La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




Alla conquista della “piccola Russia”

oltre mille fascisti, inquadrati militarmente, sono sboccati in piazza Vittorio Emanuele, fermandosi dinanzi al Palazzo Comunale. Il marchese Dino Perrone Compagni, dopo aver salutato il tricolore che sventola dalla sommità del Palazzo civico, ha intimato a gran voce all’amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le ore 12. La folla ha vivamente applaudito. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922.]

Dopo un colloquio con il prefetto Eduardo Verdinois e l’on. Costanzo Ciano esponente emergente della classe dirigente livornese, forte della sua fama di eroe della Grande Guerra e degli stretti rapporti con i vecchi ceti dominanti (a partire dalla famiglia Orlando) e con il fascio urbano, il sindaco socialista Umberto Mondolfi decide di dimettersi, cedendo alle minacce di Dino Perrone Compagni, ras del fascismo toscano, alla guida dell’offensiva squadrista contro la città labronica e regista delle spedizioni squadriste dirette da Firenze nelle altre province della regione.
Questi era stato inviato a Livorno a luglio dal Comitato centrale del PNF sia per riportare ordine all’interno del fascio locale scosso da gravi tensioni interne e dalla minaccia di scissione della componente più estremista vicina all’ex segretario Marcello Vaccari sia per attuare l’ultimo atto dello scontro con le forze “sovversive”: la conquista violenta del municipio.
Dati i precedenti personali di Perrone Compagni, figura carismatica all’interno di quel fascismo toscano che da mesi guardava con odio al sopravvivere della giunta socialista di Mondolfi in un contesto regionale già fortemente fascistizzato, il prefetto Verdinois, in una relazione al Ministero degli Interni di quello stesso mese di luce, si fa facile profeta di una spedizione fascista contro la città, vista anche come occasione perfetta per ricompattare gli sforzi e gli interessi delle diverse anime del fascio e degli ambienti collaterali come gli ex combattenti, rinsaldando una rinnovata unità.
Livorno del resto non era solo uno degli ultimi municipi a guida socialista ma una città simbolo, sede del congresso fondativo del partito comunità, città di consolidate tradizioni “sovversive”, teatro di importanti scioperi e manifestazioni negli anni del primo dopoguerra fra miti rivoluzionari e crescenti timori nei ceti medi e borghesi e nei tradizionali gruppi dirigenti di una città, provata dalle forti divisioni politiche suscitate dal primo conflitto mondiale e provata dalle difficoltà economiche e dalle conseguenze sociali determinate dai processi di riconversione economica postbellica.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto le squadre fasciste erano arrivate con i treni da tutta la Toscana. Un gruppo era riuscito a penetrare nel Municipio e ad issare sulla torre un grande vessillo tricolore. La mattina del 3 agosto Perrone Compagni, sia con una lettera, sia con una telefonata in municipio, lo aveva chiaramente ammonito: «dopo il tramonto non avremo più alcun sentimentalismo verso nessuno come voi non avete mai alcun sentimentalismo per la Patria e l’onestà». [Testo della conversazione telefonica fra Perrone Compagni e Mondolfi, secondo quanto riportato da «Il Telegrafo», 4 agosto 1922.]

Già nelle ore precedenti la città aveva conosciuto la violenza degli squadristi. Appena si era sparsa la notizia dell’adesione della Camera di Lavoro confederale e di quella sindacale allo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del lavoro, gli squadristi erano stati mobilitati da Perrone Compagni. La mattina del 2 agosto due squadre erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai; gruppi in auto e camion carichi di camice nere avevano iniziato a pattugliare le vie della città. I fascisti avevano ordinato di appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case e il tricolore veniva issato anche sul Duomo.
Subito dopo il suo arrivo in città, Costanzo Ciano aveva fatto affiggere un manifesto in cui esprimeva il suo pieno sostegno all’azione dei fascisti, in quanto «l’attentato alla Nazione compiuto dai dirigenti delle organizzazioni sovversive, impone agli italiani di difendere la Patria, la libertà, la famiglia! Contro i matricidi insorge il fascismo. Concittadini, nella calma, nella serenità più perfetta attendete la vittoria».
Il ferimento di due militi aveva provocato le prime spedizioni punitive contro i circoli ´sovversivi`: Il Cigno, Il Germoglio all’Ardenza, e quello dei ferrovieri. La violenza fascista aveva colpito in particolare la famiglia Gigli:
appena è stato loro aperto, hanno iniziata una scarica di revolverate nella stanza d’ingresso, ferendo mortalmente il tranviere avventizio Pilade Gigli, di anni 30, il fratello Pietro Gigli, di anni 35, consigliere comunale comunista, parrucchiere, e la loro madre, la vecchia settantacinquenne Giulia Cantini nei Gigli. Un figlio di Pietro, Armando, noto anche lui come comunista, insieme allo zio Manlio Gigli, riuscirono a dileguarsi calandosi da una finestra. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922]

Nella giornata del 3 le dimissioni della giunta, che sanciscono la vittoria di Perrone Compagni, non segnano la fine degli scontri, che anzi riprendono con maggiore intensità in seguito al ferimento dell’ex segretario del fascio Marcello Vaccari. Gli squadristi attaccano e devastano la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti:
sfondata la porta dell’assessore Bacci hanno fatto irruzione nell’appartamento devastandolo. I mobili, i quadri e quanto altro vi si trovava ed era asportabile è stato gettato sulla strada ove n’è stato fatto un immenso falò. La cronaca registra inoltre un tentativo d’invasione del quartiere abitato dall’assessore Urbani, in piazza Magenta, dove la porta, solidissima ha resistito. […] Un altro gruppo di fascisti in Corso Amedeo ha fatto irruzione, devastandola, nella casa del consigliere comunale Luigi Gemignani che è rimasto ferito alla guancia sinistra. [«Il Telegrafo», 4 agosto 1922]
Stessa sorte tocca alla sede dei comunisti in via Santa Fortunata, alla casa dell’assessore Giuseppe Cardon, la cartoleria dell’assessore Giuseppe Bacci, il banco di commercio dell’assessore Giorgio Urbani, la sede della Federazione socialista: «dopo non pochi sforzi la porta ha ceduto e gli assalitori sono penetrati nell’interno. I fascisti si sono impossessati dei mobili, delle carte, hanno staccati dai muri i numerosi quadri e hanno gettato ogni cosa nella strada. Tutto è stato devastato». Al termine della giornata il bilancio degli scontri riportato da «Il Telegrafo» è di 18 feriti, fra cui un ragazzo di 18 anni, due donne e un vecchio di 71 anni, e di 4 morti: Gilberto Catarsi, operaio del Cantiere Parodi e Del Pino, ucciso da un colpo di arma da fuoco partito da un camion, Oreste Romanacci di 73 anni, il muratore Filippo Filippetti, Bruno Giacobini di 14 anni casualmente ferito durante degli scontri in via Palestro, dove si era recato per curiosità.

Nei giorni successivi la pubblica sicurezza perquisisce il circolo repubblicano di via Pellegrini e, trovandovi armi ed esplosivi, arresta Gino Reggioli segretario della sezione del PRI, il presidente del Circolo e altri membri; intanto le bandiere nazionali vengono appese ai balconi e alle finestre delle case e il preposto della Cattedrale monsignor Pera acconsente che il tricolore sventoli sul Duomo.

Il 4 agosto la manifestazione patriottica che sfila per le strade della città suggella, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento della bandiera rossa dalla torre municipale, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assume la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto.

La lettura del “Telegrafo”, quotidiano cittadino, può aiutare a ricostruire il clima di sollievo e soddisfazione che la caduta della giunta porta negli ambienti della borghesia cittadina. La violenta aggressione e deposizione di un’istituzione legalmente eletta si trasforma nella retorica del giornale in una liberazione salvifica, una grande festa per la fine del “governo bolscevico”:
Livorno ha salutato ieri il ritorno del tricolore in modo che sarebbe follia voler descrivere. E’ stata un’altra vibrante festa italiana quella che si è svolta in un trionfo di bandiere nazionali e alla quale il nostro popolo -ancor fiero delle sue tradizioni patriottiche- ha partecipato con un entusiasmo che supera ogni immaginativa. [“Telegrafo”, 5 agosto 1922]

Così in due giorni, sfruttando l’occasione dello sciopero legalitario proclamato in tutta Italia dall’Alleanza del Lavoro proprio contro le violenze fasciste, Perrone Compagni guida le camice nere labroniche alla conquista della città, grazie al sostegno degli squadristi giunti da tutta la regione, alla complicità di ampia parte della vecchia classe dirigente e al benevolo attendismo delle forze di pubblica sicurezza.




LIVORNO 25 LUGLIO 1943: cadono le bombe, cade il Regime.

Ultimi scoppi lontani e chiarori d’incendi.
Poi il cielo ritorna silenzioso e stellato, dopo un’ora di tregenda provocata
dall’aviazione inglese, un’ora che è sembrata un’infernale eternità.
(Gastone Razzaguta, 25 luglio 1943)

La data del 25 luglio 1943, passata alla storia nazionale per la crisi del regime fascista e le dimissioni di Mussolini, a Livorno è ricordata per il pesante e luttuoso bombardamento subito dalla città nella notte del 24 sul 25; poco nota è invece la circostanza per la quale tra i due eventi vi era una diretta correlazione.
Innanzi tutto, va precisato che l’incursione non fu “americana” ma inglese: anche le storiche Michela Ponzani e Laura Fedi hanno ripetuto in tempi recenti l’erronea paternità, nonostante che quella corretta fosse stata già indicata dal memorialista locale Gastone Razzaguta nel 1948 e dallo storico dell’aviazione Giorgio Bonacina nel suo saggio del 1970. D’altronde, è notorio che i bombardamenti notturni sull’Italia erano prerogativa strategica della Raf mentre quelli diurni dell’Usaaf.
Avro LancasterAll’origine del bombardamento vi era l’annullamento della “Operazione Dux” progettata del capo del Bomber Command della Raf, l’air chief marshal Arthur Travers Harris, intenzionato ad eliminare il duce con un bombardamento di precisione sulle sue residenze romane (Villa Torlonia e Palazzo Venezia).
Ancor prima di un pronunciamento del primo ministro britannico, nonché ministro della difesa, Winston Churchill, su ordine di Harris furono dislocati due squadron nell’aereoporto di Blida, in Algeria, dove erano giunti dall’Inghilterra il 17 luglio, dopo aver sganciato le proprie bombe su Arquata Scrivia, San Polo d’Enza, Reggio Emilia e Bologna, mirando alle centrali elettriche.
I due squadron – tra cui il 617°, famoso per la demolizione delle dighe tedesche sui fiumi Eder, Sorpe e Mõhne – erano inizialmente composti da 24 (12+12) bombardieri quadrimotori Avro 683 “Lancaster” e, una volta atterrati a Blida in 22, rimasero in attesa di ordini, venendo nuovamente caricati di bombe, finchè giunse da Londra il contrordine di Churchill, dopo il parere negativo anche del ministro degli esteri Eden. Nel frattempo atterrarono a Blida altri 16 “Lancaster” reduci dal bombardamento sulle centrali elettriche di Cislago Laghetto e Brughiero, aggiungendosi ai due squadron.
L’esito della progettata missione sulla Capitale appariva incerto e rischioso – anche per la presenza del Vaticano – e comunque poteva rivelarsi controproducente in una fase agonica del regime; inoltre, nel giorno previsto per l’azione (19 luglio), il duce sarebbe stato a Feltre per incontrare Hitler. L’Operazione Dux fu dunque annullata, anche se nello stesso giorno Roma fu pesantemente colpita da due bombardamenti diurni statunitensi.
Gli squadron inglesi rimasero quindi a Blida in attesa di direttive, finchè non giunse l’ordine per il rimpatrio dei velivoli, con strike su Livorno lungo la rotta di rientro verso la Gran Bretagna.
Fu così che a Livorno alle ore 0,19 del 25 luglio suonò l’allarme e la gente corse nei rifugi antiaerei, mentre a bordo dei 33 Lancaster i puntatori si predisponevano ad individuare gli obiettivi nell’area portuale-industriale, non particolarmente preoccupati della reazione antiaerea.
Paradossalmente, le bombe in origine destinate a Mussolini fecero correre qualche rischio alla figlia Edda che si trovava in vacanza con i figli presso la villa dei Ciano ad Antignano, tanto che nelle sue memorie ricordò di aver veduto «incendi dappertutto».
porto di Livorno sotto le bombeSecondo le diverse relazioni delle autorità civili e militari, «rotearono sulla città per circa 35 minuti e lanciarono numerosi artifici illuminanti, seguiti da sgancio di bombe e numerosi spezzoni incendiari da quota variabile da 1700 a 5200 metri». Furono lanciate circa 200-300 bombe per un totale approssimato di 85 tonnellate, ossia un carico ridotto rispetto a quello massimo consentito, in quanto gli aerei trasportavano il carburante necessario per raggiungere l’Inghilterra, ma anche arance e pompelmi algerini.
L’elenco delle distruzioni e dei danni conferma la prevalente intenzione di colpire le strutture del porto, il silurificio Moto Fides in via Salvatore Orlando e l’Anic, anche se con scarsi risultati. Presso la Stazione marittima furono gravemente danneggiati 4 carri merci, ma l’efficace intervento dei vigili del fuoco riuscì ad arginare il vasto incendio divampato nella zona portuale, mentre presso l’ANIC bruciarono alcuni depositi di petrolio e annessi baraccamenti. Lo stabilimento del Gommificio italiano in via delle Sorgenti andò completamente distrutto dalle fiamme; danneggiate anche alcune strutture produttive minori: i cortili dello stabilimento Fornace, la fabbrica della Borotalco sul Pontino, un laboratorio di dolciumi in via Pompilia.
Le perdite umane apparvero contenute, ma con un risvolto tragico: su 44 morti ben 43 vennero raccolte presso l’Istituto Maddalena, quarantuno bambini e due suore. Le persone ferite furono appena una decina, mentre invece gli edifici andati distrutti o lesionati più o meno gravemente apparvero molti – secondo i resoconti del Genio Civile rispettivamente 150 e 380 – sul Voltone, a Torretta, sugli Scali delle Cantine e in via Erbosa (l’attuale via Solferino) ma anche nei quartieri periferici di Sorgenti e Salviano, forse coinvolti per la prossimità di stabilimenti o per l’adiacenza della linea ferroviaria.
Colpito, inspiegabilmente – se non per la ferrovia – pure il borgo di Quercianella.
La città venne inoltre completamente paralizzata dalla distruzione dei servizi: acquedotto, energia elettrica, gas, linee telefoniche; gravemente colpito anche il palazzo delle Poste in piazza Carlo Alberto (l’attuale piazza della Repubblica).
Purtroppo, il peggio per Livorno doveva ancora venire.




“Frankie Goes To Leghorn”

Per i bombardieri americani e inglesi Livorno era solo una coordinata geografica: 43°33’ latitudine nord, 10°18’ longitudine est sul Mar Ligure, costa occidentale della penisola italiana. Un’espressione geografica da bombardare, per costringere i tedeschi ad andarsene. E fu così che dal giugno 1940 al luglio 1944 furono 116 i bombardamenti che colpirono e distrussero gran parte della città. Ben 90 di queste incursioni aeree, le più terribili, furono concentrate tra il 28 maggio del 1943 e il 7 giugno del 1944.

Alla fine la città fu liberata ma il prezzo pagato fu altissimo. I bombardamenti causarono la morte di 1.400 persone tra civili e militari, migliaia furono i feriti, anche la paura era una ferita difficilmente rimarginabile, molti, un numero ignoto, i dispersi; e fu completamente distrutta la zona industriale e portuale della città, e poi le case: furono circa ventimila i vani di abitazioni distrutti, oltre trentamila quelli gravemente lesionati.

Dopo poco più di un mese dall’ultimo terrificante bombardamento del 7 giugno, era la mattina del 17 luglio del 1944, un lunedì, le avanguardie della 34ª divisione “Red Bull” andarono in avanscoperta, con grande cautela, per le strade di una città di fantasmi. Ma la vera liberazione di Livorno avvenne due giorni dopo, il 19 luglio 1944, quando in città entrano i tanks e le jeep americane e le formazioni partigiane che aveva combattuto duramente per liberare Livorno; la popolazione potè finalmente invadere le strade e gioire per un incubo cessato.

Livorno liberata vive e lotta per la sopravvivenza. Quando arriva il generale Mark Clark al comando della Quinta Armata, trasforma Livorno in Leghorn e, dal 1° settembre 1944, nomina il porto labronico come Decimo Porto (10th Port) ovvero distaccamento del Genio USA per le Opere Marittime oltremare.

Circolano le AM lire: il dollaro costa 100 lire, la sterlina 500 lire. Il Governo militare alleato è ai Casini d’Ardenza mentre a Villa Trossi c’è l’Ufficio del Lavoro. In tutta la città ci sono italiani, americani, inglesi, brasiliani, truppe coloniali e prigionieri tedeschi. Nelle strade transitano jeep, dodges, trucks; gli incidenti stradali sono all’ordine anche perché gli autisti, i driver, vanno veloci e spesso sono ubriachi. Sparse su tutto il territorio cittadino ci sono baracche e costruzioni che ospitano le truppe e generi di ogni tipo.

Con l’esercito alleato arrivano anche affaristi privi di scrupoli, ladri, imbroglioni, prostitute e protettori. I berretti rossi della polizia militare inglese e i caschi bianchi della polizia militare americana cercano di porre un freno alla criminalità nascente e al traffico clandestino di merci e materiali USA.

A nord della città la pineta di Tombolo è già tristemente nota come “paradiso nero”. Lo scrittore Nicholas Fersen, nel prologo al suo romanzo “Tombolo” scrisse: «e Tombolo giace là di fronte al mare, inscrutabile, orrida e misteriosa, tenacemente incollata con la sua miseria, la sua storia, alla coscienza degli uomini». Lì, dove sarebbe sorto nel 1951 Camp Darby, base USA per il sud dell’Europa, si compiono traffici illeciti, mercato nero, vi si rifugiano i disertori, centinaia di “segnorine” si prostituiscono.

Con gli americani arriva anche la Coca Cola, il chewing-gum; diventano famosi sport come il basket e il baseball; si ballano e si suonano i ritmi musicali come il boogie-woogie, il blues, e una strana musica: il Jazz. Anche se Livorno aveva sentito questa musica nelle sue prime forme: già negli anni venti e trenta del ‘900 si erano formate molte jazz band. La musica, i nuovi ritmi, ai musicisti livornesi, così come tanti altri musicisti di altre città italiane, soprattutto portuali, erano conosciuti perché alcuni erano emigrati in America, ma anche perché il jazz attinge da tante altre forme musicali come la musica bandistica (a Livorno erano molte le bande musicali attive) la classica, la musica da ballo che a Livorno erano già diffuse all’inizio del ‘900 e che “viaggiavano” costantemente con le navi attraverso l’oceano. Il jazz che i livornesi ascoltano negli anni ’40 e ’50, è quello suonato dalle band al seguito dei militari Usa, ed è il jazz moderno, anche se non c’è una frattura netta fra il prima, degli anni ’20 e ’30, e il dopo in quello che ascoltavano.

Livorno diventa anche crocevia delle star internazionali che incontrano e si esibiscono per le truppe angloamericane. Nella primavera del 1945, Marlene Dietrich, indimenticabile interprete de L’Angelo Azzurro e de La Taverna dei Sette Peccati, partecipa ad alcuni recital cantando per i soldati americani e inglesi feriti in combattimento e ricoverati in ospedali da campo a Livorno: gli inglesi sono a Villa Mimbelli, gli americani a Villa Corridi.

In estate è la volta di Francis Albert Sinatra, noto come Frank Sinatra o con il solo nome, cantante di origine italiana, non ancora “The Voice” ma già famoso nel suo paese, che canta in piazza Magenta di fronte ai soldati americani. Dopo di lui arriverà anche una giovane, non ancora trentenne e già famosa, Ella Fitzgerlad che si esibirà nell’ex Dopolavoro della Società Metallurgica Italiana di via Micali divenuto sede della Red Cross Club (Croce Rossa americana).

 Il Concerto in Magenta Square

 È il 7 luglio, un sabato, ed è l’ultima tappa del Tour USO 1945. Questi Tour sono organizzati dalla United Service Organizations Inc. (USO), una società di beneficenza americana senza scopo di lucro che offre intrattenimento dal vivo con celebrità di Hollywood (comici, attori e musicisti) ai membri delle forze armate degli Stati Uniti e alle loro famiglie, durante la guerra. Lo scopo è di «portare a casa i ragazzi, alla loro casa». Tra il 1941 e il 1945, l’USO mise in piedi 293.738 spettacoli in vari continenti.

Quel sabato pomeriggio, lì sul palco, assieme a Frank Sinatra c’è un giovanissimo pianista, Saul Chaplin, che non era figlio del grande Charles Chaplin “Charlot” come qualcuno, sbagliando, l’ha indicato nell’annotazione che accompagna la storica e unica foto del concerto di piazza Magenta. In realtà Saul Chaplin, il cui vero nome è Saul Kaplan, è nato a Brooklyn, New York, il 19 febbraio 1912, da famiglia ebrea di origine polacca, e ha frequentato la School of Commerce della New York University con l’intenzione di diventare contabile. Pianista autodidatta, ha guadagnato soldi per mantenersi agli studi suonando con band locali.

Saul era molto giovane quando a Livorno accompagnò al piano Sinatra. In seguito, fino alla sua morte avvenuta nel 1997, sarebbe diventato un famoso compositore di colonne sonore del cinema, vincitore di tre Premi Oscar per la migliore colonna sonora per i film Un americano a Parigi (1952);  Sette spose per sette fratelli (1955); West Side Story (1962) come produttore associato con Leonard Bernstein.

Sul retro della foto originale, l’unica che ritrae Sinatra e Chaplin sul palco, vi è l’annotazione che la pubblicazione della foto è autorizzata dal Pentagono con la seguente indicazione: «Se pubblicata, si prega di accreditarla come fotografia dell’esercito americano, scattata dal fotografo Barry Kramer, assegnato per realizzare foto per l’USO (United Service Organizations) oversears tour 1945».  Barry Kramer (1921- 1984) è stato uno dei fotografi più prolifici del suo tempo, conosciuto e venerato più dopo la sua morte che quando era in vita. Nato e cresciuto a New York City, Barry, dopo la laurea alla New York University in pubblicità, fu arruolato nell’esercito nel 1942 e assegnato al corpo fotografico dell’USO, sviluppando nei vari tour stretti rapporti con innumerevoli celebrità dell’epoca come Frank Sinatra, Perry Como, Judy Garland, Tony Bennett, Duke Ellington, Ella Fitzgerald; un’esperienza, questa, che in seguito lo portò a collaborare con importanti riviste come Life e National Geographic. Sue sono inoltre le foto più famose di musicisti jazz nelle loro esibizioni nei jazz club di fama mondiale: Basin Street East, The Village Gate, The Metropol.

Ma prima di ritornare al concerto di piazza Magenta, vediamo come e perché fu decisa la tournée di Sinatra a Livorno.

 L’antefatto

 Come C-4 (codice identificativo d’idoneità al servizio militare ma solo come ausiliario) Frank Sinatra non avrebbe dovuto svolgere il servizio militare almeno fino al 1945, per via di un timpano perforato.

Ma era il 1945 e la guerra mondiale non era ancora finita. Sinatra fu quindi chiamato per una nuova visita medica. «Devo andare all’ospedale militare del New Jersey per verificare la mia idoneità», dichiarò ai giornalisti che smaniavano per intervistare questo giovane cantante italo americano che stava avendo un enorme successo, soprattutto tra le ragazze. E dopo tre giorni di visite Frank a sorpresa fu classificato C-2A che significava che era dichiarato inabile al servizio militare e sarebbe stato quindi esentato anche dal servizio ausiliario.

Apriti cielo, la notizia destò un gran sollievo tra le ammiratrici, ma anche una valanga di proteste su alcuni giornali, uno dei quali aveva definito Sinatra un «cantante caramelloso», e soprattutto tra i giovani in guerra in Europa e le loro madri. Una delle quali scrisse al New York Time: «mi potete spiegare perché gli atleti, gli attori del cinema e del teatro sono così importanti che ci debba essere per loro una speciale dispensa dal servizio militare? ». Una lettera arrivò anche dai militari del padiglione 47-4 dell’Hospital Plant 4118 in Inghilterra che avevano letto che c’erano ragazze a casa che minacciavano perfino di uccidersi se Frank fosse stato arruolato: «ci sono milioni di soldati americani sotto le armi e ci si preoccupa e ci si dispera per un solo uomo?».

Il 5 marzo del 1945 la commissione di leva del New Jersey, sorpresa dalle tante proteste, dichiarò che c’era stato un disguido e che Frank doveva essere considerato ancora un C-4. George Evans, manager di Sinatra, per evitare altre polemiche annunciò che Frank aveva intenzione di fare subito un giro negli ospedali militari e che in giugno sarebbe andato a cantare per le truppe oltreoceano.

«Quando il manager di Frank mi chiese di mettere insieme uno spettacolo per fare il tour con Sinatra in Europa per sei settimane, mi sentii male – disse Phil Silvers, attore, cantante e amico di Sinatra: ero ancora in luna di miele con Jo Carroll […] ma Frank era un amico e non potevo dire di no”». Phil Silvers aveva anche riflettuto su come presentare Sinatra alle truppe, dopo tutte quelle polemiche: «Non potevo certo dire: ed ecco a voi, l’idolo della gioventù americana. Mi avrebbero tirato le gavette. Pensai e suggerì di presentarlo sfottendolo un po’. Lo avrei preso in giro per la sua magrezza, lo avrei schiaffeggiato, lo avrei intimidito con lo sguardo, tutto per scherzo ovviamente, poi avrei attaccato un mio pezzo suonando un clarinetto e storpiando le note […] e a questo punto credo, anzi sono certo, che i soldati chiederanno a gran voce di farlo cantare».

La cosa funzionò e così, con questa trovata, iniziò ogni concerto del tour del 1945: i soldati dopo aver riso della gag tra Silvers e Sinatra chiedevano a gran voce a Frank di cantare una delle sue canzoni più in voga. A Livorno la richiesta cadde su “Nancy with the Laughing Face” che Phil aveva scritto per la festa di compleanno della figlia di Sinatra. Almeno così si raccontava. In realtà il titolo originario era “Bessy with the Laughing Face”, ma quando Silvers, autore del testo, e Jimmy Van Heusen, autore della musica, la cantarono alla festa di compleanno, sostituendo a Bessy il nome della figlia di Sinatra, Nancy, Frank si commosse, pensando che fosse stata scritta apposta per la festa di sua figlia. La verità era però che Silvers e Heusen avevano composto la canzone per il compleanno della moglie, Bessie, del compagno di scrittura di Van Heusen, Johnny Burke. Il titolo, con Nancy, fu poi registrato da Sinatra per la Columbia nel 1944, e così è conosciuto.

La tappa livornese di Sinatra fu l’ultima del 1945 Overseas USO (United Service Organizations) Tour, organizzato dal Comando USA per intrattenere soldati americani di stanza a Terranova, nelle Azzorre, nel Nord Africa e, appunto, in Italia con i concerti a Roma, Capua (Caserta), Cerignola (Foggia), Venezia, Milano, Pomigliano d’Arco, Capri, Bari, Foggia, Manduria (Taranto) e, appunto, Livorno, l’ultima data prima di ritornare in America.

Insieme a Sinatra e al pianista e compositore Saul Chaplin, saliranno sul palco il comico e amico di Frank Phil Silvers, all’anagrafe Philip Silver (il suo nome è iscritto tra le celebrità della Hollywood Walk of Fame. Silvers fu doppiato dall’attore livornese Stefano Sibaldi nei film: La signorina e il cow-boy, Fascino e Sesta colonna, e da un altro attore livornese Carlo Carletto Romano per  20 chili di guai!…e una tonnellata di gioia); con loro Fay McKenzie, attrice e cantante, e Betty Yeaton, acrobatic Cutie (ballerina-contorsionista),  che in Italia aveva già partecipato ad una tournée USO per i soldati della 5a armata americana, con uno spettatore d’eccezione, Winston Churchill, a Marina di Cecina il 3 agosto 1944.

 Livorno 7 luglio 1945 – Magenta Square

 Ci raccontano le cronache di quei giorni che quando Frank Sinatra giunse a Livorno aveva poco meno di trenta anni essendo nato nel dicembre del 1915  a Hoboken, New Jersey, Stati Uniti.

Aveva già alle spalle un’apprezzabile esperienza musicale. A Livorno vi erano migliaia di militari della Quinta Armata. Le truppe, anche se il 25 aprile del 1945, con la Liberazione delle grandi città del Nord e la resa dei tedeschi, l’Italia era stata liberata dal nazifascismo, non avevano certo il morale alle stelle. Soldati giovanissimi erano lontani da casa anche da tre o quattro anni, un oceano fra loro e le fidanzate; bloccati in un paese con abitudini diverse, con una lingua incomprensibile per i più, anche se molti erano gli italo-americani, le generazioni successive a quelle della grande immigrazione italiana negli USA, che non avevano bisogno dell’interprete. C’era bisogno di qualcosa che potesse risvegliare i ricordi della casa lontana. Nulla di meglio che un po’ di musica: lo swing che i livornesi avevano già cominciato ad apprezzare già negli anni Venti grazie ad alcune famose orchestre, come quella di Otello Bacci, e tante jazz band locali.

Il 7 luglio del 1945 faceva caldo. C’era il sole che salutava la prima estate senza più guerra. In Magenta Square, come era chiamata dagli americani, dominata dalla grande chiesa di Santa Maria del Soccorso, si accavallavano i rumori delle martellate e le grida di coloro che erano impegnati a montare il palco.

In piazza (raccontano ancora le cronache del tempo) presero posto migliaia di soldati americani, si dice fossero più di 10mila, ed ecco che davanti al microfono arriva quel ragazzo mingherlino, già famoso fra i soldati americani con il nome di “Frankie”. Proprio negli anni della guerra alcune canzoni da lui interpretate erano già entrate nella top ten di quelle preferite dal pubblico americano. “Frankie” Sinatra sarebbe diventato presto un artista di fama planetaria, e non solo come cantante, ma anche come attore: dai primi musical cantati e ballati con Gene Kelly fino a film di grande spessore interpretativo come Da qui all’eternità girato da Fred Zinnemann e che valse a Sinatra, nel 1954, l’Oscar come migliore attore non protagonista, o come, nel 1955, L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, con Sinatra candidato ad una nomination all’Oscar come migliore attore protagonista.

A Livorno, davanti al microfono, Frankie caricò l’animo dei soldati e li fece divertire. Si dice – ma qui le notizie sono frammentarie – che ad aprire il concerto, sotto il palco, fu un’orchestra composta da alcuni musicisti livornesi diretti da Otello Bacci; un’orchestra molto famosa tra le truppe americane perché proponeva “musiche americane” allora in voga.

Di quel concerto di tanti anni fa resta una foto un po’ ingiallita come tutte quelle che si tirano fuori dal cassetto della memoria. Una foto nella quale si vede Sinatra che canta indossando una camicia bianca con le maniche arrotolate sugli avambracci e un paio di pantaloni morbidi a vita alta, come andava di moda all’epoca. Saul Chaplin, il pianista, anche lui in camicia bianca, suonava un pianoforte verticale Steinway & Sons, di colore rosso mogano, portato direttamente dagli States e che era stato scarrozzato per tutte le tappe della tournée, riportando anche alcune “ferite” nella struttura in legno.

Sinatra in piazza della Vittoria cantò otto delle sue canzoni più famose: Nancy (With the Laughing Face) di Phil Silvers e Jimmy Van Heusen; Night and Day di Cole Porter; Candy di Mack David, Joan Whitney e Alex Kramer; Saturday Night di Sammy Cahn e Jule Styne; Ol’ Man River di Hammerstein-Kern; Embraceable You di George e Ira Gershwin; Blue Skies di Irving Berlin; Somebody Loves Me di George Gershwin, BG DeSylva e Ballard MacDonald.

Prima, durante e dopo il concerto fu accompagnato da applausi, urla e fischi, così come usavano fare gli americani quando una cosa piaceva, quindi il concerto di Frank Sinatra aveva avuto successo. Lo stesso giorno Sinatra e tutta la troupe volarono in America.

E questo è quanto si può raccontare sullo storico concerto di Frank “Frankie” Sinatra a Livorno. Ma non è tutto, perché c’è un pianoforte che rimane sul palco e non ritorna negli States. Ed è un’altra storia.

 Il pianoforte Steinway & Sons

 Il pianoforte su cui suonò Saul Chaplin e che accompagnò tutto il Tour USO merita un racconto a sé. Sì, perché per questo strumento musicale l’avventura di quel 1945 si concluse proprio a Livorno. Terminato la tournée, il pianoforte per chissà quale motivo non fece parte del bagaglio caricato sull’aereo con cui Frank Sinatra e gli altri artisti se ne ritornarono negli USA.

Che ne fu di quel piano? Oggi, grazie a circostanze casuali, possiamo raccontare la sua storia: il pianoforte Steinway & Sons, nel suo colore tradizionale rosso mogano ma che durante i tour USO fu tinto di un verde militare, su cui suonò Saul Chaplin e la cui musica accompagnò Frank Sinatra, non solo rimase in Italia, ma si trova ancora a pochi chilometri da Livorno. Sul pianoforte, benché di nuovo color rosso mogano e con qualche ferita, si scorgono tutt’oggi tracce di vernice verde.

A tale proposito riportiamo la testimonianza di Marcello Orazio, che ne è stato uno dei proprietari:

 Io lo aveva ricevuto in eredità da mio padre Alberto il quale a sua volta lo aveva acquistato nell’immediato dopoguerra presso la Casa Musicale Pietro Napoli di Livorno. L’acquisto di questo piano gli era stato caldamente raccomandato dal titolare Roberto Napoli (nonno dell’attuale Roberto, figlio di Gian Franco Napoli) come un’eccezionale occasione di qualità e prezzo, riservatagli in seguito agli ottimi rapporti di amicizia e di stima che intercorreva fra loro. Dopo un uso intenso, il piano restò inutilizzato per decenni, poi è emerso che quello non era un pianoforte comune, ma aveva una particolarità storica non indifferente. Si trattava di una versione impreziosita con gusto borghese del glorioso Victory Vertical Steinway, solitamente in verde oliva dei G.I. militari americani, costruito secondo specifiche militari di robustezza e maneggiabilità, adatto anche a essere paracadutato in avamposti del fronte bellico per dare momenti di ricreazione alle truppe. Accertata questa inconfutabile caratteristica si è consolidata in me l’ipotesi che quel piano fosse proprio quello usato per accompagnare Frank Sinatra in occasione del suo concerto per le che truppe in Piazza Magenta a Livorno. Il motore di questa ipotesi fu la casuale visione su una rivista della foto che ritraeva l’evento e nella quale si potevano anche vedere dettagli del pianoforte sul palco. Da questa ipotesi ho cominciato a esaminare da una parte la corrispondenza dei dettagli del pianoforte e d’altra parte a scavare nei ricordi della mia famiglia e in dettagli di per sé apparentemente poco significativi ma che nel contesto assumono oggi una valenza che permette di dare consistenza all’ipotesi.  A proposito del pianoforte, da notare che il piano in oggetto presenta, fin dall’acquisto presso Pietro Napoli, due colonne a lira strutturalmente posticce che, senza incidere sull’originalità del piano, contribuiscono ad assecondare ulteriormente il gusto borghese. Questo lascia pensare a una modifica esteticamente riuscita apportata da validi artigiani della stessa ditta Pietro Napoli che, per il suo già allora influente riferimento alla Steinway & Sons a livello europeo, avrebbe potuto avere quindi un ruolo nell’allestimento dello spettacolo di Frank Sinatra, e nella trattenuta in zona del pianoforte a fine spettacolo.

 Ed è così: fu proprio Roberto Napoli, imprenditore in campo musicale e musicista lui stesso, ad acquistare per primo quel pianoforte lasciato a Livorno al termine del Tour USO 1945, poi venduto alla famiglia Orazio. Marcello Orazio, che da bambino aveva studiato proprio su quel piano, ha di recente saputo che il musicista Andrea Pellegrini faceva parte del Comitato Unesco Jazz Day Livorno: «Lei è Pellegrini, figlio di Gian Franco il pianista jazz? – chiese, dopo averlo contattato, a Pellegrini, la risposta fu affermativa. Allora devo dirle che io ho il pianoforte del concerto del 1945 di Sinatra a Livorno».

Il Comitato UNESCO Jazz Day Livorno, fondato nel 2011, è composto da Andrea Pellegrini, Chiara Carboni e Maurizio Mini; Presidente Onorario Gian Franco Reverberi. Il Comitato organizza a Livorno dal 2012 nel mese di aprile, la JAM Jazz Appreciation Month Livorno, giunta quest’anno alla sua decina edizione (nel 2021, causa Covid, l’evento non si è svolto); un mese di eventi tra concerti, ascolti guidati, libri, film, mostre di pittura e fotografiche, tutto all’insegna del jazz. Livorno è l’unica città in Europa ad organizzare un mese di iniziative sul Jazz per concludersi il 30 di aprile, giornata mondiale Unesco dedicata al Jazz.