La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




L’eccidio del Padule di Fucecchio

Il 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese, la più colpita con 84 residenti uccisi), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).

Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.

Casotto dei Criachi - LarcianoIn quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.

In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità – almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi -, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofe al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi cercavano di proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.

L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.

Monumento Giardino della Meditazione Stabbia - Cerreto GuidiL’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani. Non furono risparmiati bambini, vecchi, donne ma, nonostante le atrocità commesse, furono numerose le persone che riuscirono a salvarsi. Ci fu chi si nascose al centro del Padule, soprattutto gli uomini adulti che avevano paura di un rastrellamento, chi non fu colpito dai proiettili, chi non fu visto in mezzo ai campi, chi fu ferito e curato dai medici o dall’ospedale, chi fu scelto per portare le munizioni e poi lasciato libero.

Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.

Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani: fascisti locali e toscani furono riconosciuti nelle varie località dagli inermi superstiti.

Le vittime vennero trasportate con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in fosse comuni.

Monumento in ricordo delle vittime a LarcianoLa sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese sia a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”, nonostante avessero ucciso quasi esclusivamente civili.

L’eccidio del Padule di Fucecchio fu uno dei casi a livello nazionale in cui si cercò di rendere giustizia ai caduti, attraverso processi che coinvolsero i presunti colpevoli. A Venezia Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi all’ergastolo e infine graziato; Crasemann a Padova prese 12 anni di reclusione mentre Strauch a Firenze 6 anni di carcere: tutti i condannati furono liberati dopo pochi anni e nessuno scontò pienamente la propria pena. Durante il recente processo di Roma sono stati condannati all’ergastolo il capitano Ernst Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss, mentre il tenente Gherard Deissmann, anch’esso imputato, è morto a cent’anni nel corso del processo.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendone il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.




Socialproletari a Prato

In occasione dell’uscita del volume di Alessandro Affortunati intitolato Tra potere e contropotere. Appunti per una storia del PSIUP a Prato, 1964-1972 (Prato, Pentalinea, 2021) abbiamo rivolto alcune domande all’autore. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Il PSIUP nasce in conseguenza del varo del centrosinistra organico nel 1964 (a livello locale i primi segnali di insofferenza interna al PSI si erano manifestati in occasione delle “giunte difficili”, dopo le amministrative del 1960, a Firenze e, più vicino a noi, a Carmignano). Parlaci della genesi del nuovo partito.

 All’interno del PSI esisteva una componente di sinistra, molto variegata, che aveva accettato con qualche perplessità la svolta di centrosinistra. Quando il PSI passò dall’appoggio esterno alla partecipazione diretta al governo (dicembre 1963), questa componente si oppose nettamente all’operazione, rifiutò di votare la fiducia e diede vita al PSIUP (gennaio 1964). La sinistra riteneva infatti che l’ingresso dei socialisti nel governo avrebbe avuto come unico risultato la rottura a sinistra fra PSI e PCI e l’integrazione del Partito socialista nel sistema politico esistente, senza che fosse possibile ottenere nulla di significativo sul terreno delle riforme di struttura (e, considerati gli sviluppi politici successivi, non si può dire che questa analisi fosse priva di fondamento).

Tu hai intitolato il tuo libro Tra potere e contropotere. Perché?

 Il titolo allude alla contraddizione (rimasta sostanzialmente irrisolta) in cui il PSIUP venne a trovarsi nelle realtà locali dove aveva responsabilità di governo, diviso com’era fra la gestione del quotidiano, che imponeva di misurarsi con problemi concreti (e talora prosaici) e l’aspirazione a dar vita ad una democrazia di base fondata su gruppi che intendevano opporsi al potere costituito (basti pensare alla concezione psiuppina dei consigli di quartiere, di cui si chiedeva l’elezione diretta, oppure all’ambizione di costruire il contropotere operaio nelle fabbriche). L’idea di contropotere (fatta risalire all’esperienza della Comune parigina) è stata, secondo me, l’elemento qualificante della proposta politica del PSIUP.

Quali furono a Prato le reazioni degli altri partiti alla comparsa del nuovo soggetto politico?

 Le reazioni da parte della DC, del PSDI e, naturalmente, del PSI furono negative (all’interno del PSI, in particolare, i lombardiani – che, dopo la scissione, erano rimasti soli a rappresentare la sinistra – temevano uno scivolamento del PSI su posizioni socialdemocratiche). Quanto al PCI, Mauro Giovannini, segretario della Federazione comunista, definì “dannosa” la scissione (c’era il rischio che il PSIUP erodesse in parte il consenso elettorale del PCI, sottraendogli voti a sinistra), ma poco dopo un documento della Federazione stessa corresse il tiro, sostenendo che fra PSIUP e PCI non poteva che nascere un rapporto di solidarietà.

Come si mosse il Psiup verso gli alleati?

 La politica proposta dal PSIUP era basata sul principio dell’unità di classe e quindi metteva al primo posto l’alleanza col Partito comunista ed anche con il PSI, se disponibile. Continua fu comunque la polemica verso quest’ultimo, accusato di avere rotto l’unità delle forze del lavoro e di essere passato nello schieramento avversario. A livello locale il PSIUP governò con socialisti e comunisti (Piero Spagna, suo primo rappresentante in consiglio comunale, fu eletto anche vicesindaco).

Quali erano le istanze del partito e i punti programmatici a livello locale?

 Il PSIUP elaborò nel 1966 un documento in cui si parlava dei problemi concreti della città: va sottolineato che i socialproletari avevano una loro visione dello sviluppo di Prato che non coincideva con quella dei comunisti. I socialproletari chiedevano, fra l’altro, una programmazione pluriennale in campo economico, sul modello di Bologna, per evitare una nuova crisi del tessile e difendere i livelli occupazionali, una rapida realizzazione del piano regolatore, che non doveva avere riguardi nei confronti degli interessi dei tanti centri di potere, un potenziamento dei trasporti urbani ed extraurbani fondato sulla municipalizzazione della CAP, la società più importante nel settore del trasporto pubblico locale. Molto interessante era poi la proposta di dar vita ad un organismo pubblico che si prendesse cura dei ragazzi abbandonati, dato che la città era allora scossa dallo scandalo dei “Celestini”, scoppiato quando era stato scoperto che i bambini così chiamati, ospitati in un istituto di assistenza gestito da religiosi, non solo erano costretti a vivere in condizioni igieniche inimmaginabili, ma erano anche sottoposti a sadiche punizioni.

CopertinaPSIUP_Prato1024_2Nel corso del tempo, nelle tue ricerche, hai “incontrato” spesso Ferdinando Targetti. E anche stavolta lo hai ritrovato. Un personaggio politico che ha attraversato una parte importante del Novecento. Ci puoi dare un tuo parere di storico?

 È un parere nettamente positivo. Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, fu anche presidente della Confindustria), si iscrisse giovanissimo alla sezione pratese del PSI, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato, fra il 1912 ed il 1914, e la giunta da lui presieduta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa. Fermo nei suoi principi di antifascista, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3 ottobre 1925). Dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di svolgere attività antifascista. Nel dopoguerra, riflettendo sull’esperienza della dittatura e della guerra, giunse alla conclusione che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai  suoi privilegi, e che quindi la più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti era la condizione imprescindibile per la difesa della democrazia e la realizzazione del socialismo (e si badi che Targetti, in quanto riformista, era stato espulso dal PSI ed era entrato a far parte del PSU, il partito di Matteotti). È così che si spiega la sua adesione al PSIUP, di cui egli stesso chiarì le motivazioni in una lettera indirizzata ai compagni di Prato, che viene pubblicata per la prima volta in questo libro. In sostanza, Targetti non accettò mai nessuna forma edulcorata di socialismo: il socialismo significava per lui superamento del capitalismo, non un’operazione di maquillage per rendere accettabile il capitalismo stesso.

L’invasione della Cecoslovacchia è certamente uno spartiacque nel panorama politico della sinistra e coinvolge anche il PSIUP. Quale fu la sua posizione in merito e quali le conseguenze?

 A differenza del PCI, che condannò con fermezza l’invasione, la direzione del PSIUP non andò oltre un comunicato, alquanto fumoso, nel quale non era dato riscontrare una netta parola di condanna dell’accaduto. Questo comunicato rifletteva la posizione dei vertici del partito, cioè della componente che faceva capo a Tullio Vecchietti ed a Dario Valori, ma non quella di tutto il PSIUP. La base psiuppina, infatti, più che filosovietica poteva definirsi terzomondista (con simpatie filocinesi in alcuni casi molto evidenti): qui a Prato, ad esempio, essa si dissociò dalla direzione, sposando la linea della Federazione di Firenze. Comunque sia, la posizione assunta dai vertici (sulla quale ebbero il loro peso – come è stato esplicitamente ammesso da dirigenti di primo piano del partito, come Silvano Miniati – i finanziamenti che il PSIUP riceveva regolarmente dall’Unione sovietica per mantenere un apparato decisamente sovradimensionato) ebbe conseguenze gravi per il partito, cui alienò le simpatie della parte più movimentista del suo elettorato.

Nella logica del sistema proporzionale i socialproletari hanno raggiunto, in alcuni casi, discreti risultati. Che bilancio si può trarre dall’andamento elettorale a livello locale?

 Il PSIUP partecipò a quattro competizioni elettorali (le amministrative del novembre 1964, le politiche del maggio 1968, le amministrative del giugno 1970 e le politiche anticipate del maggio 1972), ottenendo dei discreti risultati, ma non riuscendo a sfondare a sinistra. A Prato oscillò fra il 4,04% del 1968 e l’1,61% del 1972. Le politiche del 1972 furono una vera e propria Caporetto elettorale per il partito, che, non essendo scattato il quorum in nessun collegio, non poté utilizzare i resti e scomparve da Montecitorio. La fine del PSIUP fu la conseguenza del progressivo disimpegno socialista dal centrosinistra, che restrinse il suo spazio politico, della mancata condanna della repressione della “primavera di Praga” e della contemporanea presenza di tre liste concorrenti (il Manifesto, il Movimento politico dei lavoratori e Servire il popolo).

A un certo punto, tratte le conseguenze del voto del 1972, si pone il problema del quo vadis? Detto con un’altra metafora, si pone il problema della Legge di Newton: i corpicini piccoli subiscono la forza di attrazione verso quelli più grandi. Ma non per tutti andò così…

Subito dopo la disfatta elettorale del 1972 il IV (ed ultimo) congresso del PSIUP decise a maggioranza lo scioglimento del partito e la sua confluenza nel PCI. A livello nazionale fu questa la linea che passò e, col senno di poi, si può forse dire che fu la scelta più giusta. A Prato solo una minoranza passò nelle fila comuniste, mentre la maggioranza degli iscritti decise di proseguire la battaglia dando vita al Nuovo PSIUP (nessuno, a quanto mi risulta rientrò nel PSI): la decisione presa dalla maggior parte dei militanti psiuppini della città laniera stava a significare che, pur con tutti i suoi limiti, quella del PSIUP era stata per molti un’occasione di crescita politica e culturale.




Guerra totale in Vadinievole

«C’era poco da festeggiare nella nostra famiglia»: con queste parole il monsummanese Angiolo Fidi, superstite dell’eccidio del Padule di Fucecchio, ricordava la liberazione dal nazifascismo dopo un anno denso di episodi, iniziato nel settembre 1943 quando le truppe motorizzate tedesche fecero la loro comparsa a Monsummano Terme e conclusosi il 4 settembre 1944.

L’impatto che la guerra totale generò sulla società locale fu devastante sotto gli aspetti militari, politici, culturali, economici, e raggiunse dimensioni che coinvolsero l’intera popolazione civile e l’insieme delle risorse di ogni territorio. Piccoli paesi che conobbero l’esperienza dei bombardamenti alleati, dello sfollamento, dell’arresto degli ebrei, della Resistenza, delle stragi di civili.

La riorganizzazione, dopo l’Armistizio, del potere fascista sotto la neonata Repubblica Sociale Italiana portò a una forma di collaborazione stretta con gli occupanti nazisti. A Monsummano furono riorganizzati i quadri dell’amministrazione e il Commissario Prefettizio Gildo Rubino mantenne il proprio ruolo fino al 21 ottobre quando fu sostituito dal professore Italo Giampieri che rimase in carica fino a inizio luglio 1944.

Numerosi bandi e ordinanze interessarono tutta la provincia, emanati inizialmente dalla Prefettura di Pistoia su ordine del comando germanico e diffusi poi in ogni comune. Tali decreti compromisero la vita della popolazione locale: il coprifuoco dalle 22 alle 5; l’oscuramento notturno delle case; la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna forzata di tutte le armi; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Particolarmente drammatica fu la situazione degli sfollati, ammassati in strutture disabitate o ricavate da edifici dismessi, in condizioni sanitarie precarie e spesso privi dei basilari mezzi di sostentamento e di vestiario.

Quotidianamente risuonavano le sirene degli allarmi aerei e gli abitanti solevano proteggersi nella campagna e nei rifugi; la città, non avendo importanti obiettivi industriali o vie di comunicazione, non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata dagli alleati soprattutto nella stagione estiva.

Uno dei capitoli più significativi fu quello dell’arresto e della deportazione degli ebrei, con retate organizzate dai repubblichini in collaborazione con i tedeschi. Gli arresti avvenuti sul suolo italiano fra il 1943 e il 1945 non possono essere considerati delle semplici parentesi all’interno della dimensione occupazionale nazista. Il collaborazionismo fascista giocò un ruolo fondamentale, non ausiliario, dimostrato dalla storiografia nazionale e confermato da numerosi studi locali. Senza l’aiuto di chi conosceva il territorio, mai si sarebbe potuto realizzare il bilancio di arrestati che colpì la penisola italiana. Il caso di Monsummano conferma tali ricostruzioni storiografiche: il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata da agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Montecatini e da carabinieri della stazione di Monsummano, in collaborazione con militari tedeschi e repubblichini locali, condusse al fermo di sei «appartenenti a razza ebraica»: Giulio Melli (74 anni) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39) e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3).

Lo stesso giorno furono arrestate altre tre donne ebree: Marianna Calò Guarducci (74), rilasciata il 6 novembre; Evelina Nella Pitigliani (60) e sua sorella Albertina Pitigliani nei Bonaventura (66). Nei giorni seguenti fu catturata Elena Ida Toscano (88), madre delle sorelle Pitigliani, mentre a febbraio fu arrestato Carlo Levi (72), subito deportato. Il carcere di Monsummano svolse un ruolo fondamentale nella detenzione dei nove ebrei arrestati che furono rinchiusi fino al marzo 1944 quando la procura di Pistoia ordinò lo sgombero. Vennero trasferiti nel carcere di Firenze, poi nel campo di smistamento per ebrei di Fossoli, in Emilia-Romagna. Partirono il 5 aprile 1944 con i treni in direzione Auschwitz.

La presenza tedesca in paese fu avvertita anche con la presenza attiva dell’organizzazione Todt, una grande impresa di edificazioni che operò in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, con sede nello stabilimento termale della Grotta Giusti; reclutavano personale civile in parte aderente e in parte obbligato per edificare baracche, fortini in cemento e gallerie. Proprio qui, da inizio giugno fino al 14 luglio 1944, fu situato il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia.

Nel corso dell’estate 1944, l’amministrazione italiana perse progressivamente il suo ruolo e le forze tedesche operavano come se la Repubblica Sociale Italiana non esistesse, al punto da interrompere lo scambio di informazioni e la collaborazione. Le stesse autorità italiane agirono in completo sfaldamento, scandito dalla fuga dei dirigenti locali, dei militi repubblichini e dei carabinieri. In quei mesi, con l’avvicinamento del fronte e la fuga nazista verso la Linea Gotica, furono operate le principali stragi di civili compreso l’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti, di cui 84 residenti a Monsummano, il 23 agosto 1944). Furono catturati a Monsummano e uccisi qui o nei comuni limitrofi: Sereno Romani (45 anni), colpevole di aver difeso alcune parenti da un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio); Brunero Giovannelli (22), colpito durante un rastrellamento mentre tentava di fuggire; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18), accusati di aver effettuato segnalazioni luminosi.

A Monsummano furono costituite tre formazioni partigiane (Stella Rossa, comunista; Corallo, azionista; Faliero, comunista) che si distinsero principalmente per attività di sabotaggio, di raccolta armi e informazioni. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi, in un’operazione che ricalcava quella dei territori limitrofi: fuga nazista, contatti fra i partigiani e gli alleati, controllo del territorio da parte dei partigiani, arrivo definitivo delle truppe alleate. I rapporti fra la popolazione e le nuove truppe angloamericane di occupazione non furono sempre buoni, anzi ci furono incomprensioni, soprusi e atti intimidatori; persino il comunista Fulvio Zamponi, nominato all’unanimità il 9 settembre primo Sindaco di Monsummano dopo la Liberazione, fu arrestato con l’accusa di essersi rifiutato di dare informazioni «in zona di operazioni militari» dopo l’affissione da parte dei giovani comunisti di un manifesto giudicato come sovversivo che «chiedeva alle donne di non comportarsi con gli alleati come si comportavano con i tedeschi».

Matteo Grasso (Pescia, 1990). Storico, dal 2016 è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. È il responsabile dell’attività scientifica dell’Istituto; ha curato e coordinato mostre e progetti, fra cui “Cupe vampe, la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti” e “On the run. Helpers and Allied servicemen in the Pistoia area” svolto in collaborazione con University of Lincoln (United Kingdom). Le sue ricerche, orientate nello studio della Seconda Guerra Mondiale, si sono concretizzate in cinque monografie, fra cui: Dispersi sì, dimenticati mai: il naufragio del Piroscafo Oria. Il caso dei soldati valdinievolini e pistoiesi, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019; Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione, Pisa, Pacini editore, 2017.




Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco

* Il 1921: lo squadrismo alla conquista della Maremma

La Toscana è annoverata tra le regioni chiave per comprendere la nascita del fascismo, che com’è noto prese forma nei tre anni che precedettero la marcia su Roma del 1922. Il 1921, in particolare, rappresentò per la Maremma come per le altre zone della regione, il momento culminante del fenomeno squadrista, che del fascismo movimento politico fu il braccio armato: a partire dall’assassinio a febbraio del 1921 del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, le violenze degli squadristi, irradiandosi da Firenze, si susseguirono feroci in tutta la Toscana; vi si distinsero molti “avventurieri” fiorentini, fondatori dei primi fasci nelle province di Arezzo, Siena, Livorno e Grosseto (primo in provincia di Grosseto fu presumibilmente quello di Ravi nel novembre 1920). 

etruriaI fascisti “forestieri” circolavano in regione per dare coraggio agli elementi locali, ma soprattutto per suscitare disordini che potessero costituire quella “provocazione” necessaria come pretesto per una sistematica campagna di occupazione del territorio (che via via veniva indicato come da “purificare”, “spurgare”, “bonificare”). La modalità di azione degli squadristi era quella delle cosiddette “spedizioni punitive”, che miravano alla devastazione delle sedi e dei luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il Partito socialista) e alla intimidazione degli avversari politici. Una modalità che descrive perfettamente la violenza fascista che si scatenò sulla città di Grosseto fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24.

Dino Perrone Compagni

«A Civitavecchia tuona il cannone. L’Umbria è in fiamme. In tanti altri paesi divampa la guerra civile. Dopo la disfatta elettorale il fascismo grida: “Ora viene il bello!”» si legge su “Il Risveglio”, settimanale socialista maremmano, nel maggio del 19211. Anche in Maremma, nella primavera del 1921, le “gite di propaganda” si susseguirono ai margini della provincia (una prima di fascisti senesi colpì Monterotondo, Montieri, Gerfalco e Travale, mentre una spedizione guidata dall’empolese Romboli fu organizzata a Santa Fiora e Bagnore). Il capoluogo veniva progressivamente accerchiato, prossimo obiettivo predestinato: fu nella seconda metà di giugno che il marchese Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio di Firenze, preparò la “conquista” di Grosseto con l’invio di “13 pellacce” (fra cui il famigerato squadrista Dino Castellani), a cui si unirono immediatamente altri fascisti fiorentini, provenienti da Foiano della Chiana e già alloggiati in città presso l’Hotel Bastiani.

Dal diario di uno squadrista toscano, Mario Piazzesi, che partecipò a quella prima incursione si legge

si sarebbe andati nella città tabù, che se da Carrara a Perugia, da Spezia alla Romagna Toscana, le piane e i monti erano stati arati in lungo e in largo dalle nostre scorribande, Grosseto piantata lì in mezzo alle paludi, in quella Maremma che sembrava rimasta ai tempi di Gasparone, era o almeno appariva intangibile. E tutti rossi nella piana malarica: rosso il comune, rossa la provincia, rossi i combattenti, i repubblicani più spinti degli stessi comunisti”2.

Squadristi grossetani (fonte: La Maremma, numero sul ventennale della fondazione dei fasci di combattimento)

3. Furono presi di mira i “rossi” più noti, dispensate per strada bastonature e olio di ricino. Seguì una surreale scena: in una città ormai terrorizzata, Dino Castellani costrinse all’esposizione del tricolore dalle finestre e, “in espiazione dei misfatti rossi”, fece inginocchiare le camicie nere e la popolazione cittadina in Piazza del Duomo in un’imponente manifestazione in onore di Rino Daus4. Vi furono vittime e numerosi feriti, prima che i fascisti ripartissero, non mancando di provocare incidenti sulla via del ritorno a Roccastrada, Montorsaio, Sasso d’Ombrone e Scansano. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello.

** La strage di Roccastrada del 24 luglio 1921

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

e fasi iniziali della presa di potere da parte del fascismo: incursione in camion di gruppi di squadristi, provenienti anche da località distanti, che si concentrano nei diversi paesi per devastarne i luoghi simbolo e colpire le case dei “bolscevichi”, tentando la conquista delle amministrazioni “rosse”. Una spedizione punitiva contro obiettivi precisi, in questo caso contro la Roccastrada “roccaforte rossa”, e in primis contro il suo sindaco socialista Natale Bastiani.

5.

Dante Nativi

Dante Nativi

6.

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

8. Un piccolo precedente che aveva esacerbato il rancore dei fascisti verso il paese, a cui 9, sia da parte dello stesso prefetto di Grosseto che in un telegramma al ministro dell’Interno del 15 luglio esplicitava le proprie preoccupazioni al riguardo, “tralasciando però di prendere, secondo quelli che erano i suoi poteri, la benché minima misura precauzionale”10.

11.

ivo saletti

Ivo Saletti

12, avviando anche per lo squadrista grossetano quel processo di “beatificazione” che già era in corso per il senese Rino Daus.

*** Una vicenda dimenticata?

13. La dinamica dei fatti raccontata dalle pagine de “L’Ordine nuovo” o de “L’Avanti!”, con quell’infierire degli squadristi ubriachi su cittadini inermi (non “sovversivi” come inizialmente era stato detto), la resero via via fatto poco edificante per lo stesso fascismo: nonostante alcuni giornali tentassero di inserire la narrazione dei fatti di Roccastrada fra quelli che avevano portato alla gloriosa “rigenerazione della Maremma” ad opera del fascismo, quindi, la strage di Roccastrada venne sempre più raramente rammentata e fu progressivamente rimossa anche dalla memoria fascista della “conquista” del territorio maremmano, eccezion fatta per la figura del “martire” Ivo Saletti.

14. Chiurco, nella sua “Storia della rivoluzione fascista”, tenterà ancora successivamente di presentarla come una reazione alle violenze “rosse”, scrivendo quasi a giustificazione che si trattò di “inesorabili” rappresaglie, scaturite da una vera e propria battaglia che si era diffusa per tutte le vie del paese, e precisando che “gli squadristi erano già esasperati per gli inenarrabili strazi subiti dai fascisti a Sarzana“. 

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

15. Roccastrada era entrata negli anni più bui della sua storia.


NOTE:
1 “Il Risveglio”, 22 maggio 1921.
2 Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano: 1919-1922, Società Editrice Barbarossa, Milano 2010.
3 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
4 Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione squadrista, Vol. I – La preparazione, Le Edizioni del Borghese, Milano 1972.
5 Molto noto per la diffusione che ne diede Gaetano Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward”, il testo del telegramma è riportato in Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Bari 1965) e recentemente anche nel volume di Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Mondadori, Milano 2003.
6 Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque Lune, Roma 1973.
7 Per una cronologia delle lotte operaie e contadine in Maremma dal maggio 1919 al maggio 1921, cfr. Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, Pagnini e Martinelli editore, Firenze 2000, pp. 270-273.
8 Franco Dominici, Roccastrada 24 luglio 1921: cronaca di una strage, in Franco Dominici, Giulietto Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020.
9 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Edizioni “Avanti”, Roma 1963.
10 Maria Clotilde Angelini, I fatti di Roccastrada, in Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale, Grosseto 1985.
11 “Conflitti a Grosseto e provincia”, Rapporto dell’Ispettore di P.S. Alfredo Paolella al Ministro dell’Interno, 4 agosto 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
12 Telegramma del Prefetto Rocco alla Direzione generale di PS, 26 luglio 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
13 Rassegna stampa esaustiva è presente in Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, cit.
14 “Il Resto del Carlino”, 3 agosto 1921.
15 Le onoranze in Provincia al Milite Ignoto, in “L’Ombrone”, 13 novembre 1921, n. 35.



«Luridi finocchi in guanti gialli»

Il 27 novembre 1928 sarebbe dovuto essere un giorno come tanti per il comm. Guido Farello, un prefetto di vecchia data del Regno. Quando quella mattina si accomodò alla sua scrivania del bel palazzo in cui viveva ormai da un paio di anni, la sua attenzione fu colta da una lettera che emergeva fra le altre. Essa era indirizzata specificatamente a lui, a «S. E. il Prefetto di Livorno», e inizialmente pensò ad un invito per qualche evento di beneficienza. La cosa strana era però che la busta non presentasse segni particolari di riconoscimento, o rimandasse a qualche ente o istituto a lui noto. In prima battuta pensò di lasciarla perdere e dedicarsi esclusivamente al lavoro, poi la curiosità montò e decise di non indugiare oltre[1].

Iniziò a leggere e rimase di pietra. Quella lettera non lo invitava a partecipare a qualche occasione mondana, bensì lo metteva al corrente del comportamento «immondo» di un gruppo di distinti uomini dell’alta borghesia cittadina. Secondo gli scriventi – che si firmarono come degli «anonimi livornesi ben informati» – della lettera questi «luridi finocchi in guanti gialli», benché tutti sapessero cosa stessero facendo, non erano mai stati perseguitati dalle forze dell’ordine.

Farello era stato colto in fallo e temeva che la notizia giungesse rapidamente alle orecchie del pater patriae livornese, il potente ministro Costanzo Ciano. Sapeva che la sua carriera sarebbe potuta terminare da un momento all’altro, e in malo modo, se «ganascia» avesse voluto rivolgergli contro quella brutta storia. Per questo motivo inoltrò la missiva al suo omologo poliziotto, il questore Giovan Battista Masci, affinché si occupasse del caso attraverso indagini «riservate».

Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928)

La denuncia anonima del 26 novembre 1928 (Archivio di Stato di Livorno)

Scartabellando tra gli archivi della Questura venne fuori quasi spontaneamente la soluzione più ragionevole per la faccenda, cioè quella adottata dal suo predecessore, il prefetto Angelo Barbieri, nella gestione di un caso simile. Qualche anno prima l’ambiguo rapporto tra un alunno e un insegnante dell’Istituto nautico cittadino venne rimandato ad altri organi di governo – statali e non – aspettando una loro risoluzione. Il docente, infatti, non solo era un tenente di vascello di marina in congedo, ma anche un eroe di guerra pluridecorato al valore militare ed uno squadrista. In quel caso «l’ignoranza del vizio» da parte delle autorità governative aveva trionfato. Avrebbe funzionato anche in questo caso?

Prima di entrare nel merito delle due indagini che voglio presentare è necessario capire quale fosse l’atteggiamento comune verso gli individui identificati omosessuali, «pederasti», «invertiti» o «urningi» o «uranisti»[2].

Lo sviluppo positivista della scienza aveva proposto tante, e diverse, interpretazioni per l’omosessualità. La medicina europea si era mossa fin dalla prima metà dell’Ottocento per individuare le cause, e quindi i rimedi, della «degenerazione» sessuale che sembrava avvolgere in maniera sempre più asfissiante la società occidentale. Il termine venne introdotto proprio per indicare il sentimento di generale decadenza dal sociologo ungherese Max Nordau[3] nel 1892, il quale lo ricondusse alle passioni sfrenate che portavano gli uomini del suo tempo a godere della vita in ogni modo, anche cercando esperienze sessuali insolite. Alla base di quella che ben presto venne diagnosticata come una vera e propria patologia c’era, secondo Nordau, l’incapacità dei suoi contemporanei ad adeguarsi alle innovazioni tecniche, così tante e ottenute in poco tempo.

L’omosessualità venne ben presto classificata come uno degli effetti della malattia descritta dal sociologo magiaro, in quanto forma di piacere egoista che negava la riproduzione della specie umana, quindi la vita. Da peccato di sodomia chiamato in causa dai prelati per spaventare i credenti alla messa, venne ben presto classificato come una forma evidente di psicopatia, perché pareva scontato che l’uomo attratto da un individuo dello stesso sesso fosse affetto da una chiara patologia. Quando però ci si accorse come la medicina non fosse in grado di evidenziare una qualche forma tangibile della malattia, bensì solo una «passione colpevole, ributtante, schifosa finché volete, ma passione»[4], allora gli omosessuali vennero tacciati come i nemici della parte sana delle società e perseguitati, in forme diverse, per ogni nazione.

Da una parte si posero quei paesi, come la Germania, che ritennero necessario inserire il reato di omosessualità nel proprio codice penale, dall’altra quelli che, come l’Italia, considerarono più efficace usare strumenti che non dessero pubblicità al problema. La codificazione di tale reato, infatti, avrebbe significato ammettere l’esistenza di una “questione omosessuale”, e il necessario intervento da parte dello Stato per risolverla. Inoltre, sarebbe stato più semplice creare – come accadde a Berlino nel 1897 – dei comitati per l’abolizione dell’articolo di legge, accrescendo la pubblicità del problema. La strategia dell’occultamento risultò la scelta migliore anche nella revisione del Codice penale italiano nel 1889 e nel 1930, nonostante le pressioni per l’incriminazione degli omosessuali.

Il fascismo fu abile nell’inserirsi dopo poco tempo nei canali della cosiddetta «rispettabilità borghese», proponendosi come l’unico ente in grado di rinvigorire la nazione uscente dalla «Pace mutilata», a cui seguì una vera e propria santificazione della famiglia tradizione. Tutto ciò venne presto destinato per fornire in tempi rapidi «otto milioni di baionette» per le future guerre di conquista del regime, e con ciò si spiegano le ragioni del vasto investimento del fascismo verso la politica demografica.

Un uomo non sposato, oppure senza prole, una donna mascolina o impegnata nel lavoro, vennero presto etichettati agli occhi dell’opinione pubblica come esseri diversi, viziosi e antipatriottici. Costoro, in particolare gli uomini, rifiutandosi di svolgere il compito di pater familias e quindi di procreatori di futuri soldati italiani, dimostravano pubblicamente di essere impotenti e incapaci.

Più o meno velatamente tutte queste caratteristiche contrarie alla norma dovevano rimandare all’idealtipo omosessuale e al suo essere un malato. Diventava necessario “curarlo” solo quando l’individuo patologico si dimostrava conciliante con le autorità e le sue richieste, mentre diventava un problema di ordine sociale e politico quando rifiutava le terapie mediche e dimostrava pubblicamente la propria diversità.

In estrema sintesi possiamo dire che: coloro che si mettevano in mostra andavano fermati perché esempi viventi del caos e della sovversione dei generi, nonché possibili bacilli infettivi per la società; gli altri, invece, nonostante si prestassero a pratiche disdicevoli per la morale comune, ricoprivano comunque un ruolo maschile e sarebbe stato possibile per loro accoppiarsi anche con le donne. Il modello virile fascista respingeva l’omosessualità assumendo un atteggiamento che era in sostanza quello del secolo precedente. Il conformismo alle regole morali di stampo liberale ben si prestava alle necessità del regime, il quale comprese come fosse particolarmente importante gestire il problema dell’omossessuale in maniera discreta e con gli strumenti di controllo originariamente destinati a combattere i suoi veri nemici, quelli politici.

Costanzo_Ciano_iii

Costanzo Ciano

Il caso di omosessualità che fece “scuola” per i poliziotti livornesi fu quello dell’ex comandante Luigi P. Il 29 ottobre 1924 era ricominciato da poche settimane l’anno scolastico al R. Istituto Nautico «Alfredo Cappellini» di Livorno e, come al solito, il suono dell’ultima campanella segnalava la fine della giornata di lavoro per studenti e professori. Mentre tutti stavano uscendo dalla scuola, l’attenzione generale venne catturata da una serie di schiamazzi provenienti da un vicoletto vicino: un ragazzo si stava azzuffando con un insegnante dandogli dell’omosessuale. Il diverbio tra i due creò un certo imbarazzo negli spettatori, anche perché il soggetto offeso non era solo un docente, ma anche un fervente fascista, un eroe di guerra e un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). Esteriormente la questione venne tacciata come l’escandescenza di un alunno poco ligio ai propri doveri scolastici, ma l’accusa apparve troppo circostanziata e lesiva per l’onore dell’insegnante per non essere approfondita dalle autorità competenti. Perciò, la settimana seguente, il prefetto di Livorno, Barbieri, inoltrò al questore Masci la richiesta del preside dell’Istituto di investigare sull’accaduto e sul passato del professore[5].

Le indagini su Luigi P. fecero emergere come l’ex ufficiale di carriera della Regia marina, lodato e temuto per il suo prestigio politico, fosse stato congedato a causa di accuse scottanti e molto simili a quelle che gli aveva rivolto lo studente. Egli, secondo quanto erano riusciti a scoprire gli investigatori, si era ritrovato fuori dalla forza armata dall’oggi al domani a causa di alcuni episodi equivoci con dei marinai. Naturalmente su tutto ciò i vertici militari avevano fatto cadere una pesante coltre di riserbo, che sarebbe dovuta rimanere tale per sempre, in cambio del suo passaggio ad un altro incarico[6].

Proprio in ragione delle sue qualifiche fasciste, nonché dell’appartenenza alla Mvsn, Barbieri ritenne necessario avvertire l’organo direttivo del Partito nazionale fascista (Pnf) cittadino. Il prof. P., infatti, era iscritto al partito dal gennaio 1920 e aveva militato nella squadra d’azione «Mario Asso»[7] fino alla Marcia su Roma, transitando poi nei quadri della Milizia dal momento della sua costituzione. Per tale ragione il questore Masci, nella sua nota per il prefetto del 18 novembre successivo, riassunse gli esiti dell’indagine consigliando al superiore di lasciar perdere il caso ed evitare di doverlo gestire personalmente, in quanto «dell’incidente» se ne stavano occupando «il Direttorio del Fascio e il comando Mvsn». Il prefetto sembrò condividere l’idea del questore, lasciando quindi che venisse archiviata l’inchiesta sul docente.

Ma a distanza di appena tre anni la polizia livornese tornò a doversi occupare del prof. P. Il 14 ottobre 1927 il Ministero della Marina chiese notizie su P. in quanto risultava aver rifiutato l’ordine di trasferimento ad una nuova sede d’insegnamento. Gli Istituti nautici, infatti, fin dal 1917 erano di competenza di quel ministero, compreso il corpo dei docenti. Da quanto emerse nella nuova inchiesta affidata, non a caso, alla squadra politica della Questura di Livorno, il “fattaccio” del 1924 non era stato senza ripercussioni per la vita del professore, essendosi ritrovato radiato dal Pnf con l’accusa di «grave immoralità». Venne fuori però una cosa ancora peggiore agli occhi degli inquirenti, cioè che P. frequentava privatamente alcuni adolescenti per prepararli all’esame di ammissione per l’Accademia navale senza alcuna autorizzazione, abusando del suo grado e delle sue qualifiche fasciste. Di quest’ultima cosa il prefetto Farello – succeduto a Barbieri nel marzo 1925 – pensò non fosse necessario avvertire il Ministero dato che, secondo le stesse indagini, il professore poteva contare su influenti agganci al vertice delle forze armate[8]. Stando alle testimonianze di alcuni informatori sembrava che l’idea del professore fosse quella di abbandonare la scuola pubblica, e creare un convitto a carattere militare per formare i concorrenti per l’accesso agli istituti di formazioni militare.

La notizia dovette creare non poco subbuglio in seno ai vertici cittadini del Pnf, tanto che gli inquirenti assicurarono al federale – era appena asceso alla carica l’avv. Carlo Alberto Cempini Meazzuolli – come senza l’autorizzazione del provveditore agli studi di Firenze tutte le conoscenze per quanto influenti del professore, al centro, erano pressoché inutili.

Come previsto, nel marzo del 1928, giunse al Provveditorato per gli studi per la Toscana la richiesta formale del prof. P. di aprire il suo istituto di formazione. Ciò creò un certo imbarazzo allo stesso provveditore quando venne informato della delicatezza politica del caso, anche perché la domanda appariva del tutto legale e in linea con la legislazione in materia per gli istituti paritari. Il provveditore decise quindi di recarsi personalmente a Livorno il 12 aprile successivo e ricevere direttamente dalla voce del questore le motivazioni da addurre per rigettare la richiesta, notificandole a P. nei giorni seguenti:

Per le speciali condizioni in cui è venuto a trovarsi in Livorno cioè di non appartenere più alla [Mvsn] ed al [Pnf] e di essere stato trasferito, per servizio in seguito ad inchiesta, dal R. Istituto Nautico di Livorno a quello di Piano di Sorrento, non gode in Livorno del prestigio necessario per garantire un funzionamento veramente educativo dell’istituto che intende aprire e dirigere[9].

 Ricollegandoci al caso proposto in apertura di questo intervento – quello che fece sobbalzare Farello nel novembre del 1928 – bisogna segnalare che le accuse anonime si concentrarono immediatamente sulla figura del principale esponente del gruppo, cioè il conte Antonio F. Costui proveniva da una famiglia di recente creazione nobiliare – il nonno, un omonimo mercante di origini umbre, era stato ammesso a far parte della nobiltà toscana nel 1832 –, famiglia molto ricca e proprietaria di una fabbrica di saponi. Assieme a lui erano riportati i nomi di due fratelli, gli avvocati Emo e Tommaso P., anch’essi membri dell’alta borghesia livornese e, rispettivamente, presidente della commissione per le imposte dirette della provincia e vice console del Regno di Spagna. Il quarto personaggio incriminato era un grossista di pelli, Alessandro R.-P., più anziano rispetto agli altri ma proveniente comunque dallo stesso ambiente sociale. Infine venne chiamato in causa anche un giovane perito chimico, Giorgio M., di origini infinitamente più modeste ed impiegato nello stabilimento di proprietà del conte.

La squadra politica della Questura aprì un fascicolo il 7 dicembre successivo e, dopo aver delineato le biografie di tutti i protagonisti citati nella lettera anonima, mise a conoscenza del questore le voci che circolavano già sullo “scandalo”. Dalle informazioni raccolte risultava che tutti fossero effettivamente considerati degli omosessuali all’infuori di Emo P., probabilmente chiamato in causa solo a causa del fratello. Sia quest’ultimo, l’avocato Tommaso P., che il conte F. risultavano frequentatori dell’Hotel Palace, il grandioso albergo cittadino, dove si incontravano regolarmente con esponenti della società più in vista di Livorno. La solerzia degli inquirenti si spinse oltre e ripescò una storia simile ma ormai dimenticata dai più, quella della «Tavola Rotonda di Ardenza». Questo termine, tanto in voga all’inizio del secolo a causa dello scandalo Harden-Eulenburg[10], serviva per designare incontri di omosessuali di una certa caratura sociale e, difatti, coloro che frequentavano questo villino di Ardenza erano tutti personaggi eminenti della società locale dei primi anni del Novecento.

Senza una spiegazione apparante l’indagine sul conte venne messa a tacere per diversi mesi dagli inquirenti, fino al marzo 1929 quando, sempre l’ufficio politico della polizia, inoltrò al questore una nota prodotta da un proprio informatore. Lo scrivente si affrettava subito a smentire l’esistenza di una qualsiasi forma di «associazione» tra gli omossessuali livornesi, non potendo però fare a meno di confermare il comportamento sessuale del conte e dei suoi «amici». Dopo questa ulteriore conferma l’indagine venne chiusa e apparentemente dimenticata da tutti. Gli unici a ricordarsene furono i poliziotti livornesi, che iniziarono a seguire gli spostamenti dei denunciati aprendo dei fascicoli d’indagini per ognuno di loro[11].

Inquirenti e indagati che ho sinteticamente presentato finora, e che si mossero a cavallo tra il 1924 e il 1929, vivevano in una città che risultava tradizionalmente singolare e ricca di paradossi. L’ascesa del fascismo a Livorno non aveva certo mutato questi aspetti ma, piuttosto, era stato il movimento a declinarsi secondo lo stile di vita cittadino.

Riducendo all’osso la complessità, e le ricadute, di questo fenomeno, possiamo dire che i sommovimenti sociali causati dalla guerra e dal dopoguerra spinsero, da una parte, i ceti popolari a schierarsi in maniera compatta per i socialisti, i repubblicani, anarchici e poi comunisti, per un cambiamento effettivo delle condizioni di vita, mentre dall’altra, la borghesia livornese verso quei movimenti che promettevano il mantenimento dell’ordine esistente. Tutti sapevano che la partita si sarebbe giocata all’interno dell’area industriale della città e del porto e dei quartieri a nord dove erano concentrate le presenze popolari.

Una garanzia di successo i fascisti la ottennero con la discesa in campo di un personaggio come Costanzo Ciano, ex eroe di guerra. La sua candidatura alle elezioni politiche del 1921 nelle lista del Blocco nazionale fu sostenuta da numerosi esponenti del mondo militare, i quali non ebbero timori ad esporsi anche durante i suoi comizi. Ciano seppe sdebitarsi con loro una volta eletto alla Camera, sfruttando abilmente questo legame con il ceto dirigente e conservatore del suo collegio. La cosiddetta «Marcia su Livorno» dell’agosto 1922, pur diretta sul campo dal comandante degli squadristi toscani Dino Perrone-Compagni, simboleggiò il trionfo della restaurazione di quella classe di notabili che aveva saputo vedere nel fascismo, e nei suoi rappresentanti locali, un mezzo utile al raggiungimento dei loro obbiettivi.

L'Accademia Navale di Livorno

L’Accademia Navale di Livorno

Ripercorrere in maniera estremamente sommaria gli anni che vanno dalla fine della guerra al 28 ottobre 1922 è fondamentale al fine di contestualizzare e capire i contorti rapporti familiari, o clientelari, che le famiglie notabili di Livorno avevano con il nuovo partito di governo. È importante che sia chiaro, anche per il tema che sto raccontando, come il fascismo livornese, rispetto al modello maggioritario che si diffuse in Toscana così come in Emilia Romagna, non fu un fenomeno agrario o legato ad un’eversione di sinistra, ma piuttosto una chiara rappresentazione di quel sistema di potere che, dopo le elezioni amministrative del 1920, si trovò in profonda difficoltà nell’essere ancora rappresentato dai movimenti politici prebellici. La presenza del porto, di un’industria navale come quella dei cantieri Orlando e di tutto il loro indotto, e di una pluralità di altri stabilimenti industriali, concentrava nella sola città di Livorno un bacino operaio provato dalla crisi del dopoguerra, disponibile a tutto pur di vedersi riconosciuti una serie di diritti in gran parte rosicchiati dal periodo bellico.

Perciò la violenza dei fascisti divenne l’unico elemento, secondo i maggiorenti livornesi, in grado frenare un’ascesa inarrestabile del socialismo massimalista e dentro un panorama nazionale che si caratterizzava per molti elementi simili.

Dalla loro parte avevano anche un asso nella manica da poter giocare, cioè l’Accademia Navale, il prestigioso istituto presente in città dal 1881. Esso rappresentava il più evidente e concreto simbolo dell’ordine e non è un caso, per quello che ci siamo detti finora, che buona parte dei fascisti livornesi della prima ora fossero militari, in particolare ufficiali della Regia marina. È superfluo citare ancora la personalità di Ciano come colui in cui si legano al meglio gli aspetti militari e clientelari del fascismo livornese, spinto a scendere in politica anche dalle adulazioni di Max Bondi, amministratore delegato delle acciaierie di Piombino, nonché finanziatore del fascismo primigenio della provincia[12].

Questo rapido approfondimento sulla fisionomia del fascismo livornese delle origini potrebbe apparire poco attinente rispetto alle indagini al centro di questa ricerca. In realtà esso risulta fondamentale per comprendere al meglio le carte della polizia, facendo attenzione sui vari profili degli indagati. Le famiglie da cui provenivano gli omosessuali vicini al conte F., infatti, condividevano una condizione sociale agiata e in linea con quella dei promotori del fascismo livornese. Nel caso dell’ex comandante P., invece, la qualifica di squadrista e ufficiale della Mvsn non necessita di ulteriori spiegazioni rispetto ai suoi sentimenti politici. Anche per tali ragioni, in entrambi i casi, fu garantito un certo riserbo da parte degli inquirenti durante la fase delle indagini, dimostrando come questo genere di faccende andassero trattate esclusivamente in forma privata con i diretti interessati. Al contrario, qualora le autorità di governo ritenessero necessario creare un “caso”, allora era importante dare pubblicità all’evento ed assicurare a particolari strumenti sussidiari della legge – quello medico, del confino coatto o manicomiale – gli autori degli atti definiti come «contro natura».

Non è un caso che le indagini presentate in questo intervento vadano proprio in una di queste due direzioni – o entrambe se consideriamo che forse l’ex comandante Luigi P. potrebbe essere finito al centro di una macchinazione politica per screditarlo, in quanto esponente dell’area intransigente del fascismo labronico –, esemplificando meglio di ogni formula astratta la capacità che ebbe il fascismo di controllare la società italiana, anche sfruttando elementi culturali preesistenti.

*Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze.

[1] Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928).

[2] Questi ultimi due termini erano molto in voga nella scienza medica positiva e avevano origine dal termine tedesco «urning» per indicare il “terzo sesso” a cui appartenevano le persone omosessuali. Questo neologismo prendeva ispirazione dalla Afrodite Uraniana citata da Platone nel Simposio, e venne coniato nel 1864 dal poeta e letterato Karl Heinrich Ulrichs.

[3] Max Simon Nordau (1849 – 1923) fu tra le altre cose un fervente sostenitore della causa sionista, a fianco del connazionale Theodor Herzl.

[4] P. Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, 1886, pp. 148-150.

[5] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 37, fasc. 8 «Luigi P.», Relazione per il prefetto (17 novembre 1924).

[6] Classe 1890, Luigi P. entrò alla R. Accademia Navale di Livorno a 16 anni, uscendone con i gradi da guardiamarina in tempo utile per partecipare alla guerra Italo-turca del 1911. Promosso al grado superiore partecipò alla Prima guerra mondiale prima a bordo di varie navi di presidio nell’Adriatico, poi come ufficiale d’artiglieria navale destinato a terra. Fu comandante di una delle batterie poste a difesa della laguna di Venezia dopo la battaglia di Caporetto. Venne congedato nel 1921 per mezzo della Legge n. 474 del 26 maggio 1911, per la quale gli ufficiali che non potevano ricoprire il grado superiore per una mancata idoneità dovevano essere posti a riposo. Nonostante la giovane età e il curriculum di tutto rispetto venne escluso dalla promozione appena una settimana prima di essere congedato, a dimostrazione di come il suo destino fosse già segnato. Dal suo Stato di servizio, oltre che dalle indagini dei poliziotti livornesi, risulta infatti come era stato richiamato un paio di volte, e sottoposto a sanzioni disciplinari, per il suo comportamento nella sfera privata. Ministero della Difesa, Dir. Gen. Per. Mil., Doc. Matricolare, «Marina», Stato di servizio, Luigi P. (1906-1956).

[7] La squadra d’azione era intitolata al sottotenente dei bersaglieri di Livorno Mario Asso (1899-1920), morto a Fiume durante l’offensiva del regio esercito italiano per prendere il controllo della città.

[8] Vennero fatti i nomi dei generali Francesco De Pinedo e Italo Balbo per l’Aeronautica, e dell’ammiraglio Franco Nunes per la Marina e di altri alti ufficiali della Mvsn e dell’Esercito.

[9] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 54, fasc. 53 «Luigi P.», Decreto di rigetto della richiesta della domanda per l’apertura di un convitto navale (12 aprile 1928). Perso l’incarico di insegnante P. non demorse e pochi anni dopo cercò maggior fortuna nella compravendita di materiale nautico per ufficiali della Regia marina e i marinai di stanza a Livorno. La polizia venne nuovamente messa sulle sue tracce da una denuncia proveniente dall’ammiraglio in capo della zona marittima dell’Alto Tirreno, il quale era stato informato dell’uso improprio che P. faceva del grado militare. Egli, infatti, risultava solito qualificarsi come «comandante», screditando perciò il buon nome della forza armata. ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 76, fasc. 27 «Luigi P.».

[10] Lo scandalo Harden-Eulenburg fu il più vasto affare relativo all’omosessualità e riguardò l’entourage del kaiser Guglielmo II e parte dello Stato Maggiore dell’esercito tedesco. Da qui proviene il termine «tavola rotonda» – chiaro riferimento al consiglio dei ministri imperiale – che veniva usato per designare un gruppo di omosessuali.

[11] L’avvocato Tommaso P. e il conte F. furono coloro che la polizia controllò più spesso, e difatti sono rimaste maggiori tracce dei loro spostamenti nello stesso fondo dell’Archivio di Stato. L’avvocato P. si trasferì in Spagna nel 1932, sicuramente sfruttando le agevolazioni della carica consolare che aveva a Livorno, mentre il conte viaggiò molto per l’Italia. Le ultime carte su quest’ultimo risalgono al 1939 e sono relative ad una richiesta, sua e della sorella, per il riconoscimento del titolo di «Nobili di Gubbio» da aggiungere al blasone di famiglia. Nella breve biografia che il questore dell’epoca fece per il prefetto ricordò la sua omosessualità, la mancata iscrizione al Pnf e i suoi legami familiari.

[12] Massimo “Max” Bondi (1881 – ignoto) fu uno dei principali esponenti della siderurgia italiana nei primi due decenni del Novecento. Venne eletto in Parlamento nel 1919, facendo coincidere l’avvio della carriera politica con un momento di grave difficoltà per le sue aziende. La crisi delle fonderie di Piombino del biennio 1920-1921, nonché la bancarotta fraudolenta del 1925, lo costrinsero ad una fuga tumultuosa dall’Italia. Cfr. F. Bonelli e M. Barsali, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, vol. 11, 1969.




Mazzino “Aldo” Fedi

Ad ogni modo, è interessante analizzare il motivo per il quale Fedi e i propri compagni avessero deciso di entrare in azione proprio nel corso di una manifestazione così partecipata e in vista come una corsa ciclistica. L’obiettivo era quello di sferrare un vero e proprio attacco allo «sport capitalista», definito un «mezzo efficace adottato dalla borghesia di tutti i paesi per distrarre i giovani dalla vita politica, da quello che è il loro interesse vitale (difesa delle conquiste, libertà di riunione), creato con lo scopo di stabilire fra tutti i giovani sparsi per il mondo capitalista un filo che li colleghi al Fascismo». Questo filo, riportava un comunicato dal Fronte unico dei giovani lavoratori:

è quello dello sport professionale, che in questa località vi è una grande maggioranza di giovani ciclisti italiani i quali hanno aderito alla società ciclistica diretta dal Consolato, agente della repressione fascista, le cui mani sono lorde di sangue proletario. Noi giovani che amiamo lo sport non dobbiamo essere diretti dagli agenti consolari che sono al servizio del capitalismo, per difendere il loro capitale, capitale finanziario, ma dobbiamo formare delle società dirette da noi giovani lavoratori, senza un controllo assiduo da parte del fascismo affamatore e assassino. Scacciare via i dirigenti che tentano con la loro demagogia dello sport di fare di voi giovani carne da macello per la futura guerra che il capitalismo italiano prepara febbrilmente. A questo scopo il Comitato d’azione del Fronte unico giovanile di Toulon fa appello a tutti i giovani sportivi di partecipare alla riunione che si terrà il giorno 19 aprile alla Bourse du travail […] per gettare le basi di creare una società sportiva operaia diretta dai giovani ciclisti. Avanti giovani ciclisti, per la formazione di una società senza dirigenti mussoliniani!

Queste note guardavano da vicino l’organizzazione del Dopolavoro e delle associazioni sportive e culturali, declinando nuove forme di conflittualità negli spazi comunitari e della società civile. Esperienze non certo isolate, eppure indicative del dispiegamento e dell’attività portata avanti dai militanti antifascisti anche durante la clandestinità. Su Fedi intanto si era fatta incombente la minaccia di espulsione dalla Francia. A decreto confermato, riuscì però a spostarsi nuovamente a Tolone e a riprendere da lì il proprio lavoro di proselitismo. Con fare provocatorio, continuò oltretutto a spedire all’indirizzo di Giuliano Giovannelli stralci e ritagli di giornali comunisti; fu lo stesso Giovannelli a consegnare alla polizia una nuova busta contenente un numero “Battaglie Sindacali” (n°. 6, 1934), organo della Confederazione generale del lavoro aderente all’Internazionale sindacale rossa (Profintern), accompagnato da un foglietto vergato a penna e recante un messaggio sibillino: «Sei convinto? Fattela leggere».

Condizionato da un carattere irascibile e poco disposto a compromessi, Fedi finì per entrare in conflitto anche con gli altri militanti. Le sue posizioni sull’anarchismo avevano destato più di qualche perplessità, ma la vera crepa si formò in seguito alle voci – dichiarate fittizie dallo stesso Fedi – che lo accusavano di essersi avvicinato alla causa trotskista: la Centrale del partito comunista lo sollevò quindi dal suo incarico a Lione e lo sostituì con il redattore (indicato come Catena) della rivista antifascista “Vita Operaia”. Consapevoli della sua condizione di assoluta indigenza, gli agenti dell’OVRA – secondo una procedura consolidata – tentarono invano di avvicinarlo per ottenere informazioni su altri sovversivi, cercando di sfruttare eventuali risentimenti. Fedi tuttavia riuscì a far perdere le sue tracce per alcuni mesi, girovagando tra il Varo e la Provenza in cerca di occupazione.

Una nuova segnalazione sul suo conto arrivò nel luglio 1935, quando il ristoratore Gino Lombardi riferì alla polizia di averlo visto consumare pasti per circa un mese nel suo locale (lasciato insoluto un debito di 100 franchi) di Villeurbanne e di saperlo in partenza per Marsiglia. Pochi giorni dopo la polizia intercettò un telegramma diretto a Rhon, nel quale la zia di Fedi, Evelina, dichiarava al nipote di non potergli consegnare l’indirizzo della sorella, probabilmente per timore di fornire troppe informazioni. Tra continui cambi di nome, Fedi venne così arrestato ancora una volta il 24 febbraio 1936 – assieme a Giovanni Tognetti e Gino Lombardi – con l’accusa di «infrazione al decreto di espulsione e […] sospetto di aver commesso […] un furto di gioielli». Scortato in carcere, dichiarò apertamente di «essere antifascista» e di aver commesso il reato: ciò si tradusse in una condanna a cinque mesi di reclusione e a 300 lire di multa per ricettazione, aggravando una posizione personale sempre più compromessa. Il fascicolo del Casellario Politico Centrale manca però di fornire aggiornamenti su ciò che accadde nei mesi successivi, lasciando ipotizzare una nuova fase di latitanza nella Francia governata dal Front populaire.

Il suo nome ricomparve nel febbraio 1937, segnalato tra i venti fuoriusciti che tra il 5 e il 19 gennaio erano partiti dalla Seyne per Marsiglia; lì si ricongiunsero ad una cinquantina di reclutati da Reynier, Six Fours-la Plage e St. Mandrier, pronti a salpare verso la Spagna e combattere nelle file delle Brigate internazionali. Nell’immanenza, i dati e le comunicazioni continuarono ad essere lacunosi e imprecisi: stando alla documentazione raccolta nel fascicolo del Casellario Politico Centrale tra il 1937 e il 1938, Fedi risultava infatti essere rientrato in Francia ed aver abbracciato la causa del Partito socialista italiano. Sappiamo invece con certezza che egli rimase in Spagna fino al 1938. Sarebbe stato lui stesso a confessarlo nel luglio 1940, una volta consegnato alle autorità italiane[1]. In terra iberica, ad Albacete (sotto il comando nominale di André Marty), venne infatti subito inserito nel servizio sanitario del Battaglione Garibaldi quale barelliere e successivamente come motorista. Passò poi alla XII Brigata Garibaldi come artigliere, per finire aggregato alla XV Brigata nordamericana Lincoln (batteria antiaerea) sui fronti del Levante e dell’Estremadura. Come mitragliere prese invece parte ai combattimenti del Guadarrama, Teruel, Caspe, Brunete e Huesca[2], prima che una ferita alla gamba lo costringesse ad un lungo soggiorno nell’ospedale di Murcia e ad uno più breve in quello di Albacete.

Non più idoneo fisicamente e colpito da forti febbri, una volta dimesso fu adibito ai servizi ausiliari: nell’ottobre del 1938 lasciò comunque la Spagna con convoglio sanitario e tornò in Francia, a Parigi. Nella capitale francese, schiacciato da una situazione economica estremamente complessa e trovatosi ai margini dell’attività partitica, decise di scrivere alla sorella Fulvia dopo un lungo silenzio, manifestandole l’intenzione di partire clandestinamente per l’America del Sud:

Ormai per me in Europa non c’è più nulla da sperare perché la conosco palmo per palmo. L’unico paese dove si poteva vivere un po’ meglio era la Francia, ma per me è finita pure in Francia perché sono espulso e non posso più avere la carta d’identità per lavorare e se mi prende la polizia mi arresta per un bel pezzo. Certo la mia intenzione è quella di andarmene nell’America del Sud, ma per andare legalmente occorrono molti soldi che io non posso far fronte a una simile spesa, perché attualmente è molto difficile fare fronte anche alle spese giornaliere, per mangiare, malgrado che io sono sempre stato più sveglio di tanti altri. Quando sono mesi e mesi che non si lavora puoi immaginarti come possiamo vivere. Quindi guardo di lasciare l’Europa clandestinamente se posso, certo non posso dirti che sia oggi o domani.

Il tentativo non andò a buon fine. Arrestato, nel 1939 venne internato a Gurs – dove dal 15 marzo 1939 le autorità francesi avevano deciso di installare un centre d’accueil per i reduci delle Brigate Internazionali e i fuggiaschi che arrivavano dalla Spagna – e a Vernet, realtà in cui si trovò a scontare – dopo essere passato dalle compagnie di lavoro vicino a Calais – le durissime condizioni a cui venivano sottoposti gli «stranieri sospetti e pericolosi». Incorporato nel campo di Moulin de Torpac (253 CTE) e costretto al lavoro coatto a Saint Omer (Pas-de-Calais), riuscì a fuggire e ad evadere in Belgio: qui venne fermato dai nazisti, rinchiuso temporaneamente in carcere a Dunkerque e poi inviato di nuovo – nel 1940 – a Vernet come «capo di una cellula anarchica […] molto intelligente e pericoloso».

La stipulazione dell’armistizio tra Francia e Italia, tuttavia, sancì l’immediata liberazione dei civili italiani internati e la loro rimessa alle autorità militari italiane. Ai prigionieri era teoricamente lasciata la possibilità scegliere se essere o meno riconsegnati, condizione che nell’estate del 1940 spinse una Commissione di Armistizio a visitare i campi per convincere i connazionali a firmare per il ritorno in patria. A luglio, tra pressioni e opere di convincimento, a sottoscrivere il rimpatrio (forse costretto) fu anche Mazzino Fedi che, una volta consegnato alle autorità, venne interrogato e destinato a cinque anni di confino sull’isola di Ventotene «quale elemento politicamente pericoloso». Durante il quarto trimestre del 1941 fu poi spostato ad Ustica, prima di un ultimo trasferimento – dopo Cassibile – nel campo di Renicci d’Anghiari (Arezzo), dove venne liberato il 15 settembre 1943.

Non disponiamo di ulteriori notizie su di lui, se non che dal 1965 si stabilì a Torino con la moglie Vincenzina Bertone. Prese probabilmente parte alla Resistenza, anche se al momento quest’ultima resta solo un’ipotesi. La sua figura emerse comunque come quella di un antifascista «zelante negli incarichi ricevuti», capace di muoversi abilmente nella rete clandestina e di evidenziare l’importanza specifica di individui e organizzazioni che – nella loro eterogeneità – risultarono fondamentali nella costruzione e nel rafforzamento di un sentimento democratico e antifascista.

[1] A confermare la presenza di Mazzino Fedi in Spagna sovvennero anche le confessioni alla polizia politica di Francesco Guido Berard, rilasciata il 9 aprile1940, e di Giuseppe Jacopini (17 ottobre 1941).

[2] Cfr. http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=2093.

*Federico Creatini è dottore di ricerca in Storia del lavoro. E’ stato borsista di ricerca presso l’Università di Pisa e l’Istituto Ferruccio Parri. Attualmente è borsista di ricerca presso il Centro di ricerca Maria Eletta Martini-Scuola superiore Sant’Anna.




Una testimonianza sul ruolo degli Arditi del popolo nei «fatti di Sarzana» del luglio 1921

Premessa

La Stampa 22 luglio 1921 i fatti di Sarzana

All’alba del 21 luglio 1921, nella città di Sarzana, all’epoca in provincia di Genova, giunse una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli, con l’obbiettivo di assaltare la città e recarsi alla Fortezza Firmafede per liberare alcuni fascisti che vi erano incarcerati, fra cui Renato Ricci, il leader del fascio di combattimento carrarese, ritenuti responsabili di efferati atti di violenza e degli omicidi avvenuti nei giorni precedenti. Il prefetto di Genova, per proteggere la città da ulteriori assalti fascisti, aveva ordinato l’invio di un reparto di carabinieri e di militari in città, al comando di Guido Jurgens, i quali fronteggiarono i fascisti, che durante la giornata di scontri persero quattordici uomini, ottenendo infine la liberazione di Ricci grazie solo all’intervento politico del procuratore filofascista di Massa. Ai «fatti di Sarzana» ‒ uno degli eventi principali che segnarono la prima Resistenza armata al fascismo ‒ parteciparono anche un consistente gruppo di arditi del popolo e numerosi contadini del luogo riuniti in un Comitato di difesa.

Nella_città_perduta_Sarzana

Nel 1980 l’uscita del film Nella città perduta di Sarzana girato dal regista Luigi Faccini, che raccontava appunto le vicende relative ai «fatti di Sarzana», avviò un intenso e partecipato dibattito sulle radici del fascismo e dell’antifascismo che coinvolse storici di fama come Renzo De Felice e Paolo Spriano. Il film venne proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia nel 1980, poi a Milano, in seguito in diverse città italiane e anche fuori d’Italia come a Nizza e Villerupt. Al Festival del cinema neorealistico di Avellino (1981), il film ottenne la targa d’argento “Pietro Bianchi” e nell’estate, sempre del 1981, la RAI lo trasmise sul secondo canale nazionale. Anche a Carrara, dove il film venne proiettato, si aprì un serio dibattito testimoniato da vari articoli pubblicati dai quotidiani locali e non poteva essere altrimenti dal momento in cui proprio le squadre fasciste carraresi guidate da Renato Ricci furono tra le protagoniste principali di quell’episodio.

Umberto Marzocchi, classe 1900, originario di Firenze ma all’epoca dei fatti operaio a La Spezia, anarchico e sindacalista, poi fuoruscito in Francia e volontario in Spagna durante la Guerra civile (1936-39) e infine maquis durante la Seconda guerra mondiale, intervenne nel dibattito con una lettera sul ruolo degli arditi del popolo nei «fatti di Sarzana». La lettera, poco conosciuta e citata, crediamo sia una testimonianza preziosa nella ricostruzione di quel episodio e la pubblichiamo, oltre per ricordare la figura di Marzocchi, in occasione proprio del centenario dei «fatti di Sarzana» come contributo per il dibattito e la ricerca storiografica[1].

La testimonianza di uno che c’era[2].

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Ho letto con ritardo i commenti critici al film «Nella città perduta di Sarzana» ed i successivi interventi, direi storici, su «I fatti di Sarzana», tendenti a ristabilire alcune verità in modo chiaro ed inequivocabile, pubblicati nel giornale e, poiché fui uno dei protagonisti di quei fatti, con una cinquantina di Arditi del popolo venuti da La Spezia e rimasti al fianco del sindaco socialista, avvocato Pietro Arnaldi Terzi, a Luigi Luciani, Ugo Boccardi (Ramella), Lucherini ed altri compagni anarchici, socialisti e repubblicani sarzanesi, vorrei contribuire con la mia testimonianza ed i miei ricordi alla necessaria, storica chiarificazione, già in parte compiuta da chi mi ha preceduto.

Se nella realtà si ebbe ragione di criticare il Partito Socialista Italiano per il famoso Patto di Pacificazione, dobbiamo riconoscere che i socialisti di Sarzana ne erano come noi amareggiati e decisi a seguire il sindaco nel suo atteggiamento politicamente onesto che nel film si manifesta con la frase: «Io resto con la mia città». Non si deve però dimenticare che i socialisti (come Giuliani nel film) divenuti dopo il congresso del gennaio 1921 a Livorno, militanti del  Partito comunista italiano, commisero anch’essi un grosso errore nell’accettare la decisione presa dalla direzione del partito ai danni degli «Arditi del Popolo» e quindi della rivolta antifascista del popolo italiano, iniziata con i fatti di Sarzana.

Con l’arrivo a Sarzana, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1921, degli Arditi del Popolo di La Spezia, Carrara ed i paesi intorno a Sarzana, venne organizzata la difesa, dislocando i circa 200 arditi ed un numero maggiore di sarzanesi in blocchi di difesa avanzati verso l’Emilia, verso la Liguria e verso la Toscana. All’interno della città, gruppi di operai e contadini armati vigilavano: sui tetti delle case, sul campanile della chiesa vennero ammucchiati sassi e bombe a mano.

Gli arditi si erano severamente autodisciplinati e furono in parecchie circostanze ragionevoli, rispettosi delle istruzioni che ricevevano da ex ufficiali dell’esercito, un socialista di La Spezia, Vallelonga, e due repubblicani di Sarzana dei quali non ricordo il nome. Lo stesso Trani, ispettore generale di P.S., su cui è incentrato il film di Faccini, nella sua «relazione al ministero dell’Interno», scrive: «… bastò che io sinceramente rassicurassi gli organizzatori e gli esponenti dei partiti estremi di La Spezia e di Sarzana, che bastavano le mie forze a difendere tutti dalla violenza fascista, perché di organizzazioni di Arditi del popolo in armi non si ebbero altre apparizioni». Infatti, onde evitare un conflitto con le forze di polizia che perlustravano le vie cittadine, ci eravamo uniti ai sarzanesi più in vista, raggruppati nei posti di blocco, e ciò risulta anche dagli incartamenti processuali nel processo per l’uccisione di Maiani e Bisagno.

La critica alle presunte atrocità commesse dagli Arditi del popolo richiede una più dettagliata spiegazione, in quanto essi furono estranei a tali eccessi. Solo l’uccisione dei due fascisti spezzini, Maiani e Bisagno, sulla quale venne imbastito un processo, fu attribuita agli Arditi, ma la loro cattura evitò conseguenze peggiori e forse una seconda strage, dopo quella della stazione di Sarzana. La testimonianza dell’ardito del popolo sarzanese Gino Lucherini, raccolta da Franco Ferro in «I fatti di Sarzana» è a questo proposito irreprensibile e ne confermo l’esattezza: «A Sarzana, il mercoledì 21 luglio, al posto di blocco del Ponte sul Magra, venivano fermati i due giovani, e siccome essi non conoscevano la parola d’ordine, furono costretti a tornare indietro. Camminarono da prima disinvolti poi, percorso un centinaio di metri si misero a correre, gettando via qualcosa. Una donna li vide, raccolse ciò che era stato gettato e accortasi che si trattava di due tessere del fascio, diede l’allarme e i due furono ben presto nelle mani degli Arditi del popolo che li interrogarono e li perquisirono accuratamente, trovando nell’interno della giacca di uno dei due giovani, cucito sotto la fodera, un messaggio inviato dai fascisti spezzini a quelli di Carrara, contenente indicazioni precise che avrebbero permesso alle squadre di prendere Sarzana come in una morsa. Il messaggio diceva anche che fra Cerri e Monte Marcelli, e precisamente ad Ameglia, squadre armate erano pronte ad attaccare la città. Il Comitato di difesa decise allora di mandare da quelle parti gruppi di armati: avvenne così il primo scontro nel quale ebbero la peggio i fascisti che furono ricacciati verso La Spezia». Chi ha fatto la Resistenza comprende che cosa si prova in quelle situazioni e la lotta partigiana annovera decine di episodi come questo.

I giornali fascisti e quelli ben pensanti – continua Ferro – subito dopo il 21 luglio, com’era già avvenuto altre volte in simili circostanze, misero in atto la loro tecnica deformatrice della realtà e, poiché la spedizione punitiva c’era stata e di essa i fascisti erano chiaramente i soli responsabili, si diedero a narrare innumerevoli atrocità commesse dai «comunisti» contro le persone degli squadristi che fuggivano attraverso le campagne del sarzanese, e a parlare con insistenza di bande armate che, a cominciare dal 21 luglio avrebbero sparso il terrore nella Lunigiana, mentre i giornali socialisti e quelli anarchici, al contrario si affrettarono a negare tutto ciò. A dire il vero, le atrocità ci furono, ma si trattò di delitti commessi da una popolazione esasperata, perché vissuta per molti mesi sotto una pesante minaccia; delitti che sembrano non potersi attribuire all’organizzazione degli Arditi del popolo, ma piuttosto a gruppi di contadini che, non potendo essere efficacemente protetti dal Comitato di Difesa cittadino, i cui sforzi erano principalmente concentrati in città avevano provveduto ad armarsi autonomamente ed avevano ricevuto armi e munizioni dallo stesso Comitato di Difesa.

Per quanto concerne l’uso dell’aggettivo repubblicano attribuito al Ricci ricordo che il Ricci non fu solo il provocatore fascista ma fu l’ex legionario fiumano accorso con ex interventisti, sindacalisti deambrosiani, futuristi e militanti fascisti al seguito di Gabriele D’Annunzio, per partecipare alla spedizione di Fiume, nel settembre 1920, alla quale nessun militante aderente al Partito Repubblicano tradizionale partecipò. Una parte di quei legionari seguaci di de Ambris auspicò che la Reggenza del Carnaro, retta da D’Annuzio a Fiume, si trasformasse, in odio allo stato liberale e in opposizione agli accordi italo-jugoslavi di Rapallo, in Repubblica del Carnaro. Da qui nacque l’equivoco di legionari repubblicani… improvvisati. E mentre Ricci continuava la sua opera fascista il regime combatteva il Partito Repubblicano Italiano, creato da Giuseppe Mazzini nel 1831-32, fino a sopprimerlo come formazione legale. Bisogna quindi sfatare la leggenda resa per un certo periodo di tempo credibile della Repubblica del Carnaro e dei legionari fiumani repubblicani.

Umberto Marzocchi

[1] La lettera è stata recentemente inserita, insieme ad altri articoli, sul tema nel volume di R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ‘800 e ‘900, Pisa, BFS, 2020, pp. 401-403.
[2] U. Marzocchi, La testimonianza di uno che c’era, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 5 ottobre 1981, p. 21.