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La Città Bianca in camicia nera: dalla fine dell’Ottocento ai fatti di Piazza S. Michele

La Lucca prefascista: conservazione e tradizione

Regione rossa per eccellenza nell’immaginario collettivo assieme all’Emilia Romagna, la Toscana può vantare una “genealogia rivoluzionaria” che dagli studenti pisani volontari a Curtatone e Montanara arriva allo spartiacque di Livorno del 1921, passando per episodi meno noti come la feconda contaminazione reciproca tra socialismo e progressismo positivista d’ispirazione mazziniana nella Versilia a cavallo fra i due secoli [1].

In un simile panorama la città di Lucca spicca per il proprio conservatorismo, “fortemente connesso”, come evidenzia Luca Pighini, “con la difesa dei valori religiosi”; terra d’emigrazione e territorio a vocazione agricola, la Lucchesia conosce l’industrializzazione nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando l’imprenditore genovese Vittorio Emanuele Balestrieri impianta uno jutificio in località Ponte a Moriano [2]. Il conflitto sociale, a fronte delle durissime condizioni di vita della classe operaia lucchese, stenta a decollare: soltanto nella primavera del 1914 si tiene il primo vero sciopero di massa, quello delle sigaraie della Manifattura Tabacchi, già protagoniste nei decenni precedenti degli unici, sporadici episodi di combattività operaia in Lucchesia [3], e che durante la Prima guerra mondiale saranno nuovamente al centro delle proteste del 1917 [4 ]. Ma le cose sono destinate a cambiare con la fine del conflitto e il doloroso lascito che questo si lascia alle spalle, a Lucca come nel resto del paese.

Dal primo dopoguerra al “biennio rosso”

“Al di là dell’entusiasmo per la vittoria e della retorica di celebrazione”, scrivono Eugenio Baronti e Leana Quilici, “la fine della grande guerra lascia in tutta Italia una tragica eredità: all’elevato numero di morti, mutilati e invalidi si aggiungono i problemi della disoccupazione, della mancanza di generi di prima necessità […]” [5]. Lucca, alle prese con la crisi della produttività agricola e salari sempre più deboli di fronte all’inflazione, non costituisce certo un’eccezione nel quadro nazionale: a denunciare la difficoltà del momento non sono soltanto le organizzazioni socialiste, ma anche una parte del mondo religioso cittadino (“Lucca, città della fame” titola il Serchio, erede di quell’Esare che sin dalla sua fondazione nel 1886 era stato la voce della Curia lucchese)[6 ]. Nel febbraio 1919 vedono la luce le prime leghe sindacali bianche grazie al contributo del parroco di San Marco don Pietro Tocchini, animato certamente da volontà concorrenziale nei confronti dei socialisti, ma anche da una genuina presa di coscienza della dura realtà quotidiana dei propri parrocchiani. Nel novembre dello stesso anno le elezioni nazionali a Lucca premiano il Partito popolare italiano, diviso però al suo interno tra un’ala di sinistra “quasi socialista” – come la definì il Giornale di Valdinievole – e un’ala destra ferocemente conservatrice e ostile a qualsiasi forma di associazionismo operaio, incluso quello cattolico [7].

L’ondata delle proteste lucchesi negli anni del dopoguerra e del “biennio rosso” culminano con il massiccio sciopero del marzo 1920 e l’occupazione della fabbrica S.M.I. a Fornaci di Barga nel settembre dello stesso anno; scarso invece il riverbero in città della rivolta viareggina del 2-5 maggio [8]. Sostanziali le conquiste ottenute, dagli aumenti salariali all’alleggerimento della disciplina di fabbrica. Gli echi delle dimostrazioni di piazza hanno appena cominciato a spegnersi quando la violenza squadrista piomba sulla città – e sulle organizzazioni del movimento operaio.

Il fascismo a Lucca: dalla fondazione all’aggressione di piazza San Michele

Poco più di un anno prima, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini ha fondato i Fasci di combattimento, il cui avvenire non sembra roseo fino al 1920 quando – sull’onda del riflusso delle occupazioni operaie e del crescente declino del PSI – il nuovo soggetto politico si pone a capo della “reazione borghese antiproletaria” conoscendo una rapida crescita in termini di iscritti [9]. Anche a Lucca, che soltanto un paio di settimane prima ha subito gli effetti del devastante terremoto che vede il suo epicentro nella Garfagnana, nel settembre 1920 si avvia il processo volto alla fondazione di una sezione locale del fascio, per iniziativa del romagnolo Nino Malavasi, studente di veterinaria, e del farmacista ed ex ufficiale Baldo Baldi [10 ], entrambi provenienti dagli ambienti mazziniani, una cinquantina di simpatizzanti – perlopiù giovani di famiglie benestanti – al seguito [11]. Il fascismo lucchese nasce ufficialmente un mese dopo in via Guinigi, il 26 ottobre 1920, sotto la presidenza onoraria del colonnello Umberto Minuto; il 5 dicembre esce il primo numero de L’intrepido, periodico della sezione.

Il “battesimo dello squadrismo” a Lucca si tiene il 14 dicembre 1920, in piazza S. Michele, dove circa 500 persone si sono riunite nella piazza in occasione di un comizio socialista contro il carovita: l’onorevole Lorenzo Ventavoli prende la parola, ma i fascisti lo interrompono continuamente, accusandolo di vivere nell’agio grazie all’indennità parlamentare [12 ]; dalle parole si passa ben presto alle vie di fatto, agli squadristi lucchesi si uniscono gli oltre 300 camerati pisani e senesi giunti in città, e la Guardia Regia spara sulla folla mentre le camicie nere rientrano indisturbate nella propria sede di via S. Andrea. Restano a terra 19 feriti e due morti, Valente Vellutini, proprietario di una filanda, e l’ex consigliere comunale liberale Angelo Della Bidia. A nulla valgono le denunce di Ventavoli e del comunista Luigi Salvatori: gli unici arresti effettuati dalla polizia vanno a colpire i socialisti. Anche a Lucca dunque, come a Milano e Bologna un anno prima, si registra la connivenza tra apparati dello Stato e fascisti [13]. Il mattino successivo in quella stessa piazza, a fianco della chiesa, compare una scritta minacciosa a caratteri cubitali: “A Lucca comanda il fascio”[14]. E chi comanda il fascio a Lucca sarà da lì a poco Carlo Scorza.

Il Ras di Lucca

Calabrese, classe 1897, Scorza si trasferisce quindicenne a Lucca con la famiglia e alla vigilia della Prima guerra mondiale si fa notare per il suo acceso attivismo interventista; durante il conflitto si distingue durante la difesa del Piave, venendo decorato al valore militare. L’adesione ufficiale al fascismo avviene proprio in quel fatidico 14 dicembre 1920 che ha lasciato dietro di sé due morti, numerosi feriti e ben più di qualche sospetto sulla complicità tra forze dell’ordine e camicie nere. La carriera del futuro “condottiero”[15] dentro il fascio lucchese è rapidissima, tanto da arrivare a ricoprire la carica di segretario a soli quattro mesi dalla sua iscrizione, nell’aprile 1921: sotto la guida di Scorza, ha evidenziato Nicola Laganà [16], si rafforza la componente più violenta del movimento, che si scatena contro le sedi e i luoghi di ritrovo del movimento operaio. Nel dicembre dello stesso anno, dopo la trasformazione dei fasci di combattimento in partito, diviene segretario federale per Lucca; nell’ottobre 1922 partecipa alla marcia su Roma, occupando con i suoi duemila legionari lucchesi Civitavecchia. Il lungo regno del “gangster” Scorza [17] è contraddistinto dalla costante scalata ai vertici del PNF, culminata (non senza contrasti con i capi nazionali e lo stesso Mussolini) nel 1943 con la nomina a segretario nazionale del partito: una strada macchiata di sangue – quello degli antifascisti, ma anche di qualche fascista – e caratterizzata da una gestione del potere che Ugo Clerici, collaboratore di Mussolini da questi inviato a Lucca per far luce sulle “cose poco pulite” che girano sul conto di Scorza e di suo fratello Giuseppe, definirà “camorristica”[18].

1 Per un quadro generale si rimanda alla lettura del recente volume di Edoardo Parisi e Maurizio Sacchetti Dario Calderai, medico mazziniano nella Versilia del marmo di fine Ottocento (2022), edita da Ed. l’Ancora e A.M.I. – Associazione Mazziniana Italiana – sez. Versilia, circolo “Mauro Raffi”.

2 Per una lettura approfondita del fenomeno si rimanda all’esaustivo saggio di Francesco Petrini Aspetti dell’industrializzazione in Lucchesia: 1880-1901, pubblicato per la prima volta sul n. 5 di “Documenti e Studi” del dicembre 1986 ed oggi consultabile a questo link.

3 Vedi anche il saggio di Luciana Spinelli 1914: la Manifattura di Lucca e lo sciopero generale nelle manifatture dei tabacchi, in “Documenti e Studi” n. 3/1985 (pp. 3-34), consultabile a questo link.

4 Per un quadro completo delle proteste lucchesi del 1917 si rimanda al saggio di Andrea Ventura “L’inizio del conflitto sociale? Il caso della provincia di Lucca“, in Roberto Bianchi, Andrea Ventura (a cura di), Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali, Pacini Editore, Pisa 2019, pp. 35-51; altro significativo caso di conflittualità durante e dopo la guerra è costituito dalla SMI di Fornaci di Barga, oggetto del saggio di A. Ventura Fornaci di Barga 1915-1920, in “Documenti e Studi” n. 38/2015, pp. 61-72.

5 Eugenio baronti, Leana Quilici, Lucca 1919: la vita politica e sociale della città raccontata dai giornali lucchesi, p. 7, in “Documenti e Studi” n. 1/1984, pp. 5-36.

6 Ivi, pp. 8-9

7 Vedi anche Antonella Dragonetti, Le vicende elettorali del Partito popolare lucchese nelle elezioni del 1919, in “Documenti e Studi” n. 4/1986, pp. 18-33.

8 Andrea Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma 2020, p. 59.

9 Emilio Gentile, Il fascismo in tre capitoli, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 20-21.

10 Marco Pomella (a cura di), La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 121-122.

11 Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo in stile camorra”, p. 193, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217.

12 Andrea Ventura, “Lorenzo Ventavoli”, in Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nel casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 183-185.

13 Per un quadro più approfondito si rimanda alla lettura del volume di Andrea Ventura Il diciannovismo fascista. Un mito che non passa, Viella, Roma 2021.

14 Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 18-19, in Gianluca Fulvetti, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca (vol. 3), Pezzini, Viareggio 2016.

15 Titolo in origine attribuito al signore ghibellino di Lucca Castruccio Castracani degli Antelminelli (1281-1328), la cui figura sarà sfruttata in chiave propagandistica da Scorza proponendone l’identificazione con sé stesso; vedi anche Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo stile camorra”, in Giovannini-Palla (a cura di), Op. cit.

16 Cit. in Pomella, Op. cit., p. 127

17 Secondo il ritratto che ne da il settimanale britannico Observer al momento della nomina di Scorza a nuovo segretario del PNF; in Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, p. 166

18 Cit. in Sereni, Op. cit., p. 203.




Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




Le sigaraie della Manifattura Tabacchi di Lucca

La storia della Manifattura Tabacchi lucchese inizia nel 1809, quando, in conseguenza ad un accordo stipulato tra Napoleone Bonaparte e il cognato Felice Baciocchi venne istituita una Regia Imperiale, alla quale venne affidata la gestione del tabacco. Con la caduta di Napoleone la Regia fu soppressa e la dominazione austriaca, subentrata dopo la caduta, prese importanti provvedimenti riguardanti la lavorazione del tabacco. In particolare il tenente colonnello Werkelein, istituì nel luglio 1815 l’Amministrazione dei Sali e dei Tabacchi facendo trasferire la Manifattura negli edifici della Cittadella, un luogo strategico perché punto di passaggio ma soprattutto zona ben fornita di acqua molto utile all’opificio per la lavorazione del tabacco.
Per ben due secoli la Cittadella rimase la sede della Manifattura. Durante il governo ducale borbonico, la Regalia del sale e del tabacco venne data in appalto per nove anni (dal 1838 al 1847) alla Società Bandini Levi & C. Prima della scadenza la concessione passò nel 1843 alla Società Bandini Piatti & Marianelli che la conservò fino al 1847. In quell’anno il Ducato di Lucca fu annesso al Granducato di Toscana e con un trattato tra i due governi l’azienda lucchese confluì con quella granducale finché gradualmente la lavorazione del tabacco non venne definitivamente spostata a Lucca. Nell’ottobre del 1858 la Regalia fu attribuita per altri nove anni alla Società Fenzi; anche in questo caso la concessione Fenzi cessò in anticipo perché già nel 1860 si stabilì una nuova gestione per mezzo di un accordo tra il regio governo piemontese e il governo toscano. Nel 1861 la Manifattura di Lucca era una delle quattro attive in Toscana con quelle di Firenze, di Massa Carrara e di Capraia (le ultime due cessate nel 1865). Nel 1865 la Regia Azienda della Manifattura dei Tabacchi entrò nella sfera di controllo del Ministero delle Finanze.

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Il processo produttivo in gran parte manuale richiedeva un notevole impiego di manodopera. Già all’indomani dell’Unità d’Italia l’organico della Manifattura era composto da ben 500 sigaraie cottimanti [1]. Nel contesto economico lucchese di fine Ottocento stavano gradualmente prendendo forma modeste iniziative industriali e imprenditoriali, soprattutto nel settore tessile e cartario [2], ma la fabbrica più importante del comune era senza dubbio la Manifattura Tabacchi che già da tempo era una realtà avviata e in netta espansione. Nel 1878 la massa operaia contava in totale 1490 operai di cui 1380 donne e 110 uomini [3]. Ben presto si rese dunque necessario ampliare gli spazi; nel 1892 infatti l’opificio venne accorpato al vicino convento di San Domenico, acquistato dal Ministero delle Finanze [4]: “all’interno dell’ex monastero furono realizzati gli uffici, il refettorio e i servizi generali e, contestualmente, l’ingresso principale della manifattura fu dislocata da via dei Tabacchi a via Vittorio Emanuele [5].” Con la cessione completa del convento la massa operaia aumentò ulteriormente: “a cavallo del nuovo secolo conterà oltre il 10% degli addetti del settore Tabacchi di tutta Italia. […] Nel 1911, raggiunse le 3.050 unità”[6]. A seguito dell’ultimo ampliamento su Piazzale Verdi avvenuto nel 1924 [7], la Manifattura assunse il suo assetto definitivo.

Quella della Manifattura Tabacchi è anche e soprattutto una storia di donne, infatti il cuore pulsante della forza lavoro era costituito dalle sigaraie. La lavorazione del sigaro era un’abilità tutta manuale; le mani delle donne si prestavano meglio alle due operazioni principali del processo produttivo: la scostolatura e la formazione vera e propria del sigaro. La scostolatura era un’operazione eseguita da sigaraie esperte e che consisteva nel privare la foglia della nervatura centrale distinguendo i lembi integri da usare come fasce esterne del sigaro dai lembi laceri e grossolani da utilizzare come ripieni. Le sigaraie incaricate della formazione del sigaro partivano invece dalla foglia da fascia che rappresentava la parte esterna del sigaro. Bagnavano le dita nella ciotola contenente la colla di mais, stendevano la foglia sulla tavoletta di legno e con il coltello delineavano la forma della fascia del sigaro. Poi prendevano i filamenti di tabacco fermentato (ovvero il ripieno), verificavano che il quantitativo fosse giusto, lo “pettinavano” e lo mettevano sulla tavoletta. A questo punto cominciavano ad arrotolare il sigaro in modo da dargli la giusta forma e consistenza. La grande abilità della sigaraia stava proprio nello scegliere il quantitativo giusto di ripieno e nell’arrotolare il tutto con perfetta precisione. Il sigaro finito veniva spuntato alle estremità e allineato con gli altri su una misurina di controllo, che serviva appunto per conferirgli la giusta misura.

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Grazie alle fonti conservate in Archivio di Stato di Lucca e in particolare alle schede matricolari, sono riuscita ad analizzare più approfonditamente la carriera lavorativa delle operaie. Nello specifico ho consultato 1000 schede delle operaie cottimanti e 500 schede delle operaie temporanee. Con i dati ricavati dalle 1000 schede ho creato un database che mi ha permesso di ottenere numerose considerazioni. Ad esempio che nel periodo 1849-1884 l’età media di entrata in Manifattura era pari a 19,2 anni. Ho rilevato che la durata media del rapporto lavorativo era pari a 28,2 anni e l’età media della fine del rapporto lavorativo pari invece a 48 anni. Per quanto riguarda il luogo di nascita la maggioranza delle donne proveniva da Lucca. Abitando in centro erano ovviamente più facilitate a raggiungere in breve tempo il posto di lavoro, sono presenti però anche donne nate nelle frazioni di Lucca, nate in comuni vicini, in altre città toscane o addirittura fuori regione [8]. Può sembrare strana la presenza di donne nate in luoghi così lontani da Lucca, ma il motivo principale è da ritrovare nel trasferimento avvenuto durante la carriera lavorativa. Tra le cause del trasferimento, oltre ai motivi familiari, probabilmente vi erano anche motivazioni legate ad esigenze produttive; quindi laddove era necessario aumentare la produzione e mancava manodopera si trasferivano operaie di altre Manifatture dove se ne aveva più bisogno. Tra i motivi ricorrenti per la fine del rapporto lavorativo troviamo il collocamento a riposo, il decesso, la radiazione, il pensionamento, il passaggio allo stato di valetudinarietà, il trasferimento, il licenziamento e il cancellamento dai ruoli [9].

Per l’indagine sulle schede matricolari delle operaie temporanee ho attuato la stessa strategia del database per raccogliere più informazioni possibili. In totale le schede catalogate sono 500 e ricoprono un periodo compreso tra il 1925 e il 1937. Anche in questo caso ho calcolato l’età media di entrata che era pari 21,9 anni.
Ho analizzato poi la provenienza [10], a quante operaie veniva rinnovato il contratto e per quante volte nel corso della carriera lavorativa. Quando non veniva rinnovato il contratto i motivi potevano essere vari: il cancellamento dai ruoli, il licenziamento, la radiazione, il collocamento a riposo, il trasferimento o il decesso [11]. Con la data di assunzione e la data di fine rapporto riportata sulle schede ho calcolato la durata dei rapporti lavorativi delle operaie e la media che ne è venuta fuori è di 4,21 anni. Una volta ricavata la durata del rapporto lavorativo di ogni operaia l’ho sommata all’età al momento dell’assunzione per ricavarne l’età di uscita dalla Manifattura, la cui media era di 29,7 anni. Un’altra motivazione per il mancato rinnovo del contratto era il passaggio alla categoria delle operaie permanenti. Le operaie passate a tale categoria sono in totale 386 e l’età media al momento del passaggio è di 27,3 anni.

Entrando nel vivo della vita fabbrica è necessario mettere in evidenza gli aspetti negativi del lavoro in Manifattura, ovvero la disciplina, il problema delle malattie e delle condizioni igienico-sanitarie dell’opificio.

L’essere dipendenti dello Stato si traduceva per le sigaraie in una rigida disciplina e controlli particolarmente severi. Ad assicurare questo sistema di regole, vi era all’interno delle Manifatture un complesso sistema di sorveglianza strutturato gerarchicamente. [12] Per esaminare l’aspetto disciplinare mi sono avvalsa principalmente della sezione relativa alle punizioni delle 1000 schede matricolari delle operaie cottimanti. In questa parte venivano riportati i provvedimenti disciplinari a carico dell’operaia, le date, i periodi di sospensione e le motivazioni dei provvedimenti. Per organizzare al meglio il mio lavoro ho inserito tutti i provvedimenti disciplinari di ogni scheda su un database per poi suddividerli in base alle motivazioni e vedere in termini numerici quanti provvedimenti ha avuto ogni operaia nel corso della carriera lavorativa. La sospensione per frazioni di giornate aveva ovviamente come effetto immediato la sospensione della paga. Ho distinto tra motivazioni riguardanti errori commessi sul lavoro e motivazioni legate alla cattiva disciplina delle operaie. Nei primi casi si ritrovano ad esempio le sospensioni per “reperimento di un capello in un sigaro”, per “cattivo lavoro”, per “consegna sigari in meno”, “per presenza di scarti, ritagli e spuntature nel sigaro” “per sigari mal confezionati”, “per aver bagnato la foglia”. Nei secondi casi invece sono comuni le sospensioni per “insubordinazione”, “discussione con una compagna”, “turpiloquio”, “mancanza di rispetto ad un superiore”, “commercio illecito”, aver “lavorato oltre l’orario”, aver “mangiato al proprio posto”, “poca pulizia del posto di lavoro”, “cattiva condotta”, “assenza arbitraria,” “appropriazione illecita di materiale”, aver “introdotto bevande in laboratorio” (spesso infatti si introducevano anche sostanze alcoliche a scopo di lucro).
Riguardo alla questione delle malattie, la vita in fabbrica sia per i ritmi lavorativi sia per l’ambiente malsano aveva sulle operaie gravi conseguenze fisiche. L’esposizione continua per un tempo prolungato alle esalazioni del tabacco causava alterazioni della funzione respiratoria e, come hanno messo in evidenza alcuni studiosi, effetti dannosi sull’apparato genitale femminile, provocando alterazioni del ciclo mestruale, disturbi durante la gravidanza ed anche un alto numero di aborti. Un lavoro dunque non privo di rischi e a preoccupare di più erano sicuramente le condizioni igieniche degli stabilimenti: ambienti chiusi, mal areati e pieni di esalazioni tossiche delle foglie di tabacco. Infatti le foglie dovevano essere mantenute umide, ma fermentando emettevano nicotina che andava direttamente sugli occhi e nei polmoni, producendo così indebolimento alla vista e malattie polmonari di ogni genere. Sul problema della nocività, nel 1904, fu avviata un’inchiesta in tutte le Manifatture di Italia, diretta da Angelo Celli, uno dei più illustri patologi e studiosi di igiene sociale dell’epoca. L’obiettivo dell’indagine statistica era quello di raccogliere più notizie possibili per giudicare la salubrità o meno degli opifici e le condizioni sanitarie del personale operaio. Proprio nella Manifattura Tabacchi di Lucca si registravano le punte più alte di malattie alle vie respiratorie. Nonostante l’inchiesta mettesse in luce moltissime malattie riscontrate nelle lavoratrici, queste non venivano collegate al lavoro stesso, ma riferite ad una serie di fattori esterni come le abitazioni malsane, la scarsa igiene e l’alimentazione insufficiente, arrivando dunque alla conclusione che la lavorazione del tabacco così come veniva svolta nelle Manifatture dello Stato non era dannosa né per le operaie né per la loro prole [13]. La realtà era ben diversa e benché l’inchiesta rimanga la principale fonte di informazioni sulle condizioni di salute delle operaie non è molto oggettiva, visto che si cerca in tutti modi di trovare giustificazioni per mettere lo Stato al sicuro da ogni responsabilità.
Tra gli aspetti positivi del lavoro in Manifattura troviamo invece l’orario di lavoro, i salari elevati e l’introduzione della sala di allattamento.
Il regolamento statale del 1904 stabiliva l’orario di lavoro a 7 ore con ben un’ora di riposo. Nelle industrie private la giornata lavorativa era di 12 ore o più al giorno. Per una manodopera prevalentemente femminile questo era un privilegio, l’orario breve permetteva alle donne di poter dedicare più tempo alla casa e alla famiglia, un’opportunità sconosciuta alle operaie delle industrie private. A questo proposito, grazie ai dati forniti dalla Prefettura di Lucca al Direttore della Manifattura Tabacchi e conservati in Archivio di Stato, ho potuto confrontare gli orari dei più importanti stabilimenti della Provincia e osservare che effettivamente, nonostante l’introduzione dal 1908 di un’ora aggiuntiva straordinaria, l’orario di lavoro delle sigaraie era comunque inferiore rispetto alle operaie tessili della zona [14]. Anche per quanto riguarda la questione delle retribuzioni emerge chiaramente la condizione privilegiata di questa classe operaia, sicuramente favorita rispetto alla manodopera femminile dell’industria privata ma comunque pur sempre sfavorita rispetto al guadagno medio degli operai uomini impiegati negli stessi stabilimenti. Infatti nel periodo 1908-1914 la media di guadagno per le sigaraie era pari a £2,47 mentre per gli operai era pari a £5 [15].
Tenendo presente appunto che il salario di una sigaraia era a cottimo e che per raggiungerlo era necessario produrre dagli 800 ai 1200 sigari al giorno, è facile comprendere come la qualità della foglia del tabacco influenzasse la retribuzione: se la foglia era scadente, il lavoro era rallentato e di conseguenza il salario diminuiva. I cottimi poi si diversificano da manifattura a manifattura, perché il Ministero riteneva che il costo della vita fosse diverso da città a città. Proprio il tema della parificazione dei cottimi sarà alla base dello scoppio dello sciopero nazionale del 1914.
Il guadagno medio delle operaie, per quanto misero ed inferiore al salario maschile, era comunque superiore alla maggior parte delle fabbriche private della provincia. Dalle Riservate del Direttore del 1908 conservate in Archivio di Stato, emergono informazioni circa i salari delle più importanti fabbriche della zona. Furono richieste direttamente dalla Direzione Generale con lo scopo di dimostrare alle operaie della Manifattura che la loro fosse una condizione privilegiata e le rimostranze per l’aumento salariale fossero del tutto illegittime [16].
Nel 1915 venne inaugurata una sala di allattamento, con lo scopo di agevolare le madri che lavoravano in Manifattura. Il personale femminile addetto alla sala era composto da una Sopraintendente, inservienti e custodi che si occupavano dei bambini e avvertivano l’operaia ogni volta che il bambino necessitava di essere allattato. Furono dunque le operaie delle Manifatture Tabacchi che per prime si fecero portavoce dei problemi legati alla maternità. Avevano ottenuto la possibilità di tenere vicini a sé i propri figli in un luogo sicuro mentre erano impegnate al lavoro. Si rispettava il fatto che fossero lavoratrici ma anche madri, dando loro il diritto ad assentarsi dal lavoro per recarsi nelle sale ed allattare i propri bambini senza nessuna diminuzione dello stipendio.
Non mancarono le rimostranze ed episodi di conflittualità. Le giovani operaie della Manifattura Tabacchi di Lucca costituivano il nucleo più combattivo della fabbrica e furono sempre in prima linea nelle lotte contro la Direzione. Grazie alle fonti provenienti dall’Archivio storico comunale ho potuto ripercorrere i primi malcontenti del periodo 1878-1897. Sul finire dell’Ottocento le sigaraie erano ormai una parte importante della classe operaia organizzata, si presentavano dotate di una lunga esperienza e di una crescente capacità nell’affrontare i loro problemi per la soluzione dei quali avrebbero dovuto negli anni successivi affrontare lunghe lotte. I numerosi ritagli di giornali, come il giornale socialista “La Sementa” e il quotidiano di ispirazione cattolica “L’Esare” conservati tra le Riservate del Direttore sono stati utili per ricostruire gli scontri del 1906-1907, lo sciopero del 1909, lo sciopero del 1912 e lo sciopero generale del 1914. Le motivazioni alla base delle lamentele delle operaie si ripresentavano nel corso degli anni senza trovare mai una vera risoluzione; tra queste troviamo la disciplina rigida, la cattiva qualità della foglia, la nocività del lavoro e la richiesta di un aumento salariale. Quello che ne viene fuori è dunque una classe lavoratrice capace di protestare contro la Direzione quando l’esasperazione del ritmo lavorativo diventava inaccettabile e quando le promesse di un miglioramento non venivano mantenute. Ecco perché anche nello sciopero nazionale delle Manifatture Tabacchi del 1914 furono proprio le sigaraie di Lucca ad essere numericamente le più coinvolte (circa 2500) e le ultime ad arrendersi.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà intitolata “Vita di fabbrica delle sigaraie lucchesi tra ‘800 e ‘900” discussa nell’a.a 2020/2021 presso l’Università di Pisa




La “Banda Carità”. Il Reparto servizi speciali. 1943-1945.

Nella vicenda dei “seicento giorni di Salò” compaiono storie di reparti che hanno fatto dell’uso della violenza la loro essenza. Spesso la loro parabola è liquidata come fosse romanzesca, tra omissioni e ricerca del gusto dell’orrido, mischiando al sangue il sesso oppure l’uso di stupefacenti. Occorre tralasciare questi aspetti esteriori e tendere invece a uno studio puntale e scientifico di queste formazioni, per comprendere appieno le vicende e le dinamiche spesso ancora nascoste dell’ultimo Fascismo.
La “Banda Carità” è uno dei reparti che operano durante il periodo della Repubblica Sociale. La sua denominazione ufficiale è Reparto servizi speciali, ma il nome di comune utilizzo rimane il primo, poiché è quello conosciuto dalla memoria collettiva, da chi subisce le imprese del reparto: i cittadini della Firenze occupata. Lo stesso nome, peraltro, è utilizzato anche dai giudici della Corte Straordinaria d’Assise di Padova che celebrano il primo processo nell’ottobre 1945. Uscendo dall’aspetto nominale, sappiamo che questo reparto è in realtà efficiente e disciplinato, capace di mettere a segno svariate operazioni antipartigiane con notevole successo.
Il reparto nasce subito dopo l’Otto settembre, come tanti altri reparti fascisti che si riorganizzano dopo l’armistizio. Chi lo crea e lo comanda è il centurione Mario Carità, un milanese trasferitosi per motivi non chiari – forse un allontanamento “politico” – da Milano a Firenze nel 1936. Durante la guerra partecipa come volontario alla campagna in Albania, dove, però, rimane poco. L’Otto settembre si trova a Bologna e qui, da subito, cerca di ricostituire le file fasciste. Tornato poco dopo a Firenze, all’interno della ricostituita Novantaduesima legione della Milizia, organizza un reparto particolare, il Reparto servizi speciali che, nelle intenzioni di Carità, dovrà lottare contro i nemici del Fascismo, sia dentro, sia fuori: i partigiani da una parte, i traditori della Repubblica Sociale dall’altra. I componenti del reparto sono in forza alla Compagnia comando della Novantaduesima legione di sede alla Caserma Caveri, in via della Scala.

villa-triste1Nel corso della sua storia, il reparto cambia poi più volte sede: prima in via Benedetto Varchi, poi in via Foscolo per approdare infine, nell’ultimo periodo fiorentino, nella sede più conosciuta, quella in via Bolognese 67, denominata “villa Triste”. Il reparto coglie diversi importanti successi contro la Resistenza a Firenze, come l’arresto di molti dirigenti partigiani fiorentini, tra cui Max Boris, in via Guicciardini nel febbraio 1944. Riesce a intercettare buona parte del materiale aviolanciato, nascosto in via dei Mille, oltre alla linotype con cui si stampa il giornale della resistenza fiorentina “La Libertà”. Agli inizi del giugno 1944, infine, cattura tutti gli operatori della missione alleata di Radio CO.RA: quest’operazione culmina con la strage al torrente Terzolle in località, dove sono fucilati assieme alla partigiana Anna Maria Enriques Agnoletti e ad un partigiano cecoslovacco, Italo Piccagli e l’avvocato Enrico Bocci, il cui corpo non è più ritrovato.

Nel luglio del 1944 il reparto si sposta a Bergantino, in provincia di Rovigo, città natale di Giovanni Castaldelli, vicecomandante. Agli inizi di novembre si sposta a Padova, probabilmente su richiesta del capo provincia Federigo Menna, che ha impostato una politica esclusivamente repressiva nei confronti della Resistenza. La collaborazione tra gli elementi periferici della Repubblica Sociale e il reparto non viene mai meno, tanto che al reparto è concessa un’autonomia esclusivamente operativa ma non strategica. Nella città veneta la “banda Carità” coglie i più brillanti successi operativi che si possano attribuire a un reparto di polizia di Salò: la distruzione della rete GAP a Padova e provincia, alla fine del novembre ’44 e la cattura quasi per intero del CLN veneto. A Padova il reparto collabora, in modo più stretto che in passato, con il comando SS di piazza.
Alla Liberazione buona parte dei componenti fuggono verso nord, seguendo le truppe tedesche in ritirata. Diversi sono catturati nel mese di maggio, mentre Mario Carità è ucciso a Siusi il 19 maggio in uno scontro a fuoco con soldati alleati.
Seguono due processi, celebrati uno a Padova nell’ottobre 1945, in seguito al quale è eseguita una condanna a morte e uno a Lucca, nel 1951. Molti membri del Reparto sono condannati a pene detentive, ma beneficiano successivamente di amnistie e sconti di pena. Gli ultimi militi condannati sono liberati a metà degli anni Cinquanta.

*Riccardo Caporale, è ricercatore libero professionista presso istituti storici, enti locali e fondazioni. I suoi interessi di studio ruotano attorno ai temi della Repubblica sociale italiana, dei suoi corpi interni e dei mancati processi ai fascisti nel dopoguerra.
Fra le sue pubblicazioni: La “Banda Carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Edizioni S. Marco Litotipo, 2005; Le SS italiane: un corpo ed una memoria, in Le armi della RSI (1943-1945), «Studi bresciani» Quaderni della Fondazione Micheletti, 20, 2010; voci Brigate nere, SS italiane, Legione Muti in G. Albanese – M. Isnenghi (a cura di), Il Ventennio Fascista, vol. IV de Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni con la direzione scientifica di M. Isnenghi, Utet, 2008-2009.




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (II°)

È doveroso soffermarci, attraverso le testimonianze raccolte, sull’11 agosto, giorno particolarmente tragico.

Il giorno 11 agosto 1944 in seguito a rastrellamenti ed arresti operati dalle SS furono radunati in Nozzano Castello nel locale scolastico varie centinaia di uomini. Di questi una parte, la maggiore, furono condotti lontano a lavorare, un’altra parte, circa 70 uomini, furono barbaramente assassinati nei dintorni di Nozzano.  Sembra che la scelta dei candidati alla morte sia stata fatta in questo semplice modo: fu domandato a quei poveretti chi voleva essere visitato e scartato dal lavoro. Tutti quelli che domandarono la visita medica furono assassinati. Un interprete chiese se vi era qualcuno che chiedesse visita. Sessantanove braccia si alzarono e firmarono così la loro condanna a morte. Infatti mentre gli altri furono fatti proseguire verso Lucca i 69 portati a scegliere la morte con atroce inganno furono rinchiusi nelle scuole di Nozzano. Molti furono torturati. Dopo tre giorni di speranze e timori la mattina dell’11 agosto a gruppi di 5 o 6 furono trucidati lungo le strade che da Nozzano portano a Lucca, Quiesa, Massaciuccoli, Massarosa. Sui corpi straziati venne posto un cartello testimoniante l’infame menzogna delle belve naziste ”uccisi per aver sparato sui tedeschi”. Sul territorio di Balbano la sera del giorno 11 vi erano 11 cadaveri crivellati di pallottole. Il giorno di poi con l’aiuto di vecchi uomini raccolti dal Pievano nel paese fu proceduto all’inumazione di questi disgraziati. Prima del seppellimento furono prese di ognuno le caratteristiche personali, l’età presunta, oggetti trovati nelle tasche e un pezzo di giacchetta di ognuno cosicché in seguito furono potuti riconoscer dai familiari e riportati nei relativi cimiteri. Quattro cadaveri furono trovati a Casanova ad occidente della casa di Giovanni Ferretti ed ivi sepolti in una fossa comune (si tratta di Pollone Oscar di Pisa, sfollato a Ripafratta, Pecori Gastone e Carissi Crocifisso maresciallo di Pisa, Dalla Croce Raulle di S.Maria in Monte.) Altri 4 cadaveri furono trovati nella cava di pietre a pochi metri dalla via che conduce a Massaciuccoli a ponente delle case, luogo detto Al Cavaliere (Giusti Guido di Ripafratta, Aladino ed Emilio Barsuglia , Pera Giuseppe di S.Angelo in Campo). Altri tre cadaveri furono trovati nel fondo detto di Bucino, fra la via di Massaciuccoli all’altezza del viottolo che sale alla casa del Giuliani al loco detto Al Cavaliere e l’imbocco del tunnel ferroviario (Sbrana Mario e Farnesi Donatello di Pisa, D’Angiolillo Aniello di Salerno, sfollato a Pisa). Con questi ultimi doveva essere assassinato un quarto, che invece riuscì a sfuggire per un puro caso e correndo nel fondo del canale si rifugiò nella casa dei Pannocchia adiacente alla linea ferrata e di qui più tardi si fece uccel di bosco. Ho saputo poi dal figlio che fu di nuovo rastrellato e condotto in Germania”. (Testimonianza del Pievano Tofani di Balbano sulla strage dell’11 agosto 1944 in Archivio Parrocchiale, Parrocchia di Balbano).

Fummo presi in 300, uomini, donne e bambini. Dopo averci inquadrati ci condussero in località Focetta. Qui ci divisero dalle donne e dai bambini. Soltanto la signora Gereschi fu costretta a seguirci. A Ripafratta un interprete ci chiese se fra noi c’era qualcuno che chiedesse visita. Molti chiesero di essere sottoposti a visita medica. Ci divisero quindi in due gruppi: uno fu fatto proseguire per Lucca, l’altro, del quale facevo parte anch’io, fu portato alle scuole di Nozzano. Passarono così 4 orribili lunghi giorni. Alcuni di noi vennero torturati. Credo che la signorina Gereschi sia stata violentata. Eravamo tutti ammassati in un’aula scolastica, sorvegliati a vista da due sentinelle armate di mitra. La mattina dell’11 agosto venne un ufficiale dell’SS. Ci disse che ci avrebbe fatto passare la visita quattro alla volta. Io fui del secondo turno. Insieme ad altri compagni mi condussero nei pressi di Filettole in località Pancone. Ci fecero scendere e subito ci fucilarono. Per meglio accertarsi della nostra morte i criminali ci spararono a bruciapelo il colpo di grazia alla nuca. Per pura combinazione anziché colpirmi alla tempia il proiettile mi prese di striscio all’orecchio sinistro. Non feci alcun movimento e forse a causa del sangue che mi usciva in grande quantità dalla ferita mi credettero morto. Infatti poco dopo si allontanarono tutti con la camionetta. Allora tentai di alzarmi ma non ci riuscii. Avevo la gamba e il braccio destro massacrati. A prezzo di atroci sofferenze, rotolandomi per terra riuscii ad avvicinarmi al Serchio. Gridai aiuto sperando che qualcuno mi sentisse. Infatti un tedesco che stava facendo il bagno nel fiume si avvicinò. Mi chiese che cosa fosse accaduto ed io gli spiegai il fatto. Dopo essersi accertato della verità delle mie parole andò via e ritornò dopo un’ora insieme a sette suoi camerati armati di mitra e due italiani che trascinavano un carretto. Vi fui caricato sopra e condotto alla Croce Rossa di Avane. Giunti a sera i soliti due italiani e due tedeschi mi portarono, sempre con il carretto, all’Ospedale di Lucca, dove verso mezzanotte mi fu fatta la prima medicazione dal momento in cui ero stato ferito. Sette giorni dopo mi amputarono la gamba sopra il ginocchio e il braccio mi fu rabberciato alla meglio, tanto è vero che ora è completamente inservibile”. (Testimonianza di Oscar Grassini (nato 01/06/1908), messo comunale di S.Giuliano Terme). (5)

Il 19 agosto 1944, dopo una prima scelta che conduce alla Pia Casa di Lucca alcuni uomini che si dichiarano abili al lavoro, 53 reclusi nella scuola di Nozzano vengono condotti fino a Bardine San Terenzo (Fivizzano) e qui legati con filo spinato e poi fucilati a colpi di mitra. Sono i rastrellati del 12 agosto a Valdicastello al termine delle operazioni di Sant’Anna di Stazzema.

Il giorno dopo, 20 agosto, parte dalla scuola di Nozzano un rastrellamento a vasto raggio nei paesi attorno a Lucca. All’alba le SS penetrano a forza nelle case e fanno scendere dal letto tutti gli uomini che, incolonnati e caricati su camion vengono portati a Lucca ed internati alla Pia Casa. Tra i rastrellati ci sono anche i fratelli Franco e Nello Orsi.

20 Agosto 1944, nelle prime ore del mattino fui svegliato da un suono di voci gutturali, incomprensibili, mi ci volle un po’ di tempo prima di poter capire la situazione, poi improvvisamente balzai dal letto scossi mio fratello Franco che dormiva poco distante da me: sveglia gli dissi, c’é il rastrellamento, saltò immediatamente dal letto e tutti e due ci precipitammo verso le scale per discendere, ma era troppo tardi, saliva verso di noi un tedesco della S.S. armato fino ai denti, che non appena ci vide, spianò il suo fucile contro di noi, e con un gesto espressivo ci fece capire di seguirlo. Nella corte dove ci condusse trovammo altri amici, i quali erano attorniati dai parenti e dai genitori in lacrime. Mi misi in fila con loro e dopo dieci minuti di sosta ci avviammo verso il centro del paese, dove ci relegarono in una stalla, in compagnia di altri sfortunati. In quell’ambiente sostammo circa un’ora, poi ci caricarono tutti su di un camion pronti per partire. Fuori vidi donne che piangevano, nel vedersi strappare così i loro cari, bambini che strillavano e chiamavano i loro papà. Ansiosamente io scrutavo tutti i volti per riconoscerne qualcuno noto, e finalmente vidi mio Padre…. Non dimenticherò mai la sua espressione, rivedo ancora i suoi occhi lucidi, lo additai a mio fratello e tutti e due gli sorridemmo per infondergli coraggio, egli ci salutò con la mano, poi fece l’atto di avvicinarsi al camion, ma proprio nello stesso momento un tedesco respingeva brutalmente una donna che si era avvicinata per dare un ultimo abbraccio al proprio marito. Pochi secondi ancora, poi il camion si mise in moto, rivolsi un ultimo sguardo a mio padre e ve lo tenni fisso finché non lo vidi rimpiccolirsi e poi sparire. Ci scaricarono come sacchi alla Casa Pia in Lucca. Indescrivibile il caos che regnava la dentro, centinaia di uomini di tutte le età si muovevano in quelle stanze, in tutti i volti notavo la disperazione ed il timore per la sorte che ci era riservata. Parlai con alcuni di loro, molti si trovavano là già da dieci o quindici giorni, e dicevano che non avevano più la forza di resistervi, altri invece, erano giunti da poco, come noi. Un’ora di aspettativa, poi la mia sorte fu segnata. Un Tedesco ci mise in fila, e scrutandoci in faccia con un cenno ci faceva uscire e ci metteva da una parte, venni scelto anch’io e con gioia anche mio fratello cadde nella scelta. Così partimmo, la destinazione ci venne detta in via eccezionale da un interprete, la meta era Diecimo Pescaglia”. (Testimonianza di Nello Orsi) (6)

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Fascisti di Nozzano della XXXVI Brigata Nera (Archivio privato)

In agosto nell’Oltreserchio si muovono anche i fascisti della XXXVI Brigata Nera, capitanata da Vittorio Marlia di Nozzano che vede tra i più attivi collaboratori: Lelio Rossi di Balbano, Giuseppe Cortopassi di S.Maria a Colle, Paolino Bertolozzi di Farneta. E’ lo squadrismo fascista ad aizzare i tedeschi contro i civili. Testimonianze del tempo affermano che i fascisti locali entravano nei locali della scuola di Nozzano per cambiarsi d’abito. Indossate le divise dell’esercito tedesco uscivano con i soldati impegnati nei rastrellamenti, violenze ed uccisioni.

Il 18 agosto un sottufficiale medico della XVI Panzergrenadier, il sergente Papuska, preleva dalla sua abitazione di S.Maria a Colle il giovane Raffaello Giannini, lo conduce in Corte Cosci a Nozzano S.Pietro e lo uccide.

Il 23 agosto lo stesso Papuska, assieme al suo interprete detto “Il bolzanino”, piomba in Corte Tenente dove massacra a sangue freddo i cugini Alberto e Cherubino Vannucci, ordinando ai genitori del primo di seppellirne i corpi.

Successivamente, nella stessa corte, rastrella altri tre giovani: Pompilio, Aurelio e Pietro Vannucci. Mentre li avvia verso la scuola di Nozzano i tre tentano la fuga così li uccide a colpi di pistola. Il mattino del giorno seguente il criminale nazista fa irruzione in Corte Treppia dove uccide il giovane Alessandro Palagi. (7)

A Lucca liberata, Diana Vannucci, 16 anni, “in seguito a fucilazione del padre avvenuta in S.Maria a Colle ad opera dei tedeschi il 23 agosto ’44 e dovendo provvedere a madre e fratellino” chiederà al CpLN di Lucca di essere assunta come stenodattilografa. Uno degli innumerevoli casi di mancata giustizia e mancato risarcimento per i lutti e le perdite subite.

Il 28 agosto le truppe alleate varcano l’Arno, liberano Pisa (2 settembre) e si dirigono verso la lucchesia. Nozzano Castello non costituisce più un luogo sicuro per la Reichsführer-SS, che lo abbandona tra il 28 e 29 agosto trascinando a nord molti civili e dei sacerdoti incarcerati nella scuola elementare. Prima di abbandonare la scuola i soldati tedeschi la fanno saltare in aria facendo uso di cariche esplosive. Non tutti i camion partono verso nord. Un paio si dirigono verso Filettole e qui, in località Laiano, i soldati del tenente Gerhard Walter fanno scendere i 37 prigionieri, tra cui Don Libero Raglianti. Dopo averli fatti allineare lungo una fossa scavata da una bomba alleata, li fucilano.

E’ bene qui ricordare anche il grave episodio avvenuto nella Certosa di Farneta. Il 2 settembre i soldati tedeschi entrano con un inganno nel monastero: tutti i presenti vengono arrestati e portati in un capannone fuori dal convento. Dodici certosini – 6 monaci, tra cui un vescovo, e 6 conversi (cioè laici con l’abito religioso) – vengono fucilati nei giorni seguenti, tra Pioppeti, Camaiore, Massa, mentre gli altri vengono in parte tenuti in carcere e in parte trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli, in attesa del trasferimento in Germania. Vengono uccisi anche 32 civili che avevano trovato rifugio nel monastero. (8)

L’8 settembre 1944 Nozzano viene cannoneggiata dalle truppe alleate. Secondo la testimonianza di Don Giovanni Galli, allora parroco di Nozzano Castello, con circa ottanta cannonate viene distrutta la torre campanaria e vengono gravemente danneggiate sia le case vicine sia la stessa chiesa.  “La Guerra che già da anni seminava morte e rovina in tutto il mondo ha cominciato a farsi violenta anche in Italia e nei nostri paesi. Nozzano è stato uno dei più provati del Comune di Lucca. Abbiamo sopportati numerosi e violenti bombardamenti quando si cercava di colpire il ponte di ferro della ferrovia e gli automezzi tedeschi che ritirandosi da Pisa passavano per le nostre vie.

Il dieci agosto ebbero inizio i rastrellamenti e le aule delle scuole in breve tempo si riempirono di uomini di ogni età portati via anche da altri paesi.  Anch’io fui rastrellato e dopo essere rimasto chiuso nella scuola fui condotto a Lucca. Feci il viaggio a piedi con una colonna lunghissima di uomini sotto la guardia delle S.S. Tedesche.

A Lucca per intercezione dell’Arcivescovo venni liberato subito e potetti rientrare in parrocchia. In paese si erano istallati gruppi di soldati tedeschi. In brevissimo tempo derubarono quasi tutto il bestiame: buoi, mucche, suini, pollame. Non contenti iniziarono la demolizione delle case e ne furono distrutte varie sia dentro il Castello come fuori. Il ventuno fui nuovamente rastrellato. Era le 6 ½ della Domenica. Stavo confessando, quando un gruppo di S.S. armate penetrarono in Chiesa e spianandomi il mitra mi costrinsero a seguirle. Anche questa volta la Madonna mi aiutò e riuscii a raggiungere il Vescovato dove rimasi fino alla liberazione da parte degli Alleati che avvenne il 9-IX-1944.

Nella notte dell’otto settembre Nozzano fu violentemente cannoneggiata dagli Alleati. Fu colpita la Torre con circa ottanta cannonate. La Cella fu semidistrutta e la campana superstite andò in frantumi. Fu colpita anche la Chiesa. Un danno immenso sia alla Torre come alla Chiesa. Delle case possiamo dire che furono poche quelle rimaste illese. I Tedeschi prima di lasciare il paese minarono e fecero saltare le scuole dove erano state chiuse e martoriate migliaia e migliaia di persone tra cui donne e sacerdoti. (9)

Lo stesso Don Giovanni Galli, a guerra finita, ricorda quei giorni:  “L’inizio del nostro calvario avvenne con l’incendio pauroso che distrusse molteplici capanne murate, ricolme del raccolto del grano ancora in manne. Era il frutto di tanti sudori, e su questo ponevamo tante speranze. I colpevoli? Stentiamo a credere alla realtà. “Se si ripeterà un fatto simile mi disse con cipiglio severo il comandante della gendarmeria tedesca che mi aveva fatto chiamare- farò delle gravi repressioni in paese. Riferisca questo ai suoi parrocchiani” Dopo il danno dovemmo prendere anche la colpa. L’incubo era così cominciato e la scuola già rigurgitava di uomini rapiti nei paesi del pisano. Di qui la maggioranza di essi era trasportata a Lucca alla Pia Casa, altri venivano falciati col mitra nei dintorni. Avete potuto vedere coi propri occhi quanti cadaveri contenesse la sola fossa di Filettole. Gli alleati sono ancora al di là dell’Arno, nel paese contiamo pochi tedeschi ma bastano per incutere terrore di morte. Una squadra sale il Castello armata di picconi. Cosa hanno intenzione di fare? Tutti ci dicono che le mine iniziano la temuta demolizione del Castello. Le case sbrecciate e smantellate cominciano a cadere. Il Castello non si riconosce più. Quale sarà la sorte della Chiesa? Se l’opera di distruzione dovesse continuare, finirebbe anch’essa in un cumulo di macerie. I vetri sono andati tutti in frantumi per lo spostamento dell’aria e pezzi di pietra gettati in alto sono poi venuti a sfondare il tetto precipitando sul pavimento. E’ doveroso salvare le suppellettili prima che sia troppo tardi; e così come dalle case si porta via ogni cosa, anche la chiesa viene spogliata. Solo nel vuoto si eleva il grande Crocifisso posto sull’altare maggiore. Alla sera di questo giorno fatale avviene un fatto inaspettato. La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto. Quale la causa? Per noi sarà sempre un enigma. Alcuni hanno voluto vedervi una punizione per la inutile e disumana distruzione delle case. Il fatto certo è questo che da quella sera non si udirono più scoppi di mine. Era appena cessato questo incubo, quando ebbero inizio i rastrellamenti: anche il sottoscritto va a finire alla scuola, divenuta centro di raccolta, e di qui incolonnati ci indirizzano alla Pia Casa. Appena a Lucca il sottoscritto fu liberato e dopo tre giorni mandato di nuovo in paese. Alla domenica, nuovo rastrellamento. Come molti paesani furono portati via dalle loro case, così il Parroco fu portato via dalla chiesa. Erano le sei e tre quarti del mattino e stava ascoltando le confessioni. Questa volta dovetti rimanere assente fino alla venuta degli alleati. Intanto Nozzano continua la sua ascesa nella via sanguinosa. Gli alleati sono a poca distanza da noi, quando ha inizio un violento cannoneggiamento. I proiettili cadono violentemente l’uno dopo l’altro sul paese. Il primo bersaglio è la Torre vetusta. Ha sfidato tanti secoli, è rimasta intatta mentre l’ira del tempo e degli elementi ha fatto crollare tante sue sorelle ed ora sembra divenuta debole e fiacca. Ogni colpo è un pezzo di muro che si stacca. La Torre campanaria non si riconosce più e la campana unica superstite colpita in pieno cade. Il tiro si sposta ed è la volta delle case. Quasi tutte sono state più o meno colpite, ed anche attualmente si vedono le stigmate degli squarci…..anche la Chiesa viene colpita. Prima di abbandonare il paese le S.S. tedesche demolirono alcune case in basso. Anche la frazione di Corte Pardi, oltre ai gravissimi danni al palazzo dei conti Bargagli, vide incendiate tutte le sue stalle e le sue capanne.” (10)

Nel 1948 iniziano i lavori di costruzione della nuova scuola elementare, inaugurata l’11 dicembre 1949 ed ancora intitolata ad Ermenegildo Pistelli.

E’ bene infine ricordare come il responsabile per grado delle atrocità commesse sopra descritte, il generale Max Simon, al termine della guerra, dopo essere stato rinchiuso con Reder nel Campo di Wolfsberg, venga processato a Padova davanti a un tribunale militare inglese. Il suo è l’ultimo celebrato di una serie di processi tenuti nella stessa città contro presunti criminali di guerra nazisti. Il criminale nazista viene condannato a morte, ma la sentenza è quasi immediatamente commutata con il carcere. L’ex generale viene trasferito in Germania per scontarvi la pena. Come molti altri prima di lui, è libero nel 1954 anche per intercessione dell’arcivescovo di Colonia Frings e grazie alla campagna per il perdono e la riabilitazione dei criminali di guerra che coinvolge in particolare la Germania negli anni della Guerra fredda, volta a rilegittimare l’esercito tedesco come elemento centrale nello schieramento europeo della NATO.  Durante il processo non si mostra mai pentito, affermando “rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto”. Max Simon muore d’infarto nel 1961.

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Note:

(6)  Nello Orsi, Da rastrellati a partigiani – Diario 1944, Tra le Righe Libri 2014

(7)  Don Pio Serafini, De Tempore Belli, Istituto Storico della Resistenza

(8)   Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Marsilio 1997

(9)  Archivio Parrocchiale Nozzano Castello 1944

(10) Bollettino Parrocchiale di Nozzano Castello n.1 in Regnum Christi, maggio 194

 

 

 




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (I°)

Nei primi anni del ‘900 a Nozzano Castello i bambini in età scolare seguono le lezioni in abitazioni private che vengono affittate dal Comune per questo scopo. A partire dagli anni ’20 il Comune di Lucca acquisisce un edificio che sorge proprio al centro della piazza del paese per adibirlo a scuola elementare: una palazzina a due piani. Le classi sono al pianterreno e l’abitazione della maestra al piano superiore, come d’uso in quel tempo, quando le maestre avevano l’obbligo di residenza nel luogo dove insegnavano.

foto 3In un primo momento la scuola deve essere intitolata a Salvatore Bongi (Lucca 1825 – Lucca 1899), storico e bibliografo, responsabile dell’Archivio di Stato di Lucca dal 1859 fino alla sua morte, ma nel 1928, anche per la volontà dell’allora segretario federale di Lucca del partito fascista, Carlo Scorza, dal 1942 segretario nazionale del Pnf, la scuola di Nozzano viene intitolata a Ermenegildo Pistelli.

Ermenegildo Pistelli (Camaiore 1862 – Firenze 1927) è un sacerdote scolopio, filologo e glottologo, di aperte simpatie per il fascismo. In polemica con Benedetto Croce, che rifiuta sempre l’iscrizione al Partito Fascista, scrive vari articoli sul giornale “Battaglie Fasciste”, organo del fascio fiorentino. Nel 1927 viene pubblicato il suo libro “Eroi Uomini e Ragazzi”. Nella prefazione di Benito Mussolini, Ermenegildo Pistelli viene definito “fascista fedele e appassionato”. Va ricordato che proprio in quell’anno il regime fascista impone il libro unico per l’insegnamento elementare “Patria” scritto da Adele e Maria Zanetti, seguìto nel 1934 dal “Libro fascista del Balilla” di Vincenzo Meletti. (1)

La scuola sorge nella piazza dedicata ai Martiri della guerra fascista, separata dalla Casa del Fascio dal Fosso Dogaia. Oltre la scuola sorge il Campo della Rimembranza dei caduti della Prima Guerra Mondiale, cinto da una inferriata poi tolta e utilizzata come materiale bellico durante la Seconda Guerra Mondiale. Già all’inizio la scuola è insufficiente a contenere tutti gli alunni, per cui ancora si deve ricorrere a succursali dislocate presso privati, come Villa Febbrini, situata nella parte opposta della piazza, ma la scuola della piazza è quella ufficiale.

 

Manifesto con la dichiarazione dello stato di emergenza dopo l’8 settembre

Manifesto con la dichiarazione dello stato
di emergenza dopo l’8 settembre

Dopo l’11 settembre 1943 assume il comando su tutte le autorità militari e civili di Lucca e Provincia il comandante Randolf che, dichiarato lo stato di emergenza, avverte: “coloro che tentassero delittuosamente di nuocere al Reich tedesco o ai suoi soldati, devono attendersi le più severe punizioni senza alcun riguardo”.

Il 18 maggio 1944 la Circolare n.781 gab. riservata ai Podestà e Commissari Prefettizi della Provincia, al Questore e al Comandante provinciale GNR, prevede l’eventualità, in caso di Stato di Emergenza, di sfollamento nel giro di poche ore di popolazione e bestiame verso Pistoia. I Podestà, d’accordo con i Segretari del Fascio Comunale, nominano: i Capi Ammasso, che devono radunare il bestiame e i conducenti; i Capi Colonna, che guidano distintamente bestiame e persone alla località di sfollamento.

E’ previsto l’impiego della Polizia per sostenere i Capi Ammasso e i Capi Colonna per garantire l’ordine pubblico e prevenire o reprimere ogni eventuale incidente. I nominati possono anche non essere iscritti al Partito Fascista, ma devono godere di largo prestigio fra la popolazione.

Per la Zona dell’Oltreserchio vengono nominati: per Nozzano Castello, Capo Frazione Boggioni Amleto; Capo Ammasso Simi Fausto, Capo Colonna Benetti Orlando. Per Nozzano S.Pietro, Capo Frazione Barsotti Alfredo; Capo Ammasso Micheli Giovanni; Capo Colonna Michelucci Vittorio.

Il 24 luglio 1944 la Scuola Elementare di Nozzano Castello viene requisita dalla XVI Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS”, comandata dal generale Max Simon. La scuola diventa la sede del carcere divisionale. Nei pressi della scuola, in località Bordogna, viene istituito il tribunale che si occupa di processare e condannare a morte gli elementi sospetti. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter.

 

Le testimonianze di chi è sopravvissuto al soggiorno nella scuola di Nozzano e al trattamento del tenente Walter sono agghiaccianti. Si dorme su pagliericci che al mattino vanno risistemati, pena le ingiurie e le percosse delle guardie. Il cibo è quasi inesistente. Le finestre sono sbarrate e in quella torrida estate l’aria è irrespirabile. Dormire è praticamente impossibile, ci si può recare alle latrine solo al mattino e alla sera. Le SS praticano ai danni dei reclusi un vero e proprio campionario di esercizi di tortura. (2)

Si legge nella testimonianza del maestro Mario Bigongiari arrestato con il fratello don Giorgio, Cappellano di Lunata (Lucca):

Il giorno 16 agosto 1944, dietro denunzia anonima di fascisti, fui arrestato insieme col fratello don Giorgio, cappellano di Lunata, col pievano don Angelo Unti e con altri uomini del paese, in tutto dieci persone, e condotto direttamente a mezzo camion nelle scuole elementari di Nozzano Castello. Arrivati, ci condussero in un’aula del secondo piano, dove trovammo altri due di Lucca, certi Ninci e Vannini; erano circa le sette del mattino. Dalle condizioni dei primi internati veduti, capimmo che ci trovavamo in carcere e fra persone su cui pesavano gravi accuse. In una prima stanza, tutto intorno alla parete c’erano dei  giovani in ginocchio di cui alcuni bendati. Nel mezzo c’era una sentinella tedesca armata di mitra che sorvegliava ogni movimento, percuotendo brutalmente chi, per stanchezza o insofferenza, cambiava posizione. Sempre al piano superiore in comunicazione con la nostra stanza, vi erano i rastrellati di Valdicastello. Tra loro in seguito conoscemmo il pievano don Libero Raglianti, un carmelitano Padre Marcello e uno studente di teologia salesiano Tognetti. Anche le condizioni di questi erano dolorose. L’aspetto lo dimostrava: barba lunga, vestiti strappati, volti cadaverici. Restammo in quella stanza, priva di qualsiasi mobile, tutta la mattina, senza subire alcun interrogatorio e senza  uscire nemmeno per i più elementari bisogni. Alle quattro del pomeriggio ci portarono in un solo coperchio di gavetta militare del grano cotto, che doveva servire insieme ad un pezzo di pane per 12 persone. La sera stessa ci fecero scendere al primo piano, in una stanza più grande con della paglia e delle panche, la quale comunicava con la stanza più terribile perché qui le sofferenze erano continue (…) Dopo due giorni cominciarono gli interrogatori. Ogniqualvolta ci interrogavano, venivamo separati l’uno dall’altro. Quando le interrogazioni non li soddisfacevano, si sfogavano brutalmente. Continuamente pesava su di noi l’incubo di una fine tragica, perché questa giornalmente era la sorte di tanti disgraziati che si vedevano partire sopra una camionetta con alcuni tedeschi armati. Poco dopo tornava la camionetta con i soli tedeschi. Ogni giorno eravamo spettatori di atrocità raffinate: troppo ci vorrebbe a raccontarle tutte. Un giorno portarono una donna di circa 30 anni. Fu messa nella stanza superiore, poi perché per i maltrattamenti subiti gridava aiuto dalla finestra, fu condotta in un piccolo gabinetto al piano superiore, sporco da non dirsi. Ve la tennero in un fetore insopportabile, senza avvicinarsi nessuno, senza bere e senza mangiare due giorni e due notti. Impazzita, fu fucilata in una fossa a poca distanza dalla scuola. Era di Camaiore, si chiamava Leila Farnocchia”.

foto 4 La scuola è separata dalle case circostanti dalla strada comunale, eppure la paura e l’istinto di sopravvivenza domina gli abitanti rimasti in paese, prevalentemente donne, bambini e anziani, inerti di fronte a ciò che accade nell’edificio. Gli uomini quasi tutti sono sfollati da Nozzano per rifugiarsi soprattutto nei locali dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano. Fra le memorie raccolte dalla loro viva voce c’è il ricordo dei camioncini che si allontanano pieni e ritornano vuoti e della donna di Camaiore sopra citata. Leila Farnocchia è una maestra, imprigionata perché sorpresa con volantini contro i tedeschi, secondo alcuni raccolti per terra, secondo altri da lei stessa distribuiti.

Qualche anziano, testimone del tempo, dice che sia stata sorpresa con un canestrino di viveri che sta portando al marito nei campi e accusata di portare cibo ai partigiani. Di fatto i tedeschi la trattano come una partigiana. Dalla finestra della scuola grida il suo nome e si raccomanda che venga avvertita la sua famiglia a Camaiore. Dopo il martirio nella latrina viene fucilata in un campo vicino alla scuola, lungo la strada che porta alla Chiesa di Nozzano S.Pietro. Il suo corpo viene gettato in una fossa di confine. Li rimane diversi giorni, ben visibile e nessuno osa darle sepoltura e perfino guardarla temendo rappresaglie.

Una ordinanza del comando della XVI Divisione vieta comunque la sepoltura delle vittime.

Il periodo che va dall’agosto al settembre ’44 è il più terribile per tutto il territorio, sul quale si sfoga la barbarie dei tedeschi. Lo ripercorriamo attraverso le testimonianze di persone che l’hanno sofferto e che documentano dal vivo in modo tragicamente essenziale le vicende di quei giorni.

Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio con il bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944… Circa la chiamata e l’avvertimento dato al parroco dalla gendarmeria altro nonera che lo scopo preciso di crearsi un alibi per commettere più agevolmente i loro delitti sulle persone e sulle proprietà, Infatti veniva razziato tutto il bestiame, ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi venivano rastrellati e portati a lavorare. In questo periodo di tempo veniva minato e distrutto il ponte di ferro sul Serchio, minata e divelta la ferrovia che conduce a Viareggio, minata e fatta saltare la galleria di Balbano”. (Testimonianza di Giuseppe Vecci di Nozzano Castello).

Tra il quattro e il cinque agosto una squadra di guastatori demolisce diverse abitazioni in Castello. Il giorno sei hanno inizio distruzioni in grande stile con un cinismo ed una ferocia impareggiabili, poiché il vero scopo di queste distruzioni non viene compreso dalla gente del luogo. In realtà la distruzione degli edifici sul lato sud della cerchia del Castello deve servire ai tedeschi per posizionare cannoni ed artiglieria pesante per colpire in direzione di Pisa gli alleati e frenarne così l’avanzata verso Lucca. Tra gli edifici distrutti, senza dare agli abitanti nemmeno il tempo di raccogliere le loro masserizie, c’è anche la sede della Croce Rossa Italiana, depredata di tutti i medicinali in essa riposti.

La notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 i soldati della “Reichsführer-SS”, guidati da spie fasciste, organizzano il rastrellamento della “Romagna” nei Monti Pisani, vicino al Santuario di Rupecava. Oltre 300 uomini vengono catturati e condotti nella scuola di Nozzano. Tra i rastrellati c’è anche una donna, Livia Gereschi, giovane insegnante che conosce il tedesco e che è intervenuta spontaneamente in difesa degli sfollati, spiegando al comandante delle SS che non sono partigiani, bensì famiglie che si sono rifugiate sui monti per sfuggire ai bombardamenti degli Alleati. Ottiene così di far rilasciare donne e bambini, ma non gli uomini e lei stessa viene incolonnata insieme a loro e portata via.

A Ripafratta i prigionieri vengono divisi in due gruppi: uno di “abili al lavoro” che viene condotto alla Pia Casa di Lucca, l’altro, costituito da 69 persone tra le quali si trova anche Livia Gereschi, viene costretto a proseguire a piedi fino alla scuola elementare di Nozzano Castello. Qui i prigionieri trascorrono quattro lunghi orribili giorni, durante i quali molti di loro vengono torturati. La mattina dell’11 Agosto alcuni di loro sono portati in località Pancone, altri, tra cui Livia Gereschi, in località Sassaia nel comune di Massarosa, dove vengono uccisi a colpi di mitragliatrice.  (4)

 

Note:

(1)  Sabrina Fava, Percorsi critici di letteratura per l’infanzia tra le due guerre, Vita e Pensiero 2004

(2)  Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’ancora del mediterraneo 2006

(3)  Mons.Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945) Tip. Artigianelli

(4)  Carla Forti, Dopoguerra in provincia: microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli 2007

 




Da rastrellato a partigiano

Se un trekker allenato in stile Carnovalini decidesse oggi di raggiungere a piedi Ravenna partendo da Lucca, in poco più di dieci giorni di cammino potrebbe godere dei panorami della Valle del Serchio, la wilderness dei passi appenninici, i profondi silenzi della Valle del Reno, fino alla magica lucentezza della Pialassa Baiona. Mio padre e mio zio, costretti ai ritmi delle marce forzate imposti dai loro carcerieri, passano trentasei giorni arrampicandosi sui monti con sulle spalle due rotoli di filo spinato e due spranghe di ferro, tirando il freno delle carrette trainate dai cavalli, con la febbre addosso sotto la pioggia battente, con i morsi della fame e le bastonate dei loro aguzzini, con la strada battuta dalle artiglierie alleate, dormendo su un letto di foglie di castagno ammucchiate sotto gli alberi.

Nozzano in quei giorni dell’agosto 1944 non è più un tranquillo borgo di campagna, dove contadini e muratori si adoperano per vivere e far vivere dignitosamente le proprie famiglie. Molti uomini hanno abbandonato il paese per rifugiarsi a Chiatri e sulle colline vicine. I campi sono abbandonati e non li lavora più nessuno. Con gli ultimi giorni di luglio si è insediata a Nozzano una delle più spietate divisioni dell’esercito tedesco: la XVI Panzergrenadier division “Reichführer – SS” agli ordini del generale Max Simon. Colonne di soldati, di camion, auto e blindati della Wehrmacht e delle SS alzano continui nugoli di polvere percorrendo minacciosi le strade sterrate del paese. La scuola elementare che sorge proprio nel centro della piazza viene requisita. La maestra che abita il piano superiore viene cacciata. Quell’edificio da luogo di crescita e formazione, è trasformato in luogo di distruzione, segregazione e morte. Alle voci e ai canti cinguettanti dei bambini si sono sostituite le urla strazianti dei torturati. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter che sguinzaglia i suoi uomini alla cattura di cittadini inermi su cui scaricare la propria ferocia e rabbia per una guerra di occupazione ormai prossima alla disfatta.

Le direttive del comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, feldmaresciallo Kesselring, dettano la linea a cui si deve conformare l’azione degli ufficiali operanti sul campo: “Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Durante la marcia, nelle zone in cui vi sia pericolo di partigiani, tutte le armi dovranno essere costantemente tenute pronte a sparare. In caso di attacco aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. […] Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. I comandanti deboli e indecisi verranno da me convocati per renderne conto perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.

Chi non si attiene a queste direttive viene severamente punito, fino alla condanna a morte, come accade allo sventurato soldato tedesco fucilato dai propri commilitoni nel piazzale della chiesa. Così scrive il parroco Don Giovanni Galli. “… La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto”.  Il militare è quel Fritz, “tedesco dei Sudeti”, di cui parlano nell’immediato dopoguerra i cittadini di Filettole? Fucilato perché tenta di opporsi alle stragi di civili e perché, prima ancora, avverte la popolazione dell’arrivo delle SS? Fucilato e poi scaraventato nella fossa comune al Ponte di Ripafratta? Il dato certo è che la tomba con i resti del “buon soldato Fritz” è sicuramente esistita ed è rimasta nel cimitero di Filettole fino al 1996. Una tomba su cui i parenti delle vittime della ferocia nazista spesso depongono un fiore, soprattutto per persuadere e persuadersi che quella malvagità, per quanto grande, non è riuscita a soffocare del tutto i sentimenti dell’umana pietà.

Nozzano porta già nel nome la sua vocazione ed il suo destino (Noxa, cioè Pena). Così un paesano, Giuseppe Vecci, testimone diretto, affida la memoria di quei giorni a monsignor Francesco Baroni: “Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli Alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui maggiormente i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme, e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio col bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944…Veniva razziato tutto il bestiame ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi erano rastrellati e portati a lavorare”.

Tra quei ragazzi ci sono anche mio padre Franco, diciotto anni, e mio zio Nello, di sei anni più grande. Per prudenza e per timore di essere catturati, da alcune notti non dormono nella casa paterna che si affaccia proprio sulla piazza.

Nello, in particolare, dopo l’8 settembre ha lasciato la Caserma di Genova dove prestava servizio militare e può incappare nelle disposizioni del “Bando Graziani”, decreto del 18 febbraio 1944 che prevede che “gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra senza giustificato motivo non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico e puniti con la pena di morte mediante fucilazione nel petto”.

Gli spioni fascisti però conoscono le mosse e gli spostamenti di tutti e non è difficile per i soldati della wehrmacht individuare il luogo dove si nascondono. Così, all’alba del 20 agosto 1944, un soldato tedesco in divisa sahariana ed il cappello alla norvegese entra nella loro camera: “Aufstehen!”. Sotto la minaccia del fucile puntato alla schiena, li conduce in piazza. Vengono fatti salire su un camion per essere scaricati “come sacchi” alla Pia Casa di Lucca, centro di reclutamento della forza lavoro. Su quel camion, tra i rastrellati, c’è anche un fascista di Nozzano. Urla e sbraita perché non vuole essere confuso con quella marmaglia di italiani traditori. Lui è sempre stato fedele al regime e anche ora vuole stare dalla “parte giusta”. Per questo chiede al militare tedesco di fermare il camion e di farlo scendere. Le sue proteste non producono alcun risultato. Inflessibile il guardiano lo respinge e lo rimanda a sedere sul pianale del camion. Franco, che lo conosce bene, gli si avvicina e lo invita alla calma. Non lo vedi? Per loro noi siamo tutti uguali. Siamo tutti Scheiße. In tutta risposta il paesano gli rifila un cazzotto in bocca che lo fa barcollare. A guerra finita Franco andrà volutamente a cercare il paesano e lo troverà ad occupare in Comune un ruolo di direzione nei progetti di ricostruzione post-bellica. Uno dei tanti beneficiati della mancata epurazione e della inefficacia della Legge Bonomi sulle Sanzioni contro il Fascismo, prima ancora dell’entrata in vigore del Decreto “tombale” del 22 giugno 1946 proposto dal Guardasigilli Togliatti.

Inefficacia che suscita sgomento e sfiducia tra la popolazione e le nuove istituzioni democratiche a tal punto da far approvare al Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Lucca nella seduta del 13 marzo 1945 il seguente ordine del giorno: “Il CpLN di Lucca, constatata l’inefficacia della vigente legge per l’epurazione, che si presta a troppo facili evasioni, constata l’ingiustificata libertà che esponenti e gregari del fascismo repubblichino ancora godono, costituendo una perenne minaccia alla rinascita democratica del paese, chiede: 1) una sostanziale modifica della legge, tendente ad ottenere una definitiva purificazione della vita politica, economica e sociale del paese; 2) al Governo e alle Autorità competenti l’invio nei campi di concentramento di tutti indistintamente coloro che hanno aderito o prestato attività collaborazionistica col fascismo repubblichino; 3) l’invio nei campi di concentramento di tutti coloro che per il loro passato politico e per avere approfittato di situazioni politiche o per aver avallato con il loro sostegno o con la loro opera la politica di oppressione del passato regime  costituiscono un motivo di perturbazione o un ostacolo alla vita normale del paese; 4) l’immediato allontanamento dagli impieghi statali e parastatali e di quelli rivestenti carattere di utilità pubblica di coloro che rientrano nelle due categorie sopra segnate; 5) che la legge di epurazione sia estesa in modo da colpire anche gli appartenenti al Commercio, all’Industria, all’Agricoltura”.

Una epurazione che paradossalmente colpirà gli antifascisti ed in particolare i comunisti al punto che Franco sarà costretto a trasferirsi a Pisa per poter ottenere un impiego come manovale delle Ferrovie dello Stato. (Colonna sonora: Sergio Endrigo “La ballata dell’ex”).

 Il 20 agosto, insieme ai miei familiari, a Nozzano viene arrestato anche Dante Braconi, già inviato al confino su segnalazione del paesano della Brigata Nera “Mussolini”, Vittorio Marlia. A guerra finita, il Braconi rilascerà ai Carabinieri di Nozzano la seguente dichiarazione: “Aggiungo di aver veduto Marlia Vittorio in compagnia di Giuseppe Cortopassi, Paolino Bertolozzi e molti altri, presentarsi ad un tribunale di guerra dell’esercito tedesco che si trovava nei mesi di luglio e agosto nei pressi di casa mia vestiti da brigatisti neri, vestirsi da tedeschi, poi partire con gli automezzi e ritornare al mattino con giovani e uomini anche anziani, caricati su camion e consegnati ai tedeschi, riuscendo poi dal locale (della scuola) vestiti da brigatisti neri”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 16/01/1946 in Archivio di Stato Lucca). Parole di un perseguitato politico antifascista, al quale nessuno ha poi pensato di riconoscere un risarcimento, seppure morale.

Sarebbero comunque bastati pochi giorni, una settimana appena dopo il loro rastrellamento e la storia dei miei familiari avrebbe potuto prendere un altro verso. Il 28 agosto infatti le truppe alleate varcano l’Arno per dirigersi verso la lucchesia. Il giorno dopo le SS, dopo aver fatto saltare in aria la scuola di Nozzano, lasciano il paese per trasferirsi a Nocchi di Camaiore. In un mese esatto di permanenza a Nozzano le truppe del generale Simon, del tenente Walter e del sergente Florin, con la attiva partecipazione dei fascisti di Nozzano e dell’Oltreserchio, si macchiano di orrendi ed efferati delitti: dalla strage della Romagna a quella di Bardine S. Terenzo, dalle fucilazioni di Laiano di Filettole alle esecuzioni sommarie di S. Maria a Colle, fino all’irruzione e alle fucilazioni di monaci e civili nella Certosa di Farneta e alla partecipazione alla strage di Sant’Anna di Stazzema.

I lavori di ricerca storica per l’elaborazione di un Atlante delle stragi dicono che nella primavera-estate del 1944 nella sola Toscana si registrano oltre 200 episodi per un numero complessivo di 3.650 civili uccisi.

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Fascisti della Brigata Nera di Nozzano.Il quarto da sinistra è Vittorio Marlia (Foto archivio Orsi)

Nella sventura però c’è anche una dose di fortuna: la giovane età di Nello e Franco fa si che i tedeschi decidano di inserirli nel gruppo di “abili al lavoro”, lavoratori utili al Reich nazista. Se avessero deciso di “marcare visita” o dichiararsi “non abili al lavoro” sarebbero sicuramente stati fucilati, come è successo ad altri sventurati catturati con loro. Dalla Pia Casa quindi inizia la loro marcia forzata verso il nord. Sono impiegati come lavoratori coatti per costruire reticolati e trincee della Linea Gotica sotto il controllo della Organizzazione Todt, allo scopo di rallentare l’avanzata incalzante delle truppe alleate. Una “ritirata combattiva” quella decisa dal Feldmaresciallo Kesselring che si trasforma durante il suo cammino in una vera e propria guerra ai civili. Le truppe tedesche si muovono sui territori che attraversano come belve braccate, con la consapevolezza che la fine è ormai prossima. Ad incitarli e guidarli negli ultimi colpi di coda in lucchesia sono ancora i fascisti della XXXVI Brigata Nera capitanati dal paesano di Corte Frasconi, Vittorio Marlia, sotto la direzione di Idreno Utimpergher, originario di Empoli, guida provinciale del fascismo lucchese in quei mesi tragici.

Sempre Dante Braconi testimonierà, nel corso del processo alla Brigata Nera di Lucca “Dai primi di luglio mi trovavo nascosto in una capanna in prossimità della via che conduce a Nozzano Castello e più volte intorno alla metà di agosto 1944 ho veduto arrivare con un automezzo l’allora capitano della brigata nera di Lucca Marlia Vittorio con i militari della stessa brigata per requisire damigiane di vino, prodotti agricoli, viveri ed altro, nonché bestiame, e spesse volte ho notato il Marlia e Cortopassi Giuseppe passare nella strada in compagnia degli ufficiali delle SS tedesche gendarmeria di Nozzano”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 20/11/1946 in Archivio di Stato Lucca)

La fatica, le sofferenze, la paura, le umiliazioni provate durante la marcia forzata affiorano in ogni riga del Diario. Nonostante questa condizione i fratelli Orsi e i loro compagni, il pisano di nome Angiolo e il livornese Mario, non perdono mai la speranza di poter organizzare la fuga per riconquistare la libertà. Almeno due tentativi vanno a vuoto finché con l’arrivo a Madonna del Bosco e la conoscenza di Maria, staffetta partigiana, la speranza diventa realtà. Dopo vari incontri, la notte del 29 ottobre la giovane donna li attende fuori dal campo di prigionia per condurli all’appuntamento con un barcaiolo, là dove “il fiume Senio si unisce al Reno”.

Maria fa parte di una brigata partigiana che da alcuni mesi sta organizzando la resistenza nel ravennate, ma Nello, Franco, Angiolo e Mario non vengono subito inseriti in una Compagnia. Prudenza vuole che prima di essere sicuri che non sono spie infiltrate dai fascisti vengano sottoposti ad interrogatorio e osservati e controllati nei loro comportamenti e azioni quotidiane. A vigilare su di loro è il comandante Canzio di cui Nello in particolare è attratto dal carisma e dal fascino delle narrazioni.

Canzio è un antifascista ferrarese, perseguitato politico, sfuggito nella notte del 14 settembre 1944 ad una caccia all’uomo organizzata dai fascisti di Lagosanto per catturarlo. Entrato in clandestinità, forma il Gruppo di Azione Partigiani “Tre Motte Lagosanto”: è Canzio Guietti che a guerra finita sarà il primo presidente del C.L.N. di Lagosanto.

Con Canzio si passano giorni da poter definire addirittura sereni, con tanto di festa di accoglienza con canti e balli. Sono i giorni della calma che precede la tempesta. Momenti di vero riposo. Si prende la barca e si va a colpi di paradel fra canali e canaletti alla pesca delle anguille. L’aria è fresca ma il sole è ancora caldo e in barca di giorno si può anche fare un pisolino. Non fosse per il pensiero che va alla madre, al padre, alla famiglia rimasta a Nozzano della quale da tre mesi non si hanno più notizie. La guerra è passata di là sicuramente. Gli alleati che avevano passato l’Arno hanno bombardato il paese. Si sono sentite le cannonate quando la colonna dei coatti marciava da Bagni di Lucca. In famiglia sono tutti salvi oppure qualcuno è rimasto ferito o magari ucciso sotto le bombe? Pensieri angoscianti che non trovano risposte ma non possono però bloccare l’azione.

Così, terminato il periodo di “purgatorio” e ottenuta la piena fiducia dei propri compagni, il 10 novembre i quattro fuggiaschi vengono condotti sull’Isola degli Spinaroni, al centro della Pialassa della Baiona. Qui sono rifugiati i partigiani del Distaccamento “Terzo Lori” della 28ma Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, guidata da Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow. Dopo pochi giorni dal loro arrivo formano insieme a volontari provenienti da varie zone la Quinta Compagnia “Mario Montanari”. Le compagnie sono composte da 30-35 uomini e alcune donne, la cui azione risulterà determinante per la vittoria finale. La caratteristica del “Terzo Lori” è quella di essere un “reparto di stanza” nella cui sede ogni componente può vivere in permanenza. Un distaccamento che Sergio Zavoli addirittura definirà alla fine degli anni ’60 “l’armata più singolare che guerra abbia mai conosciuto”.

Contravvenendo a quelle che sono state sinora le tattiche della guerriglia partigiana che privilegia le zone di montagna per organizzare piccoli gruppi d’assalto, colpire i tedeschi e poi ritirarsi, con la costituzione del “Terzo Lori” Bulow punta alla “pianurizzazione” della Resistenza. In concomitanza con l’avanzata degli alleati da sud si costruisce un accerchiamento delle truppe tedesche schierando le squadre partigiane nelle valli palustri a nord della città. E’ l’Operazione Teodora, obiettivo: liberare Ravenna. I compagni, già presenti sull’isola dal 29 settembre, raccontano di brevi e fulminei scontri con le truppe tedesche. Addirittura una notte con un’azione a sorpresa riescono a portar via un cannone anticarro calibro 47/32. Il campo è organizzato come un vero e proprio accampamento militare, con camminamenti e trincee, alloggi e cucina da campo e una infermeria bene dotata, con i rifornimenti che arrivano da Cervia, da poco liberata, oppure con aviolanci da parte degli alleati.

La vita nel campo ha i suoi ritmi da rispettare:

Ore 8 – Sveglia

Dalle 8 alle 9:30 – Pulizia personale, alle tende e all’accampamento

Dalle 9:30 alle ore 11:00 – Istruzione e pulizia armi

Alle ore 11:30 – Primo rancio

Dalle ore 11:30 – Consumazione primo rancio e riposo fino alle 14:30

Dalle ore 14:30 alle 15:00 – Pulizia personale

Dalle ore 15:00 alle ore 16:30 – Collettivo

Ore 17:00 – Secondo rancio

Primo turno di guardia

Franco imbraccia il fucile per la prima volta. Gli istruttori lo addestrano ogni giorno all’uso delle armi e alla loro manutenzione, mentre il commissario politico della Compagnia tiene discorsi sulle ragioni ideali e gli obiettivi della guerra di liberazione contro il nazifascismo. E’ in questi momenti che Franco matura la sua idea e la sua passione per una società comunista che non abbandonerà mai più fino al suo ultimo giorno di vita.

All’alba del 23 novembre Bulow accompagna al campo degli Spinaroni un capitano dell’VIII armata canadese: l’ufficiale Dennis Healy. Una sera il capitano riunisce tutti e parla chiaro. E’ giunta l’ora di agire, basta con i colpi di mano, sabotaggi o imboscate. E’ arrivato il momento di uscire a combattere in campo aperto, faccia a faccia con il nemico.

Così la sera del 3 dicembre inizia quella che passerà alla storia come la Battaglia delle Valli. Per sette giorni e sette notti sono scontri a fuoco con il nemico. Avanzate e ritirate. Soldati tedeschi uccisi e fatti prigionieri. Ma anche compagni feriti e caduti. Nello, che ha ripreso il suo ruolo di infermiere, interviene in più occasioni per soccorrere i compagni colpiti.

All’alba del 5 dicembre una staffetta avverte la V compagnia che le truppe tedesche della Wehrmacht, in ritirata da Porto Corsini, stanno marciando verso Sant’Alberto. Portano con loro un gruppo di uomini rastrellati tra Casal Borsetti e Mandriole. Per impedire il loro passaggio due squadre della Compagnia, circa quaranta uomini, si piazzano in prossimità di Ponte Zanzi. Una squadra si ferma in Casa dei fratelli Biancoli, l’altra in casa Zanzi. Dopo una lunga attesa compare la prima pattuglia di soldati tedeschi. Pensando di poter proseguire nella loro azione di rastrellamento, uno di loro si avvicina alla Casa Zanzi bussando con forza alla porta. Per tutta risposta gli arriva una bomba a mano che lo fa fuggire ferito e barcollante. I suoi commilitoni scatenano per oltre un’ora un inferno di fuoco contro la casa, con scariche di mitra e bombe a mano.

I fratelli Orsi, con il loro gruppo, sono asserragliati in casa Biancoli, anche loro sotto attacco della seconda pattuglia tedesca. Il mitragliere, Sesto Senni di Mandriole, tiene impegnati i soldati della Wehrmacht, ma una scarica colpisce in piena fronte, uccidendolo, proprio il padrone di casa, il partigiano Vincenzo Biancoli. Dopo poco anche il fratello Alceo, uscito di casa nel tentativo di porre in salvo la famiglia, viene ucciso dai tedeschi.

Lo scontro prosegue cruento ancora per un’ora, poi i tedeschi decidono di ritirarsi e passano su Sant’Alberto. I due gruppi di partigiani escono dalle case e si riuniscono. Nello, infermiere della Compagnia, soccorre l’unico compagno ferito, con la mandibola spezzata ed un occhio colpito: gli presta le prime cure sul campo, prima di farlo trasportare in barella all’accampamento centrale.

“Un altro episodio degno di menzione, scriverà Guido Nozzoli in “Quelli di Bulow”, è quello dei mitraglieri della 5a Compagnia SAP rimasti poco fuori di Mandriole per proteggere col fuoco delle loro armi il ripiegamento. Questi pochi uomini riuscirono a fermare i tedeschi per alcune ore. Quanto bastò per risparmiare ai patrioti altre dure perdite e per predisporre al Fossatone l’ultima linea difensiva dalla quale non avrebbero più indietreggiato a qualunque costo perché dal Fossatone si dischiudeva ai tedeschi la via del ritorno a Ravenna con le conseguenze che ben s’immaginano. Nella notte anche i mitraglieri poterono rientrare alla linea dove il grosso era attestato. A Ponte Zanzi si era stabilita la sede del comando e quella notte venne strenuamente difeso da una quarantina di volontari comandati da Franco”.

C’è un racconto di mio padre che ricorreva nelle sere d’estate quando ai Mortellini ci riunivamo con i vicini sotto la lampada d’angolo della casa cantoniera sull’Aurelia. Non amava molto raccontare la sua esperienza di partigiano, salvo prendere in giro Nello perché, non sapendo nuotare – diceva lui – aveva rischiato di annegare nella pialassa della Baiona. Quando lo faceva però ricordava sempre un suo compagno, uscito in perlustrazione con una squadra. Intercettato un gruppo di soldati tedeschi li disarmano e li prendono prigionieri. Mentre li conducono al campo il compagno tiene il mitra troppo vicino alla schiena di un tedesco che, voltatosi di scatto lo disarma, gli scarica addosso una raffica, lo uccide e fugge insieme agli altri. Una disattenzione costata la vita, frutto della inesperienza e del carattere mite del partigiano, sottolineava mio padre con gli occhi lucidi.

Quanti ragazzi si sono dovuti improvvisare soldati per una guerra che ha stravolto la loro vita, li ha strappati ai loro affetti, li ha costretti a patire il freddo, la fame e la paura, tanta paura di morire giovane, ancora con tutta la vita davanti. Sofferenze, paure, la morte che arriva e ghermisce chi ti sta a fianco: un cammino lungo e tormentato quello dei fratelli Orsi che porta però, finalmente, ad un risultato glorioso quanto inaspettato: il 10 dicembre la loro Compagnia riesce ad entrare in Ravenna, liberata da pochi giorni e può ricongiungersi con la propria Brigata. C’è gioia e orgoglio nello sfilare tra ali di cittadini festanti, anche se il bilancio di quella battaglia è di 22 caduti tra i propri compagni.

La sera e la notte passano veloci: finalmente si può consumare un pasto, sia pure frugale, attorno ad un tavolo e dormire in un vero letto. Ma il pensiero ora più che mai rimane alla famiglia rimasta a Nozzano. Non si può indugiare sereni in quel clima di festa senza sapere cosa è successo a casa.

 Così, dopo aver parlato con i propri superiori, i quattro toscani riescono ad ottenere il permesso di poter rientrare dalle proprie famiglie. Un viaggio di ritorno carico di ansia tanto è che, alle prime case di Nozzano, Nello ha un mancamento: la paura di non trovare vivo qualcuno dei suoi cari lo attanaglia, ma la conferma che “sono tutti vivi!” gli ridà la forza di entrare in casa e buttarsi nelle braccia di mamma Veriade.

Dopo una lunga notte passata a raccontare, a fare domande, a dare risposte, un buon pasto caldo e un lungo sonno che riesce a scaricare solo in parte la mole di adrenalina accumulata, si torna a girare per le strade di Nozzano, ormai liberata dai nazisti (ma non ancora dai fascisti che nel frattempo sono rientrati dal nord) per riabbracciare gli amici rimasti o ritornati, per far vedere che si è ancora vivi, per bere un bicchiere “da Brunino” e passare una serata di musica e ballo al Ragno d’Oro.

Il tragico scenario che presenta il paese va però aldilà di ogni immaginazione: la scuola elementare al centro della piazza è ridotta ad un cumulo di macerie, sventrata dalle mine tedesche. Le truppe della Wehrmacht hanno depredato stalle e campi, incendiato capanne e fatto saltare in aria anche le case attorno alla rocca. La torre campanaria del castello è crollata, colpita dai ripetuti cannoneggiamenti delle truppe alleate. Anche la chiesa è stata danneggiata.

Poi i racconti sui rastrellamenti in paese, le grida che uscivano dalle finestre della scuola per le sevizie e le torture. Le complicità dei fascisti: si racconta del povero Braconi, mandato al confino per volontà del Marlia, che ha pure fatto arrestare e uccidere dai tedeschi il direttore del manicomio. I morti impiccati con il filo spinato, fucilati, uccisi con un colpo di pistola alla nuca, nei boschi di Castiglioncello, Balbano, Casanova, Le Villine, a Filettole. Tra i morti c’è anche una bambina di nove anni, Stella, sfollata con la famiglia da Livorno, colpita a morte nelle vicinanze della stazione ferroviaria dalle schegge di una cannonata delle truppe alleate sparata di là d’Arno.

La vita piano piano riprende. Al nord la guerra di liberazione è ancora attiva. Ravenna è liberata, ma le truppe tedesche ancora non lasciano il fronte del Reno. Alfonsine è sotto attacco. Dal gennaio all’aprile del ‘45 si conteranno solo in quella zona più di trecento morti, con oltre tre quarti della cittadina ridotti a cumuli di macerie. Ma qua in paese si può tornare a pensare al futuro. Il forno di Beppe di Ballona ha ripreso a fare il pane e una ragazzina ogni mattina scende dalla Ruga per prendere un filoncino che dovrà bastare per sé, la madre, le due sorelle e i tre fratelli.

Il padre Ferruccio, muratore, è morto di broncopolmonite tre anni prima, lasciando mia nonna Pia a crescere da sola sei figli. Pochi soldi in famiglia e una lunga lista di conti da pagare sul libretto della bottega di Gioele. La ragazzina sgambetta veloce e chiede a Veriade, che abita proprio di fronte al forno, se le consente di dare una mano in casa per poter guadagnare qualcosa. Veriade la fa entrare e le raccomanda: fai la brava, se lavori bene ti faccio sposare il mì Franco. Quella ragazzina è mia madre Franca, oggi novantenne.

Il matrimonio poi ci sarà davvero quattro anni più tardi, ma Veriade non c’era. E’ il pomeriggio del 28 febbraio del ’45. Sono passati solo due mesi dal ritorno al paese dei fratelli Orsi: una colonna di carri alleati transita per Nozzano. Veriade, 61 anni e 5 figli, esce di casa con in braccio un nipotino. Vuole salutare i soldati amici che hanno portato libertà e pace anche tra le sue genti, quando le vibrazioni di un carrarmato fanno tremare e poi cadere una colonna della recinzione attorno casa. Il pesante cancello in ferro ondeggia e crolla di schianto. Veriade viene colpita a morte mentre il suo corpo protegge il bambino che uscirà incolume. A niente valgono i soccorsi.

La famiglia Orsi si trova così ad affrontare la sua ricostruzione, tra nuovi lutti e sventure, accomunata nella sorte a quelle famiglie, tutte uguali perché tutte hanno vissuto e vivono del proprio lavoro, che dopo il ventennio fascista, i drammi e le sofferenze del passaggio del fronte di guerra, hanno sperato in una società più giusta e più libera. Una società in cui le vittime dei crimini fascisti avrebbero trovato finalmente giustizia e i loro aguzzini realmente epurati dai posti di comando e di direzione, a partire dalle pubbliche amministrazioni.

Così non è stato. L’opportunismo di molti, la malafede di pochi ma potenti, hanno invece riproposto nel corso del tempo una restaurazione dei classici sistemi di comando e controllo, compatibili con una democrazia moderna, ma escludenti la grande maggioranza dei cittadini dai processi di formazione delle decisioni nonché dalla partecipazione al governo della res publica. Non appaia strano quindi che, a settanta anni dalla nascita di una comunità libera e rinnovata, si stia ancora discutendo sulle regole della rappresentatività e della rappresentanza democratica.

Per questo, ancora oggi, per mantenere viva la memoria di chi si è battuto per la nostra liberazione, pretendere la completa attuazione e la non modifica della Costituzione e continuare a sperare in una società migliore, non ci resta che unirci al grido di quel bravo magistrato: Resistere, Resistere, Resistere!

Bibliografia essenziale:

Mons. Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945). Note e ricordi, Tip. Artigianelli

Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del mediterraneo

Carla Forti, Dopoguerra in Provincia, Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli Storia

ANPI Le stragi nazifasciste del 1943-1945, Memoria, responsabilità e riparazione, Carocci editore

ANPI Provinciale di Ravenna, Isola degli Spinaroni una base partigiana tra natura e storia, Danilo Montanari Editore

Arrigo Boldrini, Diario di Bulow, Vangelista

Guido Nozzoli, Quelli di Bulow. Cronache della 28ma Brigata Garibaldi, Editori Riuniti

AA.VV. La guerriglia in pianura: dalle prime squadre operaie alla “Colonna Wladimiro” in Alfonsine 11-12 aprile 1974, Convegno di studi sulla Resistenza.

Giulia Belletti, L’armata della pianura: la 28ma Brigata Gap “Mario Gordini”. Tesi di Laurea

Antonio Pagani, E’ café d’Cai. Le avventure di un giovane alfonsinese durante il fascismo.

Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Settembre 1943 – Maggio 1945, Feltrinelli

AA.VV. Storie della Resistenza, Sellerio Editore, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma