Una testimonianza sul ruolo degli Arditi del popolo nei «fatti di Sarzana» del luglio 1921

Premessa

La Stampa 22 luglio 1921 i fatti di Sarzana

All’alba del 21 luglio 1921, nella città di Sarzana, all’epoca in provincia di Genova, giunse una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli, con l’obbiettivo di assaltare la città e recarsi alla Fortezza Firmafede per liberare alcuni fascisti che vi erano incarcerati, fra cui Renato Ricci, il leader del fascio di combattimento carrarese, ritenuti responsabili di efferati atti di violenza e degli omicidi avvenuti nei giorni precedenti. Il prefetto di Genova, per proteggere la città da ulteriori assalti fascisti, aveva ordinato l’invio di un reparto di carabinieri e di militari in città, al comando di Guido Jurgens, i quali fronteggiarono i fascisti, che durante la giornata di scontri persero quattordici uomini, ottenendo infine la liberazione di Ricci grazie solo all’intervento politico del procuratore filofascista di Massa. Ai «fatti di Sarzana» ‒ uno degli eventi principali che segnarono la prima Resistenza armata al fascismo ‒ parteciparono anche un consistente gruppo di arditi del popolo e numerosi contadini del luogo riuniti in un Comitato di difesa.

Nella_città_perduta_Sarzana

Nel 1980 l’uscita del film Nella città perduta di Sarzana girato dal regista Luigi Faccini, che raccontava appunto le vicende relative ai «fatti di Sarzana», avviò un intenso e partecipato dibattito sulle radici del fascismo e dell’antifascismo che coinvolse storici di fama come Renzo De Felice e Paolo Spriano. Il film venne proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia nel 1980, poi a Milano, in seguito in diverse città italiane e anche fuori d’Italia come a Nizza e Villerupt. Al Festival del cinema neorealistico di Avellino (1981), il film ottenne la targa d’argento “Pietro Bianchi” e nell’estate, sempre del 1981, la RAI lo trasmise sul secondo canale nazionale. Anche a Carrara, dove il film venne proiettato, si aprì un serio dibattito testimoniato da vari articoli pubblicati dai quotidiani locali e non poteva essere altrimenti dal momento in cui proprio le squadre fasciste carraresi guidate da Renato Ricci furono tra le protagoniste principali di quell’episodio.

Umberto Marzocchi, classe 1900, originario di Firenze ma all’epoca dei fatti operaio a La Spezia, anarchico e sindacalista, poi fuoruscito in Francia e volontario in Spagna durante la Guerra civile (1936-39) e infine maquis durante la Seconda guerra mondiale, intervenne nel dibattito con una lettera sul ruolo degli arditi del popolo nei «fatti di Sarzana». La lettera, poco conosciuta e citata, crediamo sia una testimonianza preziosa nella ricostruzione di quel episodio e la pubblichiamo, oltre per ricordare la figura di Marzocchi, in occasione proprio del centenario dei «fatti di Sarzana» come contributo per il dibattito e la ricerca storiografica[1].

La testimonianza di uno che c’era[2].

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Ho letto con ritardo i commenti critici al film «Nella città perduta di Sarzana» ed i successivi interventi, direi storici, su «I fatti di Sarzana», tendenti a ristabilire alcune verità in modo chiaro ed inequivocabile, pubblicati nel giornale e, poiché fui uno dei protagonisti di quei fatti, con una cinquantina di Arditi del popolo venuti da La Spezia e rimasti al fianco del sindaco socialista, avvocato Pietro Arnaldi Terzi, a Luigi Luciani, Ugo Boccardi (Ramella), Lucherini ed altri compagni anarchici, socialisti e repubblicani sarzanesi, vorrei contribuire con la mia testimonianza ed i miei ricordi alla necessaria, storica chiarificazione, già in parte compiuta da chi mi ha preceduto.

Se nella realtà si ebbe ragione di criticare il Partito Socialista Italiano per il famoso Patto di Pacificazione, dobbiamo riconoscere che i socialisti di Sarzana ne erano come noi amareggiati e decisi a seguire il sindaco nel suo atteggiamento politicamente onesto che nel film si manifesta con la frase: «Io resto con la mia città». Non si deve però dimenticare che i socialisti (come Giuliani nel film) divenuti dopo il congresso del gennaio 1921 a Livorno, militanti del  Partito comunista italiano, commisero anch’essi un grosso errore nell’accettare la decisione presa dalla direzione del partito ai danni degli «Arditi del Popolo» e quindi della rivolta antifascista del popolo italiano, iniziata con i fatti di Sarzana.

Con l’arrivo a Sarzana, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1921, degli Arditi del Popolo di La Spezia, Carrara ed i paesi intorno a Sarzana, venne organizzata la difesa, dislocando i circa 200 arditi ed un numero maggiore di sarzanesi in blocchi di difesa avanzati verso l’Emilia, verso la Liguria e verso la Toscana. All’interno della città, gruppi di operai e contadini armati vigilavano: sui tetti delle case, sul campanile della chiesa vennero ammucchiati sassi e bombe a mano.

Gli arditi si erano severamente autodisciplinati e furono in parecchie circostanze ragionevoli, rispettosi delle istruzioni che ricevevano da ex ufficiali dell’esercito, un socialista di La Spezia, Vallelonga, e due repubblicani di Sarzana dei quali non ricordo il nome. Lo stesso Trani, ispettore generale di P.S., su cui è incentrato il film di Faccini, nella sua «relazione al ministero dell’Interno», scrive: «… bastò che io sinceramente rassicurassi gli organizzatori e gli esponenti dei partiti estremi di La Spezia e di Sarzana, che bastavano le mie forze a difendere tutti dalla violenza fascista, perché di organizzazioni di Arditi del popolo in armi non si ebbero altre apparizioni». Infatti, onde evitare un conflitto con le forze di polizia che perlustravano le vie cittadine, ci eravamo uniti ai sarzanesi più in vista, raggruppati nei posti di blocco, e ciò risulta anche dagli incartamenti processuali nel processo per l’uccisione di Maiani e Bisagno.

La critica alle presunte atrocità commesse dagli Arditi del popolo richiede una più dettagliata spiegazione, in quanto essi furono estranei a tali eccessi. Solo l’uccisione dei due fascisti spezzini, Maiani e Bisagno, sulla quale venne imbastito un processo, fu attribuita agli Arditi, ma la loro cattura evitò conseguenze peggiori e forse una seconda strage, dopo quella della stazione di Sarzana. La testimonianza dell’ardito del popolo sarzanese Gino Lucherini, raccolta da Franco Ferro in «I fatti di Sarzana» è a questo proposito irreprensibile e ne confermo l’esattezza: «A Sarzana, il mercoledì 21 luglio, al posto di blocco del Ponte sul Magra, venivano fermati i due giovani, e siccome essi non conoscevano la parola d’ordine, furono costretti a tornare indietro. Camminarono da prima disinvolti poi, percorso un centinaio di metri si misero a correre, gettando via qualcosa. Una donna li vide, raccolse ciò che era stato gettato e accortasi che si trattava di due tessere del fascio, diede l’allarme e i due furono ben presto nelle mani degli Arditi del popolo che li interrogarono e li perquisirono accuratamente, trovando nell’interno della giacca di uno dei due giovani, cucito sotto la fodera, un messaggio inviato dai fascisti spezzini a quelli di Carrara, contenente indicazioni precise che avrebbero permesso alle squadre di prendere Sarzana come in una morsa. Il messaggio diceva anche che fra Cerri e Monte Marcelli, e precisamente ad Ameglia, squadre armate erano pronte ad attaccare la città. Il Comitato di difesa decise allora di mandare da quelle parti gruppi di armati: avvenne così il primo scontro nel quale ebbero la peggio i fascisti che furono ricacciati verso La Spezia». Chi ha fatto la Resistenza comprende che cosa si prova in quelle situazioni e la lotta partigiana annovera decine di episodi come questo.

I giornali fascisti e quelli ben pensanti – continua Ferro – subito dopo il 21 luglio, com’era già avvenuto altre volte in simili circostanze, misero in atto la loro tecnica deformatrice della realtà e, poiché la spedizione punitiva c’era stata e di essa i fascisti erano chiaramente i soli responsabili, si diedero a narrare innumerevoli atrocità commesse dai «comunisti» contro le persone degli squadristi che fuggivano attraverso le campagne del sarzanese, e a parlare con insistenza di bande armate che, a cominciare dal 21 luglio avrebbero sparso il terrore nella Lunigiana, mentre i giornali socialisti e quelli anarchici, al contrario si affrettarono a negare tutto ciò. A dire il vero, le atrocità ci furono, ma si trattò di delitti commessi da una popolazione esasperata, perché vissuta per molti mesi sotto una pesante minaccia; delitti che sembrano non potersi attribuire all’organizzazione degli Arditi del popolo, ma piuttosto a gruppi di contadini che, non potendo essere efficacemente protetti dal Comitato di Difesa cittadino, i cui sforzi erano principalmente concentrati in città avevano provveduto ad armarsi autonomamente ed avevano ricevuto armi e munizioni dallo stesso Comitato di Difesa.

Per quanto concerne l’uso dell’aggettivo repubblicano attribuito al Ricci ricordo che il Ricci non fu solo il provocatore fascista ma fu l’ex legionario fiumano accorso con ex interventisti, sindacalisti deambrosiani, futuristi e militanti fascisti al seguito di Gabriele D’Annunzio, per partecipare alla spedizione di Fiume, nel settembre 1920, alla quale nessun militante aderente al Partito Repubblicano tradizionale partecipò. Una parte di quei legionari seguaci di de Ambris auspicò che la Reggenza del Carnaro, retta da D’Annuzio a Fiume, si trasformasse, in odio allo stato liberale e in opposizione agli accordi italo-jugoslavi di Rapallo, in Repubblica del Carnaro. Da qui nacque l’equivoco di legionari repubblicani… improvvisati. E mentre Ricci continuava la sua opera fascista il regime combatteva il Partito Repubblicano Italiano, creato da Giuseppe Mazzini nel 1831-32, fino a sopprimerlo come formazione legale. Bisogna quindi sfatare la leggenda resa per un certo periodo di tempo credibile della Repubblica del Carnaro e dei legionari fiumani repubblicani.

Umberto Marzocchi

[1] La lettera è stata recentemente inserita, insieme ad altri articoli, sul tema nel volume di R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ‘800 e ‘900, Pisa, BFS, 2020, pp. 401-403.
[2] U. Marzocchi, La testimonianza di uno che c’era, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 5 ottobre 1981, p. 21.




Mazzino “Aldo” Fedi

Stando a quelli schedati nel Casellario Politico Centrale, furono 23 gli antifascisti pistoiesi che si recarono in Spagna per combattere la Guerra civile. Il numero sale a 36 dalle stime riportate nel progetto Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, promosso e realizzato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Dalla seconda metà del 1936, ortolani, braccianti, artisti teatrali, tappezzieri, minatori, verniciatori, operai, muratori, decoratori, manovali, calzolai e terrazzieri si mossero da più parti della provincia per raggiungere la penisola iberica, valicando a piedi i Pirenei dalla frontiera di Port Bou o raggiungendo Barcellona dal porto di Marsiglia. Un’operazione rischiosa e svolta in totale clandestinità, animata – riprendendo le parole di Leo Valiani, recuperate da Ilaria Cansella – dalle «loro idee di libertà, di democrazia, di socialismo nella forma più pura ed universale»[1].

Alla fine dell’ottobre 1936, di questo scenario entrò a far parte anche Mazzino “Aldo” Fedi. Nato a Pistoia il 19 aprile 1912 da Ferruccio e Isola Nesi, a soli vent’anni finì sotto la lente della Polizia politica. Il suo fascicolo venne infatti aperto nel 1932, pochi giorni dopo la denuncia che lo aveva raggiunto dalla questura di Firenze per essersi iscritto alla sezione del Partito comunista d’Italia segretamente ricostituitasi a Prato. Quel giovane minuto e dai capelli ondulati, finallora privo di qualsivoglia ruolo attivo in campo politico, era stato descritto – secondo la tipica retorica utilizzata dai fascisti nei confronti degli oppositori – come un ragazzo dal «carattere impetuoso, ozioso, di comune intelligenza» e di «limitata cultura, avendo frequentato solo la scuola elementare». Eppure la sua scaltrezza gli aveva permesso di ottenere subito credito come «fiduciario di zona dei giovani comunisti», aspetto ancor più rimarchevole se considerata la natura manifatturiera di un’area come quella di Prato. Nella città del tessile si era recato nel 1927 in cerca di lavoro, trovandolo come manovale e lanino: a Pistoia aveva lasciato la sorella Fulvia e il cognato Alfredo Boni, entrambi definiti di «buona condotta morale e politica»[2].

Braccato e denunciato al Tribunale speciale – il 30 giugno 1932 – per «organizzazione comunista», Fedi fu quindi costretto alla fuga. Iscritto alla Rubrica di frontiera, al Bollettino delle ricerche e in possesso di documenti falsi per eludere il mandato di cattura (emanato il 23 luglio), diede inizio ad un lavoro di depistaggio che lo accompagnò per tutto l’arco della sua lunga latitanza. Per uscire dall’Italia utilizzò la falsa identità di Aldo Ferri, munito di un passaporto spagnolo «rilasciato dal Gobernador Civil di Oviedo il 16 gennaio 1932 e intestato a don Pedro Antonos, nato a Bilbao il 14 febbraio 1904»: l’uomo risultava arrivato da Bardonecchia il 19 aprile 1932 e ripartito da Livorno il 23 seguente, diretto a Marsiglia dopo una tappa nella città corsa di Bastia. Una traiettoria estremamente battuta all’interno della rete clandestina antifascista. La vera identità di “Ferri” fu scoperta solo alla fine dell’agosto 1932: Fedi – indicava il prefetto di Firenze, Luigi Maggioni – aveva «effettivamente fatto ritorno a Prato il 20 aprile [1932], da dove si era allontanato qualche mese prima, ed […] essendo per ragioni politiche ricercato, riuscì a fuggire come ha scritto ai familiari, espatriando proprio dal porto di Livorno il 23 aprile stesso e riparando in Corsica».

Nel frattempo la sua attività aveva già conosciuto ulteriori evoluzioni, procedendo anche in Francia la militanza nelle file comuniste. Non passò comunque molto perché la sorveglianza fascista ottenesse un primo risultato: Fedi scoprì infatti che a segnalarlo alla polizia fiorentina era stato Giuliano Giovannelli, zio di Nella Giovannelli, maestra elementare di San Giusto con cui aveva avuto una relazione. Decise pertanto di scrivere all’indirizzo del suo detrattore una lettera durissima, accompagnandola con alcuni espliciti ritagli de “l’Unità” ed un opuscoletto relativo al XV° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre:

Oggi stesso sono venuto ad avere un colloquio con un compagno che sono pochi mesi che è giunto dall’Italia, dove io [h]o voluto che esso mi facesse una relazione sul mio conto. E mi è stato riferito che il colpevole della mia causa sei stato tutto te. Non credevo mai…Sì, sei te il traditore del proletariato del nostro paese? Vigliacco: vergognati, un artigiano rovinato come sei tu mettersi al servizio della société del mondo attuale. Quando vedi un proletario ogni giorno che lotta per le tue rivendicazioni e te vai a denunziarlo che esso lotta per un miglioramento di vita per tutta la classe lavoratrice, e per i contadini che dona tutta la sua vita per coloro che non hanno ancora compreso cosa è il Fascismo e tu vai a fare la spia? Vergognati. Sfido io se fossi un uomo che avresti un po’ di umanità dovresti fare il tuo volto pieno di rossore quando passi di fronte a un lavoratore. Perché sei un suo traditore, un disgregatore delle file rivoluzionarie del proletariato dove i meglio combattenti portano una lotta senza quartiere per un benessere di tutta l’umanità sofferente, e te vile uomo dal cuore di marmo vai per le sedi della questura a denunciare il suo ideale, il suo pensiero che essi vogliono sferrare gli anelli delle sue catene fasciste. Dimmi uomo senza cuore cosa [h]ai raggrumolato durante (11 anni) di dominio fascista? Parla su questo punto perché è molto importante. Nulla, non è vero? Altro che miserie e torture e sacrifici e fame, giorno-giorno. Questo non lo puoi negare, lo so meglio io che te da che andavi a farti prestare 10 lire per mangiare in quel giorno. Uomo venduto, uomo senza cuore sei stato a venderti al Fascismo per un tozzo di pane, cioè forse per la gloria, ti contentavi soltanto che venisse a pronunciare un linguaggio che dicesse: bravo Giovannelli, tu sei un vero e proprio italiano, un vero fascista. Non è vero? Uomo che sa cosa è il Fascismo, un uomo che è stato come da…ti sei ridotto a fare la spia? Vergognati mascalzone. Traditore della classe sfruttata. Forse lo facevi per via venissero a metterti alla [g]reppia? 1°) Ti ricordi quando ero latitante il giorno 21 aprile che [venisti] a trovarmi nella capanna, che mi dicesti questa sera verrai a dormire in un posto che te lo procuro io. Volevi farmi arrestare, non è vero? Furbo il gatto, ma furbo il topo. 2°) Ti ricordi quando alla tua nipote gli mandasti quella lettera che gli spiegavi che faceva all’amore con un comunista, con l’uomo più pericoloso del paese, e gli dicevi che era il prete del paese che l’aveva inviato? Per via che essa venisse a intimorirsi che il nostro amore venisse a troncare. Ma tutto il contrario. Fu forte e potente. Perché facevi tutto questo? Sfido che l’indovino, ascolta: perché siete molto amanti del denaro, siete gente che vivete per un soldo soltanto. Vi piace di vedere le gemme d’oro tanta ricchezza. Avete molto la mentalità borghese. Siamo noi proletari ad ammirarsi che si trova, che siamo gli sfruttati, che noi non ha nessun mezzo di sussistenza, che noi lottiamo efficacemente per mandare in un fondo precipizio la società attuale per un benessere della classe proletaria come hanno fatto i nostri fratelli russi che loro hanno saputo liberarsi dalla schiavitù zarista. Quindi molti vorrebbero impedirla questa lotta, e una tra i quali sei te uomo malvagio. Quello che mi denunciavi lo avevi indovinato. Sì lo ero e non mi vergogno a ripeterlo, e sempre lo sarò, sono molto orgoglioso di essere un giovane comunista, un vero e proprio rivoluzionario che tutti i giorni porta una lotta che non ha fine. Guarda, prendi questo esempio: tu sei stato alla guerra, hai lasciato tutto sul fronte per difendere la borghesia dove molti e molti dei lavoratori hanno lasciato tutti la sua vita, molti sono restati mutilati, molti bimbi sono restati senza babbo, senza una gioia, senza felicità. E te, voi, a tradire il proletariato. Mascalzone, ricordati che presto tornerò che nulla mi sono dimenticato di quello che [h]ai fatto. Sono giovane e tutto sono bono ad affrontarti. Non credere che io venga dicendoti così che io soffro perché sono lontano dal mio paese. Non è soffrire trovandosi lontano dalla gente che amo e quello che [h]o sempre amato, ma soffrono coloro che della vita fanno mercato come uno tra i quali sei te che vai mettendo la tua vita all’asta e la vendi. Cesso di mandarti tante di queste parole ma ne avrei ancora da farti un lungo romanzo perché ritrovandomi all’estero mi sono ancora più istruito.[3]

Nell’inviare l’epistola, Fedi dovette necessariamente indicare un suo pur generico riferimento: Bar Restaurant Gino, 288 Avenue D’Arles, Marsiglia. Consapevole di essere stato individuato, cercò così di sviare ancora una volta la polizia annunciando la sua immediata partenza per Nizza.

Nell’aprile del 1933 risultava in realtà ancora residente nel capoluogo provenzale, dove – comunicava il console reggente Valeriani – figurava «abbastanza» attivo «nella locale sezione del Partito comunista, che ha sede presso il Club International des Marins». Sicuramente si spostò invece nel giugno 1933, inviato a Tolone dall’Organizzazione centrale comunista di Parigi; all’incarico nel dipartimento del Varo ne seguì poi un altro «per propaganda» nel vicino comune di La Seyne-sur-Mer. Qui – sotto i falsi nomi di Feoli, “Masaniello”, “Alfredo” e “Fieno” – partecipò all’organizzazione del Congresso dei comitati del Fronte unico antifascista ed entrò in contatto con Giorgio Salvi, celebre antifascista di Poggibonsi che proprio in quel momento stava per completare un lungo giro della Francia in cui si era impegnato a propagandarne la causa[4]. Fedi stesso sarebbe stato tra gli oratori della prima adunanza del Fronte a Marsiglia (24 e 25 dicembre 1933), appuntamento a cui presero parte anche il dottor Giuseppe Berti, Giacinto Bruno Serrati, Bruno Monciatti, Angelo Lucchi, Giuseppe Steddatu, Pasquale Donno, Alighiero Bonciani, Amedeo Frosine, Celestino Vittone, Alessandro Bandoni, Gino Bagni, Attilio Millin, Ettore “Trinca” Privilegi, Ovidio “Lupo” Pessi e Silvano Picchi.

Nel luglio del 1932, peraltro, aveva intrattenuto un breve carteggio anche con l’anarchico Errico Malatesta (indirizzando le lettere alla moglie Elena Melli), già gravemente malato e destinato a morire pochi giorni dopo (il 22 luglio) l’ultima lettera di Fedi (datata 15 luglio). Al centro dello scambio era finita la volontà di alcuni antifascisti italiani di chiudere la pubblicazione di “Lotta”, periodico comunista spesso vicino ad alcune delle posizioni espresse dall’Unione anarchica italiana: una scelta con la quale il nativo di Pistoia si era mostrato in sostanziale disaccordo, evidenziando indirettamente le distanze che ormai persistevano tra la base del Pcd’I e il movimento anarchico italiano[5]. Tra il 1933 e il 1934 furono invece frequenti i suoi contatti con Mazzino Chiesa, membro della Federazione italiana dei lavoratori del mare che – sotto le direttive del comitato centrale del Pcd’I di Marsiglia – aveva ricevuto l’incarico di organizzare i marittimi delle «navi mercantili italiane che tocca[va]no quel porto» e di avvicinarli «distribuendo loro stampa del partito e tessere»[6]. Era stato proprio Chiesa – stando alla ricostruzione del capo della divisione Polizia politica Di Stefano – a chiedere a Fedi un aiuto nella divulgazione del materiale propagandistico, almeno fino a quando il pistoiese non si imbatté erroneamente nel console:

Per il mattino alle ore 9 del 15 aprile 1934 la S.S. Italia (O.N.D.) aveva organizzato una corsa ciclistica che ha ottenuto un brillantissimo successo. Durante le operazioni preparatorie della partenza, due individui modestamente vestiti ed assai giovani di età incominciarono ad aggirarsi fra i corridori distribuendo manifestini. Essi si avvicinarono anche a me e me ne diedero. Constatato – come supponevo – che si trattava di manifestanti antifascisti, strappai quelli che avevo in mano e rivolgendomi a colui che me li aveva dati, feci il gesto di strappargli di mano il poco che teneva ancora. Ne seguì una discussione assai vivace, nel corso della quale, avendo io detto che non eravamo in sede adatta per fare della politica e che volevo sapere che cosa volessero da noi, uno dei due si tolse la giacca e propose una “partita di pugni”. Risposi tranquillamente e semplicemente volgendo le spalle; l’individuo (che nel frattempo avevo riconosciuto per il Fedi Mazzino, ben noto a codesto R. Ufficio) disse allora “sapremo ritrovarti”; rivoltomi allora verso di lui gli dissi: “Ti aspetto e perché tu non abbia a sbagliare ti dico che sono il Console”. Il Fedi, seguito dall’altro che si era sempre tenuto tranquillo, si allontanò quasi immediatamente, ma continuò a distribuire gli stampati. Persona che si trovò poi vicina a lui nello stesso tram che li riconduceva a Tolone, lo ha udito dichiarare che “se avesse saputo che parlava con il Console non avrebbe fatto così” ed ha constatato che il Fedi era leggermente preoccupato delle conseguenze del suo gesto. Tale preoccupazione non gli ha però impedito – a quanto pare – di ricominciare nel pomeriggio al Velodromo di La Seyne. In una riunione ivi organizzata dai francesi, i corridori vincitori della mattina dovevano fare un “giro d’onore”. Erano quindi presenti alcuni dei dirigenti della S.S. Italia ed uno di questi (Germinale Cantone, organizzatore della Squadra Ciclistica) fu preso a mal partito; incidenti seri sarebbero stati evitati unicamente grazie all’intervento del padrone del Velodromo (M. Philip) che fece intervenire un agente che espulse uno dei figuri che peraltro non pare fosse il Fedi (che però era presente).

L’episodio portò Fedi (sotto l’ennesima falsa identità di Rolando Caccioni) all’arresto, avvenuto a Tolone nei primi mesi del maggio 1934.

[1] Cfr. I. Cansella, Volontari in guerra, in http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/percorsi_volontari_ita.htm (ultima consultazione: 3 giugno 2021).

[2] Fedi aveva anche un’altra sorella, Olga, coniugata con Federico Marchi.

[3] Come anticipato, alla lettera – qui riportata per intero – seguivano anche alcuni ritagli de “l’Unità” e un opuscolo. I primi – del 17 e del 25 novembre 1932, anno IX – recavano due articoli indicativi: Le promesse e i fatti del Decennale nei discorsi del fascismo e Le contraddizioni del fascismo, firmato Ercoli (Palmiro Togliatti). Sul bordo della testata, Fedi aveva inoltre appuntato: «Fedi Aldo, russo, nato a Mosca, Lenin». Il volantino invece era titolato 7 novembre 1917 – 7 novembre 1932. Difendiamo la nostra patria socialista! Lottiamo per fare come in Russia, riferendosi ovviamente al XV° anniversario della Rivoluzione russa.

[4] Dopo lo scioglimento della Concentrazione antifascista, alla quale il Partito comunista d’Italia non aveva aderito, sorsero alcuni organismi unitari che ebbero però breve durata. Tra questi vi fu anche il Fronte unico antifascista, destinato a precedere la linea dei Fronti popolari della seconda metà degli anni Trenta. Quanto a Giorgio Salvi (1896-1979), dal 1928 era entrato a far parte – assieme ad Angelica Balabanoff – del Comitato esecutivo del Bureau International des Partis Socialistes come rappresentante del Psi, carica che ricoprì fino al 1933. Dal 1933 al 1936 proseguì invece il suo impegno nel Comitato centrale del Comitato mondiale per la lotta contro il fascismo, noto appunto come Fronte Unico Amsterdam-Pleyel. Cfr. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=49707.

[5] La morte di Malatesta venne fatta passare sottotraccia dalla stampa italiana. Uscì un solo trafiletto su “l’Unità”, dove l’anarchico veniva comunque definito «politicamente morto» da diverso tempo.

[6] Cfr. S. Gallo, Mazzino Chiesa, un uomo in mare, in https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (ultima consultazione: 3 giugno 2021).

Articolo pubblicato nel giugno del 2021.




Archeologia della Seconda guerra mondiale.

Quando le truppe del Terzo Reich riuscirono a bloccare l’avanzata degli anglo-statunitensi lungo la linea Gustav (dal 4 ottobre 1943 al 18 maggio 1944), l’intero territorio toscano divenne una delle retrovie dei difensori e ciò aumentò notevolmente i rischi di attacchi aerei; per prevenire questi ultimi, come si capì ben presto nel territorio senese, negli anni precedenti era stato fatto troppo poco. Le prime incursioni pesanti si ebbero rispettivamente il 21 novembre, contro Chiusi, e il 29 dicembre contro Poggibonsi; entrambi gli attacchi provocarono numerose perdite tra la popolazione civile, rilevanti distruzioni[1] e una profonda emozione poiché era palese che, se nel capoluogo alcuni rifugi (in molti casi insufficienti e inadeguati) erano stati realizzati, per quanto riguardava gli altri centri abitati della provincia la situazione era ben diversa. A Chiusi ci si era mossi soltanto nel marzo del 1944, quando era stato depositato un progetto per realizzare un ricovero all’interno del cosiddetto “labirinto”[2] ma a tutt’oggi non si è fatta piena luce su quale fosse lo stato d’avanzamento dei lavori al momento della liberazione della cittadina (avvenuta il 26 giugno di quello stesso anno). Ancora oggi non sono note relazioni circa la presenza di rifugi antiaerei per la popolazione civile in nessuna delle altre città del territorio ma è ipotizzabile che tali opere fossero rarissime e, in buona parte dei casi, dovute all’iniziativa personale dei singoli cittadini.
Non diversa appariva la situazione nelle campagne del senese. Nel 1941 il regime aveva capito che l’integrità dei raccolti era strategica e questo elemento era divenuto pressante a partire dal 1942 quando il reperimento di rifornimenti alimentari per la popolazione civile si era fatto difficoltoso. Si provvide pertanto, oltre ad allertare i vigili del fuoco, a diffondere nelle aree rurali millecinquecento volantini, realizzati dal Ministero degli interni, su “Come proteggersi dalle offese nemiche incendiarie”; a questi si affiancarono dei foglietti dedicati a “Come proteggersi dalla nuova offesa aerea nemica: La piastrina incendiaria” pubblicati l’anno precedente.
Nel 1943 il Ministero degli interni aveva dato alle stampe dei nuovi vademecum dedicati alla difesa delle campagne e dei raccolti. Si raccomandava in particolar modo di tenere sempre riserve d’acqua presso campi, stalle, fienili e legnaie inoltre si invitava a tenere puliti i terreni in prossimità dei campi coltivati e di realizzare in questi ultimi, qualora le dimensioni lo permettessero, delle strisce tagliafuoco. I consigli forniti riguardavano anche la disposizione dei covoni che non dovevano essere né eccessivamente grandi né disposti in fila indiana, bensì a scacchiera mentre il raccolto doveva essere conservato in più luoghi al coperto. Data l’indisponibilità dei vigili del fuoco (che in caso di attacco aereo sarebbero stati presumibilmente impegnati nei centri urbani), il primo intervento di soccorso era affidato a squadre di agricoltori, opportunamente istruiti dagli stessi vigili del fuoco, allarmati da avvistatori reclutati tra la Gioventù del littorio[3].
I provvedimenti e le raccomandazioni dovettero essere di scarsa efficacia poiché il capo della provincia di Siena, il 2 giugno del 1944, in una nuova direttiva inviata agli agricoltori dichiarava che i mezzi per la difesa dagli attacchi aerei nelle campagne erano “quelli di cui si dispone in posto” e che sarebbe stato inutile “attendere l’aiuto di quelli esigui delle città[4]”.
Gli abitanti delle campagne erano dunque invitati ad arrangiarsi con i mezzi che avevano, tuttavia, per molti di loro questa raccomandazione era superflua. Forti dell’esperienza della Prima guerra mondiale, alcuni agricoltori, per sottrarsi ai rigori delle requisizioni di generi alimentari, avevano ben presto attivato una serie di escamotages finalizzati all’occultamento di una parte delle derrate prodotte e, in seguito all’intensificazione degli attacchi aerei sul territorio senese, a partire dalla fine dell’inverno del 1944, avevano costruito un certo numero di rifugi; tra questi, particolarmente degni di nota appaiono quelli scavati nelle sabbie plioceniche (comunemente dette “tufo” in dialetto locale), materiale di cui è ricca l’area settentrionale della Val d’Elsa senese[5].
La compattezza delle sabbie in questione, la facilità di scavo e il limitato pericolo di crolli, anche in assenza di armatura delle gallerie, erano state notate già in età etrusca, quando le popolazioni locali avevano sfruttato queste caratteristiche non soltanto per scavare tombe a camera più o meno articolate ma anche magazzini e locali di servizio polifunzionali. L’utilizzo dei terreni pliocenici per la realizzazione di cantine e depositi era continuato nel medioevo e nell’età moderna per giungere fino alla prima metà del Novecento quando questa tecnologia si fuse con le conoscenze belliche che buona parte degli agricoltori del posto aveva acquisito nella Grande guerra. Il risultato fu, con l’approssimarsi della linea del fronte, la costruzione, nelle campagne, di un numero imprecisato di ricoveri che, almeno per la zona Poggibonsi-Barberino Val d’Elsa, possono essere raggruppati in due tipologie: una semplice e l’altra complessa. Nel primo caso si hanno delle cavità poste a pochi metri dalle abitazioni, con una sola entrata abbastanza ampia e profonde soltanto pochi metri; queste avevano il compito di offrire un riparo immediatamente raggiungibile in caso di mitragliamento o spezzonamento, pericolo sempre incombente nelle aree rurali.
La seconda tipologia appare invece molto più articolata. In questo caso ci si trova di fronte a realizzazioni di dimensioni importanti, lontane alcune centinaia di metri dagli edifici e realizzate su costoni boscosi che permettevano il camuffamento dell’entrata. Al rifugio vero e proprio si accedeva mediante corridoi stretti (al cui imbocco, su una parete, veniva spesso graffito il nome del costruttore e la data di ultimazione dei lavori) ma sufficientemente ampi da permettere il passaggio delle persone e il trasporto delle derrate alimentari. All’interno si aprivano delle camere in grado di ospitare una o più famiglie di agricoltori e qualche animale. In questi locali si era addirittura pensato a un minimo di confort realizzando nelle pareti delle nicchie dove sistemare piccole suppellettili o lucerne. Le strutture più grandi presentavano vari livelli a cui si accedeva mediante delle scalinate, anch’esse scavate nella sabbia, o talvolta delle camere segrete, in cui venivano occultati il grano e gli altri viveri, collegate per mezzo di scale a pioli. Questa tipologia di struttura presentava sempre una via di fuga (accessibile anch’essa per mezzo di uno stretto corridoio) ragion per cui, alcuni dei rifugi più piccoli (formati da un corridoio d’entrata, uno d’uscita parallelo al primo e una sola camera) sono detti a “U”.
I rifugi più grandi furono preziosi durante il passaggio della linea del fronte dalla Val d’Elsa in quanto si dimostrarono particolarmente efficaci come protezione in caso di cannoneggiamento e come nascondiglio per prevenire razzie e violenze. Ovviamente i combattimenti e le scorrerie di alcune schegge impazzite facenti parte dei diversi eserciti costrinsero spesso i civili a rimanere più giorni all’interno dei rifugi che erano privi di servizi igienici, energia elettrica e acqua corrente. A questi disagi va aggiunto che il sovraffollamento e la presenza degli animali, faceva sì che i locali venissero infestati dai pidocchi e dalle pulci rendendo particolarmente difficile la vita all’interno[6]. Tuttavia il pericolo più importante era costituito dal fatto che il ricovero venisse individuato da qualche gruppo di soldati in cerca di bottino o di donne. In questi casi gli episodi di violenza più brutali si consumavano davanti agli occhi impotenti degli stessi familiari delle vittime[7].
Con fine del conflitto, queste improvvisate ma efficaci opere di difesa, data la loro posizione in siti impervi, vennero abbandonate e talvolta trasformate in discariche per poi essere quasi completamente dimenticate. Soltanto oggi, a tanti anni dalla loro realizzazione, qualche struttura è stata riscoperta e ripulita per essere proposta come laboratorio didattico[8].

Immagini
Rifugio “complesso” scavato nelle sabbie plioceniche in loc. Barberino Val d’Elsa (Fi).
1. Ingresso.
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2. Corridoio d’accesso alle camere interne.

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3. Corridoio con scalinata per accedere al livello inferiore.

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4. Accesso alla camera interna.

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5. Camera interna.

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6. Locale per magazzino interno.

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7. Seconda uscita.

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Note
[1] Le due incursioni, precedute da uno stillicidio di attacchi minori, causarono la morte di otto civili e il ferimento di quaranta persone a Chiusi (a questo computo mancano le perdite patite delle truppe tedesche presenti in città ma la cifra ci è ignota) nonché numerosi feriti e ben settantadue morti a Poggibonsi. Borri Michelangelo, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Monteriggioni, Il Leccio 2019, pp. 76-77.
[2] Archivio di Stato di Siena, Prefettura 1800-1978, b. 6M, f. 7 Ricovero antiaereo Chiusi.
[3] Borri Michelangelo, La guerra aerea su Siena…, cit., pp. 76-77.
[4] Archivio di Stato di Siena, Prefettura 1800-1978, b. 9M, f. 16, 2 giugno 1944, Lettera del capo della provincia a vari enti.
[5] A tutt’oggi non esiste né una mappa né tantomeno un censimento dei rifugi, scavati nelle sabbie plioceniche, risalenti alla Seconda guerra mondiale. Al momento è stato possibile rintracciarne alcuni nei territori dei seguenti comuni: Poggibonsi, Barberino Val d’Elsa, Gambassi Terme (la fotografia di un rifugio di quest’area è presente sul sito https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1028659-d1754882-i28657456-Borgo_dei_Cadolingi-Gambassi_Terme_Tuscany.html, visitato il 14 giugno 2021), Empoli (Monterappoli, inaugurata la mostra sul rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale in https://2017.gonews.it/2015/01/18/empoli-monterappoli-inaugurata-la-mostra-sul-rifugio-antiaereo-della-seconda-guerra-mondiale/, visitato il 14 giugno 2021), Terricciola (I rifugi di guerra per salvarsi dai bombardamenti. Dalle grotte di campagna ai cunicoli sotterranei in https://www.lanazione.it/pisa/cronaca/i-rifugi-di-guerra-per-salvarsi-dai-bombardamenti-dalle-grotte-di-campagna-ai-cunicoli-sotterranei-1.6252684, visitato il 14 giugno 2021), Cesena (Scavati nel tufo al Rio San Michele: ecco come si viveva nei rifugi ai tempi della Guerra in https://www.cesenatoday.it/eventi/rifugi-seconda-guerra-mondiale-rio-san-michele-30-giugno-2018.html, visitato il 14 giugno 2021), Monte Colombo – Montescudo (Tordi Simone, Monte Colombo. I rifugi antiaerei della Valle del Rio Calamino in https://circolopentapoli.wordpress.com/2015/05/30/monte-colombo-i-rifugi-antiaerei-della-valle-del-rio-calamino/, visitato il 14 giugno 2021).
[6] Cfr. Scavati nel tufo al Rio San Michele: ecco come si viveva nei rifugi ai tempi della Guerra…, cit.
[7] Lucioli Massimo – Sabatini Davide, La ciociara e le altre. Il Corpo di spedizione francese in Italia, Roma, Tusculum 1998, pp. 88-90. Cfr. Bardotti Riccardo, Attenti a dove sparate. La liberazione di Siena raccontata dai fotoreporter dell’esercito francese, Siena, Betti 2018, pp. 43-46.
[8] Si veda a tale riguardo Memoria e trekking per celebrare la liberazione di Poggibonsi, in http://www.sienafree.it/poggibonsi/65569-memoria-e-trekking-per-celebrare-la-liberazione-di-poggibonsi, visitato il 14 giugno 2021.

Articolo pubblicato nel giugno del 2021.




Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




Nascita di una democrazia

«La Repubblica non fu e non doveva essere soltanto un cambiamento di forma di governo: doveva essere, e sarà, qualcosa di più profondo, di più sostanziale: il rinnovamento sociale e morale di tutto un popolo; la nascita di una nuova società e di una nuova civiltà» (Piero Calamadrei)

La nascita della Repubblica è stata giustamente considerata una data storica per il nostro paese, ma non è stata quello che si potrebbe definire ‘un parto facile’, tutt’altro. Non a caso intorno alle circostanze della sua proclamazione si addensano ancora oggi molti interrogativi cosi come le accorate e solenni parole di Piero Calamandrei sopra riportate non sono che un’aspirazione alla nascita di una ‘religione civile’ repubblicana nutrita a lungo da una componente dell’antifascismo.

Dopo una guerra sanguinosa e vent’anni di  dittatura fascista, proprio il 2 giugno 1946 l’Italia è chiamata ad un doppio compito: esprimersi sulla forma dello Stato (monarchico o repubblicano) e votare i partiti che saranno rappresentati all’Assemblea Costituente.
Alcuni decreti luogotenenziali avevano posto le basi legislative per il referendum: quello del Governo Bonomi (n. 151 del 25 giugno 1944) e soprattutto tre del governo De Gasperi  (16 marzo 1946, n.74, n. 98 e n. 99) che  integravano e modificavano la normativa precedente, affidando appunto ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello stato e fissando le norme per la contemporanea effettuazione delle votazioni per il referendum e l’Assemblea costituente, quest’ultima da eleggersi con sistema proporzionale.

Dopo molto tempo gli italiani tornano a votare democraticamente (in Italia non accade dal 1924, escludendo i plebisciti del 1929 e del 1934) e, inoltre, si tratta della prima consultazione in cui hanno diritto di voto le donne.
Il 31 gennaio del 1945, infatti, con il Paese ancora diviso ed il nord sottoposto all’occupazione tedesca il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23).
Questo è esercitato nel corso delle elezioni amministrative del marzo 1946 ma è sicuramente con il voto del giugno che la rappresentanza politica femminile acquista un valore che si può definire sicuramente fondativo della nuova democrazia repubblicana. Sui banchi dell’Assemblea costituente sedettero una prima pattuglia di donne: nove della Democrazia Cristiana, nove del Partito Comunista Italiano, due del Partito socialista ed una dell’Uomo qualunque.

Riguardo alla scelta istituzionale, le forze politiche si schierarono diversamente: il partito comunista, il partito socialista e il partito d’azione manifestarono apertamente la loro posizione repubblicana, insieme ovviamente al partito repubblicano.
Un’analisi più attenta va fatta sulla posizione tenuta dalla democrazia cristiana, che al suo interno aveva posizioni variegate. Nell’aprile 1946 si tenne il congresso di Roma dove la maggioranza della DC si schierò a favore della repubblica, ma con dei distinguo poiché al suo interno i rappresentanti del Nord erano quasi tutti in favore della repubblica, quelli del Sud per la monarchia. Nonostante questa scelta, probabilmente per la presenza di queste queste posizioni contrapposte, il partito non obbligò i suoi membri a votare in un senso piuttosto che in un altro. La stessa libertà venne lasciata ai membri del partito liberale, a netta maggioranza monarchica.

Un tentativo per portare la bilancia a proprio favore fu fatto dalla monarchia italiana: il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III (che portava con sé la responsabilità di avere spalancato le porte al fascismo) abdicò in favore del figlio Umberto, una mossa che cercava di dare nuova luce alla monarchia ma che giunse troppo tardi.

Il nuovo corriereIl 2 giugno 1946 il popolo italiano si espresse in favore della repubblica. La campagna elettorale fu assai vivace, e l’affluenza alle urne fu altissima: votò l’89,1 per cento dei 28.005.449 aventi diritto, per un totale di 24.947.187 votanti. La forma repubblicana venne sostenuta da 12.717.923 voti contro i 10.719.284 a favore della monarchica.
I risultati del referendum mostrarono concretamente come le forze politiche del Paese erano geograficamente spaccate tra Nord e Sud. Culla dei voti monarchici fu proprio il Mezzogiorno dove questi cercarono il loro consenso nel tentativo di colmare le distanze nei confronti dei repubblicani, ben consci del fatto che sarebbe stato inutile condurre tale operazione al Centro e al Nord. Lo stesso Piemonte, padre della dinastia, a seguito del referendum darà una netta maggioranza repubblicana.
Nelle elezioni per la Costituente, la Democrazia cristiana divenne il primo partito (35,2%), seguito da due partiti di sinistra, il Psiup (20,7%) e il Pci (19%).
Il 13 giugno, dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, Umberto II lasciò l’Italia e partì in esilio per il Portogallo. Luigi De Nicola, liberale, venne eletto Presidente provvisorio.

In Toscana la scelta repubblicana è nettissima. Nel referendum istituzionale i voti a favore della repubblica sono il 71,6 per cento; alla monarchia solo il 28,4 dei voti validi. Nelle elezioni per l’assemblea costituente, il Pci raccoglie il 33,6 dei suffragi, la Dc il 28,2, il Psiup-Psi il 21,9, il Pri il 5,6 mentre il Fonte dell’uomo qualunque il 4,2. Seguono il Partito d’azione (1,6) e i cristiano sociali (1,1). Il Pci sarà rappresentato da 14 costituenti, la Dc da 13, il Psiup-Psi da 10, gli azionisti da 2 e 1 il Pri. Il Partito d’azione, dalle cui fila provenivano esponenti di primo piano della Resistenza toscana e che non a caso aveva dato i tre presidenti del Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) si scioglierà e i suoi rappresentanti confluiranno in diversi partiti. Tra i capoluoghi di provincia italiani, Grosseto e Livorno furono rispettivamente terzo e quarto nei voti a favore della repubblica (primi Ravenna con 91,2 e Forlì con 88,3).

La percentuale dei voti espressi per la Repubblica nei capoluoghi di provincia toscani fu la seguente:

schedaGrosseto 80,9
Livorno 80,5
Pistoia 74,3
Pisa 71,2
Massa 70,0
Arezzo 64,4
Firenze 63,4
Siena 59,2
Lucca 55,8

Una pagina fondamentale e fondativa della Repubblica democratica veniva cosi scritta e vedeva proprio la Toscana tra le regioni italiane che con più diffusa convinzione contribuiranno attraverso i propri rappresentati (tra gli altri basti qui ricordare il ruolo di primo piano svolto da Piero Calamandrei e Giorgio La Pira)  ai lavori dell’Assemblea Costituente che porteranno alla stesura della nostra Carta costituzionale entrata in vigore dal 1 gennaio 1948.

Festa nazionale già dal 1947 la celebrazione della data del 2 giugno non decollerà mai del tutto nella sua dimensione popolare, spesso ristretta ad uno  stanco cerimoniale fatto di parate militari e ricevimenti nei giardini del Quirinale fino ad essere soppressa nel 1977. Con la Presidenza di Carlo Azelio Ciampi  invece, in seguito alla L.336 del 20 novembre 2000, il 2 giugno è tornata ad essere una festa nazionale del calendario civile repubblicano, celebrata quale momento essenziale della storia unitaria.




Il comunismo dei contadini. Storie senesi.

Arrivando a Siena nel 1973 dalla Sardegna, dove lasciavo alle spalle 10 anni di impegno politico quasi senza respiro da studente, da insegnante e da militante, pensavo di essere giunto in una terra in cui la tradizione comunista si potesse vedere nei comportamenti sociali collettivi e nello stile di vita. Venendo da un’isola prevalentemente democristiana, e anche da una rete familiare assai conservativa, credevo che avrei trovato qui un popolo all’avanguardia. Rimasi subito deluso. Matrimoni e funerali religiosi e consumisti, alle scuole elementari e medie quasi solo le mie figlie non facevano religione. C’era più circolazione culturale ma sempre limitata ai soliti gruppi. Venendo da una formazione marxista, trovai come interlocutori i meno conformi a quella tradizione: ‘quelli di Lotta Continua’, un gruppo assai vivace e plurale che diede poi vita al movimento ecologista. E sentii vicini i partigiani più critici verso il PCI con i quali si diede vita a varie iniziative legate al Soccorso Rosso. Fui incuriosito dell’esperienza della Resistenza in questo territorio e cominciai a studiarla facendo molte interviste sia nelle zone della Brigata Boscaglia, che in quelle della Spartaco Lavagnini. Mi colpì molto il nesso tra Resistenza e lotte contadine che si svilupparono nel dopoguerra. Fu il tema che decise il mio rapporto di ricerca nella mia nuova vita toscana. In una di quelle interviste un ex partigiano mi disse una frase che è rimasta scolpita nella mia memoria: i mezzadri sò stati la classe operaia del senese. I contadini tanto deprecati già dal Manifesto di Marx ed Engels (“l’idiotismo della vita rustica”), erano stati ‘classe operaia’. Qualcosa di così stravagante da ricordare il finale del film Miracolo a Milano, dove i poveri volano in cielo a cavallo delle scope. Questo filo rosso ha animato varie tesi di laurea che ho seguito. Ho ancora nella memoria i racconti degli scioperi durante la trebbiatura quando la bandiera rossa veniva fissata sullo stollo del pagliaio. Dai racconti mi si palesavano immagini di carabinieri a cavallo nei poderi, tentativi di difesa delle famiglie sfrattate o l’accoglienza dei bambini dei braccianti del Sud impegnati nelle lotte. Totalmente padroni dello spazio poderale, della geografia tra boschi e macchie e coltivato, i contadini mettevano in scacco carabinieri e padroni, come avevano fatto i partigiani alla macchia. Mi fu facile essere dalla parte dei contadini. Ma negli anni ’70 era una storia già conclusa. L’inurbazione di questi strati sociali nuovi alle città era forse anche la spiegazione di una cultura diffusa ritualista e cattolica, non certo innovativa. Ma la città di Siena era da sempre storicamente conservativa. I giovani di sinistra criticavano i ‘borghesi’ che, dopo la messa, tornavano a casa con la confezione delle paste del Nannini. Nel movimento del 1977 vi furono persino critiche al Palio come oppio dei popoli.

La mia scelta è rimasta legata alla ricerca e alla raccolta di memorie. La frase dell’ex partigiano sui contadini come classe operaia, ha trovato poi un senso quasi letterale in una ricerca ad Asciano, e nell’incontro col capolega sindacale Gino Boccini, che in seguito consegnò all’Università il suo quaderno di appunti sulla militanza sindacale contadina. I suoi appunti che partono dal 1947, faticosamente strappati a una scrittura poco abituale, mettono al centro la classe operaia e l’unità di tutte le forze sociali sotto la guida del Partito Comunista. Ma vi è anche testimonianza dei conflitti e delle invidie tra operai e contadini. Operai reali e non teorica ‘classe operaia’, erano quelli che dicevano ‘andiamo a vedere quello che nascondono i contadini e quello che mangiano più di noi’ (cit.) mentre i contadini dal canto loro ‘invidiano la classe operaia’. Boccini è un esempio di militante capace di direzione consapevole. Un quadro contadino a tutto campo, che vive un processo di emancipazione nella scrittura, nella funzione che svolge, nella ideologia e nella strategia che propone, che gli viene da una formazione nuova legata al sindacalismo e alla politica del PCI. Vedere nei suoi appunti il processo di nascita di una nuova coscienza sociale e politica è stato davvero un’esperienza emozionante. Così è successo anche con le memorie scritte da Delia Meiattini una contadina mezzadra che ha lasciato la sua storia di vita in Le barriere invisibili. Cronaca di una vita di una donna dalla terra alla politica. [1] Per me un testo straordinario perché da dentro una infanzia contadina che vive la guerra, il passaggio del fronte, l’alluvione, nasce una coscienza elementare, ingenua prima e poi determinata e anche critica verso il PCI per il quale diventerà in seguito Consigliere regionale. Una sorta di ‘fenomenologia dello spirito’ dentro una singola vita contadina che ne rappresenta certo molte altre. Vite fatte di tanti piccoli episodi, imprese, eventi che sono parti di una storia collettiva di una nuova comunità politica, quella dei mezzadri, vista dal basso. Il libro di Delia è stato studiato da un gruppo di giovani antropologi, studenti dell’Università di Roma e discusso con lei al festival dell’Unità, a Siena in Fortezza, probabilmente nel 1998. Con la sensazione di avere messo la storia contadina al centro di un mondo politico che ormai aveva del tutto dimenticato la stagione epica dei mezzadri. Il suo racconto ci mostra una ragazza proiettata improvvisamente alla scuola quadri femminile di Faggeto Lario, sul lago di Como, dove le corsiste vengono interrogate dalla polizia e scambiate per prostitute, e dove apprende la prima lezione sul Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engles che cominciava con “Uno spettro si aggira per l’Europa…”. Scrive ancora ingenuamente dopo tanti anni di militanza:

Nella cultura contadina lo ‘spettro’ è paura. Io dopo la lettura di quell’opuscoletto non riposai alcune notti. Dalla lettura e dalla discussione del Manifesto non capii granchè . Il corso andava avanti, per alcune di noi, mè compresa, proprio per la difficoltà a capire ciò che si leggeva e discuteva si ebbero delle crisi a ripetizione. Alcune di noi chiesero di tornare a casa.” (pag. 82).

Racconto questo, che ricorda ‘come fu temprato l’acciaio’. [2] Si tratta solo di due casi, ma assai rappresentativi della storia sociale e politica del dopoguerra toscano e confermati da molti racconti simili raccolti su questi temi. Nella sua maturità di funzionaria comunista, Delia, deputata regionale, responsabile della Coop, osa criticare i pettegolezzi, il parlare alle spalle e il perbenismo (allora si diceva ‘piccolo-borghese’) imperante nella Federazione di Siena. Quel perbenismo di cui ho parlato all’inizio di questo scritto e che mi ha procurato una certa delusione.

Certo Siena ha vissuto un difficile processo di trasformazione ed ha accolto (brontolando sottovoce) tanti contadini che per secoli aveva preso in giro con satire sui villani (se ne trovano già nelle novelle del Sermini), che aveva chiamato ‘gazzillori’ se non ‘quelli dell’unghio spaccato’. Insomma, una razza inferiore.

Alle elezioni comunali di Siena il centro storico votava abitualmente DC mentre la periferia, che accerchiava la città, votava PCI. Una ragione di più per fare il tifo per i contadini, spesso impegnati negli orti urbani. Per la ricerca antropologica le principali fonti sono state le donne. Le donne che, secondo una espressione sintetica di Giacomo Becattini, ‘hanno fatto finire la mezzadria’, ma ne sono state anche le principali memorialiste. Progressivamente notavo che nella cultura senese si era di fronte a donne forti, donne protagoniste, donne dirigenti. Anche se avevano faticato ad emergere avendo fatto per lo più, se contadine, solo le elementari.

Nella seconda metà del Novecento il processo di presa di coscienza e di capacità di gestione della modernizzazione da parte dei contadini si è come mescolato nel nuovo groviglio delle identità urbane, finendo per sparire. Diventando infine subalterno al ruolo politico di amministratori di formazione bancaria, impiegatizia, professionistica. Tradizionalmente egemoni, moderati, e anticontadini. Anch’essi idealmente trasformati dai grandi moti sociali ma comunque non disponibili ad accogliere una rilevanza contadina nella gestione della cultura delle città toscane. Del resto, gli ex contadini nemmeno provavano a mettersi in campo. Col risultato che la cultura comunista toscana che poteva essere innovativa nella ricerca universitaria, era invece tradizionalista e continuista sul piano della tradizione artistica, letteraria, elitaria urbana. Nelle condizioni date, la possibilità di creare una nuova cultura moderna, popolare e di massa, secondo le idee guida di Antonio Gramsci, non era certo praticabile. E ben ci stava il parere di Gramsci sul ruolo nazionale della Toscana nel Novecento: “non ha più un ruolo proprio e vive solo della boria dei ricordi passati”.

Negli anni ’70 in un numero di Critica Marxista, Leonardo Paggi e Paolo Cantelli, in quel momento intellettuali di punta del PCI, criticarono e accusarono di provincialismo questo scenario culturale e politico. [3] Ma senza sortire alcun effetto. Eppure, il voto contadino al PCI ha continuato ugualmente per decenni ad essere letteralmente lo zoccolo duro dell’elettorato comunista dell’Italia centrale ex mezzadrile. Probabilmente il voto si fondava su quello che altrove veniva chiamato clientelismo o su alleanze storiche che favorivano il progressivo passaggio da contadini a dipendenti pubblici, e in qualche zona da contadini a imprenditori o, in sintesi, su un rapporto di fedeltà basato su reciproci vantaggi.

Che senso ha parlarne ex post, quando nelle aree compatte del voto ex contadino al PCI compaiono defezioni e vuoti dovuti da un lato alla scomparsa di una generazione, dall’altro all’abbandono dei paesi e delle zone interne da parte dei contadini rimasti e dei figli degli ex contadini? Da un lato questa vicenda fa parte dei grandi paradossi attraverso i quali il PCI si è affermato in Italia come potenzialmente egemonico, dall’altro ci aiuta a capire il rilievo della storia sociale, il suo peso pratico se si conviene con Marc Bloch che “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’incomprensione del passato”.

Le molte storie di vita che sono state raccolte sia attraverso la memoria orale [4] che attraverso la scrittura restano una risorsa e una guida per ritrovare le fila della storia del territorio. Aprono a percorsi della vita vissuta e della soggettività che hanno avuto poca rilevanza sia negli studi che nelle riflessioni politiche. Esse continuano a richiamare l’attenzione su uno straordinario periodo di trasformazioni culturali e sociali che è ancora fondamentale per fare ‘il passo indietro del torero’, [5] quello che consente di vedere con lucidità le difficoltà politiche e sociali del presente. Un mondo di storie che è ben lontano dall’essere visibile ai ceti dirigenti della sinistra attuale.

Note

[1] Comitato di Ente per le pari opportunità, Comune di Siena, s.d. (1997).

[2] È il titolo del romanzo autobiografico di Nikolaj Ostrovskij del 1932, esempio della letteratura del realismo socialista sovietico e quasi involontariamente comico nel descrivere la tempra della nuova umanità comunista.

[3] P. Cantelli, L. Paggi, Strutture sociali e politica delle riforme in Toscana, in “Critica Marxista”, n. 5, 1973.

[4] A. Andreini, P. Clemente (a cura), I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento, Firenze, Centro Stampa Regione Toscana, 2007.

[5] E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1962, è una metafora che indica la necessità di collocarsi indietro nel passato per cogliere con chiarezza il presente, è la sostanza di una postura riflessiva.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

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L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Vittorio e gli altr*: storie di guerra, di scelte e di lotta in terra di Siena

Per il comunista Vittorio Bardini, noto al regime fascista fin dalla seconda metà degli anni Venti per la sua attività “sovversiva”, condannato al carcere e al confino, emigrato in Unione sovietica, combattente come volontario a difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola, la scelta della Resistenza dopo l’8 settembre del ’43 è una strada segnata, la tappa decisiva di una lunga sfida, che lo sottopone ancora a prove estreme come la detenzione nel lager di Mauthausen, ma che lo porta nel 1946 a Montecitorio, eletto all’Assemblea costituente, “padre” della nuova Italia, anche in nome dei compagni caduti nella lotta, come Aldo Borri che negli anni Trenta aveva rinunciato al lavoro di insegnante piuttosto che iscriversi al partito fascista e che dopo l’8 settembre era diventato membro del Comitato militare clandestino senese, ma che era morto in conseguenza del primo bombardamento alleato sulla città, il 23 gennaio 1944.
Così era stato per gli “antifascisti storici” (p. 77), quelli che avevano fronteggiato il regime negli anni dell’Italia in camicia nera e che, dopo l’armistizio, non indugiano nella scelta della lotta armata, come ad esempio Giovanni Guastalli, commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. Non solo uomini, è lo stesso per Norma Soldi e Alva Bucci che di quella brigata si definiscono “staffette di vigilanza”, sempre attente a riferire ogni mossa di tedeschi e fascisti. Accanto alle convinzioni ideologiche che guidano i comunisti, vi sono anche altri percorsi.
Per il giovane Vittorio Meoni è l’ambiente dell’Azione cattolico che lo spinge a posizioni sempre più critiche con il fascismo negli anni della guerra, fino all’avvicinamento al comunismo e alla scelta partigiana. Mentre non mancano ufficiali che, fedeli al giuramento al re, organizzano gruppi armati, come il colonnello Adalberto Croci, comandante del Raggruppamento Monte Amiata.
E poi vi sono coloro che, senza impugnare le armi e più per adesione ai valori umani che per consapevolezza politica fronteggiano la guerra e l’occupazione nazi-fascista boicottandone le direttive e proteggendone i “perseguitati”: dai propri figli richiamati alla leva fascista a perfetti sconosciuti, ma riconosciuti sempre come uomini (ebrei, disertori, ex prigionieri di guerra..), fino agli stessi partigiani. Fra questi spiccano figure di sacerdoti e religiosi, come il francescano Quirino Bulletti che aveva fatto nascondere ai partigiani le armi nel cimitero della confraternita della Misericordia di cui era cappellano, subendo poi l’arresto da parte dei fascisti o come i padri del Monastero di Monte Oliveto impegnati a nascondere gli ebrei e quindi a ricercare rifugi più sicuri rispetto alla loro stessa residenza. Ma fra i resistenti vi sono anche gli ufficiali e i soldati, ben 1328, che per essersi rifiutati di combattere con i nazisti e fascisti sono trasferiti nei campi di prigionia nel Reich, privati dello status di prigionieri – con le relative tutele, ridotti a “schiavi” a servizio dell’economia nazista, come Martino Bardotti ufficiale di Poggibonsi, reso fermo nella difficile scelta dalla formazione ricevuta in Azione cattolica.

CopertinaQuesti sono solo alcune delle figure che aprono – o che animano – i capitoli della nuova Storia della Resistenza senese pubblicata dall’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea: un volume importante e “ambizioso”, come ricorda Nicola Labanca nel suo saggio introduttivo non solo perché presenta una sintesi compiuta ed al tempo stesso agile, a molti anni dal precedente volume di Tamara Gasparri (allora, nel 1976, innovativo ed approfondito) e alla luce dei successivi sviluppi della storiografia, ma anche per il metodo adottato.

Il libro è infatti prodotto dal “gruppo di lavoro” dell’Istituto senese, composto non solo da generazioni, ma anche da professionalità diverse. Un lavoro in comune che deve aver comportato un complesso, ma certamente arricchente, processo di scambio e confronto, arricchito dall’apporto di competenze diverse, quali quelle dell’antropologia, visibili in particolare nelle pagine sul mondo mezzadrile, ma ben amalgamate lungo tutto il volume. Le diverse sensibilità infatti, probabilmente per la consuetudine ad un lavoro comune consolidatasi nel tempo, hanno infatti prodotto un testo omogeneo, scorrevole, intenso, dove le singole individualità degli autori possono apparire fra le righe, ma senza disorganicità. Il testo è stato indubbiamente possibile per il vasto impegno svolto fin dalla sua fondazione dall’Istituto per la promozione della conoscenza storica di quegli anni così complessi, alla luce delle nuove domande e sfide poste dalla storiografia dagli anni Novanta, a partire dalle fondamentali questioni poste da Claudio Pavone, fino alle preziose banche dati sulle azioni della Resistenza e sulla nuova classe dirigente post-Liberazione realizzate o in via di elaborazione. Ma nella sua efficace configurazione è certo frutto delle scelte del “gruppo di lavoro”, probabilmente consolidate dalla positiva esperienza vissuta nel 2019 all’interno del progetto “Pillole di Resistenza”, la serie di video-documentari sulla Resistenza Toscana, realizzata dallo Studio RUMI, coordinata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea, insieme a tutti gli istituti provinciali, grazie al sostegno della Regione Toscana.

Il libro è, infatti, articolato, come rileva Nicola Labanca “per temi, classici in questo tipo di studi, intrecciati ad un certo filo cronologico” (p. 12) che consentono di toccare tutte le questioni principali, a partire da profili biografici “esemplari” che le introducono. Nello scorrere delle pagine, ai volti di uomini e donne, colti nella loro complessa umanità, si succede così la narrazione dei fatti essenziali e l’individuazione dei nodi essenziali della riflessione storica: il rapporto della Resistenza con le precedenti generazioni dell’antifascismo e con la stagione della violenza politica avviata dallo squadrismo fascista nel primo dopoguerra, lo spaesamento delle istituzioni e delle persone nella convulsa estate del 1943, il tema essenziale delle scelte dopo l’8 settembre, del collaborazionismo fascista a servizio dell’occupazione nazista e delle sue dinamiche di sfruttamento del territorio e della popolazione (delineato con cura anche per “decostruire” la falsa narrazione diffusasi nella memoria locale sulla natura “blanda” dell’ultimo fascismo senese), delle forme molteplici della Resistenza a partire dalla dimensione della lotta partigiana cui viene data una dovuta centralità, senza per questo dimenticare le altre forme di Resistenza, cui viene dedicato il capitolo ottavo e dando un giusto rilievo alla presenza e al ruolo delle donne (gravemente segnate dalle violenze di guerra, basti solo pensare ai numerosi stupri ad opera delle truppe marocchine del Corpo di spedizione francese), il ruolo dei Comitati di liberazione nazionale, la complessa stagione stretta fra la liberazione del territorio e l’attesa della conclusione del conflitto in Italia.
Menzione specifica merita il settimo capitolo dedicato al mondo della campagna, travolto dal conflitto totale, per la rilevanza della mezzadria e in generale della dimensione rurale nella realtà sociale della provincia senese, ma anche per la comprensione della mentalità e della cultura della maggioranza della popolazione, così da comprendere meglio l’impatto avuto dal conflitto. L’analisi delle scelte dei contadini nel contesto dell’occupazione e di fronte al movimento partigiano evidenzia, infatti, tutta la complessità della vicenda storica, al di là di facili ed illusori schematismi che hanno animato annosi dibattiti e polemiche e aiuta a cogliere il carattere dirompente che l’impatto del conflitto ha su quella classe sociale, segnandone mentalità, scelte, comportamenti ben oltre l’esaurirsi dell’evento bellico. Ma opportuno e significativo è anche il terzo capitolo che tratteggiando l’impatto della “guerra totale” sul territorio senese e sulla popolazione, a partire dalle conseguenze degli attacchi aerei anche a fronte della sostanziale assenza di “qualsiasi struttura difensiva a tutela della popolazione e del ricco patrimonio storico-artistico” (p. 55), contestualizza bene il vario formarsi delle resistenze nel processo di disgregazione del rapporto fra italiani e regime favorito dal conflitto.

IMG_4134La dimensione del volume (oltre 270 pp.) significativa, ma “ridotta” in relazione alla complessità delle questioni trattate ne evidenzia il carattere “coraggioso” di sintesi che quindi inevitabilmente può scontare l’opportunità di alcune scelte o la minor trattazione di alcuni temi o aspetti (come ad esempio quelli dell’avvio del processo di ricostruzione e della formazione della nuova classe dirigente in un difficile rapporto con i comandi alleati, tratteggiati nell’ultimo capitolo), ma che ha in ciò il suo merito. A fronte di tanti contributi specialistici che indagano nei dettagli singoli aspetti, ciò che spesso manca (anche a livello di sintesi regionale) è un contributo che possa richiamare l’integrità del quadro senza “spaventare” il potenziale lettore per il numero eccessivo di pagine, ma piuttosto stimolandolo a proseguire un cammino di conoscenza grazie ad un apparato di note puntuali, ma non invasivo e pletorico.

Infatti, in conclusione, ritengo che il merito principale del volume sia quello di rivolgersi a tutti. L’assenza di retorica e soprattutto le scelte narrative accattivanti, la capacità di evidenziare i nodi più interessanti per la realtà locale ma anche in una chiave nazionale, lo stile e il linguaggio adottati, lo rendono “piacevolmente” leggibile per un pubblico vasto di interessati e non (solo) di specialisti (oltre che adatto per un sistematico uso didattico) in una stagione che, privata dai testimoni diretti, deve vedere proprio nel ritorno alla conoscenza storica la strada principale per rendere patrimonio comune della cittadinanza questi snodi essenziali della nostra storia comune. Direzione nella quale, con questa pubblicazione, l’Istituto di Siena aiuta tutti a fare un passo importante.