Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Nato a Pescia nel 1901, Zamponi si era distinto dopo la Grande Guerra come attivo propagandista tra la Lucchesia e la Valdinievole: fu qui che, con ogni probabilità, conobbe la futura moglie. Dopo l’adesione al PCd’I seguì un peregrinare tra Pescia e Asti, prima di tornare a Monsummano, reduce da due importanti esperienze a Torino (dove collaborò all’Ordine Nuovo) e a Milano (esponente del Comitato sindacale nazionale comunista). In Valdinievole, tuttavia, la situazione iniziava a farsi sempre più complessa: la cultura contadina aveva fornito alla politica fascista ampi spazi di movimento, guardando con sospetto ai primi processi di sviluppo industriale e promuovendo istanze di economia morale legate alle forme di sussistenza garantite dai ceti localmente dominanti. Il 30 marzo 1921, una spedizione di camice nere a Monsummano aveva imposto ai carabinieri il rilascio di tre fascisti in arresto. In aprile si registrò invece un nuovo tentativo di aggressione ai danni di due cittadini, mentre il 22 luglio dello stesso anno una trentina di squadristi partirono dalla città termale per distruggere il circolo socialista di Pieve a Nievole. Il culmine della tensione fu poi raggiunto a novembre, quando il deputato socialista Lorenzo Ventavoli venne aggredito nella sua abitazione da quattro carabinieri che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza15. Braccato dalla polizia fascista e senza lavoro, alla fine del 1922 Zamponi decise così di emigrare a Marsiglia, soluzione comune a molti antifascisti per sfuggire al crescendo di arresti e proseguire il proprio impegno politico: cinque mesi dopo, sulla costa francese, fu raggiunto dalla compagna.

Da quel momento, la Faldi iniziò ad essere seguita. Venne interrogato il padre, anziano e ritenuto poco pericoloso per «non essersi mai allontanato da Monsummano». Date le difficoltà nel rintracciare gli spostamenti della coppia, il 4 ottobre 1925 la polizia arrivò persino a fare irruzione nella casa di famiglia e a perquisire ogni stanza. Dopo aver trovato supporto nella rete del Soccorso Rosso, Zamponi (con il falso nome di Luciano Fabbri) si era intanto iscritto alla sezione del Partito comunista francese di Rue Sambre et Meuse e aveva proseguito la sua attività politica nei circoli parigini legati al fuoriuscitismo italiano: i suoi spostamenti proseguirono ininterrottamente, soprattutto dopo l’iscrizione alla Confédération générale du travail. Nel frattempo Giulia era rientrata in Italia per alcuni mesi (il 3 aprile 1927) e, una volta ottenuto il passaporto per l’America del Sud, aveva segretamente fatto rotta verso Parigi. Nella capitale la Faldi ritrovò il marito – segretario regionale a Nancy – e ne affiancò l’attività politica, anche dopo le forti tensioni che quest’ultimo ebbe con il partito, scambiato per una potenziale spia nel corso del 1926-1927: stando ad un rapporto del Regio console d’Italia a Nizza, ella era ritenuta «anche in Francia una pericolosa propagandista comunista, capace di organizzare riunioni per i nostri connazionali e di coadiuvare lo Zamponi nelle sue funzioni di segretario regionale dei gruppi italiani di lavoro».

Abili nel muoversi all’interno della rete antifascista, i due continuarono ad eludere la sorveglianza. Dopo una segnalazione – giustificata con motivi occupazionali – nella zona mineraria tra il Belgio (con passaggi documentati a Bruxelles e Marchienne-au-Pont) e il Lussemburgo, sulla scia di ulteriori avvistamenti la polizia fascista tentò di agganciare contatti con le ambasciate di Berlino (28 gennaio 1928), Lione e Ginevra, ma sempre senza successo: come recitava una velina firmata il 14 giugno 1929 dal prefetto di Pistoia, Mauro Di Sanza, «malgrado le diligenti indagini esperite con il massimo impegno, non [era] stato possibile accertare il comportamento politico dei coniugi Zamponi, né il loro preciso recapito». Con ogni probabilità, la coppia – che nel frattempo aveva avuto un figlio, Bruno – si trovò a vivere separata per un lungo periodo. Dopo l’arresto di Zamponi nel ristorante parigino del comunista Lazzaro Raffuzzi (1928) e la successiva fuga, peraltro, la casa della Faldi venne nuovamente perquisita dall’arma di Monsummano. Ciononostante, malgrado dalla scoperta di una lettera clandestina fosse emersa l’esistenza di un punto di appoggio a Villerubane-Lione a nome di Antonietta Radeschi (forse pseudonimo della stessa Faldi), per il regime fu ancora una volta complesso intercettare una rete di spostamenti sempre più fitta. L’ipotesi di una residenza a Ginevra, ad esempio, venne presto scartata nel timore che la Faldi avesse deciso di indirizzare le proprie corrispondenze in Svizzera per poi farle ritirare da una persona di fiducia; cadde nel vuoto anche la soffiata di una sosta a Berlino, constatato – il 16 giugno 1931 – che in città «non erano mai stati presenti Zamboni (o Zambon) di nome Fulvio» e che «la Faldi Giulia non [era] stata rintracciata né conosciuta presso il locale presidio di Polizia Ufficio Anagrafe».

Ad ogni modo, le problematiche della latitanza cominciavano a farsi sentire. Pressati dalla polizia fascista e segnati da una situazione occupazionale resa ancora più gravosa dell’onda lunga della crisi economica del 1929, dopo una nuova tappa a Parigi i due coniugi decisero così di presentarsi al consolato di Lione per chiedere il rimpatrio (12 settembre 1933). Nelle settimane successive, Zamboni – che dopo il fermo si era mosso sotto un’altra falsa identità, quella di Piovani – fu munito di certificato di nazionalità, mentre la prefettura di Pistoia chiese di mutare lo status della Faldi da «comunista da fermare» in «comunista da perquisire e segnalare». Ciò che i funzionari fascisti non avevano capito, in realtà, era che quella soluzione costituiva solo un nuovo tentativo di depistaggio. Alla frontiera, infatti, i due si erano improvvisamente separati: rientrata in Italia dal valico di Bardonecchia e subito fermata, la Faldi provò a convincere la polizia che il marito non si era dato alla fuga, ma che, dopo averla accompagnata alla frontiera, si era recato a Ginevra da un amico – il pisano Filippo Falaschi – che si era offerto di trovargli un lavoro. Una versione supportata anche dalla nota rilasciata il 22 novembre 1933 alla questura di Bologna dall’ispettore generale di Pubblica Sicurezza, il commendator D’Andrea:

Con riferimento alla nota a margine, ho il pregio di comunicare all’E.V. quanto mi riferisce in proposito il Commissario Capo Cav. Aloisio dirigente la sotto-zona di Firenze: “Il sovversivo in oggetto [Zamponi] non risulta sia rientrato nel Regno. Ha rimpatriato invece il 14 settembre u.s. dal valico di Bardonecchia proveniente dal Belgio la moglie Faldi Giulia, la quale ha dichiarato che il marito l’ha accompagnata fino a Lione da dove si sarebbe recato a Ginevra presso un suo amico, certo Foloschi Filippo da Pisa, che gli avrebbe trovato colà del lavoro. Successivamente, e, cioè, il 28 ottobre decorso, lo Zamponi inviava da Lione un telegramma alla moglie chiedendo sua notizie e il 5 novembre le scriveva dandole il seguente indirizzo: Rita Gambotto, Rue Roposte 16 Lione. Comunico, infine che il nome dello Zamponi figura nel noto elenco degli espulsi del P.C. sequestrato all’emissario Fontana Angelo.16

Eppure, il 19 dicembre dello stesso anno Zamponi fu arrestato a Ventimiglia e ricondotto a Pistoia. Interrogato a lungo, riuscì a convincere il questore di non voler «esplicare in nessun modo attività politica contraria al regime», fornendo alle autorità solo le informazioni meno compromettenti. Il 10 aprile 1938, poche settimane prima della visita di Adolf Hitler a Roma, sia Zamponi che la Faldi vennero comunque inseriti nell’elenco delle «persone che, pur non ritenendosi opportuno comprendere tra quelle da arrestarsi in determinate contingenze», si riteneva potessero «costituire un pericolo in occasione del viaggio del Führer in Italia».

Da lì in poi, su quella donna di «statura media, pallida, con capelli castani folti, corporatura piccola, fronte alta, viso lungo, occhi castani e naso rettilineo» e sul marito cadde il silenzio. Sappiamo però che, dopo l’8 settembre 1943, quest’ultimo riallacciò i contatti con il partito e che, assieme alla moglie, prese parte all’attività del Cln. Non a caso, il 9 settembre 1944 venne eletto dallo stesso organo sindaco di Monsummano, partecipando alla rinascita democratica della vita provinciale con il ruolo di segretario della Federazione pistoiese del Pci: nel 1946, dopo le dimissioni di Pieruccioni, le sue capacità dirigenziali gli valsero inoltre una chiamata alla guida di una delle federazioni comuniste più deboli della Toscana, quella lucchese, prima di essere eletto deputato nelle fila “togliattiane” dal 1953 al 1958.

In tutto questo, Giulia Faldi non giocò mai il mero ruolo di spalla attribuitole dal fascismo. La sua biografia, capace di intrecciare gran parte dei nodi storiografici accennati nell’introduzione di questa breve disamina, mostra a tutti gli effetti le forme e le istanze di un impegno diretto che – nelle pieghe dell’antifascismo storico – vide protagonista un numero di donne ben superiore rispetto a quello estraibile dal Cpc. Quello della Faldi fu un percorso segnato da un forte impeto politico e ideologico, costruito attraverso le fitte trame della rete antifascista europea e caratterizzato da una contrapposizione costante e solidaristica al regime.

Una storia che, passando da un’analisi ermeneutica della carte del CPC, riesce a  fornire uno sguardo più dettagliato sui processi politici e sociali – collettivi, individuali e di genere – che animarono la provincia di Pistoia nella prima metà del Novecento, oltre a creare nuovi margini di dialogo tra la dimensione locale dell’antifascismo e quella internazionale.

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




I baluardi di Kesselring in terra di Siena.

La massima del generale statunitense George Smith Patton le fortificazioni fisse sono un monumento alla stupidità dell’uomo riassumeva in modo esemplare la nuova mentalità tattica e strategica che si era andata affermando nel corso della Seconda guerra mondiale. Tale lezione, anche se non era stata ben compresa da Adolf Hitler – per molti versi ancora legato alla concezione di fortificazione e guerra di posizione – era tuttavia ben chiara per molti ufficiali tedeschi tra cui Albert Kesselring, a cui il Führer, a partire dal 21 novembre 1943, aveva nuovamente affidato la responsabilità dell’intero fronte italiano e che si dimostrò un maestro nella difesa dinamica.
In seguito allo sfondamento della linea Gustav, avvenuto con la IV battaglia di Montecassino (11-18 maggio 1944) grazie alla brillante manovra del Corps Expéditionnaire Français lungo la valle del Liri, gli uomini del Reich si erano trovati in grave difficoltà rischiando una sconfitta ancora più grave qualora gli Alleati, anziché piegare su Roma, fossero avanzati velocemente lungo le linee di comunicazione della penisola in direzione nord. La convergenza sulla capitale degli statunitensi fece guadagnare del tempo prezioso a Kesselring, che poté riattivare i collegamenti tra le due grandi unità sotto il suo comando, la X e la XIV armata tedesca, elaborando un’efficace difesa dinamica. L’idea di fondo era quella di realizzare una seconda linea difensiva, sfruttando la natura impervia del terreno, tra la Versilia e la Romagna, sul modello della Gustav, linea che avrebbe impegnato per mesi gli Alleati nonostante questi ultimi godessero di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi. Ovviamente, per ritirate due intere armate sulla nuova posizione era necessario guadagnare tempo e per far ciò l’idea di Kesselring era di realizzare, una volta riorganizzate le proprie truppe, una serie di linee difensive “elastiche”. Queste barriere erano sostanzialmente dei caposaldi piazzati presso passaggi obbligati o su punti facilmente difendibili. I reparti (i Kampfgruppen) destinati a presidiare i caposaldi prendevano il nome dall’ufficiale in comando e, in molti casi, erano costituiti da aggregazioni di uomini provenienti da diverse specialità.
Gli Alleati poterono avanzare senza grossi ostacoli fino a Perugia e Orvieto (quest’ultima dichiarata “città aperta”), ma da quel momento in poi i tedeschi, che nel frattempo avevano avuto il tempo di riorganizzarsi, decisero di opporre resistenza, risoluzione questa che gli anglo-statunitensi conobbero in anticipo grazie all’intercettazione e alla decrittazione di alcuni documenti riservati tedeschi che erano caduti nelle loro mani. Gli uomini del Reich avevano apprestato una linea di arresto detta “Albert” o “del Trasimeno”, che correva dall’omonimo lago fino a Castiglion della Pescaia[2] sfruttando le numerose zone accidentate, particolarmente adatte a realizzare dei caposaldi, nonché la relativa scarsità di strade idonee al passaggio delle unità corazzate. Tale dispositivo difensivo, nel territorio senese, poteva contare su tre baluardi: il Monte Amiata, considerato strategico per la presenza di un’importante centrale di amplificazione telefonica, la cittadina di Radicofani dalla quale si poteva facilmente controllare il traffico sulla strada Cassia e, a est, il monte Cetona il cui possesso poteva chiudere l’accesso alla Val di Chiana. Dall’altra parte gli Alleati miravano a raggiungere velocemente i ponti sull’Arno in modo da imbottigliare gli avversari prima che si attestassero a nord di Firenze. Questo compito venne assegnato all’intera V armata statunitense, schierata sul Tirreno, al Corps Expéditionnaire Français, prevalentemente impiegato nel territorio senese e, a est, a una parte dell’VIII armata britannica. Furono proprio i francesi a entrare per primi nel territorio della Città del palio, varcando, il 15 giugno 1944, il fiume Paglia. Due giorni dopo la III divisione di fanteria algerina, grazie all’aiuto dei partigiani del posto, riuscì a impadronirsi della vetta del Monte Amiata; contemporaneamente gli uomini della 13° semi brigata della Legione straniera, appoggiati da un battaglione di fanteria algerina, portarono l’attacco contro Radicofani. L’azione avvenne in condizioni particolarmente difficili poiché, nonostante si fosse nella buona stagione, pioveva a dirotto e ciò impedì l’appoggio sia dell’aviazione che delle forze corazzate nonché un’efficace preparazione da parte dell’artiglieria; nonostante le avversità i legionari e gli algerini, alle 5 del mattino del 17 giugno, iniziarono a scalare l’impervia collina di Radicofani. La cittadina era difesa da elementi del 67° reggimento Panzergrenadier e della I divisione Fallschirmpanzer comandati dal maggiore Herald Rathjens, che aveva realizzato un vero e proprio baluardo nel palazzo della posta e sull’area circostante. Per l’intera giornata i tentativi francesi di avvicinarsi all’abitato si risolsero in fallimenti e soltanto alle 17 del giorno successivo, combattendo sotto un furioso temporale, riuscirono ad aver ragione dei difensori, ma la giornata non era ancora finita. All’imbrunire, i tedeschi contrattaccarono in forze tentando di riconquistare Radicofani, ma l’azione fallì e il giorno successivo si ritirarono verso nord. Il sanguinoso scontro era costato ai francesi 108 caduti e numerosi feriti. Incerto il numero dei morti tedeschi ma tra loro si trovava anche il maggiore Rathjens che preferì suicidarsi piuttosto che cadere prigioniero[3].
Il terzo caposaldo tedesco della linea Albert in terra di Siena era la città di Chiusi, posta su un’altura tra il monte Cetona e il Lago Trasimeno. Le avanguardie della VI divisione corazzata sudafricana vi giunsero il 20 di giugno trovandola scarsamente presidiata e, inspiegabilmente, ripiegarono. Quando gli Alleati portarono il loro attacco contro l’antica città etrusca, nella notte tra il 21 e il 22 giugno, i tedeschi avevano ormai preparato un’adeguata difesa. L’azione, come del resto quella dei francesi contro Radicofani, si sviluppò sotto la pioggia battente e gli uomini del Commonwealth, nel buio più totale, oltre che contro i colpi di sbarramento, furono costretti a lottare con il fango mentre scalavano i pendii scoscesi. Una volta penetrati in città, i sudafricani presero letteralmente di sorpresa i tedeschi ma essendo privi di armi anticarro (rimaste indietro a causa del terreno pesante) non poterono far saltare i tank avversari che si erano trovati davanti. Ne nacque uno scontro accanito con epicentro nella piazza del teatro, all’interno della quale gli attaccanti rimasero intrappolati a causa della reazione degli avversari. Avvisati dai partigiani della difficile situazione che si era venuta a creare in città, i comandi della VI divisione inviarono un contingente di carrarmati per prestare soccorso ma, a causa delle vie di comunicazione inadeguate, questi ultimi non poterono giungere sull’obiettivo. Le perdite patite dai britannici furono rilevanti, ben 80 morti più un numero imprecisato di feriti e di prigionieri, bilancio che avrebbe potuto essere ben più pesante se i civili e i partigiani non avessero prestato loro soccorso; poco si sa delle perdite tedesche ma si suppone che anch’esse siano state rilevanti. Soltanto il 26 giugno, quando finalmente le condizioni meteo migliorarono, gli Alleati presero possesso della cittadina ormai abbandonata dai tedeschi in ripiegamento verso nord[4].
Con la liberazione da parte degli statunitensi di Cecina (2 di luglio) e di Siena (3 luglio), a opera dei francesi, la linea Albert venne definitivamente superata; tuttavia questo baluardo aveva pienamente assolto il proprio compito permettendo agli uomini di Kesselring di guadagnare ben due settimane.

Note
[1] Immagine da BARDOTTI R., Attenti a dove sparate. La liberazione di Siena raccontata dai fotoreporter dell’esercito francese, Siena, Betti ed., 2018, p.25.
[2] Lo sfondamento della linea Albert, 2 luglio 1944, in https://www.combattentiereduci.it/notizie/lo-sfondamento-della-linea-albert-2-luglio-1944, visitato il 5 maggio 2020.
[3] ONETO G., Radicofani 1944. Il coraggio di osare, in http://ekladata.com/GJ1dZIQm2zLV7aYZsER6BsjZLdI/Radicofani-1944-il-coraggio-di-osare-Giors-Oneto-2014.pdf, visitato il 2 aprile 2020.
[4] SCRICCIOLO L., Chiusi nella bufera, Chiusi 1991, pp.55-80.




La Storia lo grida.. indietro Savoia!!

I Savoia regnarono in Italia dopo il 1860 essendo riusciti, specie per abilità di uomini politici come Cavour, ad affiancare e sfruttare gli sforzi di tutto il Risorgimento, a cominciare da quelli dei repubblicani Mazzini e Garibaldi. In quanto all’immaturità del popolo italiano che sarebbe dimostrata dal ventennio fascista, sarà facile rispondere che una delle cause e  dei sostegni principali di esso fu proprio la Monarchia.  […] Venuta l’ora tragica della disfatta il Re tentò di salvarsi con il colpo di stato di Badoglio e non di salvare il paese. La politica badogliana fu infatti nettamente ostile  alle forze democratiche  antifasciste, con il suo governo di funzionari. E nell’ora decisiva, l’8 settembre del 1943 non seppe fra altro che fuggire. Era ancora una volta lo stesso gioco, salvare la propria dinastia e i propri privilegi anche a danno dell’interesse comune. Le sofferenze inaudite che ancora sopportiamo sono il solenne monito che bisogna farla finita una volta per sempre con l’equivoco la sciatoci in eredità dal Risorgimento.”.

Con queste parole Giovanni Pieraccini attaccava con nettezza e in profondità la Monarchia sul supplemento de “La Nazione del Popolo”, giornale del Comitato toscano di liberazione nazionale, a cura del Partito socialista di unità proletaria del 22 aprile 1945. Siamo nei giorni dell’insurrezione nazionale delle città del nord, la guerra deve ancora finire, eppure da Firenze liberata già da vari mesi, si leva con forza la volontà di rinnovamento profondo del Paese emanato dalle forze antifasciste. I diversi partiti, che animano in quei mesi dialetticamente i CLN e le prime amministrazioni comunali, hanno programmi e prospettive diverse, ma l’ostilità a Casa Savoia li accomuna nella stragrande maggioranza e si manifesterà pienamente la primavera successiva nella campagna elettorale per il referendum del 2 giugno 1946.

Voce di questa determinazione politica sono i giornali che, dopo la liberazione non svolgono solo una “tradizionale” azione di informazione, pur preziosa dopo gli anni della dittatura e della censura, ma acquisiscono una funzione essenziale nella formazione di un nuovo senso comune di cittadinanza e di una necessaria educazione alla democrazia, arricchita proprio dalla pluralità delle voci e delle tendenze. Basti citare, solo per rimanere nell’ambito fiorentino:  l’”Azione comunista”, “La difesa” socialista, l’azionista “Non mollare!”, “La voce del popolo”, repubblicano, “L’opinione” liberale, “Il popolo libero” democratico cristiano, “La Nazione del popolo” che, con i supplementi affidati ai partiti del CTLN, dal gennaio del ’45, amplifica ulteriormente il proprio ruolo di fonte di riflessione ed occasione di confronto, insieme, dal giugno del ’45 a “Il nuovo corriere”.

Sfogliandoli appare evidente come l’ostilità alla Casa reale non sia riconducibile semplicemente ad giudizio negativo sul sovrano, Vittorio Emanuele III, e, più in generale sulla condotta assunta negli ultimi anni di guerra, anche se certamente il trauma della fuga dell’8 settembre assume un rilievo imprescindibile: “il popolo italiano non dimenticherà certamente che ciò che è stato fatto il 25 luglio 1943, quando purtroppo l’Italia era già in pezzi, poteva e doveva essere fatto nel lontano 1922, all’epoca della mancata firma dello stato d’assedio” (Camaleontismo monarchico, “Il corriere dell’Arno”, 17-18 ottobre 1945).

Ma il giudizio si estende inevitabilmente sul lungo periodo, coinvolgendo il rapporto complessivo fra Monarchia e Paese nella storia d’Italia. L’ironia non sminuisce ma piuttosto accentua la gravità della denuncia di Arturo Bruni su “la Nazione del popolo”: “Progresso..monarchico s’è avuto davvero come tutti hanno visto. Abbiamo “progredito” dagli stati d’assedio dei Bava Beccarsi in Lombardia, degli Heusch in Toscana e Lunigiana, dei Morra di Lariano in Sicilia, fino alla congiura fascista, ordita e compiuta all’ombra e con la protezione e la partecipazione diretta attiva di preminenti membri di Casa Savoia; e poi la dedizione sempre più stretta, totale, senza riserve né pudore, quasi servile alla iniqua dittatura e alla dissennata politica interna ed estera dello sciagurato e folle avventuriero di Predappio” (Arturo Bruni, Invito alla sincerità, “La Nazione del popolo”, 4 marzo 1945, supplemento a cura del PSIUP). In quanto “posta contro la volontà della Nazione tutta, con atavica cocciutaggine, con insensibilità tutta straniera, con un cinismo che urta contro anche il più tiepido senso morale”. (La repubblica ci unisce, la monarchia ci divide, “Il seme”, 5 febbraio 1946). Una condanna esito della valutazione del passato e frutto della constatazione che il cambio istituzionale, con la scelta della Repubblica, è aspetto essenziale per la (ri)costruzione della nuova Italia, come si legge con nettezza anche sul giornale della Democrazia cristiana di Firenze “Il popolo libero” (Rodolfo Turco, Per una Repubblica libera e democratica, “il popolo libero”, 8 febbraio 1946). La scelta di Vittorio Emanuele III di abdicare a poche settimane dal referendum del 2 giugno del ’46, violando il “compromesso istituzionale” siglato nei mesi precedenti, non fa che rafforzare il giudizio di condanna. Del resto, come chiosa il “Non mollare!” “un sovrano che fugge per schivare il giudizio popolare costituisce un motivo di più fra i tanti per condannare il massimo responsabile del fascismo e della guerra” (Se né andato, “Non mollare”, 11 maggio 1946).

Sono poche, ma non mancano le voci che esprimono opinioni diverse. Spicca in particolare “La Patria” giornale del PLI, espressione delle sua anima più conservatrice (L’ultimo atto, “la Patria” 10 maggio 1946). Più articolata e cauta la posizione de “L’Osservatore toscano” settimanale diocesano voluto alla fine del ’45 dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa, certamente attento alle varie posizioni presenti nel mondo cattolico. Sul periodico prevale infatti una linea di agnosticismo istituzionale: “Monarchia e Repubblica sono nient’altro che forme istituzionali; ma come suggerisce la parola stessa è evidente che ogni forma presuppone una sostanza, ed è questa che deve interessare” (Piero Monaci, Monarchia o repubblica?, “L’Osservatore toscano”, 14 aprile 1946). Ma non mancano neppure interventi a favore di Casa Savoia o piuttosto rispetto all’indifendibile condotta della Casa reale sabauda, una difesa dell’istituzionale in quanto tale in quanto “La monarchia veramente costituzionale può dare ancora al popolo italiano garanzia di unità e di salvaguardia della costituzione stessa.” (P. Hodie, Il problema istituzionale, “L’Osservatore toscano”, 21 aprile 1946). Voci minoritarie, ma significative, indicatrici di tendenze presenti nella società toscana, come verrà poi attestato dal voto del 2 giugno 1946 (con la netta vittoria della Repubblica con oltre il 71% a livello regionale, ma con affermazioni comunque significative della monarchia con il oltre il 43% nella provincia lucchese).

La tendenza antimonarchica attestata dalla grande maggioranza della stampa fiorentina e toscana è, peraltro, manifestazione del più ampio processo di mutamento radicale delle classi dirigenti e trasformazione politica e sociale della Regione ben delineato da Mario G. Rossi in suoi importanti contributi. La crisi della guerra totale, il coinvolgimento delle masse contadine nella lotta di liberazione, la guida unitaria del CTLN pur nelle diversità di posizioni delle forze antifasciste sono i fattori che segnano una svolta profonda nella storia della Toscana e che non potevano che esprimersi anche nella rischieta di netto cambiamento istituzionale. “Il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni si pone quindi come obiettivo prioritario per garantire le condizioni di qualsiasi riforma della vita politica e della società: decentramento, autonomie locali, riforma amministrativa, regionalismo diventano i cardini di un dibattito cui partecipano molti degli esponenti più rappresentativi della Resistenza toscana, come Paolo Barile, Attilio Piccioni, Mario Augusto Martini, Tristano Codignola” [Mario G. Rossi, Dalla Resistenza alla Costituzione: la formazione della nuova classe dirigente nella Toscana postfascista, in Massimo Cervelli e Claudia De Venuto, La Toscana nella costruzione dello stato nazionale dallo Statuto toscano alla Costituzione della Repubblica 1848-1948, Olschki, 2013, pp. 327-328].




Storie lontane, echi vicini

C’è Giovanni Bottai, un ex maresciallo dei Carabinieri che muore, anziano, dopo una breve malattia. C’è una vecchia lettera, ritrovata in fondo a una scatola, da cui si capisce che quest’uomo, durante la guerra in servizio a San Marcello Pistoiese, ha fatto qualcosa di terribile e che poi, in seguito all’amnistia, non ha mai scontato la sua pena. C’è Sara, sua nipote, giovane laureanda in filologia, assai legata al nonno e determinata a conoscere la verità su quegli anni ormai lontani. Questo è il punto di partenza per un romanzo, “Echi lontani” (ed. Portoseguro), scritto a quattro mani da Francesca Banchini e Silvia Mannelli, due insegnanti di lettere di una scuola secondaria di primo grado di Pistoia, di cui si parlerà all’ultimo incontro di “Communitas. Conversazioni di prossima cittadinanza”, organizzato dall’ISRT per mercoledì 3 giugno a partire dalle ore 17:00. Durante la conferenza si parlerà di didattica della storia nella scuola secondaria e verranno illustrate alcune proposte laboratoriali, anche con l’intervento della prof.ssa Giulia Barontini, docente di storia.

I personaggi del romanzo sono frutto della fantasia delle scrittrici, così come l’intreccio degli eventi. La vicenda narrata, però, si fonda su un’attenta ricostruzione storica che le autrici hanno condotto. Durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla montagna pistoiese, erano presenti alcune famiglie di origine ebraica. Non esisteva una vera e propria comunità di residenti, si trattava piuttosto di famiglie sfollate da altre città italiane, soprattutto da Livorno, in seguito ai bombardamenti degli Alleati, oppure di persone in fuga da Paesi europei soggetti all’occupazione tedesca, giunte nel territorio montano dopo varie vicissitudini. La condizione di queste persone, ovviamente già precaria e difficile, subì un drastico peggioramento in seguito all’emanazione del Decreto Buffarini Guidi il 30 novembre 1943: si ordinava l’immediato arresto degli ebrei che si fossero trovati sul territorio della Repubblica di Salò nonché il sequestro di tutti i loro beni. Anche per le poche famiglie ebree che in quei mesi erano sfollate a Cutigliano, Prunetta e nelle altre località della montagna pistoiese ciò ebbe conseguenze terribili: molti furono traditi, denunciati, deportati e pochissimi riuscirono a tornare dai campi di concentramento[1].

La storia narrata in “Echi lontani” descrive una di queste vicende, unendo elementi veramente accaduti ad altri ricostruiti con verosimiglianza grazie al lavoro di ricerca che le due autrici hanno condotto. La protagonista, Sara, non si rassegna a credere che suo nonno sia stato davvero un collaborazionista né che abbia mandato a morte persone che si fidavano di lui e, anche se suo padre le consiglia di lasciar perdere quelle vecchie storie perché “chi scava non sa poi cosa trova”, decide comunque di approfondire. Attraverso le azioni della ragazza il lettore si trova immerso in una vera e propria ricerca storica, partendo dai documenti che si possono realmente consultare nei faldoni dell’Archivio di Stato: denunce, testimonianze, verbali, sentenze. I documenti citati nel libro sono infatti stati scritti dalle autrici tenendo come modello gli originali che hanno consultato in Archivio.

Nella narrazione i piani temporali si intrecciano e alle vicende che avvengono nel presente si alternano quelle successe durante la guerra, riviste perlopiù attraverso gli occhi di un personaggio un po’ strano e misterioso che appare, all’inizio quasi in punta di piedi, fra un capitolo e l’altro. E’ un vecchio, vive a Roma, rimane senza identità quasi fino alla fine del libro, ma i suoi ricordi e i suoi pensieri diventano piano piano fondamentali perché il lettore possa capire la verità di quanto accaduto tanti anni prima. Il vecchio cammina tra i monumenti di Roma mentre ripensa alla sua giovinezza, vissuta durante il fascismo: il lettore è quindi anche portato a comprendere cosa volesse dire frequentare la scuola nel Ventennio e come il Duce costruisse il consenso intorno a sé, prima che con la violenza, con il controllo delle menti e delle coscienze, controllo che avveniva anche nelle aule scolastiche. “I tempi in cui vivi non cambiano la persona che sei”, così un’amica di Sara, Alice, la rimprovera dei dubbi che nutre verso il nonno: chi è una persona perbene lo è sempre, indipendentemente dai momenti storici in cui si trova a vivere. Ma è vero? E’ vero sempre? O piuttosto il contesto in cui viviamo e in cui ci formiamo, la scuola, è fondamentale per lasciare un’impronta indelebile nella persona che poi diventeremo?

Sappiamo bene che la grande Storia è fatta da tante, piccole, spesso quasi invisibili, piccole storie; da scelte, intrecci, casualità, decisioni, responsabilità che apparentemente non hanno rilevanza ma che nel loro insieme imprimono il corso agli eventi. Il romanzo, con i suoi numerosi agganci alle vicende veramente accadute, ruota proprio attorno a questa convinzione: tutti siamo responsabili di quel che avviene, tutti abbiamo un ruolo da protagonisti nella storia, anche quando siamo convinti di essere solo degli inconsapevoli e innocenti spettatori. Sono passati più di settant’anni da quegli anni drammatici e violenti e il tempo che scorre porta con sé due rischi, entrambi pericolosi: da un lato la dimenticanza di quanto accaduto e in particolare l’oblio del ruolo attivo che gli italiani hanno avuto nella Shoah e dall’altro la retorica nel rappresentare la Resistenza.

La lettura di “Echi lontani” aiuta a stare lontani da entrambi questi rischi, soprattutto se tale lettura viene inserita in un percorso didattico, certamente possibile con alunni della scuola secondaria di primo e di secondo grado, come le autrici, affiancate dalla prof.ssa Barontini, illustreranno durante l’incontro organizzato dall’ISRT per il 3 giugno, incontro intitolato “La memoria del territorio”. La ricostruzione storica degli anni della guerra, in particolare dei mesi in cui il fronte scivolava verso Nord attraverso gli Appennini, vuole essere accurata, senza risultare didascalica e quindi respingente per i ragazzi; allo stesso modo uno spazio importante è dato al ruolo avuto dagli italiani nelle persecuzioni. D’altro canto la Resistenza non è presentata tanto come un atto eroico, solo ideale, riservato a pochi coraggiosi e quindi lontano dal sentire dei giovani di oggi, ma è descritta per quel che in fondo è stata: la scelta di chi, in un tempo folle, ha dovuto decidere da che parte stare a partire da questioni molto semplici e quotidiane.

La storia di Giovanni Bottai, maresciallo mai esistito di un’Arma dei Carabinieri che in Salvo D’Acquisto ha il simbolo di chi ha saputo scegliere la via giusta, può coinvolgere giovani e meno giovani nella conoscenza delle storie vere, vissute da persone che hanno camminato sulle stesse strade su cui camminiamo noi, che hanno visto le stesse montagne all’orizzonte che guardiamo noi e che hanno compiuto scelte da cui tutti noi proveniamo.

 

[1]Per approfondire l’argomento si vedano, ad esempio, questi contributi: https://www.toscananovecento.it/custom_type/persecuzione-e-deportazione-degli-ebrei-sulla-montagna-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-persecuzione-fascista-contro-gli-ebrei-nel-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/michele-baruch-behor-da-cutigliano-ad-auschwitz/.




Livorno 1920: maggio di sangue

I primi giorni del maggio 1920, cento anni fa, Livorno fu teatro di un episodio a carattere insurrezionale che, seppur di breve durata e di relativa intensità, fu comunque sintomatico di una situazione di elevata tensione politica e sociale, tanto che, come annotò il console inglese, “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”. La prima, circostanziata e puntuale, ricostruzione di quei fatti la dobbiamo, ancora una volta, al fondamentale saggio di Tobias Abse.

    A differenza di Torino, Pola e Vicenza dove le forze dell’ordine avevano ucciso sette lavoratori, la giornata del Primo Maggio in città era appena trascorsa senza incidenti, tanto che «Il Telegrafo» aveva parlato di “Esempio luminoso di calma e moderazione”, esaltando “l’istintivo buon senso” e “l’innata avversione per tutto ciò che è ingiustificato disordine e inutile violenza” degli operai livornesi.

   Partito da Piazza Vittorio Emanuele  – l’attuale Piazza Grande – il corteo sindacale di 1.500 persone (secondo la stima non benevola de «Il Telegrafo»), con una quindicina di vessilli, aveva percorso le vie del centro e si era concluso con un comizio al teatro Politeama, “con grande sfoggio di bandiere rosse e nere e di garofani fiammanti”. Oltre ai rappresentanti delle diverse categorie, erano quindi intervenuti il socialista mas­simalista Nicola Bombacci, appena “reduce dalla Russia”, e il segretario della Camera del Lavoro, Zave­rio Dalberto.

   All’Ardenza invece era stato tenuto il comizio indetto dagli anarchici con la partecipazione del sindacalista valdarnese Attilio Sassi dell’Unione Sindacale Italiana. Inoltre, nel pomeriggio, un’altra adunata sindacale, con i mede­simi oratori della mattinata, si era pacificamente svolta a Colline.

   Dietro a tale apparente calma però, la tensione sociale in quel perio­do era già molto alta in città a seguito delle agitazioni dei disoccupati e degli scioperi dei lavoratori portuali contro il potere padronale e la poli­tica governativa; bastò infatti la notizia degli imprevisti fatti di Viareggio a far sfociare tale tensione in aperta rivolta.

   A Viareggio una banale rissa sportiva, seguita alla partita di calcio tra la Lucchese e la squadra di casa, era degenerata in gravi disordini e quindi aveva assun­to i caratteri di uno sciopero generale e di una sollevazione popolare che è possibile ricostruire attraverso le cronache pubblicate sui quotidiani: «Il Telegrafo» del 4 maggio; «La Gazzetta Livornese» del 7-8 maggio; «Umanità Nova» del 6, 7, 8 maggio 1920.

  Tutto era iniziato il 2 maggio quando, durante una zuffa scoppiata dopo il derby calcistico, i carabinieri avevano sparato e ucciso Augusto Morganti, un guardalinee con un passato di ex-tenente degli arditi di guerra che si era messo a capo della tifoseria viareggina.

    Di fronte a tale uccisione, la rabbia dei proletari viareggini tra i quali era forte la presenza anarchica dette vita ad un vero e proprio moto insurrezionale, tale da costringere i riottosi riformisti della Camera del lavoro e del Parti­to socialista a dichiarare lo sciopero generale cittadino, mentre venivano disarmati i carabinieri ed assaltate le caserme dell’Arma. In particolare, secondo quanto riferito dal corrispondente de «Il Telegrafo»: “Le donne, non tutte, si capisce, sono le più agitate, le più infuriate. Ne vedo a frotte, scarmigliate e discinte presso la Camera del lavoro, ove sono esposti due vessilli, uno nero e l’altro rosso”.

   Una volta che l’eco dei moti viareggini giunse a Livorno, immedia­tamente accese e fece dilagare il risentimento popolare, tanto da indurre la Camera del lavoro a indire uno sciopero di protesta per il 4 maggio, aderendo all’invito del Sindacato ferrovieri e vedendo la convergenza del segretario, massimalista, Dalberto, con le consistenti componenti anar­chica e repubblicana della Camera del lavoro.

    La città, intanto, era già attraversata da pattuglie armate delle forze dell’ordine, dopo che la Questura aveva ordinato il divieto di circolazione per ogni mezzo – biciclette comprese – nonché la vendita della benzina.

    Lo sciopero risultò esteso e compatto e, nel pomeriggio, una folla di lavoratori e sovversivi si radunò sotto la Camera del lavoro in via Vitto­rio Emanuele (oggi via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, in attesa di notizie dalla Versilia e delle conseguenti decisioni del Consiglio delle Leghe ivi riunito. Nonostante la comunicazione che a Viareggio era stata decisa la cessazione del movimento, peraltro rimasto circoscritto, i di­mostranti continuarono a rimanere in strada, mentre dalle finestre della Camera confederale, gli esponenti socialisti invitavano a tornare a casa, contraddetti dagli anarchici – presenti in circa trecento – che sollecitavano i presenti a non fidarsi del governo e a continuare l’agitazione contro le continue violenze poliziesche.

La situazione era ancora relativamente calma, con capannelli di gente impegnata a discutere sul da farsi; fin quando carabinieri e militari pre­senti in forze circondarono la zona effettuando diversi fermi e bloccando le vie adiacenti, anche se la motivazione poi addotta dalla Questura, e riportata su «Il Telegrafo», fu che venne deciso di inviare un plotone di soldati (presumibilmente bersaglieri), al comando del commissario Ruggiero, per difendere la Camera del lavoro “dai facinorosi” e “dalla teppa”.

A quel punto i presenti reagirono inveendo contro la presenza della “sbirraglia”, mentre sconosciuti assaltavano l’antistante armeria Soldaini e l’armeria Bertelli in via della Tazza (l’odierna via Piave), pur facendo uno scarso bottino consistente in rivoltelle per lo più inservibili, qualche fucile da caccia e alcuni coltelli.

Recatisi nella vicina Regia Questura in piazza Vittorio Emanuele, i sindaca­listi socialisti Dalberto e Capocchi riuscirono, faticosamente, a ottenere il rilascio degli arrestati, ma la tensione rimase alta, alimentata dall’atteggiamento aggressivo della forza pubblica.

Un drappello di carabinieri – una cinquantina – continuarono nella provoca­zione e in via Vittorio Emanuele alle sassate dei manifestanti risposero sparando – ginocchio a terra – coi moschetti e le rivoltelle sui manifestanti. Presi tra due fuochi, le vittime furono numerose: il socialista Flaminio Mazzantini, operaio ebanista di 48 anni e padre di otto figli, fu mortal­mente colpito da due proiettili e Vittorio Volpini venne ferito in modo grave tanto da rimanere a lungo in pericolo di vita, ma si contarono al­meno altri 14 lavoratori feriti dal piombo regio.

Telegrafo7maggio20Seguì una prima, immediata, reazione che vide alcuni dimostranti sparare alcune rivoltellate e lanciare un piccolo ordigno verso la Questura dove, dietro ai cancelli, “si trovavano reparti in pieno assetto di guerra”, ferendo alcuni carabinieri. Quasi con­temporaneamente al porto, nei pressi del “Ponte dei sospiri” sbarrato con cavalli di frisia e reticolati, venne tirata una bomba a ma­no “Sipe” all’indirizzo del presidio composto da carabinieri e soldati che difendevano la caserma “Malenchini” e quella della Guardia di Finanza, ferendo un carabiniere.

Ancora, attorno le ore 21, nonostante la pioggia, un folto gruppo di sovver­sivi provenienti da via dei Cavalieri (probabilmente attraverso via del Traforo) lanciò altri tre ordigni esplosivi contro la Questura.

A seguito dell’eccidio (così sarà definito anche su «Il Telegrafo»), la giunta esecutiva della Camera del lavoro decideva, a tarda notte, la ripresa dello sciopero per l’indomani, mentre le forze di polizia eseguivano molti arresti, soprattutto tra gli anarchici ritenuti, senza alcuna prova, responsabili dell’assalto alla Questura. Così come a Viareggio, nel porto mediceo entrava un cacciatorpediniere della marina militare, mentre venivano fatti affluire, via mare, circa un migliaio di carabinieri e guardie regie.

I funerali di Mazzantini si trasformarono in un’enorme manifesta­zione proletaria di almeno diecimila persone, con la partecipazione di tutte le organizzazioni di classe, oltre a socialisti, repubblicani e anarchi­ci. Molti negozi avevano esposto la scritta “Chiuso per lutto proletario”. Il feretro era fiancheggiato da aderenti alla Lega proletaria dei reduci di guerra, con fascia rossa al braccio, e seguito anche dai “Ciclisti rossi” di cui Mazzantini era caposquadra.

Nel nutrito spezzone libertario, «La Gazzetta Livornese» riferì della presenza del gruppo di Ardenza, della se­zione femminile anarchica, del Fascio operaio di via dei Cavalieri e dell’asso­ciazione anticlericale “I nemici di Dio”. Alcuni incidenti si registrarono durante il corteo, soprattutto al passaggio davanti alla Questura, tanto che al termine della giornata si contò un’altra quindicina di feriti, tra i quali otto donne.

Alla luce degli eventi e dei diffusi sentimenti di riscossa, sul piano politico e sindacale, l’esito della sollevazione, come sottolineato dallo storico Luigi Tomassini, determinò “una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista […] dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti”, tanto che nei mesi seguenti si andò rafforzando il progetto di dare vita a una Camera del lavoro d’impronta sindacalista rivoluzionaria. Questa infatti sarebbe nata nell’autunno seguente, dopo l’Occupazione delle fabbriche, con sede in viale Caprera, coinvolgendo oltre al “vecchio” Fascio operaio la cui fondazione risaliva alla prima Internazionale e i lavoratori già aderenti all’Unione Sindacale Italiana, anche settori intransigenti repubblicani e socialisti, più inclini all’azione diretta che alla mediazione.

Post scriptum
Un aspetto significativo di quelle settimane è il coinvolgimento diretto dei ferrovieri organizzati nel SFI nell’opposizione concreta alla repressione statale. Il 17 aprile 1920, i ferrovieri a Livorno si erano rifiutati di far partire un treno carico di Guardie Regie che dovevano raggiungere Torino per contrastare lo sciopero generale. Nei giorni della rivolta a Livorno, furono invece i ferrovieri di Genova a bloccare un treno di Guardie Regie dirette a Livorno, tanto che si rese necessario far affluire via mare le forze dell’ordine (circa un migliaio tra Guardie Regie e Carabinieri) nel porto labronico, e un altro contingente di circa cinquanta Guardie Regie giunse in città ai primi di giugno su camion militari da Firenze, onde evitare ulteriori problemi ferroviari.




27 aprile 1945: tutta la provincia di Apuania è libera!

“Il comando tedesco ci ha incaricato di rintracciarvi e riaccompagnarvi in città. In caso contrario distruggerà le abitazioni, i viveri; metterà Pontremoli a ferro e a fuoco. Siamo pronti ad accompagnarvi, ad intercedere per voi”. A parlare è il vescovo, mons. Giovanni Sismondo, rivolto a due soldati tedeschi che hanno disertato e sono fuggiti dalla città sulla quale stanno scendendo i partigiani e marciando le truppe alleate. È la sera del 26 aprile: Pontremoli è l’ultimo territorio dell’Italia centrale ad essere ancora occupato. Qui da otto mesi si è trasferito il comando provinciale tedesco assieme a questura e prefettura dopo l’ordine di sfollamento di Massa emanato il 2 settembre 1944 quando la linea del fronte era arrivata a lambire il capoluogo della provincia di Apuania. Ad arrestare l’avanzata delle truppe alleate c’è la Linea Gotica: 300 chilometri fra il mar Tirreno e l’Adriatico. Da quell’estate 1944 che aveva visto la liberazione di quasi tutta l’Italia a sud dell’Appennino, si dovrà attendere ancora a lungo perché anche quell’ultimo ostacolo possa cadere e il nemico essere vinto. Un’estate di eccidi con centinaia di civili trucidati, in prevalenza donne e bambini, facili prede delle incursioni nazifasciste nei paesi dei territori occupati. La strage di Mommio del 5 maggio 1944 era stata la prima e non certo isolata; il fronte non era ancora sulla Linea Gotica, ma i nazifascisti avevano intensificato la loro strategia del terrore. Il 13 giugno a Forno di Massa; il 12 agosto in alta Versilia, a Stazzema, nei giorni successivi nella valle fivizzanese del Bardine poi a Vinca e nei paesi a monte di Carrara. Il 10 settembre in diverse zone di Massa; una settimana dopo a Bergiola Foscalina e sempre il 16 altri morti lungo il Frigido e sepolti nei crateri scavati dalle bombe alleate. Senza dimenticare le vittime di Avenza, Castelpoggio, Gragnola, Tenerano, Regnano…  Poi c’è la lotta quotidiana contro la fame, con il razionamento e le tessere ormai inutili perché cibo non ce n’è, mentre si fanno sempre più fitte le file delle donne lungo la strada della Cisa, del Cerreto o la via Vandelli; un popolo che “emigra” alla ricerca di cibo. Prima si barattano capi di vestiario, pezzi del corredo, infine i pochi oggetti di valore; le donne di Carrara e di Massa imparano a ricavare – di nascosto dalla milizia – il sale dall’acqua di mare per barattarlo con farina al di là delle Apuane. Tra avvicendamenti di reparti e attacchi falliti si arriva al 5 aprile 1945: sono le 5 del mattino ed è quella l’ora dell’offensiva finale per lo sfondamento della Linea Gotica: quel fronte di guerra che da mesi divide le truppe tedesche (sostenute dai militari italiani della RSI) e americane (affiancate dai partigiani) sta per cadere. Nelle ore precedenti, con il favore del buio, reparti della V Armata USA hanno occupato i punti di attacco più favorevoli lungo i canaloni delle Apuane sotto il crinale tra il Monte Carchio e il Monte Folgorito, confine amministrativo tra Montignoso e Seravezza ma soprattutto tra l’Italia libera e quella ancora ferocemente occupata dai nazifascisti. Due versanti di un fronte che tuttavia non è del tutto “impermeabile”: i partigiani riescono a mantenere aperto un passaggio, uno stretto sentiero di montagna, “porta” preziosissima attraverso la quale transitano civili desiderosi di abbandonare la zona di guerra, partigiani e militari alleati in missione. Con l’inizio di gennaio 1945 il passaggio lungo la “via della libertà” è organizzato, gestito dai partigiani del Gruppo Patrioti Apuani: l’attraversamento è più sicuro e sono migliaia le persone che riescono nell’impresa, duemila nel solo mese di febbraio. Un passaggio anche “democratico”: chi può paga in base alle proprie disponibilità; chi non può è accompagnato gratuitamente. Il collegamento è ben noto ai tedeschi che cercano invano di interromperlo; alla fine tentano perfino di raggiungere un accordo: il 20 marzo viene intavolata una trattativa con una delegazione dei “Patrioti Apuani” che però rifiuta ogni compromesso: del resto l’attacco decisivo alla Linea Gotica è ormai questione di giorni. Ed ecco la notte fra il 4 e il 5 aprile: la riuscita dell’operazione non è scontata ed è decisivo il ruolo dei partigiani nella scelta dei sentieri lungo i quali accompagnare i militari alleati nelle posizioni prefissate da dove far scattare l’offensiva. I tedeschi sono colti di sorpresa e in due ore il crinale è conquistato dai Nisei, il reparto di soldati nippo-americani aggregato alla 92.ma divisione “Buffalo”, composta quasi esclusivamente da soldati americani di colore ma comandati da ufficiali bianchi. Grazie al loro coraggio lo sfondamento della Linea Gotica è iniziato, ma vanno sottolineate le fondamentali azioni svolte contro i tedeschi nelle zone a monte di Massa e di Carrara dal “Gruppo dei Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice e dalla Brigata Garibaldi “Gino Menconi” di Alessandro Brucellaria “Memo”. Un attacco finalmente risolutivo dopo alcuni tentativi falliti, come quello della seconda settimana di ottobre ’44 quando i reparti della “Buffalo” avevano lasciato sul campo centinaia di morti o come quello dei primi giorni di febbraio, l’operazione “Fourth Term”, che avrebbe dovuto scardinare il fronte superando il torrente Versilia al Cinquale e il crinale delle Apuane nella zona del Folgorito e che invece si era conclusa con un mezzo disastro nel campo alleato con trecento morti e mille feriti.

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Montignoso 9 aprile 1945: militari della V Armata USA, 370° rgt, entrano nel territorio apuano. (USA National Archives – Washington)

Ma ora la Linea Gotica è alle spalle. In alcune belle immagini i militari l’8 aprile sono in marcia lungo la vallata di Montignoso: il primo territorio della provincia di Apuania ad essere liberato; due giorni dopo tocca a Massa e l’11 aprile i partigiani entrano definitivamente a Carrara facendo prigionieri centinaia di soldati tedeschi che saranno poi consegnati alle autorità americane. È questa la città che si libera due volte: la prima, nel novembre 1944, era stata breve ma fondamentale per comprendere quanto fosse forte e radicato il sentimento antifascista. Ormai tutta l’Italia centrale è in mano alleata: tutta tranne la Lunigiana! L’ultimo atto richiede altri giorni: qui, dove Toscana e Liguria si incontrano c’è un nodo strategico: la via Aurelia piega verso Genova, lasciando alla statale della Cisa l’itinerario in direzione nord. Bisogna fermare la ritirata dei tedeschi senza distruggere le infrastrutture viarie che subito dopo sarebbero servite agli alleati. Il 18 aprile scattano le operazioni, le postazioni tedesche sono neutralizzate e tra il 22 e il 23 aprile la zona è libera. Nella notte del 24 i partigiani di “Giustizia e Libertà” entrano ad Aulla, mentre Fivizzano è libera da un giorno con gli alleati arrivati dalla Garfagnana attraverso il passo dei Carpinelli. Bisogna aspettare ancora fino al 27 aprile perché anche l’ultimo fazzoletto di terra a sud dell’Appennino possa vedere la ritirata dei nazifascisti. Per Pontremoli si prospettano le ore più difficili. Le opere e il lavoro politico quotidiano del vescovo Sismondo fanno sì che il numero delle vittime non sia ancora più grande e che la città non venga distrutta. Ma i timori di azioni disperate del nemico sono forti e aumentano per le ripetute incursioni aeree contro le colonne tedesche e i continui cannoneggiamenti che aprono la strada agli alleati. Infine arriva l’alba del 27 aprile. È carica di nubi, ma la città è libera: da sud entrano le truppe americane, da nord scendono i partigiani delle brigate “Beretta”. Anche gli ultimi tedeschi hanno lasciato l’abitato, facendo saltare alle loro spalle tre ponti stradali ma lasciando intatto quello ferroviario che viene subito riadattato per il transito dei mezzi alleati verso il parmense dove, nella sacca di Fornovo, sta per consumarsi uno degli ultimi sanguinosi atti della seconda guerra mondiale in terra italiana.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.




“Pillole di Resistenza”. Un progetto video di divulgazione storica per il 75° anniversario della Liberazione

Fare «storia», tra conoscenza e cittadinanza.

Anni fa, lo storico ed ex partigiano Claudio Pavone, invitato a parlare di Resistenza in un noto liceo milanese, raccolse tra le altre la sollecitazione di un ragazzo che così si espresse: «Lei ha perfettamente ragione, sono pienamente convinto che la Resistenza sia stata una cosa grande, nobile; però lei ci ha messo un’emozione che io non capisco. Per noi è come parlare delle cinque giornate di Milano: possiamo ben essere convinti che è una gloria dei nostri avi aver cacciato il maresciallo Radetsky, però lo leggiamo nei libri di storia e basta». Riferendo tempo dopo quell’episodio in sede di convegno, Pavone avrebbe commentato: «Rispondere soltanto “tu hai il dovere di emozionarti come me” non avrebbe avuto senso. Bisognava sforzarsi di impostare un discorso che, partendo dai problemi dei giovani di oggi, arrivasse poi a trovare un vero terreno di incontro e di colloquio»[1].

Che la Resistenza possa apparire per gli italiani, e per le giovani generazioni in particolare, un riferimento identitario sempre più sfocato e lontano è questione che oramai da tempo è sotto lo sguardo di tutti. Le cause di questo stato di cose sono molte e varie, e non è certo questo il luogo per ripercorrerle e discuterne. Sicuramente, in anni recenti vi hanno contribuito svariati fattori che chiamano in causa – tra altri – il mutamento degli attori e dei tradizionali riferimenti politici ed ideologici, il ruolo della scuola, della ricerca e degli operatori culturali, il peso dei media e dei nuovi mezzi informatici di comunicazione nell’orientare l’opinione pubblica sul tema, e così’ via. D’altro canto – come anche l’aneddoto che abbiamo riportato mette in luce – una certa quota di responsabilità la si può rintracciare anche nel ruolo e nelle interazioni, molto spesso problematiche, che «storia» e «memoria» esercitano o hanno fin qui esercitato l’un l’altra rispetto al problema della conoscenza del passato, della Seconda guerra mondiale e della Resistenza in particolare. Il tema è di quelli capitali e sarebbero molti – troppi – gli spunti di analisi.

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Partigiani fiorentini in piazza Beccaria (ISRT)

Vale la pena ricordare tuttavia che, anziché nel senso indicato dal giovane interlocutore di Pavone – il quale a un presunto eccesso di «memoria» contrapponeva la richiesta di una pratica e di una conoscenza storica impersonale e asettica – nella realtà dei fatti l’interesse per il passato e quindi la domanda di conoscenza della storia della Seconda guerra mondiale e del Novecento in generale si sono rivolti più spesso alla «memoria» – intesa come testimonianza – che alla «storia» – intesa come disciplina “scientifica” – e questo secondo una tendenza che a partire dal dopoguerra ha registrato un’accelerazione sensibile soprattutto negli ultimi decenni. La crescita – e quasi l’eccesso – di memoria e di «memorie» – quelle delle vittime della guerra soprattutto – cui si è assistito a partire dagli anni Novanta come conseguenza dell’entrata in crisi del «paradigma antifascista» sul quale si era costruita – talvolta con intenti olografici e non senza reticenze – la memoria pubblica della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, ha portato infatti al centro della scena il ruolo del «testimone», consentendo che, soprattutto per le nuove generazioni, la conoscenza della storia passasse anzitutto attraverso la scoperta introspettiva e la condivisione dei vissuti e delle sofferenze individuali delle vittime e quindi fosse affidata anche a pratiche emozionali. Si è trattato e si tratta di esperienze sicuramente preziose sebbene, come è stato più volte sottolineato, si corra il rischio che alla sollecitazione emozionale, soprattutto se mediaticamente sovraesposta, non corrisponda un’adeguata trasmissione di contenuti storici. La «vittimizzazione della memoria» in particolare ha recato e reca conseguenze negative rispetto alla conoscenza storica, soprattutto quando un certo abuso di memorie rischia di produrre l’appiattimento di esperienze individuali e collettive storicamente tra loro assai diverse entro la stessa categoria vittimaria. La storiografia ha da tempo messo in guardia su simili rischi; tuttavia, nonostante essa avesse contribuito all’ampliamento dello sguardo pubblico sulla pluralità delle memorie della Seconda guerra mondiale spingendo oltre la tradizionale dimensione politico-militare della Resistenza, per una serie di motivi si è rivelata sempre più in crisi nel fornire all’opinione pubblica gli strumenti necessari per una corretta conoscenza critica di quei fenomeni. La «storia» – secondo alcuni osservatori – ha appunto perso centralità nell’orientare il dibattito pubblico sulla Resistenza e la Seconda guerra mondiale (e più in generale sul Novecento), sopravanzata da attori sprovvisti di solide strumentazioni analitiche e spesso mossi da intenti più o meno velati di polemica politica o comunque interessati esclusivamente a rovesciare presunte vulgate di una Resistenza ancora egemonizzata e “taciuta”, attori che il sistema dei media e il mercato editoriale hanno spesso premiato con maggiore visibilità.

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Truppe alleate fanno il loro ingresso a Massa Marittima (ISGREC)

La sfida cui oggi la «storia» – intesa come disciplina e conoscenza critica e scientifica dei fatti storici – è chiamata risulta probabilmente tra le più difficili ma proprio per questo essa non può sottrarvisi, tanto più che l’«era del testimone», almeno per quanto riguarda la storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, pare avviata oramai a chiudersi. Le risposte a questa sfida possono essere di vario tipo e su più livelli. A nostro parere non si tratta tanto del grado di separazione che essa debba mantenere con la «memoria» (lo stesso Pavone avrebbe potuto replicare al giovane milanese che lo aveva sollecitato che in fondo, come avrebbe scritto più tardi, anche «la storia più asettica, nella sua volontà di essere scientifica, può talvolta stimolare la memoria, favorendo il riemergere di ricordi accantonati»[2]), ma anzi del ruolo che la «storia» possa e debba avere rispetto ai processi di costruzione della memoria pubblica in atto in un paese. Più che sul terreno ambiguo e scivoloso dell’«uso pubblico» della storia, la questione va inquadrata entro il problema annoso dell’«utilità» che la storia debba avere, non tanto e non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale: se, cioè, il sapere storico costruito su base critica debba assolvere o meno anche a un ruolo pedagogico, ricercando, come è stato proposto, «un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese»[3].

Per gli storici e per chi lavora da anni nel campo della ricerca e della divulgazione storica si tratta di un nervo sensibile. Gli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea della Rete Parri sono sicuramente tra i soggetti che per primi si sono impegnati da anni su questo fronte, promuovendo progetti di ricerca, didattica e divulgazione storica condotti con rigore scientifico e consapevolezza critica senza però perdere di vista al contempo la finalità di fornire strumenti utili non solo a una conoscenza storica rigorosa ma a una cittadinanza attiva e consapevole. Nel far ciò essi si confrontano da tempo anche con le nuove pratiche e i nuovi mezzi di comunicazione storica che provengono dall’applicazione dei più recenti strumenti digitali e informatici e che già hanno portato la disciplina storica nel mondo della public history e della digital history.

Le “Pillole di Resistenza”.

La Rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea negli ultimi anni ha promosso in tal senso nuovi progetti di divulgazione e informazione storica, inaugurati nel 2018 con la pubblicazione di una web serie in occasione del 70° Anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana (“La Costituzione è giovane!”, link a you tube: https://www.youtube.com/watch?v=q6ieiYSJ2uI). Quest’anno, ricorrendo il 75° Anniversario della Liberazione, la rete toscana ha promosso con il contributo della Regione Toscana e il coordinamento dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze la realizzazione di un video progetto di divulgazione storica sul tema della Resistenza in Toscana dal titolo Pillole di Resistenza (link al trailer del progetto “Pillole di Resistenza”: https://www.youtube.com/watch?v=meuu1rwqVhg). Il progetto, affidato alla regia di Nicola Melloni (Rumi Produzioni), si compone di dieci episodi, ciascuno dedicato a un tema in particolare della storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale in Toscana e affidato al racconto esperto di uno storico, individuato tenendo conto sia della sua competenza sul tema che della sua esperienza nel campo della ricerca, della divulgazione e della didattica storica. Non solo storici di professione e dell’accademia, dunque, ma anche figure che oltre a una solida formazione scientifica vantano consolidate esperienze all’interno degli Istituti storici della Resistenza. Uno degli scopi del progetto, infatti, era quello di coniugare il rigore del sapere storico proprio della disciplina con le sensibilità richieste da una divulgazione storica seria ma capace di parlare al grande pubblico, e alle generazioni più giovani in primo luogo, con linguaggi chiari ma diretti, fornendo appunto delle “pillole” della durata di circa 15 minuti utili a formare non solo una maggiore conoscenza del nostro recente passato ma anche una cittadinanza più consapevole delle radici storiche del nostro presente. Da qui anche la decisione di rendere le “Pillole” liberamente accessibili a tutti sul web, pubblicandole sul canale you tube dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze con cadenza settimanale ogni martedì a partire dal 31 marzo e sino al 2 giugno prossimo, festa della Repubblica.

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Partigiani del Raggruppamento Patrioti Apuani (ISRA Pontremoli)

Poiché il progetto nasce e si muove a partire dalla conoscenza aggiornata che la ricerca scientifica e la storiografia hanno prodotto negli anni sulla storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, i dieci temi delle “Pillole” sono stati coerentemente individuati sulla base di tali acquisizioni. Con le parole e nello spirito dell’insegnamento di Pavone, possiamo dire che la scelta dei temi e dei soggetti trattati ha tenuto conto dell’ampliamento dell’«arco dell’esperienza resistenziale»[4] e del conseguente riposizionamento della storiografia dall’originaria attenzione prestata in via esclusiva alla dimensione politica e militare della Resistenza a forme di opposizione non armate, variamente definite «civili» e «non violente», atteggiamenti di rifiuto della guerra fascista, di disobbedienza non passiva che segnarono una reale «ripresa della parola dal basso» dopo decenni di oppressione. Da qui l’interesse a portare entro il perimetro resistenziale fenomeni quali quello della renitenza alla leva militare, del dissenso pagato a caro prezzo dai militari italiani internati dopo l’8 settembre nei campi di prigionia tedeschi, della difesa degli impianti industriali dalle razzie tedesche e degli scioperi nelle fabbriche, della riscoperta e della salvaguardia del valore assoluto della vita umana dimostrato da donne e uomini nel dare assistenza ai perseguitati politici e della razza, agli sbandati e agli sfollati e a chi era stato vittima di violenze ideologiche e di guerra, e molto altro ancora. Una varietà complessa di esperienze diverse accomunate però dal desiderio di resistere «alla guerra» (alla guerra fascista, all’occupazione nazifascista e alle sue biopolitiche genocidarie anzitutto) al quale poi si salda come ulteriore stadio la volontà non più e non solo di resistere «alla guerra» fascista ma di optare per «una guerra di riscatto» dal nazifascismo, scegliendo la via armata. Entrambi sono aspetti indissolubili dell’esperienza resistenziale e come tali stanno assieme anche entro il racconto che della Resistenza ci offrono le “Pillole”.

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Civili sfollati, Livorno viale Caprera (ISREC Livorno)

La varietà di queste esperienze resistenziali, d’altro canto, richiama il vissuto specifico e irripetibile di chi le sperimentò, ragione per la quale anche nelle “Pillole” si è scelto di raccontare la Resistenza nei suoi aspetti costitutivi attingendo ampiamente alle storie di vita, semplici ma esemplari, di donne e uomini toscani che tra il 1943 e il 1945 scelsero con coraggio e conseguenze spesso esiziali la via della disobbedienza e della resistenza. Un vissuto che, affidato alla voce dello storico, è ricostruito in ciascuno degli episodi con una selezione di immagini, documenti e testimonianze provenienti in larga parte dallo stesso patrimonio archivistico e documentale che la Rete degli Istituti toscani conserva e da anni mette a disposizione di storici e ricercatori. Materiale, questo, sapientemente montato nel racconto filmico delle “Pillole” e in grado di restituire il senso e lo spessore di queste voci e di queste vite, nonché di luoghi e vicende simbolo, i quali si fanno non solo «documento storico» ma «testimonianza» vera e propria.

Il primo episodio, 8 settembre 1943: L’ora delle scelte curato da Nicola Barbato, ricercatore dell’ISREC di Lucca, affronta il tema della “scelta” resistenziale all’indomani dell’armistizio e del difficile quadro che si apre con esso. L’effimera illusione di un’uscita indolore dalla guerra che l’8 settembre aveva creato è spazzata via definitivamente dallo sbando dell’esercito e dall’occupazione tedesca della penisola. Ma pur di fronte al tracollo generale, allo sfaldarsi dei tradizionali vincoli di appartenenza e persino del comune senso di identità nazionale, che per taluni segna persino la “morte della patria”, non decadono invece i presupposti di un riscatto collettivo degli italiani. Posti di fronte a una scelta di campo difficile quanto indifferibile, molti di loro danno prova di una tenace e coraggiosa volontà di rivalsa sul fascismo che, ancor prima di assumere il carattere di lotta armata, ha il volto della solidarietà spontanea prestata ai soldati sbandati, agli ex prigionieri alleati evasi dai campi fascisti, ai renitenti alla leva e ai perseguitati politici e della razza. Una solidarietà affrontata con coraggio e pagata, spesso, a caro prezzo che costituisce in verità “l’alba di una nuova patria” e che Nicola Barbato ripercorre delineando, tra le altre, le vicende cariche di significato dell’anziano colonnello Cione, di Vera Vassalle, degli IMI lucchesi Dante Uniti e Davide Massei.

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La partigiana viareggina Vera Vassalle (ISREC Lucca)

Il secondo episodio, RSI. La Repubblica Sociale in Toscana, curato da Francesca Cavarocchi ricercatrice dell’Università di Firenze e dell’ISRT di Firenze, ricostruisce la fisionomia e le politiche di controllo che interessarono in Toscana l’apparato della Repubblica Sociale Italiana. Ricostituitosi nel settembre del 1943 come governo collaborazionista e fiancheggiatore dell’occupante tedesco, il fascismo repubblicano vide assurgere a ruoli apicali numerosi toscani, spesso vecchi fascisti o squadristi della prima ora – tra i quali il fiorentino Alessandro Pavolini o Guido Buffarini Guidi – secondo una continuità ideale con il ruolo che la regione aveva svolto in passato come una delle “culle” del fascismo delle origini. E di quel fascismo originario – squadrista, violento e predatorio – la RSI raccolse l’eredità nei mesi di guerra. Allora, piuttosto che mitigare i pesanti effetti del sistema di occupazione tedesco sulla popolazione civile, i fascisti repubblicani si resero protagonisti di un inasprimento delle politiche di controllo sulle risorse e la forza lavoro locali oltre che degli strumenti di repressione del dissenso politico. Sebbene contrassegnate da una maggior brevità e instabilità rispetto alle regioni del Nord Italia, le strutture della RSI in Toscana svolsero un ruolo diretto nella persecuzione e deportazione degli ebrei e nella repressione antipartigiana, con gravi responsabilità.

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Francesca Cavarocchi durante le riprese del secondo episodio “RSI. La Repubblica Sociale in Toscana”

Il terzo episodio, Vivere la guerra totale, curato da Matteo Grasso giovane storico e direttore dell’ISRPT di Pistoia, pone al centro del racconto le difficili e drammatiche condizioni di vita patite dalla popolazione civile toscana nel contesto della “guerra totale”. Partendo anzitutto dal simbolo più caratteristico della guerra totale, l’esperienza dei bombardamenti alleati sulle citta e sulla popolazione civile, e con un focus particolare su Pistoia, Grasso tocca tutti i principali aspetti, materiali e psicologici, di una vita scandita continuamente dalla minaccia della guerra aerea e sconvolta dalle gravi conseguenze che essa ebbe in termini di distruzioni, morti e patimenti. Lo sgombero e lo sfollamento forzato dei centri abitati disposti nel tentativo di porre al sicuro i civili ma anche di sottrarre il prezioso patrimonio artistico culturale di molte città toscane ai rischi connessi ai bombardamenti e all’avanzare del fronte, il drastico peggioramento della situazione alimentare e sanitaria a seguito dell’entrata in crisi del sistema di razionamento e approvvigionamento e l’incapacità delle autorità di far fronte all’emergenza, sono aspetti generalizzati della crisi che la popolazione toscana vive negli anni di guerra e poi, con nuova intensità, nei mesi dell’occupazione tedesca, quando le razzie e le sistematiche requisizioni nazifasciste conducono ancor più allo stremo la regione.

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Manifesto della RSI contro la renitenza alla leva di Salò (ISRA Pontremoli)

Il quarto episodio, curato da Catia Sonetti storica e direttrice dell’ISTORECO di Livorno, tratta il tema de La persecuzione degli ebrei. Partendo dalla vicenda dell’arresto nel dicembre 1943 al Gabbro, piccola frazione di Rosignano Marittimo, delle famiglie ebraiche dei Bayona, dei Baruch e dei Modiano e della loro successiva deportazione ad Auschwitz, Sonetti fa luce, risalendo a ritroso, sugli antefatti e sulle premesse storiche della persecuzione antisemita. Delineando nei suoi tratti costitutivi il profilo sociale, culturale ed economico delle tre principali comunità israelitiche toscane e delle altre presenze ebraiche disseminate nella regione, si ripercorrono i processi di emancipazione e il grado di integrazione di tali comunità e di tali presenze entro il tessuto civile toscano, tra Unità, Grande Guerra e Fascismo per poi meglio cogliere su di esse gli effetti generati dall’introduzione della legislazione razziale fascista. Le conseguenze delle politiche discriminatorie del Fascismo con la progressiva messa al margine e poi con l’espulsione dalla vita pubblica dei cittadini ebrei sono indagate tramite le dolorose vicende di vita di coloro che cercarono di porsi in salvo, tentando l’espatrio, come nel caso della famiglia del medico fiorentino Giulio Levi, o di chi, invece, subì la radiazione dal pubblico impiego come accadde a Enrica Calabresi, professoressa universitaria, più tardi suicida di fronte a sicura deportazione. Nel ricostruire il passaggio dalla “persecuzione dei diritti” alla “persecuzione delle vite” sono poste al centro le responsabilità degli italiani e delle autorità fasciste repubblicane e le figure di coloro che, come nel caso di Giovanni Martelloni e Mario Carità, risultarono tra i maggiori responsabili dell’arresto e della deportazione di centinaia di ebrei fiorentini e toscani; ma è altresì ricordato anche il ruolo di protezione che svolsero allora esponenti e organizzazioni della Chiesa toscana o semplici cittadini. A chi tra i perseguitati cercò di opporsi alla deportazione, anche scegliendo la via della resistenza armata come nel caso della famiglia degli Orefice, si contrappongono le vicende tremende di chi invece non fece ritorno e le poche ma preziose voci dei salvati che al rientro dai campi ebbero il coraggio di testimoniare.

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La vecchia Sinagoga di Livorno parzialmente distrutta dai bombardamenti (ISTORECO Livorno)

Al tema degli Scioperi e delle deportazioni politiche è invece dedicato il quinto episodio, curato da Camilla Brunelli, direttrice del Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza (Figline di Prato). Una delle pagine al contempo più gloriose e terribili della Resistenza civile, lo sciopero generale indetto ai primi di marzo del 1944 dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia in Toscana interessò principalmente le aree più industrializzate tra Firenze, Prato ed Empoli, ma si diffuse comunque anche in altre zone manifatturiere della regione. Oltre che a Prato, nella sua diffusa industria tessile, a Firenze si mobilitarono, tra gli altri, gli operai e le operaie delle Officine Galileo, della Pignone, della Cipriani e Baccani, della Richard-Ginori, della Manetti & Roberts, oltre alle sigaraie della Manifattura Tabacchi. Nell’empolese entrarono in sciopero gli operai delle vetrerie; ad Abbadia San Salvatore, sul Monte Amiata, i minatori; ma si scioperò anche a Cavriglia, nel Pistoiese, nel Pisano, a Livorno e Piombino, a Santa Croce sull’Arno e nel Mugello. Si trattò di proteste che generavano per lo più da un radicato e diffuso sentimento di rifiuto e di resistenza civile alla guerra, motivato dall’insofferenza per le privazioni causate dal conflitto e dal malcontento per la continua e sistematica azione di depredazione delle risorse produttive e umane condotta dall’occupante nazifascista. Di fatto si trattò della prima opposizione esplicita di massa al fascismo, ragion per cui la reazione delle autorità fasciste e naziste fu repentina e muscolare, traducendosi in una dura repressione che portò a rastrellamenti generalizzati e indiscriminati della forza lavoro, per la verità non solo di quella scioperante. Arrestati e poi concentrati in luoghi di smistamento quali la Fortezza di Prato o le ex scuole delle Leopoldine in Piazza S. Maria Novella, centinaia di scioperanti furono da lì deportati verso il lager di Mauthausen e quindi trasferiti in vari sottocampi: Gusen, Melk e soprattutto Ebensee. La gran parte di loro, come l’antifascista pratese Diego Biagini, non fece mai ritorno.

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Matteo Grasso durante le riprese del terzo episodio “Vivere la guerra totale”

Resistere con o senza armi, è il tema del sesto episodio delle Pillole, curato da Pietro Clemente, già docente di antropologia culturale e Presidente dell’ISRSEC di Siena. Resistenza in armi e resistenza civile si incontrano idealmente nel racconto di Clemente e trovano quasi una sintesi nel piccolo borgo contadino di Monticchiello, nel comune di Pienza, luogo di ambientazione nell’aprile 1944 di una fiera e vittoriosa battaglia partigiana; un episodio, se si vuole minore, della resistenza armata in Toscana ma cionondimeno significativo in quanto non solo rilancia e infonde nuovo spirito al movimento di liberazione senese dopo l’eccidio di Montemaggio ma segnala il raggiungimento di una certa maturità militare del movimento di liberazione tutto, una crescita organizzativa complessa che denota anche il contributo determinante dei civili: dietro e attorno alle mura medioevali del piccolo paese dove i partigiani della formazione Mencatelli si trincerano e respingono l’assalto delle truppe fasciste ci sono infatti e prestano aiuto molti giovanissimi (studenti, operai ma soprattutto contadini) e diverse donne (che collaborano dall’esterno); c’è in definitiva la solidarietà e l’aiuto della popolazione civile tutta a dimostrazione che senza di questa la lotta armata difficilmente avrebbe potuto sopravvivere e prosperare. Ma oltre ai civili e ai contadini, e ai mezzadri toscani soprattutto senza i quali le bande partigiane non avrebbero potuto sopravvivere alla macchia, vi sono anche i sacerdoti, schierati apertamente come don Paoli a Lucca e don Angeli a Livorno contro la guerra e dalla parte di chi la soffre e decisi a immolare se stessi nel salvataggio di ebrei e perseguitati e nella protezione delle popolazioni civili dalle violenze degli occupanti.

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Luciana Rocchi durante le riprese del settimo episodio “Donne, tra guerra e Resistenza”

Donne, fra guerra e Resistenza è l’altro grande tema al centro del settimo episodio curato da Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto del quale è stata fondatrice e per molti anni direttrice.  Attraverso le biografie e il vissuto tormentato di una selezione significativa di donne toscane passate attraverso la guerra ci si pone la domanda di quanto delle condizioni di partenza, culturali, morali, sociali rimanga e di quanto invece muti drasticamente nella Toscana del dopoguerra. La risposta non è univoca e deve confrontarsi con le molte e spesso contrastanti esperienze vissute dalle donne negli anni del conflitto. Certo, le difficoltà e le privazioni del tempo di guerra, comuni a tutte, le gettano in uno stato di emergenza costante e di estrema durezza di vita, spesso sradicandole dai propri luoghi vitali di riferimento (le case, le famiglie), mentre lo stereotipo dell’etica del sacrificio per la patria che aveva caratterizzato il linguaggio delle autorità fasciste verso le donne perde ormai ogni aderenza con il loro vissuto. Da qui, un nuovo protagonismo, conquistato duramente e a prezzi altissimi. Al di là del tradizionale ruolo di maternage e di cura per chi ha bisogno – siano i propri figli minacciati dai bandi di chiamata alle armi di Salò contro cui si rivoltano le madri di Massa Marittima, oppure gli ebrei, gli sfollati e i partigiani che Iris Origo accoglie nella sua villa in Val d’Orcia – vi sono donne che si mettono in gioco direttamente entro il movimento di Resistenza per le quali il rifiuto della guerra non è in conflitto con l’accettare la necessità della violenza. Non solo staffette, dunque, ma anche donne in armi, che trovano in ogni caso le ragioni della propria scelta o nel desiderio di rivalsa dalla cultura dell’obbedienza in cui erano cresciute o perché spinte dagli affetti e dagli amori a seguire i propri cari e i propri amati in clandestinità. Il prezzo da loro pagato è altissimo, come emblematicamente racconta la vicenda della medaglia d’oro Norma Parenti, trucidata a un passo dalla Liberazione del proprio paese. Il dopoguerra che si apre tra tristezza e orrori vede ancora profonde ferite da sanare, mentre per alcune lascia un senso amaro di disillusione. Ma l’eredità delle donne in armi e senz’armi che hanno vissuto la Resistenza, benché assuma l’andamento di un cammino carsico, riaffiora e la si ritrova nell’etica di responsabilità di molte donne che saranno attive in politica e nelle rivendicazioni sociali del dopoguerra.

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Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare (ISGREC Grosseto)

L’ottavo episodio della serie, curato da Gianluca Fulvetti, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e membro del CdA dell’Istituto nazionale Ferruccio  Parri e del direttivo dell’ISREC di Lucca, è dedicato al tema delle Stragi in Toscana. La «guerra ai civili», come da tempo messo in luce da un filone storiografico attento a cogliere le implicazioni e gli effetti delle politiche di occupazione nazifasciste sulle popolazioni locali, raggiunge in Toscana uno dei massimi gradi di intensità e di efferatezza registrando tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 più di 4.400 vittime in oltre 800 episodi, tra stragi, eccidi e uccisioni singole. È soprattutto l’estate di sangue del 1944 a segnare il picco quantitativo e qualitativo della guerra ai civili in Toscana. Allora, alle necessità della guerra antipartigiana e del controllo del territorio che già nei mesi precedenti avevano animato l’impiego spesso indiscriminato della violenza sulle popolazioni locali si somma l’urgenza militare di rallentare a tutti i costi l’avanzata alleata; urgenza che porta i reparti della Wermacht e delle Waffen SS, non senza l’appoggio di fascisti e collaborazionisti, a scatenare a ridosso della linea del fronte grandi operazioni di bonifica del territorio, rastrellamenti e massacri di civili, ma anche uno stillicidio sparso di uccisioni che la ritirata tedesca si lascia dietro. Non solo le grandi stragi, come S. Anna di Stazzema e Civitella Val di Chiana, popolano la mesta cartina dell’estate di sangue toscana, ma altre meno note, ma non meno atroci, come nel caso della strage della Certosa di Farneta che Fulvetti tratteggia. È un salto di qualità quello che si compie nell’estate del 1944 che d’altro canto era già stato preannunciato con i grandi cicli antipartigiani che nella primavera del 1944 avevano colpito molte comunità toscane dell’Appennino e che avevano registrato la volontà delle autorità tedesche di gestire il dissenso non più con soluzioni politiche, ma con il ricorso alla violenza militare. L’eredità, materiale e morale, dei lutti che dilaniano la Toscana del 1944 lascia aperta e a lungo insoluta nel dopoguerra la domanda di giustizia dei familiari e delle comunità colpite, il cui dolore cade in un oblio di cui si rendono colpevoli le autorità politiche e giudiziarie italiane e alleate mentre il tentativo di dare un senso o un volto ai “presunti” colpevoli finisce per sedimentare memorie “divise” e conflittuali destinate a mantenersi tali ancora a lungo.

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Gianluca Fulvetti durante le riprese dell’ottavo episodio “Le stragi in Toscana”

Il nono episodio è dedicato invece a Liberazioni e insurrezione ed è curato da Matteo Mazzoni, storico e direttore dell’ISRT di Firenze. Al centro del racconto è l’andamento del quadro militare della guerra di Liberazione e il ruolo che, a partire dal giugno 1944 in avanti, svolgono in Toscana gli eserciti alleati, da un lato, e dall’altro il movimento partigiano, il quale, dopo aver animato la lotta a tedeschi e fascisti nei mesi precedenti, punta adesso a precedere gli Alleati nella liberazione delle città. Se l’imparità con il nemico ostacola la volontà delle formazioni partigiane di svolgere entro la lotta di Liberazione un ruolo veramente autonomo dall’apporto delle forze alleate, la posta in gioco rimane comunque alta e il tentativo di evidenziare il proprio contributo, oltreché sul piano militare, assume un significato politico di enorme rilevanza per le forze dell’antifascismo toscano.  Pur nella dialettica delle posizioni e delle prospettive, l’obiettivo comune della sconfitta dei nazifascisti consente  forme di collaborazione tra Alleati e partigiani e persino il reciproco riconoscimento dei ruoli. Tra gli altri casi richiamati, la battaglia di Firenze e l’insurrezione dell’11 agosto ne sono il principale esempio, con gli Alleati che, giunti alle propaggini meridionali della città, riconoscono sia le nomine del governo della città espresse dal CTLN quale organo rappresentante delle forze resistenziali che il ruolo svolto dalle Brigate partigiane calate sulla città dai colli circostanti nei duri combattimenti che si protraggono fino alla fine del mese lungo la linea del Mugnone. È, come noto, quello fiorentino uno snodo centrale nella storia della Resistenza italiana che lascia un’eredità politica e un esempio prezioso per le successive insurrezioni delle città del Nord Italia.

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Sepolture di vittime di stragi nazifasciste (ISRA Pontremoli)

L’ultimo episodio, curato da Andrea Ventura, giovane storico dell’ateneo pisano e direttore dell’ISREC di Lucca (a cui in particolare è affidato il racconto storico), assieme a Luca Baldissarra, docente di Storia presso l’Università di Pisa, ha come tema La Linea Gotica in Toscana. Con attenzione particolare al settore apuano – oggetto di un tardivo sfondamento alleato e quindi di un’occupazione tedesca che nei territori di Massa, Carrara e Pontremoli si prolunga sino all’aprile inoltrato del 1945 – Ventura ripercorre i presupposti strategici e militari che con l’avvio della campagna alleata in Italia avevano spinto le autorità tedesche a realizzare una grande linea di fortificazioni tra Massa (sul Tireno) e Pesaro (sull’Adriatico) che si inerpicava per centinaia di chilometri tra le Alpi Apuane e l’Appennino. La Gotica – spiega Ventura –  è nello stesso tempo una linea del fronte e di confine che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud), due sistemi di occupazione (tedesco e alleato), due opposte esperienze politiche e di guerra. Ma al contempo la Gotica rappresenta anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano nella costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati provenienti da cinque continenti diversi si insediano e si preparano al combattimento, dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono anche autonomamente stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano intensamente, dove le popolazioni vivono una quotidianità totalmente stravolta dalla guerra. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della Seconda guerra mondiale: non solo linea militare, ma anche demarcazione politica, ideologica e mentale, aspetti questi che Ventura ricostruisce puntualmente anche con l’ausilio della preziosa documentazione fotografica e documentale messa a disposizione, tra altri, dall’ISRA di Pontremoli.

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Camilla Brunelli durante le riprese del quinto episodio “Scioperi e deportazioni politiche”.

In sintesi un progetto video, complesso e articolato, nato dalla solerte e sentita collaborazione tra tutti gli Istituti della Resistenza della Rete toscana, sotto il coordinamento del dott. Matteo Mazzoni, la segreteria scientifica e la ricerca d’archivio di Giada Kogovsek e Francesco Fusi, che si spera possa dare un piccolo ma significativo contributo affinché la «storia», oltre a formare conoscenza critica e rigorosa dei fatti, possa ancora esprimere la propria utilità nella società di oggi, magari fornendo «quel terreno di incontro e di colloquio» necessario alla costruzione di un ethos per il paese di cui parlava anche Pavone.

 

[1] Intervento di Pavone in Passato e presente della Resistenza. 50° Anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1995, p. 113.

[2] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 67-68.

[3] Mirco Carrattieri, La Resistenza tra memoria e storiografia, «Italia contemporanea», XXXIII (2015), n. 95, p. 18.

[4] Claudio Pavone, Un Guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 31.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.