sereno il proprio dovere di educatore[7].

La città si rende immediatamente conto del significato di questo gesto: la barbara uccisione di Carlo Cammeo, il luogo violato da questo episodio, rappresentano un passaggio irreversibile, sta succedendo qualcosa che non ha niente a che fare con le lotte politiche tra diverse fazioni, fino ad allora conosciute. «L’Ora nostra» non ha dubbi:

 L’episodio brutale e inqualificabile non ha precedenti […] Mai la vita degli uomini è stata in pericolo come ora. Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente[8].

Qual è la colpa di Carlo Cammeo? Sicuramente quella di essere socialista, di essere il segretario provinciale della federazione e principalmente di essere una brillante firma de «L’Ora nostra». Il motivo della sua condanna a morte è proprio un suo articolo pubblicato sul periodico socialista pisano del 1° aprile, con il quale Cammeo risponde alle minacce fasciste e svela la verità in merito alla morte dello squadrista Tito Menichetti, ucciso a Ponte a Moriano, pochi giorni prima, durante uno scontro tra squadristi e operai. Il 25 marzo infatti una squadraccia di fascisti pisani parte alla volta di Ponte a Moriano nella vicina provincia lucchese, l’obiettivo della spedizione è togliere dalla sede di un circolo ricreativo il simbolo dei Soviet: la falce e il martello[9]. Le camicie nere riescono nell’impresa, ma l’inatteso arrivo degli operai in paese avvisati della presenza dei fascisti scatena la fuga precipitosa di quest’ultimi; rimane inavvertitamente indietro un autocarro con a bordo una squadra che è costretta a scontrarsi con gli operai accorsi. Scoppia una furibonda rissa e rimane a terra, ferito mortalmente, il fascista pisano Menichetti[10].

I fascisti giurano vendetta e nei giorni successivi sui muri di Pisa viene affisso il seguente manifesto: «Tito Menichetti sarà vendicato senza pietà!». Un annuncio di guerra che il giovane segretario socialista, nell’articolo incriminato e che varrà la sua condanna a morte, commenta con queste parole: «Gli onesti, coloro che vedono con orrore il perpetuarsi di questa violenza fratricida, devono sentirsi l’animo pieno di ribrezzo, alla lettura dell’incosciente manifestino»[11].

Ma il fascismo pisano ha bisogno di un’altra verità e il giornale monarchico il «Il Ponte di Pisa», pubblicato in città dal 1893 e diretto da Enrico Mazzarini, si è già piegato al ruolo di bollettino dei nascenti fasci rionali pisani. Così la propaganda fascista, con l’appoggio incondizionato di un periodico già conosciuto e stimato dalla borghesia pisana, crea il proprio martire e identifica nel bolscevico il nemico dell’Italia, del benessere e della quiete pubblica. In un articolo senza firma su «Il Ponte di Pisa», attribuibile al direttore, si individuano nei socialisti i responsabili dei fatti di Ponte a Moriano e si consacra Tito Menichetti[12], a ruolo di «martire» perché «con ardore e valore aveva preso parte, giovane bello e ardito, alla santa guerra di liberazione […] ucciso […] dopo una non sanguinosa dimostrazione fascista, quando egli se ne stava seduto in quiete ad aspettare che l’automobile fosse rimessa sulla strada del ritorno»[13]. I funerali di Menichetti sono una manifestazione fascista cui si associano le principali forze politiche moderate e conservatrici locali, ne riporta minuziosa cronaca «L’Intrepido», il settimanale dei fasci di combattimento di Lucca e Pisa[14]. Una cerimonia che – grazie alla partecipazione ufficiale delle autorità nella figura del Sindaco Francesco Pardi del PLI[15], della Giunta, del senatore liberale David Supino, del Presidente della Cassa di Risparmio Giovanni D’Achiardi poi Podestà di Pisa e delle rappresentanze dell’esercito – accredita ufficialmente il fascismo locale a difensore dell’ordine costituito e Menichetti viene proclamato «martire» della «nuova crociata» contro il «bolscevismo dilagante». La cerimonia religiosa si svolge nella chiesa di San Frediano, mentre il clero assolve la salma, Bruno Santini, ex ardito di guerra e capo del fascismo pisano, incita i camerati alla vendetta[16]. Sul pennone del Ponte di mezzo sventola la bandiera a mezz’asta. Il corteo funebre attraversa il centro di Pisa, percorre i luoghi che hanno visto, negli anni precedenti, sfilare le manifestazione del movimento operaio e dei partiti sovversivi locali. La salma è preceduta da un plotone di Carabinieri e dai militari del Reggimento Artiglieria, al seguito le autorità cittadine e la scorta delle Guardie regie. Un’immagine, un evento che comunica alla città, senza ombra di equivoco, la scelta di campo delle istituzioni locali.

Il fascismo assurge così, anche grazie a questi rituali di massa che si replicano in ogni città, a  argine, in questo momento di crisi economica e politica, alle forze «bolsceviche e antinazional. Va ricordato che sotto questa etichetta venivano all’epoca classificati non solo i comunisti ma anche i socialisti, gli anarchici e i sovversivi in genere. In queste giornate lo squadrismo, col consenso degli apparati statali, fa della violenza armata lo strumento che cambia sostanzialmente il confronto politico e l’elemento che, di conseguenza, scatena la «guerra civile»[17].

Non c’è quindi più tempo, i fascisti lo hanno giurato e la stampa borghese pisana, voce di una classe che finanzia e copre la violenza fascista, è pronta a giustificare, pur armata di perbenismo, qualsiasi gesto.

Così la vendetta fascista, il 13 aprile, si scaglia contro il maestro Carlo Cammeo, segretario federale del partito socialista principale forza politica del movimento operaio pisano[18].

I funerali laici di Carlo Cammeo sono imponenti, assenti le autorità locali, una straordinaria manifestazione popolare attraversa la città e al termine si svolge un grande comizio, in Piazza del Duomo, dove prendono la parola, tra gli altri, il segretario della Camera del lavoro confederale Giuseppe Mingrino[19], poi tra i fondatori degli Arditi del popolo; il socialista Amulio Stizzi[20]; il repubblicano Italo Bargagna[21], poi uno dei punti di riferimento dell’antifascismo pisano e primo sindaco comunista della Pisa liberata e l’anarchico Gusmano Mariani[22] che anni dopo porterà il suo contributo alla lotta antifascista combattendo in Spagna nella formazione guidata da Carlo Rosselli.

«Il Ponte di Pisa» dà notizia dell’uccisione di Carlo Cammeo, in un piccolo trafiletto, con queste poche parole

 scriviamo del doloroso episodio pisano, così vivacemente sanguigno, che ci ricorda il ferimento di una signorina, la figlia del nostro amico colonnello Lupetti, e la morte di un giornalista, maestro delle nostre Scuole elementari[23].

 Il giornale pisano chiude la piccola nota editoriale appellandosi al più ambiguo perbenismo, con l’augurio che «sui livori […] ritornino a prendere il sopravvento l’amore e la pace». Nello stesso numero l’attenzione della redazione del giornale è invece concentrata sull’inaugurazione dei nuovi edifici della Clinica Medica diretta dal professore Giovan Battista Queirolo e la notizia dell’uccisione di Cammeo occupa più o meno le stesse battiture dell’articolo che ricorda la concessione della medaglia d’oro ad un calzaturificio pisano. Sulla medesima edizione, identico spazio viene dedicato a un’altra notizia che infastidisce la borghesia pisana: a Vecchiano, l’assessore comunista Pirro Pardi, falegname di professione, celebra i matrimoni civili senza indossare la fascia tricolore «come se fosse in Russia»[24]. Naturalmente nessun cenno ai funerali di Cammeo e alla manifestazione di protesta che ha coinvolto la città.

«L’Ora nostra», che nel periodo ’20-’21 raggiunge le 5000 copie, termina le sue pubblicazioni con il numero del 22 agosto 1922 – sconfitta dalle numerose violenze contro la sede del giornale, contro i suoi redattori e la tipografia che lo stampa – pur avvertendo i fascisti, nell’ultimo editoriale a firma del Direttore, che «L’Ora nostra non è morta, vigila, attenta alla sua missione elevatrice e purificatrice. La voce potente e gagliarda del proletariato pisano non è soffocata, né affievolita»[25].

«Il Ponte di Pisa» invece chiude le sue edizioni con il numero del 22 novembre 1934, alla morte di Enrico Mazzarini che ne è stato direttore ed anima per tutta la durata delle pubblicazioni, per oltre quarant’anni. L’ultimo numero, che annuncia la scomparsa del direttore, si apre con il telegramma del potente gerarca pisano Buffarini Guidi, all’epoca Sottosegretario agli Interni, indirizzato al suo camerata Alvaro Pinelli, «Morte Enrico Mazzarini mi ha molto rattristato. Porgo condoglianze e pregoti rappresentarmi ai funerali. Buffarini».

 

NOTE:
[1]La rimozione di Ambrogi dovuta all’arresto per i «fatti di Cecina» vedrà ancora per circa un anno un socialista alla guida dell’amministrazione provinciale, Guelfo Guelfi. Eletto nella sessione ordinaria dell’8 agosto 1921 Guelfi fu costretto alle dimissioni insieme a tutti i rappresentanti socialisti nell’agosto successivo a causa delle intimidazioni fisiche che impedirono in più d’un occasione di riunire il consiglio provinciale. Guelfi fu sostituito dal deputato Arnaldo Dello Sbarba e subito dopo da Annibale Tesserini che rimase in carica fino alle elezioni del febbraio 1923 quando venne eletto l’avvocato Filippo Morghen, da pochi mesi segretario federale del Partito fascista e leader di una coalizione che teneva insieme liberali, cattolici e fascisti. Cfr. A. Polsi, Il profilo istituzionale (1865-1944) in La provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 141-149.
[2]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[3]Ibidem.
[4]Di questo particolare si trova traccia nella testimonianza di un alunno riportata nell’articolo Cronaca del fatto doloroso, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921. Nella stampa e nelle pubblicazioni successive relative all’episodio non si ritrova menzione e tanto meno notizie sull’oggetto della comunicazione consegnata dalle donne a Cammeo e da lui rifiutata. Le due donne non sono figure “anonime”: la Lupetti (che, per i suoi meriti, pochi mesi dopo sarà nominata segretaria del fascio femminile) è figlia del comandante del presidio militare; Mary Rosselli-Nissim è una signora già in là con gli anni, erede di una famiglia di sentimenti patriottici, il padre Pellegrino Rossi, mazziniano, e la madre, Janet Nathan, avevano ospitato nella propria casa Giuseppe Mazzini negli ultimi anni della sua vita.
[5]Cfr. G. Ciucci, La nostra inchiesta sull’uccisione di Carlo Cammeo, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921 dove si riporta la testimonianza di un alunno: «Dopo ammazzato il maestro, quello che gli aveva tirato si è avvicinato a una signorina ed ha sparato sulla gamba che questi gli offriva».
[6]Anche il quotidiano cattolico «Il Messaggero Toscano» fa decadere fin dal giorno successivo l’ipotesi dello scontro: «noi riferiamo i fatti serenamente, secondo la sola versione che ci risultava attendibile, perché confortata da una testimonianza diretta e confermata da alcune circostanze indubbiamente rilevanti in Dopo la tragedia di Porta Nuova. Quel che dice il maestro Ciucci», «Il Messaggero Toscano», 14 aprile 1921
[7]L’angoscia del proletariato, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921
[8]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[9]Sui modus operandi delle squadre fasciste cfr. M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003 e, sulle relative azioni in Toscana, cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980.
[10]Tito Menichetti diventa il primo martire del fascismo pisano, a lui verrà intestato un Fascio rionale, gli sarà riconosciuta nel 1927 la laurea ad honorem ed eretto, a Marina di Pisa, un monumento in suo ricordo. Il suo nome varcherà le soglie della nazione tanto che a lui sarà intestato il fascio di combattimento di Ginevra.
[11]C. Cammeo, Incoscienza, «L’Ora nostra» 1° aprile 1921. L’altro articolo che scatena la violenza fascista contro Cammeo è Le Valkirie, «L’Ora nostra» 8 aprile 1921 a firma «Libicus» nel quale Cammeo ironizza sulla partecipazione di alcune donne ad una manifestazione fascista.
[12]Chi ha provocato? «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[13]M. Razzi, In memoria del martire, «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[14]L’edizione de «L’Intrepido» del 3 aprile 1921 titola a tutta pagina: Lucca e Pisa affratellate nel dolore tributano solenni onoranze alla salma del fascista TITO MENICHETTI assassinato a Ponte a Moriano. Nello stesso numero si ritrovano continui richiami al sacrificio dei martiri fascisti caduti nelle varie città toscane, come Ugo Botti a Livorno, e, nella pagina dedicata alla cerimonia pisana, il comunicato del «Fascio Femminile di Pisa» prende inizio con parole evocative: «Italiani, si muore per voi!».
[15]Le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 consegnano la città di Pisa al «Fascio liberale democratico» che controlla la maggioranza del consiglio comunale con 48 seggi: 20 liberali, 5 democratici nazionali, 4 pensionati, 7 combattenti e 12 fra radicali, socialriformisti e democratici indipendenti.
[16]Scrive Bruno Santini nell’articolo: «Nella Camera Mortuaria, pubblicato su «L’Intrepido» 3 aprile 1921: Chi sente il cuore non fermo […] esca dalle fila. Chi dubita, chi teme […] esca dalle fila. Coloro che sentiranno di poter restare continueranno il loro cammino […] più forte e più feroci. Si più feroci. E rivolgendosi agli avversari: Guai a loro il giorno che prendessimo la dolorosa decisione di contraccambiarli con la stessa insidia, perché sapremmo sorpassarli anche nella vigliaccheria e nella ferocia».
[17]Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009.
[18]In questi anni Carlo Cammeo è anche protagonista di varie vertenze che riguardano il mondo della scuola.
[19]Sulla figura di Giuseppe Mingrino cfr. E. Francescangeli, Arditi del Popolo. Argo secondari e la prima organizzazione antifascista, Roma, Odradek, 2000. V. anche M. Rossi, Arditi, non gendarmi! Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922), Pisa, BFS, 20112 e il fascicolo personale in Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 3301.
[20]Già segretario della Camera confederale del Lavoro prima di Guseppe Mingrino.
[21]Sulla figura di Italo Bargagna cfr. Ricordo di Italo Bargagna e del 50° anniversario della liberazione di Pisa. Pubblicato dal Comune di Pisa nel settembre 1996 e Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 340.
[22]Cfr. F. Bertolucci, Mariani Gusmano, in Dizionario biografico degli anarchici Italiani, t. 2, Pisa, BFS, Pisa, 2004 pp. 93-94.
[23]Ritorniamo all’amore e alla pace, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[24]Su e giù per la provincia, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[25]«L’Ora nostra» dirada le sue pubblicazioni, «L’Ora nostra» 22 agosto 1922.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




“In clandestinità”

Abboccamenti e contatti alla ricerca di nuove adesioni, riunioni in luoghi appartati (una taverna, una bottega, un casolare, il folto di un bosco) per discutere la mutevole linea politica (l’unità d’azione, la bolscevizzazione, le tesi di Bordiga e quelle di Gramsci, il socialfascismo, i fronti popolari) modellate, volta a volta, secondo i dettami della Terza Internazionale. E contemporaneamente le scritte sui muri, il lancio di fogli ciclostilati per le strade di campagna e nei paesi, la diffusione dell’Unità e di altra stampa clandestina, la raccolta di soldi per aiutare i compagni carcerati, le fughe all’estero, gli arresti, gli interrogatori, gli anni di prigione e di confino, le amnistie seguite da nuove incarcerazioni.

In questa sequenza si può riassumere, non diversamente dal resto della Toscana e dell’Italia, la vicenda dei militanti comunisti senesi nel lungo periodo della clandestinità sotto il regime fascista. Una clandestinità iniziata precocemente poiché ben prima della legislazione eccezionale dell’autunno del 1926, l’azione combinata delle squadre fasciste e degli organi di polizia avevano messo di fatto oltre i margini della legge un’organizzazione che contava solo alcune centinaia di iscritti (la scissione di Livorno era stata nel Senese fortemente minoritaria), ma possedeva sul territorio una diffusione capillare che era ulteriormente cresciuta nel 1924, anno dell’adesione al PCd’I dei socialisti terzointernazionalisti di Giacinto Menotti Serrati, capeggiati, a livello locale, da Ricciardo Bonelli segretario della Federterra, il sindacato dei lavoratori agricoli che rappresentavano la grande maggioranza della forza lavoro della provincia. In quell’anno si contavano, infatti, una trentina di sezioni, dalla Val d’Elsa alla Val di Chiana, dal Monte Amiata al Chianti, dalla Val d’Orcia alla Val di Merse, insediate sia in alcuni dei centri maggiori, sia ancor più nelle frazioni rurali come S. Andrea a Montecchio e Rosia, Scorgiano e Gracciano, Ville di Corsano e Bettolle.

Due episodi possono essere portati ad esemplificazione di quanto appena detto. Un candidato nella lista di Unità Proletaria (comunisti e terzointernazionalisti) alle elezioni politiche del 1924 fu proprio il Bonelli. Tradito da un infiltrato, una settimana prima del voto era finito agli arresti perché in casa sua e nell’ufficio del suo negozio (faceva il fruttivendolo) la polizia aveva rinvenuto e sequestrato una grande quantità di opuscoli e giornali sovversivi, ovvero nient’altro che gli strumenti della campagna elettorale. Di sicuro Bonelli non sarebbe stato eletto (Unità Proletaria raccolse il 3,6% dei voti), ma la traduzione in carcere l’aveva comunque tolto di mezzo nell’ultimo scorcio di competizione. Di nuovo arrestato l’anno successivo, fu costretto ad andarsene da Siena insieme a suo fratello Gino che era segretario provinciale. In conseguenza di ciò, come annotava un rapporto interno al partito, l’organizzazione si era ridotta “al lumicino” poiché Gino Bonelli, «ripetendo quanto si è verificato in altre province d’Italia, colpite dalla reazione, non aveva comunicato agli altri compagni del centro federale gli indirizzi ed i nominativi ai quali ci si doveva rivolgere per mantenere i collegamenti» ed aveva costretto il nuovo segretario, Vittorio Bardini, a un complicato lavoro di ricucitura dei rapporti politici e organizzativi fra le diffidenze di quanti, una volta contattati, rispondevano che riconoscevano solo Bonelli e che avrebbero atteso da lui di sapere se altri erano effettivamente autorizzati a parlare a nome della federazione.

L’altro episodio riguarda Fosco Mazzoncini delegato senese al congresso nazionale di Lione del gennaio 1926. Il congresso provinciale, in forma molto ridotta (solo cinque le sezioni rappresentate, Siena, S. Andrea a Montecchio, Coroncina, Murlo, Gracciano, per un totale di 58 delegati) si era svolto in piena segretezza all’interno di una trattoria di Siena. Ma la federazione senese, nonostante le precauzioni adottate, mancò l’appuntamento con la storia del partito che segnò, secondo la storiografia ufficiale comunista, il momento decisivo del completamento del lungo e travagliato processo di formazione del PCd’I, poiché Mazzoncini, munito di passaporto falso, fu individuato ed arrestato alla frontiera di Domodossola.

Agli inizi del 1927, ormai sotto la dittatura conclamata, gli arresti colpirono una trentina di lavoratori, in prevalenza mezzadri, della zona compresa fra Sinalunga, Bettole, Guazzino, Foiano della Chiana, tutti accusati di complotto comunista, anche se probabilmente solo alcuni erano iscritti al partito e gli altri pagavano la colpa di essere stati fra i protagonisti delle vertenze sindacali per la riforma del patto colonico nel periodo 1919-1921.

All’inizio degli anni Trenta, Siena, con solo due sezioni (una in città e l’altra nella frazione di S. Andrea a Montecchio), non fu più in grado di ospitare la federazione che venne spostata a Poggibonsi, dove era già stata nel 1921 e dove i contatti con la Val d’Elsa fiorentina e con Empoli in particolare offrivano l’opportunità di un lavoro politico più intenso.

E proprio in sintonia con i militanti empolesi fu organizzata una delle azioni di propaganda più clamorose. Il 28 aprile 1930 due auto partirono contemporaneamente una da Empoli verso Colle Val d’Elsa e una da Poggibonsi verso Siena, gettando volantini che inneggiavano alla festa del 1° Maggio. I fascisti si lanciarono all’inseguimento di quella che ritenevano essere una sola auto (di colore rosso sostenevano) che appariva in contemporanea in luoghi diversi e distanti. Non riuscirono nel loro intento. In compenso nell’eccitazione e nella confusione della ricerca riuscirono a uccidere un giovane aderente al fascio poggibonsese.

Il partito a Poggibonsi era costituito dal comitato federale, dal comitato di settore a cui era affidato il compito di organizzare i corrieri verso Siena e Empoli, dalle cellule alle quali toccava la propaganda fra i lavoratori, contattandoli se necessario fin dentro il sindacato fascista. Esisteva inoltre la struttura del Soccorso Rosso che raccoglieva fondi talvolta addirittura alla luce del sole, come  nel caso di Azelio Lami che approfittava del suo lavoro stagionale di venditore di caldarroste per farsi dare qualche lira da destinare alle famiglie di chi era in prigione o al confino. Si pensò anche alla pubblicazione di un giornale che in effetti sarebbe uscito con il titolo “La Scintilla”.

Alcuni arresti nel 1932 (che si estesero anche a Siena), se ebbero l’effetto di eliminare dei  militanti e di spingerne altri verso l’emigrazione (dalla metà degli anni ’20 al 1943 i senesi sorvegliati all’estero furono 218, dei quali 113 comunisti, 53 socialisti, 24 anarchici, 28 antifascisti), non distrussero la rete che poté beneficiare di alcuni ritorni in seguito all’amnistia del 1933.

Una vera e propria catastrofe si verificò invece nel 1934, sia per la clamorosa violazione delle norme di sicurezza (due incontri campestri nel 1933, con bevute e canti, in occasione del 1° maggio e dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre), sia per la scarsa resistenza agli interrogatori (e alle percosse) da parte di alcuni degli arrestati. L’organizzazione comunista sembrò cancellata non solo nella Val d’Elsa, ma in tutta la provincia.

Eppure, in modo largamente spontaneo e senza collegamenti, un nuovo gruppo sarebbe nato, fra il 1935 e il 1937, ad Abbadia S. Salvatore. Così ne raccontò la genesi Fortunato Avanzati: «Le adunate oceaniche […] avevano diffuso l’illusione che il fascismo fosse ormai imbattibile […]. Ma vi fu anche chi […] capiva che le cose stavano diversamente […]. Appunto questa riflessione stimolò me ed altri giovani badenghi a muoverci, dapprima ognuno per proprio conto […]. Poiché ognuno di noi era legato ad altri giovani nacquero nuove amicizie e, da qui un’ulteriore circolazione di idee. Ci lambiccavamo il cervello su che fare, commettendo ingenui errori come quello di ostentare il nostro antifascismo […]. Coltivavamo sempre qualche speranza di stabilire qualche contatto con l’organizzazione clandestina del partito comunista che ci avrebbe permesso di raggiungere la Spagna repubblicana».

Anche a Poggibonsi, nel 1941, ormai in piena guerra, sarebbero tornati ad incontrarsi alcuni oppositori del regime per ascoltare Radio Londra e Radio Mosca, scambiarsi informazioni e libri auspicando, secondo quanto riferiva un rapporto di polizia, la vittoria sovietica che avrebbe portato al trionfo della rivoluzione bolscevica in tutto il mondo.

Erano i segni di clandestinità rinascenti in un contesto diverso (quello delle guerre del fascismo) che da lì a due anni sarebbero state una delle molteplici radici della Resistenza.

 

Fonti d’archivio
Asmos, Casellario politico centrale, fascicoli di: Aiazzi Gino, Bonelli Gino, Bonelli Ricciardo, Borghi Pietro, Frilli Gastone, Rocchi Otello.
Archivio di Stato di Siena, Questura di Siena – III versamento, Bardini Vittorio.
Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Fondo dell’Istituto Gramsci, b. 457 e b. 1304.

Bibliografia
Avanzati Fortunato, Fatti e gente dell’Amiata, La Pietra, Milano 1989.
Bardini Vittorio, Vita di un comunista, Guaraldi, Firenze 1977.
Burresi Francesco-Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla Liberazione, Poggibonsi 209.
Detti Tommaso, La frazione terzointernazionalista e la formazione del Pci, in “Movimento operaio e socialista”, n. 4, ottobre-dicembre 1972.
Orlandini Andrea, L’antifascismo a Siena: le schede del Casellario Politico Centrale, in “Maitardi”, n. 3, 2011.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

4

5Cattura

6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

11

12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

15

16

18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

l’unità 08.06.1946

19

20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




“Comunisti d’acciaio”

Giovani e giovanissimi, di un’età compresa fra i 18 e 25 anni, a formare una serie di nuclei in alcune località del territorio provinciale, soprattutto laddove più forte era il tradizionale insediamento socialista. Un unico punto di riferimento nazionale in Amedeo Bordiga (di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, nel Senese nessuno aveva sentito parlare, o quasi). Forti motivazioni ideologiche per separarsi dal Psi. Una fede altrettanto robusta nella rivoluzione proletaria sul modello leninista. Una sostanziale incomprensione e sottovalutazione del fascismo montante, nonostante le evidenze della sua aggressività pagata spesso sulle proprie ossa. Infine, una presa elettorale minoritaria, ma non irrilevante (2.072 voti provinciali alle politiche del 1921, pari al 3,7%; percentuale confermata tre anni dopo alle politiche del 1924). Sono questi alcuni dei tratti del PCd’I della provincia di Siena ai suoi albori.
Fra le biografie dei primi iscritti, tratteggiamo di seguito quelle di Vittorio Bardini, Giovanni Guastalli e Pietro Borghi, nelle quali l’impegno politico attraverso i decenni della dittatura, fino alla Resistenza, lascia intuire l’importanza della fase fondativa del partito sulla formazione di uomini che, con una retorica riecheggiante il nome di Stalin, ma non priva di agganci alla realtà, sarebbero stati definiti “comunisti di acciaio”.
Vittorio Bardini era nato a Sovicille nel 1903. Figlio di muratore e muratore lui stesso, aderì alla gioventù socialista su posizioni massimaliste, passò al PCd’I subito dopo Livorno e divenne segretario provinciale dei giovani comunisti. Presente fra i 67 difensori della Casa del Popolo di Siena dall’assalto fascista avvenuto nel marzo 1921 con il sostegno delle forze di polizia, subì altre aggressioni squadriste. Nel 1927, dopo le leggi eccezionali, venne arrestato per ricostituzione del Partito comunista. Inviato al Tribunale speciale, ebbe una condanna a otto anni di carcere. Dopo essere uscito di galera espatriò clandestinamente in Unione Sovietica, frequentò la scuola di partito, partì per combattere in Spagna nelle brigate internazionali. Dopo aver lasciato la Spagna ormai franchista, trascorse un periodo nei campi di concentramento frances. In seguito alla sconfitta della Francia da parte dei tedeschi e alla nascita del regime fantoccio di Vichy, fu riconsegnato alle autorità italiane finendo di nuovo in carcere e al confino. Tornato libero dopo il 25 luglio 1943, dall’8 settembre si dedicò al lavoro organizzativo nella lotta contro il nazifascismo, a Siena e a Milano. Seguirono la cattura, la deportazione a Mauthausen, la sopravvivenza al campo di prigionia, il ritorno e, nel 1946, l’elezione nelle liste del Partito comunista all’Assemblea Costituente.
Anche Giovanni Guastalli era del 1903, nato a S. Lorenzo a Merse (comune di Monticiano), licenza di terza elementare, mestiere boscaiolo. Nell’ottobre 1921, da segretario giovanile della sezione del PCd’I, partecipò insieme al padre ad una manifestazione di protesta di fronte alla caserma dei carabinieri che avevano arrestato alcuni lavoratori, finendo agli arresti lui stesso. Nel 1924 espatriò in Francia unendosi a quel flusso di emigrazione che era insieme economica (la speranza di occasioni di lavoro e remunerazioni migliori) e politica (sfuggire allo squadrismo). Nella zona di Draguignan, dipartimento del Var, riprese a tagliare alberi e proseguì nel suo impegno politico e sindacale. Inviato dal partito in Italia nel 1933 per svolgere attività clandestina, fu individuato a Modena, deferito al Tribunale speciale, assolto per insufficienza di prove, scarcerato e spedito in soggiorno obbligatorio al suo paese natale, poi condannato a tre anni di confino nell’isola di Ponza.
La sua scheda biografica, redatta dalla polizia, ne descrive il comportamento: «25 febbraio 1935, denunciato per aver preso parte ad una protesta e condannato a dieci mesi di arresto; 12 marzo 1937, dimesso dal carcere viene reintrodotto nella colonia di Ponza; […] 23 giugno 1938, con disposizione ministeriale […] viene trasferito da Ponza a Tremiti; 21 luglio 1938, il consiglio di disciplina della coloniale lo punisce con 20 giorni di divieto di libera uscita per essersi rifiutato di salutare romanamente; 4 luglio 1938, 30 giorni di divieto per lo stesso motivo; 4 agosto 1938, il Ministero […] aggiunge anche due mesi di detenzione alla pena del 4 luglio; 19 dicembre 1938, ritradotto a Tremiti […]; 21 dicembre 1938, ritradotto carceri Foggia, in attesa punizione, essendosi nuovamente rifiutato di ottemperare all’obbligo del saluto romano; 31 dicembre 1938, l’On. Ministero […] autorizza infliggergli un altro mese di detenzione e lo trasferisce a Ventotene».
Infine Guastalli, senza mai aver alzato il braccio con la mano tesa venne rimandato a casa. Durante il periodo resistenziale divenne commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini.
Pietro Borghi era nato a Poggibonsi nel 1898, di mestiere falegname. La data di nascita gli aveva garantito il “privilegio” di partire soldato nella Grande Guerra. Essendo iscritto a Psi dall’età di 18 anni fu uno dei tanti socialisti a vivere la contraddizione fra il rifiuto politico e morale del conflitto e l’onorevole partecipazione ad esso sancita dalla Croce al merito. Nel 1921 passò al PCd’I e ne condivise le fasi organizzative fra Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, le due località che per un certo periodo ospitarono la sede della Federazione provinciale. Con la legislazione eccezionale passò all’attività clandestina fino al 1932, quando l’organizzazione comunista poggibonsese di cui faceva parte venne individuata. Borghi fu arrestato insieme ad altri suoi compagni, ma eludendo la sorveglianza, riuscì a scappare dalla caserma dei carabinieri dove era stato portato. La fuga lo condusse in Francia, ad Antibes e a Tolone, a svolgere azione politica e sindacale nell’emigrazione antifascista e in collaborazione con i comunisti francesi, poi in Spagna dove, come mitragliere antiaereo, si guadagnò una decorazione e il grado di tenente.
La Prefettura di Siena così ne delineava il profilo nel 1937: “Non ha desistito giammai dallo esternare i suoi inveterati sentimenti di inconciliabile odio verso il fascismo e il suo Capo del quale […] non ha esitato spesso, nelle lettere alla moglie, a preconizzare la morte. […] Tali suoi sentimenti hanno di recente avuto piena rispondenza nel gesto da lui compiuto arruolandosi nelle file rosse, il che rivela in lui maggiori sintomi di pericolosità […] esasperata anche dalla forzata lontananza dalla moglie e dal figlio per i quali nutre grande affetto e sa privi di aiuti”.
Tornato in Francia dopo la vittoria dei fascisti spagnoli, Borghi transitò in vari campi di prigionia per essere infine estradato in Italia e confinato a Ventotene. Rientrato a Poggibonsi nell’agosto 1943, divenne uno degli organizzatori del Cln della sua città e dei Gap Val d’Elsa.

BIBLIOGRAFIA

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze, Guaraldi 1977

Guastalli Giovanni, Il boscaiolo, Mulano, La Pietra 1979

Burresi Francesco, Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019

Archivio di Stato di Siena, Questura, cat. A8, b. 93, f. Giovanni Guastalli

Archivio Isrsec, Fascicoli del Casellario politico centrale, Pietro Borghi