Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




150 ore

Nel 1973, con l’art. 28 del Ccnl Metalmeccanici venne riconosciuto ai lavoratori il diritto a permessi retribuiti per frequentare, presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. La conquista di questo monte ore retribuito, noto come “150 ore”,  fu utilizzato per ottenere il diploma di terza media, frequentare seminari o insegnamenti monografici nella scuola secondaria superiore e all’Università configurandosi come un vero e proprio laboratorio collettivo di innovazioni didattiche per l’ educazione degli adulti:  la struttura seminariale delle attività invitava infatti gli studenti alla ricerca-apprendimento autonoma e  alla ricerca-azione su tematiche e questioni che concernevano la vita quotidiana e le condizioni di lavoro degli operai. Una scommessa da parte del movimento operaio e sindacale riguardo alla democratizzazione di una scuola ancora selettiva ed elitaria, che traeva vigore dall’influenza del movimento studentesco, dall’esperienza di Don Milani a Barbiana, come da altri fermenti innovatori che si erano delineati ad inizio degli anni ‘60.

Le 150 ore non potevano pertanto rappresentare per i lavoratori un ritorno nella stessa scuola con voti, insegnanti autoritari, compiti a casa, dai contenuti astratti e lontani dalla loro esperienza di vita. Tra gli argomenti specifici possiamo ricordare l’analisi della busta paga e della contingenza, il ruolo della fabbrica, la situazione dell’agricoltura, l’ambiente di lavoro, mentre in merito alla riflessione storica i filoni più diffusi furono la storia dell’industrializzazione, del fascismo, dell’immigrazione.  Tematiche affrontate con metodologie didattiche nuove alternative  al libro di testo (il lavoro di gruppo, l’inchiesta, l’uso della statistica, il teatro) che aprivano orizzonti e percorsi inediti, superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio e proponendosi di conoscere la realtà per cambiarla ed intervenire anche sulla propria situazione.Orizzonti e percorsi inediti che si concretizzarono soprattutto nell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico in direzione di un apprendimento basato sulla propria quotidianità e con la volontà di proporre una sorta di controcultura operaia antagonista a quella dell’impresa e alla “scienza dei padroni”.

Uno dei temi più ricorrenti che vide impegnati anche in Toscana corsisti, insegnanti e sindacalisti fu quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro. L’attenzione a tale problematiche non era casuale dato che si trattava non solo di mantenere certe conquiste sul tema della sicurezza ottenute con le lotte del ‘68-‘74 ma anche di esprimere al meglio le nuove opportunità derivanti dall’ Inquadramento unico[1]: era impensabile migliorare la professionalità e la qualità del lavoro se non miglioravano le condizioni in cui esso veniva esercitato[2]. La monetizzazione del rischio, ossia l’indennizzo per un lavoro nocivo, pericoloso, eccessivamente faticoso, incorporata nel salario, era una strada ormai del tutto impraticabile come ricordano queste emblematiche parole di un operaio empolese: “La salute del lavoratore è più importante delle 5.000 lire di aumento mensile” (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976,  Archivio Cisl fondo Flm, b.13844 fasc.1).Di pari passo con lo sviluppo della Medicina del lavoro in materia di salute e sicurezza, il movimento dei delegati di fabbrica fece proprio il modello sindacale della prevenzione fondato sull’azione diretta dei lavoratori: elaborato già nella metà degli anni ‘60 in alcune esperienze torinesi, lo socializzò fra gli operai, facendolo circolare e sperimentandolo attraverso una capillare attività di formazione nei corsi delle 150 ore [3].

A Firenze, nel 1975-’76, si tennero diversi corsi nella scuola media inferiore sul tema “Ambiente di lavoro e salute in fabbrica”, cui parteciparono i delegati delle più grandi fabbriche dell’area urbana. I filoni principali seguiti nei corsi furono: l’analisi delle officine e dei reparti (inquinamento, incidenti e infortuni, rischi in generale); la prevenzione sanitaria (malattie professionali, regole e standard); la promozione di un sistema sanitario pubblico e la storia dell’ambiente di lavoro industriale[4]. “Per Siena come primo momento per l’utilizzo delle ore di studio pagate per i lavoratori può essere visto come epicentro l’Istituto di Medicina del Lavoro”, recita una proposta di discussione per l’utilizzo delle 150 ore dove si elencano anche le possibili discipline di studio: Medicina sociale, del lavoro, farmacologia, malattie mentali ma anche collegamenti interdisciplinari con economia, lettere e diritto[5].  Ugualmente a Follonica si affrontarono le malattie professionali nelle miniere con preliminari cenni di anatomia[6]. Nel 1974, a Prato, uno dei maggiori distretti industriali tessili italiani, a conclusione di un corso da 120 ore (la quantità di ore contrattuali previste per il diritto allo studio retribuito di questo comparto) venne pubblicato in forma ciclostilata un volume-dispensa, dedicato all’organizzazione del lavoro e all’ambiente nelle piccole e piccolissime imprese, comprese quelle familiari (120 ore, Fondo Flm,  b.13845, fasc. 2).

Nel 1975 ad Empoli presso la Scuola Media Statale Fucini, in un contesto di distretto industriale e di piccole e medie imprese diffuse, si svolse un corso avente per oggetto “il problema della salute in fabbrica e nella società” attraverso lavori di gruppo e “verifiche assembleari”. Il programma, raccolto in un’antologia, si strutturò attorno alle storie di vita dei lavoratori con un particolare accento riservato ai problemi della fabbrica.  Quelli “ di sopra”, “gli altri”, “quelli che comandano” che stabiliscono turni,  ritmi, che tarano le macchine, che decidono  il salario, che assumono o licenziano, che valutano la malattia o l’invalidità,  sono quelli “che hanno studiato”, che sono rimasti dentro la scuola, cosicché la fuga dal ripetitivo e stressante lavoro manuale e la distribuzione ingiusta del sapere si fondono nelle motivazioni a riprendere a studiare: “mi piace soprattutto che a scuola ognuno di noi, operaio, casalinga etc. si esprime come può ed insieme possiamo parlare, discutere di tanti problemi di cui siamo vittime” [7]. Molte le testimonianze riguardo all’ ambiente lavorativo e la sua nocività, ne riportiamo alcune tratte dal Fondo Flm dell’Archivio Cisl (b. 13844 fasc.1):

Ogni lavoratore deve essere tutelato prima che si ammali perché quando l’operaio di fabbrica si ammala può essere solo curato ma non guarito. I nostri datori di lavoro dicono sempre che c’è troppo assenteismo, ma se ogni operaio lavorasse con più sicurezza per la sua salute, con meno nocività in fabbrica, e con più garanzie da parte dello Stato o degli organi competenti, si avrebbe tutti più salute e maggiore benessere.

Sono un operaio metalmeccanico, ed ho sempre lavorato continuamente da circa 12 anni. Cosicché penso di avere acquistato una certa conoscenza di quello che può essere il rapporto di lavoro e la salute nella fabbrica. Io credo che si debbano affrontare in questo corso i problemi che ci aspettano quotidianamente. Il rapporto di lavoro si sta dimostrando col passare del tempo sempre più difficile perché aumentano le difficoltà del lavoratore all’interno della fabbrica. Il ritmo di produzione è sempre più elevato e richiede maggiore logorio fisico, senza contare lo stato d’animo, sospesi come siamo, fra licenziamenti e cassa integrazione. La salute è una cosa indispensabile per tutti, ma soprattutto per noi operai, che tutte le mattine dobbiamo lavorare senza tante attenuanti, perciò l’ambiente deve essere non sano, ma sanissimo.

Altri corsisti sottolineano la pesantezza della linea di montaggio, il difficile adattamento del corpo ai tempi e ai modi di funzionamento delle macchine, la dura disciplina della “fabbrica orologio”:

Lavoro da circa 6 anni, prima ero alla catena con ritmi elevati, durante il giorno non potevo neanche andare in bagno altrimenti rimanevo indietro, ora sono alla mazzetta. Circa 3 anni fa ebbi una colica renale, il mio medico mi disse che dipendeva tutto dallo stare sempre seduta, chiesi se mi potevano cambiare posto. Ma non fu possibile neanche col certificato medico, che poi lo chiedevo soltanto per qualche mese. Così sono andata avanti fino ad oggi.

Spesso con un ammodernamento degli impianti, l’operaio vede arrivare in fabbrica una macchina che fa, magari più velocemente, quello che faceva lui, tale e quale. E vede bene che se lui non può decidere niente, la semplice forza delle sue braccia non vale molto. Lui diventa un semplice accessorio da adattare alla macchina, un ingranaggio e non il più importante. Il padrone ha molta più cura della macchina che di lui. Se si guasta la macchina si ferma tutto, se si guasta un operaio il padrone ce ne mette un altro e non è successo niente di grave. Tutto ciò è umiliante per un uomo.

Io sono una confezionista, lavoro alla Lebole, che comprende 7.000 dipendenti ed è divisa in succursali. Io lavoro alla succursale di Empoli, che impiega circa 500 lavoratori e, come in genere in tutte le fabbriche, i problemi non mancano. Il ritmo molto elevato causa tensione, sensazione di paura, ansietà, fatica, nervosismo, depressione, per questo ogni giorno ci sono delle crisi isteriche e assenze dal posto di lavoro. Il padrone reagisce chiamandoci massa di vagabondi, ma non fa niente per trovare una soluzione a questi problemi. La ripetitività della mansione è un avvilimento continuo. Pensare di avere un cervello e non poterlo utilizzare in quanto l’uomo è al servizio della macchina e non la macchina al servizio dell’uomo.

In molti operai matura così la consapevolezza e l’importanza di trattare la Medicina preventiva, “dopo anni che sono assente dagli studi per motivi economici, mi ritrovo di nuovo in aula non come scolaretto ma per capire qual è il male che nuoce alla salute di noi lavoratori”:

Mi rendo conto di quanto è importante studiare a fondo la medicina preventiva, nelle fabbriche ci sono moltissime cose dannose per la salute; alcune mie colleghe sono ammalate di nervi e questo per tante cose ingiuste, il ritmo di lavoro e tante altre.

Sono contento che questo corso studi il problema della salute. Lavoro in vetreria e quello è senza dubbio uno dei posti dove la salute va curata in tempo perché se si aspetta i sintomi della malattia la maggior parte delle volte è troppo tardi. Sono contento anche di imparare l’italiano e le altre materie, per avere una maggiore cultura che mi serve nella società e anche nell’ambiente di lavoro, dove spero di poter parlare meglio soprattutto con il datore di lavoro che crede di sapere sempre tutto lui.

Per quanto riguarda i rischi che corriamo, si potrebbe parlare di tantissime cose, in quanto la mia fabbrica è un calzaturificio e, come è noto, in questo tipo di lavorazioni i fattori di nocività non si contano. Finalmente è entrato nella nostra fabbrica l’ispettorato della Medicina Preventiva; così abbiamo avuto la possibilità di farci vigilare di più.

Abbiamo lavorato con assoluta mancanza di controlli sanitari periodici, abbandonati quindi dalla scienza medica, ognuno pensava per proprio conto alla salute, se stava attento altrimenti quando si manifestava un malessere questo era già cronico.  Finalmente viene istituito un servizio di Medicina Preventiva.

Come si evince da queste testimonianze, la consapevolezza che “lavorare in fabbrica fa male alla salute”[8] indirizzò gli operai più o meno scolarizzati verso un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e ad una maggior percezione del rischio. E in questa presa di coscienza operaia, a livello di massa, la socializzazione educativa delle 150 ore giocò un ruolo fondamentale: i lavoratori, analizzando le loro esperienze, anche attraverso le storie di vita, contribuirono infatti in modo del tutto originale ad approfondire alle conoscenze di medici, tecnici e sindacati[9] e la prospettiva finale fu quella di utilizzare le ricerche svolte nei corsi per definire le strategie di azione sindacale e  le piattaforme rivendicative dei Consigli di fabbrica.

Avendo come oggetto di studio e di indagine le condizioni di lavoro e l’organizzazione produttiva, anche sul piano della salute e della sicurezza, le 150 ore rappresentarono per molti aspetti “un vero e proprio caso di auto-educazione di massa attraverso la ricerca-azione” [10] la cui ricostruzione storica consente di riflettere su sfide ancora assolutamente attuali: alcune di esse purtroppo rimandano ad episodi di cronaca ed immagini tragicamente note.

Un suono che si distingue dagli altri numerosi rumori della fabbrica; la sirena dell’ambulanza che a tutta velocità percorre per l’ennesima volta la strada verso l’ospedale. E’ un altro incidente sul lavoro: un altro lavoratore vittima di un macchinario. (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976)

 

Monica Dati è dottoranda presso il corso di “Scienze della Formazione e Psicologia” dell’Università degli studi di Firenze. Collabora con il Comune di Lucca e con la Biblioteca Agorà con cui ha inaugurato il progetto “Madeleine in biblioteca”.

[1]Sistema di classificazione che viene introdotto in seguito alla lotta contrattuale dei Metalmeccanici del 1972-73 che porta al superamento della distinzione tra operai ed impiegati.

[2]P. Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, Italia contemporanea, 278, pp. 224-46, 2015.

[3] Questo modello operaio fu reso noto in migliaia di fabbriche grazie alla dispensa L’ambiente di lavoro, edita prima dalla Fiom nel 1969 e poi dalla Flm nel 1971. Scaturita dall’opera di Ivar Oddone, medico e psicologo del lavoro, fu il frutto di un’elaborazione collettiva pluriennale che raccolse l’esperienza di alcuni lavoratori metalmeccanici della 5a Lega di Mirafiori.

[4]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, Giornale di Storia Contemporanea, 2016, n. 2 p. 70

[5]  Proposta di discussione per l’utilizzo a Siena delle ore di studio pagate per i lavoratori. Materiale per le 150 ore a Siena 1976-1977, a cura della Commissione Sindacale 150 ore di Siena, Archivio storico del movimento operaio e contadino in provincia di Siena (Amoc), Fondo zona sindacale Amiata b. VIII Fasc. 1

[6]  Documenti sui corsi 150 ore. Malattie professionali e ambiente di lavoro in miniera, Fondo CGIL, 1 (b. 85), Archivio della Camera del Lavoro di Grosseto

[7]Antologia del Corso 150 ore, Scuola Media Fucini R., Empoli, 1975 ciclostilato, Archivio Cisl, Fondo Flm, b. 13844 fasc.1

[8]Come titola il famoso libro di medicina del lavoro di Jeanne Stellman e Susan Daum (Feltrinelli, 1975)

[9]Sul rapporto tra formazione e sicurezza sui luoghi di lavoro si veda anche P. Federighi, G. Campanile, C. Grassi (a cura di), Il circolo di studio per la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ETS, Pisa, 2010

[10]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, op. cit., p. 67




Sulla pelle degli operai: Pignone 1953.

La mattina del 5 gennaio 1953 la direzione delle Officine Meccaniche e Fonderia del Pignone di Firenze presentò alla Commissione Interna un piano di riduzione del personale di oltre 300 lavoratori, fra operai, tecnici e impiegati. I licenziamenti, che riguardavano inizialmente un sesto degli addetti occupati, raggiunsero in seguito progressivamente quote più alte, fino a prevedere la totale chiusura dell’impianto. A motivare l’operazione, la SNIA Viscosa, proprietaria del Pignone, riportava deficit di bilancio nel biennio precedente dovuti all’insufficienza delle commesse e agli elevati costi di produzione.

La vertenza, dopo un intero anno di lotta condotta su diversi fronti con inedite modalità politico-sindacali, si concluse tra il 5 e il 13 gennaio 1954 con la rilevazione da parte di ENI dell’azienda e il reintegro di una parte dell’organico, con un minor numero di addetti rispetto al primo piano di esuberi del gennaio ‘53. Più in generale, la parabola dello stabilimento fiorentino s’inseriva nel vasto quadro di licenziamenti e smobilitazioni che la ristrutturazione del tessuto industriale italiano comportò tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà del decennio successivo, che a Firenze ebbe pesanti conseguenze, ma ne rappresentava al contempo un caso paradigmatico.

La vicenda del Pignone passò alla cronaca per l’estensione temporale e qualitativa della protesta operaia, condotta unitariamente dai sindacati per la prima volta dalla scissione del 1948, che coinvolse larga parte della cittadinanza fiorentina: i commercianti e le famiglie operaie, i lavoratori degli altri stabilimenti e una parte del clero locale sostennero in diverse occasioni le proteste e la lunga occupazione della fabbrica. Soprattutto, però, la vertenza ottenne una grande risonanza nel dibattito politico grazie all’intervento diretto e deciso del sindaco democristiano Giorgio La Pira, poi della corrente che faceva capo a Fanfani e che proprio in quel periodo stava diventando maggioritaria nel partito.

Tutto ciò, ovviamente, fu oggetto della massima attenzione da parte dell’Ufficio Politico della Questura di Firenze. Tra gli elementi più interessanti riportati dalle fonti di polizia vi è certamente quello relativo all’atteggiamento tenuto nel corso della lunga vertenza da Zenone Benini e Franco Marinotti, gli amministratori delegati rispettivamente del Pignone e della SNIA.

Ciò che qui interessa sottolineare è la discrepanza tra le motivazioni alla base del ridimensionamento e poi della liquidazione del Pignone e la reale situazione economico-finanziaria in cui si trovava lo stabilimento. Per Marinotti e Benini al Pignone mancavano le ordinazioni e i costi produttivi erano insostenibili, mentre  le indagini dell’Ufficio Politico, le analisi delle rappresentanze operaie e la Relazione dei liquidatori della Società concordavano invece nell’attestare la buona salute dell’azienda.

Su un bilancio di oltre 7 miliardi di lire il passivo dell’azienda alla fine del 1952 si attestava intorno a 240 milioni, di cui la quasi totalità riscontrabile nel nuovo ramo produttivo meccanotessile imposto dalla riconversione targata SNIA. Anzi, secondo il parere dei liquidatori i reparti tradizionali su cui si fondava la vecchia come la recente storia del Pignone, compressori, carpenteria e caldareria, avevano addirittura fatto registrare negli ultimi anni un’espansione del fatturato. In merito al “mantra” ripetuto dal padronato della carenza di ordinazioni, le indagini avevano rilevato che gli aiuti ERP non solo avevano finanziato una parte del rinnovamento del parco macchine fra 1949 e 1950, ma avevano anche assicurato fino a quel momento sostanziose commesse offshore. Inoltre alcune ordinazioni erano state gestite in maniera pessima dalla Direzione, come delle lavorazioni per trapani radiali, costate al Pignone tra interruzioni e scarti produttivi un centinaio di milioni di lire.

Dalle parti della Questura dunque, come del resto anche nella CCdL, con il passare delle settimane andava accumulandosi una certa perplessità sulla buona fede delle scelte aziendali, dato che Benini non solo chiudeva sistematicamente qualsiasi spiraglio di trattativa con la Commissione Interna e confermava la necessità di ridimensionare l’azienda – anzi la rilanciava portando a 400 il numero delle sospensioni -, ma allo stesso tempo stava imponendo ore di lavoro straordinario obbligatorio a una consistente fetta di tecnici, disegnatori e operai.

Le perplessità dei funzionari di polizia si fecero più consistenti quando, poco prima delle elezioni politiche del giugno 1953, la stima delle riduzioni di organico  era praticamente triplicata rispetto alle sospensioni avviate a gennaio, attorno alle «900 persone su 1800 dipendenti». L’Ufficio Politico riteneva:

«Urgentissimo provvedere acciocché la direzione dell’azienda non vada a questi estremi che porteranno al fallimento. Infatti il costo/ora commerciale, che prima delle sospensioni era circa 1400-1500 lire, è salito a oltre 1800 lire, come anche un qualunque essere ragionevole aveva capito e detto fino da quando furono minacciate le sospensioni: le persone che producono  diminuiscono e le spese generali rimangono le stesse. È perciò da considerare:

1) Il completo fallimento della politica dei vari Benini, Gerla e Torrini.

2) Il prossimo tracollo della Società (le azioni vanno scendendo di nuovo rapidamente), dato che sarà impossibile vendere anche un solo spillo, anche perché l’ora produttiva del Pignone costa il triplo di quelle della concorrenza.

3) La necessità di un forte intervento governativo presso la SNIA Viscosa e la Direzione del Pignone per impedire in ogni modo la rovina della Società, eventualmente assegnando del lavoro per un importo della consistenza tale da salvare alcune centinaia di operai».

Qualche mese più tardi gli investigatori informavano che Benini, «alla luce di una voce raccolta in qualche ambiente interno delle officine del Pignone, solitamente bene informato, […] avrebbe più che raddoppiato il suo capitale in seno all’azienda, giuocando al ribasso quando le azioni, alcuni mesi or sono, ebbero un apparente fortissimo tracollo; da un lato, faceva sapere a tutti ufficialmente che si era giunti al disastro dell’azienda, mentre dall’altro, comprava a tutto spiano le azioni che medi e piccoli azionisti gettavano sul mercato, vendendo a qualunque prezzo pur di disfarsene».

Nel novembre 1953 infine, quando ormai la vertenza entrava nelle sue fasi più acute a seguito della decisione aziendale di liquidare la Società, gli indizi si facevano più chiari per i questurini, che consideravano ormai «buona parte della mancanza di lavoro» dovuta «all’atteggiamento della SNIA Viscosa nei riguardi del Pignone». Nei mesi precedenti il colosso lombardo aveva richiesto la progettazione e la realizzazione di «due prototipi di macchine TPS, poi, dopo averle testate e valutate positivamente, si faceva consegnare progetti tecnici per commissionare la produzione di un centinaio di questi macchinari, per l’importo di oltre un miliardo di lire, ad un altro impianto, lo Stabilimento Meccanico che essa stessa possiede in Torino».

Così, a nove mesi di distanza dall’apertura della vertenza, i funzionari di polizia  erano portati a «supporre che la crisi di lavoro in cui l’azienda si dibatte [fosse] stata creata ad arte».

Effettivamente l’attività speculativa emersa dalle carte della Questura sul caso Pignone conferma non solo, e non tanto, «il fallimento di una classe imprenditoriale culturalmente arretrata e dotata di scarsa “coscienza industriale”»; indica piuttosto una scelta preordinata, una strategia imprenditoriale sostenuta dalla proprietà in quella fase di ristrutturazione complessiva del tessuto industriale italiano. Una volta presa coscienza dell’errata scelta di riconversione al tessile a scapito invece della  tradizione produttiva della fabbrica fiorentina, la gestione Benini-Marinotti già tra il 1948 e il ’50 aveva optato per il definanziamento delle produzioni di casa Pignone, incentrando il proprio indirizzo strategico nel taglio dei costi e alimentando di conseguenza il conflitto interno allo stabilimento.

Nel 1953 però, a differenza delle precedenti dismissioni di manodopera, la Direzione non dovette fronteggiare solo una decisa e determinata protesta sindacale unitaria, ma anche un mutato assetto del contesto politico generale e territoriale, in cui le istanze sociali rappresentate dalla corrente di Fanfani e La Pira si stavano imponendo sulle linee di governo. In altre parole la dirigenza si trovava di fronte un doppio ostacolo: la combattiva resistenza operaia (tanto alle scelte contingenti di licenziamento quanto più compiutamente a tutto l’indirizzo produttivo imposto nel ’46); la volontà del sindaco e di una parte della DC di sostenere la lotta del Pignone.

Per questa via, già a ridosso delle elezioni del 7 giugno, e poi più realisticamente con il progressivo emergere del protagonismo di La Pira e le voci di un intervento governativo, Benini e Marinotti maturarono la scelta di disfarsi dell’azienda, tanto più che dopo la salita di Fanfani al Viminale trovarono nella disponibilità istituzionale alla mediazione la sponda idonea per superare l’empasse a proprio favore.

Concretizzatesi finalmente le iniziative governative per salvare il Pignone con il coinvolgimento della neonata ENI guidata da Mattei, e una volta accentrate il più possibile le azioni, la SNIA e il vecchio patron Benini riuscirono a ricavare profitto da una fabbrica estremamente politicizzata e conflittuale, che versava in buona salute finanziaria ma risultava da anni in crisi nel ramo produttivo che più interessava alla SNIA.




Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. 1919-1921

L’articolo costituisce un’anteprima del nuovo volume sui fatti di Montespertoli a firma di Francesco Catastini, Paolo Gennai, Andrea Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021 

Nel giugno del 1914 si tennero in tutta Italia le elezioni amministrative. Anche a Montespertoli vinsero le forze liberali ma il risultato della vicina Firenze agì da ‘lento’ detonatore per una serie di drammatici eventi che maturarono alcuni anni dopo e che coinvolsero non solo la città fiorentina ma anche alcuni comuni del suo circondario che avevano con Firenze intensi rapporti commerciali, politici ed economici. Montespertoli era appunto uno di questi centri.

Sindaco Bini Augusto

Augusto Bini, primo sindaco socialista di Montespertoli eletto alle amministrative del 1920

Le elezioni del giugno 1914 avevano riportato nel Consiglio comunale di Montespertoli una schiera di persone che ormai da decenni guidavano l’Amministrazione comunale (il barone Sidney Sonnino, i marchesi Lamberto Frescobaldi e Alessandro Bartolini Salimbeni, i conti Lorenzo e Lodovico Guicciardini, i cavalieri Alceste Salvadori, Gustavo Pacchiani e Ubaldino Baldi, il notaio Giulio Peruzzi, gli avvocati Giulio Rapi e Gino Giani) tanto che si può affermare che la cosa pubblica si era col tempo strutturata a loro immagine e somiglianza. Insieme a questa categoria di personaggi certamente molto influenti, avevano fatto la loro comparsa anche i rappresentanti di quel ceto di piccoli e medi borghesi originari del territorio, che con il passare del tempo si dimostrarono sempre più in grado di condizionare la vita pubblica e la gestione del potere locale, grazie al fatto che potevano vantare alleanze economiche con i grandi possidenti, sfruttando in modo utilitaristico e a proprio vantaggio i rapporti gerarchici che intrattenevano con essi. Questi “nuovi borghesi” si dimostrarono, peraltro, sempre più in grado di tessere una ragnatela affaristica che travalicava i confini della singola Amministrazione locale per insinuarsi nei gangli vitali anche di quelle confinanti, giocando in questo modo su più tavoli e volgendo a loro favore le occasioni che si presentavano via via nella gestione della cosa pubblica. A Montespertoli era soprattutto il settore del commercio che pesava sulla realtà economica e produttiva locale attraverso un prodotto come il vino che aveva un effervescente mercato non solo nella realtà del luogo, ma anche nelle maggiori piazze della Valdelsa, della Valdipesa e, soprattutto, di Firenze. Il vino infatti dava adito ad un circuito economico che dal possedimento di terreni adibiti a vigneti passava poi per gli impianti di trasformazione e coinvolgeva anche figure essenziali per il suo commercio come i «mediatori», gli «agenti di campagna», i trasportatori, i commercianti (al dettaglio e grossisti), i gestori di bettole, locande e fiaschetterie e anche una schiera di personaggi che dal commercio del vino ricavavano in modo ‘occulto’ piccoli introiti (ad esempio i «vetturali»).

A fianco del vino si collocava la paglia, altro settore produttivo molto attivo a Montespertoli sin dal tardo Settecento, intorno al quale si era strutturata una ramificata economia che coinvolgeva in maniera trasversale sia la fascia dei grandi possidenti e dei “nuovi borghesi” visti sopra, ma anche tutto un sottobosco di figure (piccoli commercianti, trasportatori al dettaglio, braccianti, piccolissimi possidenti) dedite a più lavori contemporaneamente che si insinuavano nelle maglie della lavorazione di questo prodotto poi esportato nell’area fiorentina, signese e campigiana.

Assessore Razzolini Severino

Severino Razzolini, assessore nella giunta del Bini. I fascisti fiorentini cercarono di far irruzione nel caffè da lui gestino per provocare violenze

E’ di fondamentale importanza tenere in considerazione questi aspetti di economia locale, oltre agli stretti legami politici ed economici con Firenze, quando si prenda in considerazione il caso di Montespertoli nel biennio 1919-1921, sia durante la presenza del Commissario prefettizio Umberto Patella (novembre 1919-ottobre 1920), che durante il governo della Giunta socialista di Augusto Bini (ottobre 1920-aprile 1921).

Il governo del Commissario Patella si basò quattro tipologie di imposte (quella sui terreni, sui bestiami, sui pianoforti e biliardi e la compartecipazione a quella governativa sul vino) alle quali affiancò voci di spesa (rifacimento della fognatura e dei marciapiedi nel Capoluogo, servizio sanitario per i poveri, spedalità in genere, estensione delle rete elettrica alle frazioni) più consone ad un’Amministrazione socialista che ad un Commissario prefettizio. Costui durante il suo operato si impegnò anche nel settore dell’edilizia popolare strettamente connesso, nella realtà economica di Montespertoli, a quello della paglia per il fatto che i proprietari di piccoli ambienti e magazzini che potevano essere adibiti ad abitazioni, preferivano invece riservarli alla lavorazione della paglia piuttosto che all’affitto perché più remunerativi, data l’importanza che questo prodotto aveva a Montespertoli. Tanto che lo stesso Patella lo inserì come voce specifica nel dazio di consumo, provocando un’amplissima protesta (trasversale) fra gli abitanti del paese.

Fu proprio l’abolizione di questa voce dalla tabella del dazio uno dei primi provvedimenti presi dalla Giunta socialista di Augusto Bini (possidente terriero locale e industriale della paglia) salita al potere con le elezioni amministrative del 19 settembre 1920, con una vittoria nettissima. Il clamore che il risultato delle votazioni dovette suscitare negli avversari, ma anche in tutta la popolazione di Montespertoli e delle sue frazioni, con una differenza eclatante in termini di voti, dovette essere enorme. Un manipolo di 24 persone di cui, tranne una, tutte le altre di estrazione e/o di professione contadina, andavano ad occupare gli scranni dove fino a pochi giorni prima sedevano baroni, conti, marchesi, cavalieri, notai e avvocati. Si ribaltavano i concetti fondamentali di una società che durava da tempo immemore e che sembrava, fino a pochissimi anni prima, non dovesse mai cadere.

Assessore Verdiani Angiolo

Angiolo Verniani, assessore nella giunta socialista di Augusto Bini

Il 10 e 11 ottobre 1920 a Montespertoli si sperimentò il primo tentativo dei fascisti fiorentini di ribaltare il risultato delle libere elezioni in una Amministrazione comunale; tentativo non riuscito grazie al concorso della popolazione che si pose a difesa del Palazzo comunale, ma che gettò lunghe ombre sul futuro prossimo delle Amministrazioni socialiste toscane.

Lo sforzo messo in campo dalla Giunta Bini per cercare di attuare un piano fiscale che fosse il più possibile aderente alla realtà locale e che quindi praticasse quella giustizia fiscale e distributiva cavallo di battaglia del partito socialista, si scontrò con la difficoltà ad individuare i cespiti di entrata delle famiglie di Montespertoli e quindi della loro effettiva ricchezza nel momento in cui affrontò il delicatissimo problema della «revisione delle matricole delle tasse comunali». Quanto fosse infida e piena di conseguenze imprevedibili questa operazione fiscale, lo dimostra l’analisi delle lettere inviate nel 1921 all’Amministrazione comunale da chi si sentì ingiustamente penalizzato dalla nuova ripartizione fiscale. Le lettere mostrano con esemplare chiarezza il risentimento diffuso, ma in certi casi anche il livore e la rabbia a stento trattenuti, che la Giunta socialista provocò fra molti suoi amministrati con la nuova matricola fiscale. Si trattava di un fronte esteso ed eterogeneo che andava dai parroci ai dipendenti comunali, dai grandi possidenti dai cognomi altisonanti agli anonimi piccoli proprietari, ai commercianti e bottegai; dai fattori ai piccoli possidenti inseriti anche nel commercio della paglia e/o del vino. Un aspetto questo che ebbe il suo peso quando nella primavera seguente lo sforzo congiunto delle autorità centrali, della Prefettura e delle squadre di azione fasciste riuscirono a far cadere la Giunta socialista di Augusto Bini.

Assessore Del Terra Savino

Savino Del Terra, assessore nella giunta del Bini

Troppo esiguo fu il margine di tempo che questa Giunta ebbe a disposizione per poter dispiegare la sua politica socialista sul territorio di Montespertoli (quattro mesi e dieci giorni). Inoltre, oltre ad essere breve fu anche particolarmente difficile per il manipolo di nuovi Consiglieri che si trovarono a svolgere per la prima volta nella loro vita un’attività politico-amministrativa del tutto sconosciuta nelle sue articolazioni interne. Oltre a queste ve ne furono altre di difficoltà legate proprio alla contingenza (ricorsi della minoranza, dazio di consumo, situazione finanziaria e approvvigionamento acqua) e all’operato della Prefettura.

I fatti accaduti a Certaldo e ad Empoli fra il 28 febbraio ed il 3 marzo 1921 costituirono l’occasione per dare la spallata finale a molte Amministrazioni socialiste della Valdelsa, fra le quali anche Montespertoli. Anche a Montespertoli infatti fu indetto lo sciopero che secondo le autorità assunse la forma di un’insurrezione contro i poteri dello Stato e su questa ‘insurrezione’ fu montato un processo celebrato presso il Tribunale di Firenze, che portò sul banco degli imputati un centinaio di cittadini, compresa l’intera Giunta municipale (escluso un solo assessore). Le accuse andarono da «insurrezione contro i poteri dello Stato», «costituzione di bande armate», «sequestri di persona», «interruzione delle comunicazioni», «assedio alla caserma dei carabinieri» e «violenza privata».

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La coperta del fascicolo processuale relativo al procedimento intentato per volere delle autorità fasciste contro lo sciopero indetto a Montespertoli nel marzo 1921 per cui furono incriminati un centinaio di cittadini e l’intera giunta  Bini (Archivio di Stato di Firenze, Processi Penali 1923, b. 73)

Così, il 4 marzo vennero arrestati i primi tre Consiglieri di maggioranza, mentre due dei quattro assessori si erano resi latitanti e lo sarebbero rimasti a lungo. Ma l’obiettivo principale della controffensiva di marca reazionaria e fascista era rappresentato dal Sindaco Bini, contro cui si passò a forme di intimidazione ben più gravi e violente fra le quali un agguato. Il 4 aprile, verso le 11 del mattino si presentarono nel suo ufficio in Comune Sergio Codeluppi ed altri due compari minacciandolo con una pistola, ed insultandolo gli intimarono di firmare una dichiarazione di dimissioni da sindaco. Il giorno seguente Augusto Bini fu convocato in comune dal Segretario Bastianini per rispondere ad un telegramma del Prefetto inerente le sue dimissioni; firmato il telegramma Augusto Bini lasciò per sempre il Palazzo comunale.

Il 31 marzo 1923 la Corte d’Assise emise la sentenza che confermò il movente politico alla base degli episodi di violenza verificatisi durante i fatti di Montespertoli, condannando 47 dei 66 imputati a pene variabili fra i tre mesi ed i cinque anni di reclusione.

Il 23 settembre Augusto Bini venne arrestato a Firenze con l’accusa di aver commesso atti volti a far sorgere in armi gli abitanti di Montespertoli contro i poteri dello Stato e di aver organizzato bande armate di fucili e bastoni, esercitando su di esse un’azione di comando.

Bibliografia:

– M.C. Dentoni, Annona e consenso in Italia (1914-1919), Milano, Franco Angeli, 1995;

– F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, UTET, 2009;

– M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Milano, Mondadori, 2003;

– L. Guerrini, La provocazione fascista per giustificare la repressione del movimento operaio e la repressione titolo preminente e permanente del carrierismo, in La Toscana nel regime fascista (1922-1930), Firenze, Olschki Editore, 1971, vol. I, pp. 621-634

– P. Pezzino, Empoli antifascista. I fatti del 1° marzo 1921, la clandestinità e la resistenza, Firenze, Pacini Editore, 2007;

– R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991.




Gennaio 1922, fuoco a Serravalle

All’inizio del 1922 l’infittirsi delle spedizioni squadriste nel pistoiese registrava ormai numeri da bollettino di guerra. Nel corso del 1921 il neonato fascismo locale aveva devastato la Camera del Lavoro a Pistoia e sequestrato due volte il suo segretario Onorato Damen, rapito il parroco – animatore del movimento delle casse rurali – Don Ceccarelli, aggrediti numerosi militanti sindacalisti, socialisti, comunisti, anarchici e antifascisti, compiuto una sanguinosa spedizione a San Marcello, assaltato circoli, occupato interi paesi come Agliana e Casalguidi, incendiato sulla pubblica piazza copie dei giornali avversari, colpito leghe contadine e si era scontrato con la breve esperienza degli Arditi del popolo locali. Il tutto senza trovare un’attiva opposizione delle autorità statali, che si delineava sempre più come un’aperta connivenza. In questo contesto matura un’azione, svoltasi sulla falsariga delle altre, della quale disponiamo di preziosi resoconti, che mette ben in risalto il modus operandi delle squadre ed il ruolo della forza pubblica.

Il 10 di gennaio infatti una spedizione punitiva colpì il circolo comunista di Serravalle. Le modalità con cui venne portata a termine svelano un’accurata preparazione e la connivenza delle autorità del luogo. Il comando dei Carabinieri di Pistoia era venuto a conoscenza della possibilità di un’azione simile, prendendo per una volta immediati provvedimenti. Erano stati inviati a Serravalle quattro Carabinieri a cavallo per informare il comandante di quella stazione di intensificare la vigilanza in paese ed allo sbarramento istituito da tempo per impedire, senza grandi risultati, il passaggio delle squadre da e per la Valdinievole. Un altro sbarramento fu predisposto a Pontelungo ed infine veniva inviato un camion di Carabinieri di rinforzo. Tutte queste precauzioni furono inutili. Nella sua relazione il Sottoprefetto dichiarava che «è risultato che elementi giovanili fascisti eransi recati per tempo alla spicciolata per sentieri reconditi a Serravalle ove avrebbero dovuto essere assolutamente fronteggiati da quel Comandante di Stazione dell’Arma il quale aveva a disposizione mezzi più che sufficienti alla bisogna. Senonché il Comandante di quella Stazione il quale, come sovra è detto, era stato debitamente avvertito dalla pattuglia di CC. RR. a cavallo ed aveva disposto servizio sorveglianza dinanzi al circolo comunista, per ragioni assolutamente inesplicabili aveva sospeso il servizio stesso alla mezzanotte. I fascisti di Serravalle e quelli giunti alla spicciolata da fuori colsero tale momento per compiere l’azione» (sottolineature nell’originale).
Il camion dei carabinieri proveniente da Pistoia aveva arrestato sulla strada per Serravalle tre fascisti, di cui uno armato di pistola, e ne aveva avvistati altri diretti a Serravalle che però erano riusciti a fuggire per le vie laterali. Arrivato in paese verso le una di notte l’ufficiale dei Carabinieri al comando dei rinforzi, tenente Simula, constatava l’avvenuta «devastazione del circolo, sulla soglia del quale trovavansi ancora i residui in fiamme delle sedie dei tavoli delle porte e delle finestre». Il tenente constatò «la inesplicabile imprevidenza del servizio disposto dal maresciallo Vannini Umberto, comandante di quella stazione, il quale nel disporre il servizio quella notte non aveva ordinato che il servizio stesso avesse il cambio sul posto». Il capitano Mazzone stabilì che «la devastazione del circolo di Serravalle era stata opera di un gruppo di una ventina di individui i quali giunti verso le ore 23 per un sentiero erto di campagna dal fondo valle ed evitando ogni controllo lungo la strada maestra e quello dello sbarramento, avevano potuto riunirsi non visti da alcuno alle spalle del piccolo fabbricato adibito a circolo comunisti e socialisti del luogo, in località assolutamente deserta», qui aspettarono la fine del turno di guardia dei Carabinieri e «attesa una diecina di minuti circa per dar tempo a questi di far ritorno in caserma, irruppero contro la porta del circolo facendo tutta prima contro di essa una scarica di una ventina di colpi di rivoltella. Quindi abbattuta la porta poco resistente, entrarono nei locali tutto devastando e distruggendo e riunendo poscia i rottami innanzi l’ingresso, appiccandovi il fuoco e dileguandosi poscia per la stessa via dalla quale erano venuti, completamente indisturbati». Il circolo comunista “Umanità Nuova” subì danni per 2.500 lire. Furono arrestati 7 fascisti. I 3 sopramenzionati, Vittorio Franceschini di 20 anni carrozziere, Francesco Vannini di 18 anni studente, Pellegrino Pistoresi e poi Bruno Lorenzoni di 23 anni studente, Antonio Cappelli di 19 anni definito benestante, Riccardo Rosati e Desiderato Rosati. Un telegramma del Sottoprefetto al Prefetto dell’11 gennaio faceva salire il numero degli arrestati a otto, cinque di Pistoia e tre di Serravalle, ma non fornisce i nominativi. Tuttavia già da queste informazioni rileviamo ancora una volta la giovane età degli assalitori e l’interclassismo dei fasci, tutti elementi tipici dello squadrismo.
La devastazione del circolo di Serravalle fu un piccolo tassello nell’ascesa del fascismo nel pistoiese, che tende a scomparire di fronte ai ben più gravi fatti del 1922, con l’uccisione di diversi antifascisti, ma ci permette ci mettere in luce quanto l’ascesa del movimento di Mussolini fosse “resistibile”, se contrastata da chi ne avrebbe avuto la funzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Il paese più rosso d’Italia.

Il paese più rosso d’Italia (2021), edito dalla Betti Editrice, è un volume scritto dal buonconventino Gino Civitelli.  Civitelli è autore di varie pubblicazioni sulla storia locale, sulla Resistenza, sul movimento operaio e contadino. Il libro, redatto da un militante del partito, non è altro che una testimonianza delle vicende del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Senese. In particolare, l’autore cerca di spiegare i motivi del consenso e successo del PCI a Buonconvento, piccolo borgo marginalmente toccato dalla Resistenza che diventò il “paese più rosso della provincia più rossa d’Italia” (p. 11). Attraverso brevi capitoletti, l’autore fornisce una panoramica della storia del PCI dal 1921, anno della sua fondazione, fino la sua dissoluzione nel 1992. In questo modo, Civitelli affronta le più varie tematiche: dalle questioni politiche nazionali (ad. es. il fascismo, il rapporto con il Partito Socialista Italiano, con la Democrazia Cristiana e la Chiesa, la figura di Togliatti e il Compromesso Storico, le Brigate Rosse ecc.), locali (Buonconvento), internazionali (ad. es. il rapporto con gli Alleati nel dopoguerra e con la Russia nel corso del XX secolo), fino a quelle più sociali (ad. es. le donne, i mezzadri, gli operai, le associazioni, ecc.). Il volume, quindi, si muove su un doppio binario ovvero quello cronologico (dal 1921 al 1992) e quello tematico; entrambi si intrecciano fornendo un quadro generale utile a tutti coloro interessati nel conoscere la storia del PCI e nello specifico l’importanza del Partito per Buonconvento e viceversa.

Il libro verte sulla storia di Buonconvento, il rapporto dei buonconventini con il PCI e il consenso che quest’ultimo guadagnò nel paese. Civitelli riconduce il successo del PCI nel territorio, non solo all’antifascismo locale diffuso, in particolare alla mezzadria. Per l’autore, il PCI fu il partito che riuscì a raccogliere la rabbia dei contadini, sintetizzare le rivendicazioni dei mezzadri una volta giunto al potere il fascismo e ricondurle verso gli obiettivi e i miti della Rivoluzione russa. In effetti, mostra come i contadini e gli operai videro nel PCI l’opportunità per raggiungere i propri obiettivi e una prospettiva concreta per il futuro. Secondo Civitelli, Siena era la provincia con la percentuale più alta di mezzadri e Buonconvento il Comune che ne aveva di più (p. 16). È interessante osservare come, attraverso la storia di un paese e del rapporto con il PCI, l’autore riesca a fornire un quadro generale del partito a livello nazionale e internazionale e mostrare quali erano le dinamiche che regolavano e caratterizzavano il partito. Il lettore quindi attraverso una storia micro (Buonconvento) riesce ad osservare una storia macro (la storia del PCI a livello nazionale e internazionale).

Il rapporto micro/macro si osserva anche attraverso i militanti buonconventini e le varie tematiche affrontate da Civitelli nel libro le quali contribuiscono a completare e arricchire il quadro generale della storia del PCI. L’autore, infatti, attraverso le testimonianze degli esponenti locali più noti non soltanto porta alla luce le loro esperienze ma riesce a toccare diversi nodi con valenza più ampia: ad. es. la questione femminile, la propaganda del PCI, la scuola partito, le manifestazioni ecc. In effetti, il libro raccoglie varie testimonianze ed esperienze personali che permettono al lettore conoscere più da vicino il funzionamento del partito e della vita politica e sociale dei singoli individui. Completano il quadro le varie fotografie presenti nel libro che concretizzano l’immaginario di chi legge all’illustrare la realtà così com’era.

Di conseguenza, il libro diventa una vera e propria testimonianza della storia rossa di Buonconvento poiché racchiude parte della vita dello scrittore e di alcuni dei suoi colleghi. Il volume, infatti, verte principalmente sulla conoscenza dell’autore e sulle dichiarazioni o interviste fatte ai suoi pari. Ecco perché tra le pagine del libro, il lettore riesce ad avvertire la posizione e il giudizio, talvolta critico, dell’autore verso il partito di cui ne ha fatto parte. Diventa dunque una valutazione retrospettiva della storia e pertanto rispecchia l’opinione e versione dello scrittore.

In sintesi, Il paese più rosso d’Italia fornisce una panoramica della storia del PCI e della storia di Buonconvento intrecciando la dimensione macro con quella micro lungo la vita del partito e attraverso diverse tematiche. È, quindi, un libro destinato ad un pubblico ampio, interessato nel conoscere la storia del PCI e di Buonconvento attraverso i ricordi, le esperienze, le opinioni dei protagonisti. In questo libro Civitelli ci offre la sua versione.

 




«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?




Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.