Una Toscana fascistissima?

L’11 novembre 2019, presso l’Archivio di Stato di Prato, Alessandro Bicci e Marco Palla hanno presentato il volume di Andrea Giaconi intitolato La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo. In quell’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’autore: proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 

Ha senso parlare di un “fascismo toscano”? Il fascismo ebbe cioè nella regione dei tratti distintivi, in parte diversi da quelli che il movimento presentava a livello nazionale?

Parlare di “fascismo toscano” ha senso nella misura in cui si voglia da una parte sottolineare il ruolo primario svolto dalla Toscana nella conquista e nel mantenimento del potere da parte del fascismo; dall’altra esaltare alcuni tratti che indubbiamente furono comuni all’intera regione. La realtà fascista toscana si distinse sia per una nascita tarda del movimento ma anche per una sua tanto rapida quanto violenta ascesa che nel giro di pochi mesi (tra il dicembre 1920 e il marzo 1921) portò a raddoppiare i fasci e quintuplicare gli iscritti. Fu quello toscano un fascismo “insonne”, combattente, che si segnalò soprattutto come componente essenziale nella scalata al potere del biennio 1921-1922, carico di tutti i miti e i riti squadristi volti a fomentare la violenza contro le opposizioni e a rinsaldare la retorica poi divenuta componente essenziale nel consolidamento del regime. In tal contesto, la regione si allontana soprattutto da realtà (soprattutto nell’Italia meridionale) in cui il fascismo quale fenomeno di massa è un elemento successivo alla marcia dell’ottobre 1922. Eppure, a ben vedere, piuttosto che di “fascismo toscano” è forse più esatto parlare di “fascismo in Toscana”. Toscana che fu, infatti, contenitore di manifestazioni del fascismo tra loro tanto vicine quanto distinte. La non uniformità corografica, economica e sociale della regione si riflesse in una difformità politica che dette vita ad esperienze tra loro assai diverse. Così come la grande mezzadria conviveva con la piccola proprietà e le significative realtà industriali, egualmente la supremazia di ras come Renato Ricci (Carrara) e Carlo Scorza (Lucca) si affiancava ad aree in cui il PNF fu attraversato da vibranti lotte per la conquista della leadership locale (che molto spesso ponevano di fronte opposte visioni del movimento) dalle quali seppero avvantaggiarsi protagonisti (Ciano a Livorno, Sarrocchi a Siena) non immediatamente assimilabili al movimento della prima ora. Infine vi furono pure zone (Prato, Grosseto) in cui larga parte del fascismo fu riassorbita nell’orbita del servilismo agli agrari e all’imprenditoria industriale.

 

Gli industriali e gli agrari toscani appoggiarono senza riserve il movimento fascista durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-22) o è necessario articolare meglio il discorso?

Sicuramente la quasi totalità di industriali e agrari appoggiò il movimento negli anni precedenti alla conquista del potere vedendolo come necessario strumento di repressione contro le richieste provenienti dalle organizzazioni operaie e mezzadrili e dalle organizzazioni tanto socialiste (e poi anche comuniste) quanto cattoliche. Tuttavia, la stessa retorica “rivoluzionaria” della “prima ora” mal si conciliava con le intenzioni di restaurazione dell’ordine (sociale prima ancora che politico) del notabilato e della grande imprenditoria. Ne conseguì un progressivo avvicinamento alle gerarchie di partito e l’istituzione di un sistema clientelare volto ad emarginare l’elemento più sincero del movimento fascista delle origini e delle forze che ne avevano appoggiato la carica radicale attraverso un connubio tra antiche classi dirigenti, le frange più corruttibili del partito e comunque caratterizzate da una pronunciata vena d’arrivismo e una cospicua componente criminale.

 

Quali furono i rapporti fra la massoneria toscana ed il fascismo locale, prima e dopo la marcia su Roma?

Pur distinguendo tra le due principali obbedienze, la massoneria tout court fu uno dei principali punti d’appoggio del fascismo antemarcia. Si può anzi sicuramente affermare che tanto Palazzo Giustiniani (salvo tanto isolate quanto eclatanti eccezioni, come il pratese Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto) quanto Piazza del Gesù fiancheggiarono e finanziarono il fascismo nello stesso evento della Marcia. Di fatto, la visione delle massonerie fu offuscata dalle dinamiche successive al dopoguerra, quando dinanzi alle rivolte del “biennio rosso”, esse intravidero nel fascismo una forza radicale capace di riportare un ordine democratico comunque lontano dalle precedenti consorterie. Fu un tragico equivoco di cui si ravvidero solo dopo l’ottobre 1922 e ancor di più, dopo il febbraio 1923, con la dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Da allora le strade si divisero. Il fascismo tese ad emarginare e ad epurare le proprie componenti massoniche o le obbligò a ripudiare l’istituzione. Dinnanzi a ciò il Grande Oriente si pose progressivamente in opposizione al Partito fascista. La Gran Loggia, almeno nei suoi vertici, si attestò (pur non mancando isolati casi di resistenza) in un piatto ossequio al regime. Ma egualmente non si può ridurre il rapporto tra massoneria e fascismo ad uno scontro tra partito e istituzione. Di fatto, il vincolo massonico (almeno per il fascismo toscano) fu una delle corde sulle quali vibrarono più fortemente le tensioni interne al partito, per l’imposizione di una propria visione politica o anche per la più gretta conquista del potere. Sotto questa prospettiva potevano essere letti gli scontri tra Enrico Spinelli e Dino Philipson (Pistoia), tra Tullio Tamburini e Dino Perrone Compagni (Firenze), tra Bruno Santini e Filippo Morghen (Pisa), tra Dario Lupi e Alfredo Frilli (Arezzo). Le lotte tra obbedienze, la carica antimassonica del partito e la coerenza liberomuratoria, con i dettati della “prima ora”, furono forse i principali motori delle lotte intestine al PNF. Non a caso, la piena normalizzazione e acquiescenza alle direttive del partito si realizza con atti di violenza contro la massoneria, quali le spedizioni squadriste della “notte di San Bartolomeo” (ottobre 1925).

 

E quale fu l’atteggiamento della chiesa?

È ormai noto da tempo come il fascismo adoperasse una distinzione tra struttura ecclesiastica e movimento cattolico. Laddove l’associazionismo bianco era forte e ben radicato (Lucchesia, in alcune zone del Pistoiese e dell’Aretino…), il fascismo non esitò ad utilizzare qualsiasi mezzo per disarticolarne la struttura. Ben diverso era l’atteggiamento verso la gerarchia ecclesiastica, intesa come possibile punto d’appoggio e fattore di legittimazione del regime anche a livello locale. Eppure, non mancarono casi di vescovi toscani come il pistoiese Gabriele Vettori che denunciò le violenze squadriste. Non fu un fatto limitato alla gerarchia: molti parroci si schierarono contro le azioni squadriste e, per questo, ne furono bersagli. Basti pensare che, nei tre mesi precedenti alle elezioni politiche del 1924 quasi quaranta furono i parroci aggrediti tra la Lucchesia e il Pistoiese.

 

Antonio Gramsci ha individuato nella mobilitazione violenta della piccola borghesia contro il proletariato l’elemento caratterizzante del fascismo. Questa analisi è valida anche per la Toscana?

Questo può essere valido solo in parte. Basti pensare che quasi il 40% degli iscritti ai fasci di combattimento era costituito da lavoratori della terra e dell’industria e che un campione di marciatori toscani su Roma ricavato da pubblicazioni coeve abbassa tale percentuale non di molto. Vero è che le cifre si modificarono abbastanza rapidamente quando, una volta al potere, il fascismo si trovò a gestire la redistribuzione dei poteri anche a livello locale. Significativa è infatti la composizione dei primi sindaci fascisti, laddove circa la metà degli eletti (49%) era formata da possidenti e nobili. Si andava così assistendo quasi a un ritorno dei potentati terrieri in un negoziato tra antiche gerarchie e nuovi regimi. Ne riuscivano bilanciamenti dai quali vennero progressivamente escluse le forze riformiste e radicali che pure erano entrate nel “calderone” del primo fascismo (ed ovviamente le organizzazioni “rosse” e “bianche” che al fascismo si erano opposte). Emersero invece il grande interesse, l’opportunismo e, in parte, l’elemento criminogeno e criminale (quest’ultimo poi parzialmente estromesso a seguito della linea epurativa guidata da Augusto Turati successivamente alla “notte di San Bartolomeo”, dell’ottobre 1925).

 

Nella primavera del 1921 un foglio comunista fiorentino ravvisò nei fascisti del Carmignanese “tutta la delinquenza del vasto comune di campagna, assoldata dalla borghesia terriera locale” (L’azione comunista, 21 maggio 1921). Puoi dirci qualcosa a proposito del ruolo dell’elemento criminale all’interno del movimento fascista nella regione?

L’elemento criminale fu una componente che sempre caratterizzò lo squadrismo fascista, prima convivendo con gruppi formatisi in opposizione alle rivolte del cosiddetto “biennio rosso”, ma con sinceri intendimenti radicali e di ritorno all’ordine (ne fu un esempio l’ex-combattente Bruno Santini a Pisa), poi assumendo una rilevanza che fu alla base dei potentati dei ras, delle lotte interne al PNF per la conquista del potere locale, della seconda violenta ondata squadrista. Per comprenderne la consistenza che aveva assunto in alcune zone, basti citare un dato relativo all’adunata squadrista svoltasi nella violenza a Firenze nel dicembre 1924. Su 3.000 fascisti provenienti da Lucca, l’allora prefetto locale Enrico Cavalieri segnalava il coinvolgimento «in atti criminali anche comuni» per «almeno la buona metà» di essi.

 

Il fascismo fiorentino era diviso in due filoni, spesso in contrasto fra loro. Uno faceva capo a Dino Perrone Compagni, l’altro a Tullio Tamburini. Quali erano le principali differenze fra queste due correnti?

La divisione tra Perrone Compagni e Tamburini può essere in larga parte circoscritta a una lotta per la conquista del potere locale. Fascinazioni per le quali le rispettive iscrizioni alle obbedienze massoniche potevano dar adito a uno scontro tra ordini libero-muratori deve necessariamente rimanere sullo sfondo (tant’è che lo stesso Tamburini sarebbe divenuto tristemente famoso per le violenze utilizzate sui suoi stessi “fratelli”). Di fatto, i due schieramenti potevano essere assimilati alle “bande criminali” in lotta per il controllo di un territorio. Il fascismo fiorentino poteva segnalarsi per la propria inquietudine, per gli scontri e per le divisioni interne alle proprie file già nel biennio 1921-1922. Era questo un periodo che vide anche la compresenza di tre fasci fiorentini di cui uno ufficiale e due autonomi. Di questi ultimi due, uno poteva addirittura contare più iscritti del fascio ufficiale. Il prosieguo di tali divisioni doveva molto alla mancata rassegnazione alla sconfitta dei leaders fascisti perdenti. Sicuramente ciò vale per Perrone Compagni, il cui avvicinamento a gruppi dissidenti come la nota “Banda dello sgombero” o all’esperienza dei Fasci nazionali, deve necessariamente essere letta quale sostegno all’azione antitamburiniana in prospettiva di un ritorno al potere.

 

Tullio Tamburini era un pratese. Cominciò la sua carriera come squadrista e la concluse come capo della polizia della Repubblica di Salò. Vuoi parlarci brevemente di lui?

Di Tamburini, nato a Vaiano, allora frazione del comune di Prato, hanno scritto diffusamente molti storici del fascismo, eppure ancora oggi manca una biografia che ne inquadri il percorso. Già membro attivo dell’interventismo pratese al tempo della guerra di Libia, ex impiegato alla Forti, grande industria tessile della Valle del Bisenzio, si era ridotto a vivere d’espedienti. Nota è la sua attività di calligrafo, creando biglietti da visita o per eventi quali nozze e battesimi. Combattente decorato durante il primo conflitto mondiale, fu segnalato per furto e appropriazione indebita. Si evince sin da ora come Tamburini fosse un personaggio per lo meno contiguo all’elemento criminale dal quale il fascismo attinse una parte non trascurabile dei propri appartenenti. Iscrittosi al fascio di combattimento fiorentino già nel 1919, egli fu protagonista della scissione tra i due fasci fiorentini, divenendo uno dei più diretti responsabili delle violenze che imperversarono tra il 1921-1922. Espulso per indisciplina nel marzo 1922 dal PNF, non tardò a rientrarvi, guidando la piazza di Firenze nei giorni della Marcia e dirigendosi egli stesso a Roma a capo della prima legione fiorentina. Negli anni seguenti Tamburini fu, nonostante le frizioni con Perrone Compagni, a capo del fascismo fiorentino, gestendo le reti delle bische clandestine e di altre attività criminose nel capoluogo toscano. Lo fece attraverso la violenza e legami clientelari che gli permisero di uscire indenne dagli scontri interni al fascismo fino almeno al 1925. Di questi anni sono per lo meno da ricordare le violente spedizioni del dicembre 1924 e dell’ottobre 1925. Quest’ultima, di carattere ferocemente antimassonico, fu identificata come la “notte di San Bartolomeo” e chiuse di fatto il cerchio sugellando la formazione del regime. Fu proprio però per tali recrudescenze e per il ripetuto ricorso all’illegalità che Tamburini fu allontanato dalla Toscana e inviato in Libia. Da qui egli tornò prima come ufficiale della Milizia forestale di Trento e poi come prefetto del regno nelle sedi di Ancona, Avellino e Trieste. Aderì alla RSI, di cui fu capo della polizia. Coinvolto in un losco  giro di appropriazioni indebite anche a danno di altri gerarchi, fu arrestato e inviato nel campo di concentramento di Dachau nel reparto riservato ai criminali comuni. Liberato dalle truppe alleate, fu processato e condannato a sei anni di carcere ma, in seguito, amnistiato. Espatriato in Argentina, dal paese sudamericano inviò finanziamenti al Movimento sociale italiano. Tornato in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, Tamburini morì a Roma nel 1957. Di fatto può essere identificato come il volto del più brutale squadrismo e allo stesso tempo uno dei protagonisti non troppo secondari del consolidamento del regime.

 

Renzo De Felice distingue un “fascismo movimento”, che avrebbe avuto in sé una carica in qualche modo innovativa, da un “fascismo regime”, risultato di una serie di compromessi con i centri di potere tradizionali. Questa distinzione è valida anche per la Toscana?

La distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” ha alcune sue basi anche in Toscana, a patto di non considerare una divisione netta tra le due parti. In realtà gli anni del “movimento” furono segnati da pesanti infiltrazioni ed importanti interessi da parte dei centri tradizionali del potere e, anche alla luce di tali vincoli tra fascismo e potentati locali, si può ben dire che la compresenza delle due componenti fosse all’origine delle lotte interne per il controllo del territorio e del partito. Lotte che, di fatto, si intensificarono in momenti apicali di scontro ma, paradossalmente, anche di coalizione tra le componenti del PNF, quali le fasi di campagna elettorale. A ben vedere, le svolte elettorali se da un lato amplificarono e inacerbirono gli scontri interni, dall’altro furono capaci di riassorbire i malumori e di catalizzarli verso gli avversari politici. In sintesi, in Toscana questi due tipi di fascismo coesistettero con svariate sfumature in base alla zona considerata e, proprio tale compresenza fu alla base delle lotte che caratterizzarono gli anni compresi tra il 1922 e il 1925.

 

Nel tuo lavoro si parla anche della tristemente nota “notte di San Bartolomeo” fiorentina. Siamo nell’ottobre del 1925. Che bilancio si può fare dei primi tre anni di dominazione fascista in Toscana?

La “notte di San Bartolomeo” (il 3 ottobre 1925) fu un punto di svolta dopo il quale non fu più possibile un’opposizione al fascismo da parte dei suoi avversari. Né tantomeno fu più possibile un dissenso interno al PNF. È da tale svolta violenta che, di fatto, giunge a maturazione il regime in Toscana. Prima di tale evento non è giusto parlare di “dominazione” quanto piuttosto, parafrasando l’ormai classico studio di Lyttelton, di conquista e di consolidamento del potere. Conquista che avvenne non solo con la violenza delle spedizioni squadriste ma con un ripetuto esercizio retorico ed evocativo di miti e ritualità volti da un lato a cementare le file interne del partito e dall’altro ad emarginare gli avversari esterni. Per cui, il computo finale di quei tre anni trascorsi tra la Marcia e la nascita del regime non può esimersi da notare che in Toscana si manifestarono per intero ed assai pronunciate le tensioni interne al PNF post-marcia. Esse non permisero di definire il fascismo come un dato definitivo quanto piuttosto come un oggetto politico in divenire, alla ricerca di una sua compiutezza, acquisita solo attraverso la totale eliminazione delle voci discordi. E questo lo si ebbe solo col 1925. Era in definitiva la nomalizzazione.

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




BANCA E GUERRA.

Nel 1914 il Monte dei Paschi di Siena – organizzato in Sezione Centrale, Credito Fondiario, Monte Pio, Cassa di Risparmio – era un istituto di credito di livello regionale – 19 succursali, 11 affiliate e 5 agenzie – che con preoccupata prudenza guardava all’eventualità della guerra, anche perché non aveva interessi di rilievo nei settori della cantieristica e degli armamenti, quegli stessi interessi che spingevano importanti ambienti della finanza italiana a farsi sostenitori convinti di politiche imperialiste e belliciste.

A conflitto deflagrato, il momento più difficile che la banca senese dovette affrontare nell’intero arco della durata fu proprio quello inziale a causa dell’onda generale di panico fra i risparmiatori seguita all’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia e al rapido estendersi dei combattimenti su diversi fronti. Anche agli sportelli del Monte dei Paschi si assieparono i clienti per riavere i propri soldi, cosicché i rimborsi, nei mesi di agosto e settembre 1914, superarono i versamenti.

Al fine di non alimentare ulteriormente la spirale della sfiducia, la direzione della banca scelse di applicare con elasticità il decreto governativo che limitava al 5% i rimborsi e di lasciare intatta la disponibilità a Province, Comuni, Opere Pie, fin quando, già a ottobre, rinunciò alla limitazione.

La strategia risultò premiante. Mentre i depositi fiduciari delle Casse di Risparmio di Firenze, Verona, Bologna, e di molti istituti di credito più piccoli, fra cui la Banca Popolare di Montepulciano e la Cassa Rurale di Volterra, videro, alla fine dell’anno, una sensibile diminuzione, quelli del Monte dei Paschi fecero registrare il segno più.

La crescita dei depositi, per quanto falcidiata dall’inflazione, sarebbe proseguita anche negli anni successivi per effetto sia dell’aumento della massa monetaria circolante deciso da governo e Banca d’Italia per far fronte allo sforzo bellico, sia dei risparmi provenienti dall’economia di guerra con le commesse per l’esercito che dalle industrie giungevano a pioggia fino agli artigiani, con le anticipazioni di capitali e i rapidi pagamenti da parte dello Stato, con l’occupazione femminile in luogo degli uomini richiamati al fronte che portava reddito inaspettato a molte famiglie, ed infine con i provvedimenti assistenziali che, nel medio periodo, se non migliorarono le condizioni di settori non secondari di strati popolari senesi, ne contennero tuttavia l’impoverimento ulteriore, come pare indicare il fatto che, durante la guerra, i pegni al Monte Pio – la sezione del Monte dei Paschi addetta a questo tipo di prestito – subirono una decremento.

A migliorare furono anche gli utili e gli indici di rendimento sia dell’attivo che del patrimonio, in un contesto che vide il Monte dei Paschi cambiare il profilo del suo portafoglio. Fin dal 1915 entrò a far parte del gruppo di duecento istituti bancari che costituirono il Consorzio di garanzia per i prestiti nazionali – sarebbero stati cinque – ed accrebbe progressivamente la quantità di titoli pubblici in proprio possesso rispetto ai mutui a privati che risultarono in calo. Il prestito di soldi allo Stato divenne dunque il principale settore di impiego e si rivelò l’affare più remunerativo, anche se esposto al rischio della possibilità che la guerra si concludesse in modo infausto per l’Italia con conseguente disastro economico e finanziario.

L’andamento dei conti di bilancio dette fiducia e consentì addirittura di osare il superamento dei confini regionali aprendo una sezione del Credito Fondiario a Roma al fine di partecipare al finanziamento della bonifica dell’agro romano.

Con le comunità locali – senese e grossetana – il rapporto della banca rimase forte e si adattò progressivamente a far fronte alla solidarietà che le vicende belliche richiedevano, destinando però le donazioni, più che ai vari comitati sorti a favore dei soldati al fronte, delle loro famiglie, dei feriti, dei mutilati, degli orfani, dei profughi in arrivo dalle terre redente e poi da quelle invase, alle amministrazioni comunali e provinciali, individuate come i soggetti istituzionali più adatti a ricevere risorse a scopo benefico.

Sul versante dell’assetto interno, rimanendo saldo il controllo da parte di un ceto dominante composto da nobiltà e da notabilato borghese, il Monte dei Paschi vide l’ascesa alla carica di Provveditore – l’avrebbe mantenuta fino al 1936; poi Presidente fino al 1944 – di Alfredo Bruchi, un avvocato grossetano all’epoca legato ad ambienti politici del liberalismo e del mondo cattolico. Fu Bruchi che, per riassumere l’andamento della banca nelle drammatiche incertezze della guerra, così si espresse: “A somiglianza di ciò che avviene nel mondo biologico, solo gli organismi forti e sani possono vittoriosamente resistere alle crisi che le minacciano. A questa categoria di organismi dimostrò di appartenere il nostro Monte”.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Per una storia del movimento politico cattolico livornese

Pierangelo Zari (1917-2006) ha avuto un ruolo importante nella storia del movimento politico cattolico livornese, ma non ha avuto certamente una posizione di primissimo piano. Lo troviamo tra il ristretto gruppo di livornesi che il 22 luglio 1944, tre giorni dopo la liberazione della città dal nazifascismo, diede vita alla prima sezione della Democrazia Cristiana livornese. Fu poi segretario amministrativo della DC livornese negli anni ’50, consigliere provinciale dal 1956 al 1960, assumendo un ruolo pubblico defilato, ma mosso da interessi variegati, che lo mise in contatto con tanti ambienti della cultura e del potere cattolico: lavorò per lunghi anni alla Cassa di Risparmi di Livorno, fu governatore dell’Arciconfraternita Misericordia, consigliere dell’Istituto Case Popolari, console del Touring Club italiano. Eppure, oggi possiamo dire che quella di Zari è una figura fondamentale per la storia della Democrazia Cristiana livornese, e in generale, per la storia della cultura cattolica a Livorno. Perché Zari nel corso della sua vita è stato una sorta di archivista autodidatta conservando tra le mura domestiche un patrimonio documentario molto interessante relativo non solo alla storia del partito democristiano e della cultura cattolica livornese, ma più in generale alla storia politica e sociale, locale e nazionale a partire dagli anni del fascismo.

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Le carte appartenute a Zari fanno luce in particolare sull’attività del partito democratico cristiano tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50: oltre alla corrispondenza con la sede centrale e con le varie sezioni zonali, tra i suoi documenti si trovano anche dettagliate relazioni sulla gestione economia del partito e dati e commenti relativi alle varie tornate elettorali. La famiglia Zari ha poi conservate carte riguardanti l’attività dell’associazionismo cattolico livornese degli anni ’30 e ’40 e degli anni del dopoguerra. Ma la passione di Zari per libri, giornali, riviste lo ha portato ad accumulare un patrimonio che va ben oltre il movimento cattolico: si va dalle pubblicazioni e riviste della propaganda fascista, relative all’attività politica, alla politica scolastica, ai costumi sociali, all’attività dell’Ovra, alla propaganda di guerra. Fino alla pubblicistica varia prodotta dalla Democrazia Cristiana (riviste, opuscoli, materiali di propaganda) e ad alcune collezioni di riviste locali molto rare come il settimanale diocesano livornese “La Domenica” di fine anni ’30.

Il patrimonio di Pierangelo Zari, grazie alla disponibilità della sua famiglia, è stato oggi raccolto e depositato presso l’Istoreco Livorno, come parte fondamentale di un fondo archivistico dedicato al movimento politico cattolico livornese costruito con la collaborazione dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Il progetto ideato dall’Istoreco e dall’Istituto Sturzo ha inteso rispondere ad una problematica di natura archivistica molto comune per quanto riguarda la storia della Democrazia Cristiana: come è accaduto in molte parti d’Italia, la fine non indolore della DC alla metà degli anni Novanta ha significato a Livorno e provincia una dispersione del suo patrimonio documentario: nessuno cioè si è preoccupato di salvaguardare l’archivio del comitato provinciale e comunale della DC di Livorno che dunque si è disperso in mille rivoli. Si è dunque provato a dar vita ad una operazione di “salvataggio” di carte e materiali che documentano la storia politica e culturale dei cattolici di Livorno attraverso una attività di indagine volta a scoprire se e dove questa documentazione potesse ancora trovarsi.

L'insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell'ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

L’insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell’ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

Ciò che ne è risultato è la costituzione di una sorta di archivio provinciale del movimento politico cattolico livornese, depositato all’Istoreco, strutturato come raccolta di tanti piccoli o grandi fondi privati. Si tratta di un progetto che, oltre ad esser parte integrante dell’articolata operazione varata dell’Istoreco sulla conservazione degli archivi politici, si inserisce all’interno di un progetto nazionale di lungo periodo che l’Istituto Sturzo ha dedicato agli archivi locali. Il progetto “Archivi locali in rete”, cominciato nel 2001, consiste nel recupero degli archivi delle organizzazioni periferiche della Dc (al momento sono stati recuperati 18 archivi di Comitati Provinciali e 5 archivi di Comitati regionali) e nella creazione di un sistema nazionale di informazione sulle fonti archivistiche relative alla storia della Democrazia Cristiana. La novità del progetto livornese sta nel fatto che si tratta del primo caso di costituzione di un archivio come raccolta di fondi privati. Un metodo che ha ricevuto anche l’appoggio della Soprintentenza Archivistica della Toscana che lo ha definito «meritevole del più ampio sostegno», sostenendo che «il tipo di intervento è […] scientificamente valido e ben disegnato, ed è probabilmente l’unico modo per arrivare ad un recupero il più possibile ampio di questa memoria storica».

Grazie a questa operazione oggi il fondo archivistico del movimento politico cattolico livornese conservato all’Istoreco ammonta a circa 200 buste, provenienti da 12 fondi distinti. Oltre alle carte Zari, sono in particolare da segnalare i documenti depositati da Enrico Dello Sbarba – che fu segretario della DC livornese alla metà degli anni ’70 e che ha avuto un ruolo essenziale nelle fasi iniziali di ideazione del progetto Istoreco-Sturzo – e il fondo della Sezione DC di Campiglia Marittima (Livorno). Quest’ultimo fondo, in particolare, si distingue, insieme alle carte Zari, per la consistenza e il valore della documentazione conservata: grazie ad una operazione di “salvataggio” particolarmente fortunata è stato infatti possibile recuperare buona parte dei materiali (tutti destinati al macero) che documentano l’attività della sezione campigliese della DC dal 1945 al 1994 e quella relativa all’attività del Partito Popolare e della Margherita (regolamenti, statuti comunali, verbali di sezione, protocolli di sezione, carteggi e manifesti).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.




Gli ebrei senesi tra le leggi razziali e il secondo dopoguerra

La comunità ebraica senese era una delle più antiche e integrate dell’intero territorio nazionale. A differenza di altri gruppi di correligionari, sparsi in varie aree d’Europa, gli israeliti senesi avevano superato con poche burrasche il medioevo e l’età moderna. La prima grande catastrofe era avvenuta in piena età napoleonica con il pogrom devastante del 28 giugno 1799, in seguito al quale 19 persone avevano perso la vita e 200, su un totale di 500, avevano preso la via dell’esilio. Coloro che decisero di rimanere ricostruirono con tenacia le proprie case e la sinagoga costituendo, negli anni a seguire, una parte vivace della vita sociale, politica e economica della città[1].

La Sinagoga di Siena

Un nuovo sconvolgimento si profilò quando, a partire dal settembre del 1938, la politica razzista di Mussolini, già presente nelle colonie ai danni delle popolazioni autoctone, venne estesa anche agli italiani di religione ebraica e ciò causò un sensibile peggioramento della vita di molti israeliti senesi. Una delle prime misure adottate (ancor prima dell’emanazione della prima legge razziale italiana[2]) fu il censimento degli ebrei disposto dalla Direzione generale per la demografia e la razza l’11 agosto 1938[3].

I dati ricavati rivelano che al momento dell’emanazione delle disposizioni antisemite, sul territorio senese vivevano 235 ebrei, più o meno tutti appartenenti alla piccola media borghesia. Le prime vittime della discriminazione furono una ventina di ebrei stranieri che studiavano presso la locale università; questi ultimi furono costretti ad abbandonare gli studi e venne loro impedito di trovare un lavoro.

Il successivo giro di vite colpì gli stessi ebrei senesi che furono costretti a lasciare scuole (sia in qualità di insegnanti, che di studenti nonché impiegati) e i posti di lavoro presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi[4].

Lo smantellamento dei diritti degli ebrei italiani procedeva spedito pur concedendo alcuni trattamenti di favore a coloro che, agli occhi del regime, avevano acquistato determinati meriti come l’essere familiari di caduti nelle guerre di Libia, mondiale, d’Etiopia e di Spagna; dei caduti, feriti e mutilati per la «causa fascista» oppure coloro che si erano iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-22 e nel semestre successivo al delitto Matteotti nonché i legionari fiumani[5].

Dopo la dignità di un posto di lavoro o di un banco di scuola il fascismo decise di colpire i patrimoni e in base al Regio decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126, si previde, per quanto riguarda i beni immobili appartenenti agli ebrei, di individuare una quota di proprietà consentita, calcolata in base alla rendita catastale, ed una eccedente destinata a essere incamerata dall’erario che, come indennizzo, avrebbe dovuto rilasciare un certificato trentennale con un interesse al 4%[6].

In questa prima fase soltanto una persona subì una confisca a Siena[7], ma il peggio doveva arrivare e ciò sarebbe avvenuto ben presto. Dopo l’8 settembre, con

l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale italiana, la persecuzione fascista dei diritti conobbe la sua tragica evoluzione in persecuzione delle vite[8]. La comunità israelitica senese ebbe il secondo pogrom della sua storia con il rastrellamento della notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, quando 15 ebrei vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento da cui soltanto una farà ritorno[9]. Fortunatamente, molti israeliti vennero avvertiti in tempo e poterono mettersi in salvo nascondendosi presso amici o enti religiosi, ma la persecuzione non si fermò nemmeno davanti a questo abbattendosi sistematicamente sui loro beni: le autorità fasciste repubblicane, nello spazio di pochi mesi, disposero il sequestro di 26 immobili[10], alcuni dei quali vennero persino saccheggiati.

Con il passaggio del fronte e la liberazione della città, avvenuta il 3 di luglio del 1944, pian piano la situazione tornò alla normalità e gli ebrei che si erano salvati poterono tornare alle loro case ma in molti casi, ad attenderli, avrebbero trovato amare sorprese. Quegli imprenditori le cui aziende erano state espropriate e affidate a amministratori nominati dalle autorità, al loro ritorno, trovarono la richiesta di corresponsione delle imposte che, pur avendo intascato gli utili, gli amministratori non avevano versato[11]; altre famiglie trovarono le loro case occupate da inquilini o depredate.

Emblematica la testimonianza di Edmea Forti Castelnuovo[12], il cui marito, Aldo, gestiva un negozio di stoffe insieme al fratello Geremia. Dopo la loro fuga, avvenuta nelle ore immediatamente precedenti il rastrellamento del 5-6 novembre, il negozio e il magazzino vennero depredati, l’appartamento espropriato per ordine del Capo della Provincia e ceduto dall’Egeli[13] a un ufficiale dell’esercito.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

I Castelnuovo, in seguito alla liberazione di Siena e alla revoca dei provvedimenti di confisca emanati dal Governo dell’Italia liberata[14], decisero di tornare in città per riprendere, per quanto possibile, la loro vita normale; tuttavia, al loro arrivo, scoprirono che l’attività non esisteva più e che la casa era occupata; ma non era tutto. Al momento della restituzione dell’immobile, un solerte funzionario dell’Egeli richiese, a Aldo Castelnuovo, il pagamento dell’indennità di gestione delle sue proprietà nella misura applicata ai sudditi nemici. Di fronte a quell’affermazione, racconta il figlio Renzo, Castelnuovo, che solitamente era un uomo mite, sbottò con forza. Non era stata, a ferirlo, la richiesta di pagare un’indennità a chi gli aveva portato via la casa costringendolo a fuggire, quanto il fatto di essere trattato come un nemico dell’Italia[15].

 

[1] Cfr PAVONCELLO N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, scritti in memoria di A. Milano in «Rassegna mensile d’Israele», 1970, pp. 289-313.
[2] Il Regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.
[3] CIONI P., MASOTTI F., MATTEI L., 1938-1944 documenti, storie e memorie. Gli ebrei senesi raccontano, Siena, Nuova Immagine editore, 2010, p.27
[4] Ivi p.35
[5] Cfr. Regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
[6] Regio decreto 27 marzo 1939, n. 665, art. 13.
[7] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[8] Cfr. SARFATTI M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, capp. IV e V.
[9] Cfr. VALECH CAPOZZI ALBA, A24029, Siena, Soc. anonima poligrafica, 1946.
[10] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[11] Voci di carta. Le leggi razziali nei documenti della città di Siena. Catalogo della mostra documentaria. Archivio di Stato di Siena 26 ottobre 2018 -31 gennaio 2019, a cura di Cinzia Cardinali, Anna Di Castro, Ilaria Marcelli, Pisa, Pacini editore, 2019, p.103.
[12] Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Multimediale, dvd 58, Edmea Forti Castelnuovo.
[13] Acronimo di Ente Gestioni e Liquidazioni Immobiliari; era l’istituto incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei e ai cittadini di Paesi nemici. L’Ente, per operare sul territorio della Toscana, aveva stipulato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena. Cfr Atti della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, «Rapporto generale», aprile 2001, http://presidenza.governo.it/DICA/beni_ebraici/.
[14] Cfr Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» e Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 26 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica».
[15] 1938-1944. La politica razziale del regime fascista a Siena, documentario di J. Guerranti, Siena 2014, https://www.youtube.com/watch?v=v_4FXd6N-4w

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.




Il 1917 in Toscana

Il 1917 è stato un anno di svolta generale nella storia della prima guerra mondiale. Eventi eccezionali come la rivoluzione russa, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel conflitto, la gravissima crisi alimentare e la rotta di Caporetto sottoposero a molteplici ansie e a notevoli sfide i “fronti interni”, intensificando il senso di stanchezza verso le condizioni sempre più dure imposte dallo stato di guerra.

L’Italia, come la Germania e la Russia, fu uno dei paesi maggiormente interessati dalla cosiddetta “crisi dei fronti interni”. Dopo quasi due anni di rassegnazione o di proteste sommesse, in tante aree del paese riesplosero tensioni che riportavano con il pensiero a due anni prima, ai momenti più caldi delle mobilitazioni che avevano preceduto il tardivo e osteggiato ingresso del Regno dei Savoia nel conflitto.

In tale contesto conflittuale, la Toscana è stata tradizionalmente percepita come un territorio assai coinvolto da quella nuova esplosione di agitazioni e proteste espressione del disagio popolare verso il conflitto. Una fama legata un po’ alla leggendaria notorietà di alcuni episodi, come la grande marcia per la pace delle donne della Valle del Bisenzio del luglio 1917 guidata da Teresa Meroni, in parte a quanto messo in luce dagli esiti di alcuni sporadici e specifici studi o ancora al vivo ricordo delle forti e spesso radicali proteste antinterventiste del periodo della neutralità che avevano agitato non poco i sonni delle autorità in tutta la regione. Questa impressione è ampiamente confermata adesso da una mappatura organica di quel ciclo di manifestazioni di rivolta, e delle variegate forme che esse assunsero, effettuata da un recente volume promosso dalla rete degli Istituti toscani della Resistenza e curato da Roberto Bianchi e da Andrea Ventura dal titolo Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali. Il testo affronta infatti il tema in maniera ampia, grazie a un complesso di saggi di vari autori dedicati alle diverse province della regione (da Massa Carrara a Lucca, da Pisa a Livorno, dall’area pratese e pistoiese alle zone rurali del territorio fiorentino, maremmano, aretino e senese).

La geografia delle proteste finì effettivamente per abbracciare l’intera regione, e per coinvolgere, dal punto di vista ambientale e socio-economico, aree urbane e medie cittadine, ma anche borghi di campagna e realtà rurali in cui forse per la prima volta risultarono scossi i consolidati equilibri della “pace sociale” garantita dal proverbiale regime mezzadrile. Lotte operaie in grossi centri urbani come Livorno si intrecciarono dunque con grandi e piccole mobilitazioni contadine come quelle ad esempio di aree tipicamente mezzadrili quali Greve o San Casciano nel Chianti.

Teresa Meroni, fine anni ’20.

Dal punto di vista della composizione sociale, la crescente conflittualità vide assai attivi le donne e i ragazzi, che come la storiografia sul primo conflitto mondiale ha largamente messo in luce furono un po’ ovunque i soggetti privilegiati delle mobilitazioni avvenute a conflitto in corso. Nella Toscana del 1917 tali soggetti diedero vita a un’estate particolarmente «incandescente» in tante realtà del contado pisano, dove grossi opifici artigianali che impiegavano numerose operaie coabitavano con la perdurante centralità del mondo agricolo, e per intensità e durata il fenomeno della protesta femminile investì in maniera significativa e con diversi episodi di mobilitazione anche diversi comuni interni e costieri della provincia di Massa-Carrara. Un’altra zona calda di forte attivismo delle donne in piazza contro la guerra furono il circondario pistoiese e quello immediatamente confinante del pratese che si segnalarono in particolare per la diffusione e il successo delle cosiddette “marce della pace” che si svolsero nel corso dell’estate. A ruota del particolare protagonismo di queste aree, il fenomeno non mancò però di di lambire contesti per tradizione ritenuti politicamente assai più quieti come la città di Lucca, dove a distinguersi furono le agitazioni delle numerose sigaraie della grande Manifattura tabacchi cittadina, o spaccati esemplari della placida Toscana rurale come appunto il Chianti fiorentino o località della profonda campagna senese. Queste agitazioni fortemente connotate in chiave di genere e generazionale, cominciate a inizio anno con petizioni e preghiere alle autorità, presero nel corso delle settimane la forma di presidi di fronte a palazzi ed uffici delle istituzioni e si radicalizzarono nei mesi a venire con veri e propri cortei e manifestazioni contrassegnati da grida ed espliciti slogan contro la guerra, spesso animati da centinaia di popolane e fanciulli e che giunsero in molti casi a infrangere con fare minaccioso l’ordine costituito e a scontrarsi apertamente con la forza pubblica. Arresti e processi colpirono numerose partecipanti a queste azioni e con particolare durezza alcune delle leader riconosciute delle proteste; esemplare in tal senso il destino di Teresa Meroni, la sindacalista milanese attiva da un paio di anni nel pratese e postasi a capo degli scioperi e delle marce nella Valle del Bisenzio che prontamente punita con diversi mesi di carcere e una cospicua multa fu poi internata in Garfagnana fino al termine della guerra.

Laddove vi erano numerosi, grazie al vasto operare del meccanismo degli esoneri per la presenza di fabbriche di interesse bellico dichiarate “ausiliarie”, anche gli operai maschi non si astennero altesì dal prendere sempre più parte col trascorrere dei mesi a episodi di protesta. Emblematico da questo pinto di vista il caso di una delle non molte realtà a forte industrializzazione della Toscana dell’epoca come quella livornese. Negli stabilimenti militarizzati del capoluogo o del polo siderurgico di Piombino si assiste infatti a un escalation di proteste culminate nella seconda metà dell’anno in grandi e massicci scioperi, pur vietati dal regime di guerra, e in eclatanti forme di rifiuto della propaganda patriottica e antidisfattista imposta dopo Caporetto; spicca in proposito il caso delle conferenze patriottiche inaugurate a fine anno in pompa magna nei grandi stabilimenti del proprio cantiere dai fratelli Orlando e sospese nel giro di un solo mese per l’ostinata, massiccia e “imbarazzante” diserzione opposta ad esse da parte delle maestranze operaie.

Per quanto concerne le caratteristiche e le forme della protesta antico e moderno si mescolarono, consueti bisogni e nuove idealità si sovrapposero. Così a deferenti istanze verso le autorità superiori e a tumulti spontanei per il pane, ad atti di ostruzionismo e di sabotaggio che attingevano al tradizionale repertorio della protesta popolare, si associarono sempre più pratiche d’azione più avanzate quali scioperi, cortei di protesta e altre agitazioni in cui non mancarono occasionalmente di fare capolino segnali o simboli di espresso carattere politico (di intonazione pacifista e rivoluzionaria), che contribuirono a un mutamento del clima generale con cui le autorità e la società in guerra furono chiamate a fare i conti.

Del resto a lungo la storiografia è stata incline a considerare le dimostrazioni contro la guerra del primo conflitto mondiale quali espressioni di protesta frutto di un’istintiva reazione popolare a un concreto disagio economico e sociale (l’assenza di mariti e fratelli, carichi di lavori insostenibili, il carovita, l’insufficienza dei sussidi). Rivolte per il pane a cui è stata fondamentalmente negata ogni valenza politica di fondo. In realtà nei grandi stabilimenti cantieristici e metallurgici di Livorno, ma anche fra le “fabbrichine” del pisano, o fra le lavoratrici del pratese dietro i comportamenti che segnavano una presa di distanza dallo sforzo di mobilitazione interna trame e movimenti – ma finanche gesti simbolici – di natura politica, come affiora da alcune delle pagine del libro, appaiono largamente riscontrabili. Sembra peraltro di osservare nel corso dei mesi un mutamento di tono dello stato della protesta in cui il semplice rifiuto della guerra quale aspirazione al ripristino del tradizionale ordine di cose si trasforma sempre più in richiesta ed esplicito desiderio di pace, percepita quale un orizzonte ideale nuovo e alternativo rispetto al presente.

Non un’effervescenza prodotta da uno stato di bisogno dunque, ma qualcosa di più profondo e radicato pare muoversi dietro il disagio e le tensioni. Un altro aspetto di parziale novità che pare affiorare dagli spunti offerti dalle ricerche di questa recente mappatura, rispetto alle consuete conclusioni della storiografia sulla protesta, è non a caso l’emergere di una scansione temporale variegata delle agitazioni che non sempre mostrano una ciclicità lineare nei diversi territori. Dopo il picco del 1917 infatti non dappertutto si registra un rapido riflusso della conflittualità fino alla scomparsa delle lotte e delle inquietudini dell’anno precedente, ma il fenomeno conflittuale non sempre si spegne e tenderà semmai a saldarsi con le agitazioni e le rivendicazioni dell’immediato dopoguerra e più avanti ancora del “biennio rosso”.

*Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nel settembre del 2019.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




Luglio 1919: lo “scioperissimo” di Livorno.

Dopo i moti popolari del caroviveri esplosi anche a Livorno dal 5 all’8 luglio 1919, la situazione degli approvvigionamenti in città si mantiene, ancora per settimane, problematica, pur senza registrare ulteriori gravi incidenti.

D’altronde lo stato, endemico, di tensione era stato segnato, all’inizio del mese, dal Prefetto Gasperini al ministero dell’Interno (P. Ciccotti, 2014):

Devesi poi tenere presente che Livorno conta oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze diverse .

Nelle cronache giornalistiche di quei giorni, si continua a leggere l’elenco aggiornato degli esercizi saccheggiati assieme alle disposizioni del calmiere istituito dalle autorità cittadine.

Da parte delle istituzioni, infatti, si opera per abbassare la tensione mentre la Prefettura cerca di vigilare sui prezzi e promuove la costituzione di una Commissione annonaria, alla quale però la Camera del lavoro non aderirà («La Gazzetta livornese», 29-30 luglio; «La Parola dei Socialisti», 2 agosto 1919).

Passata la burrasca, il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro, dopo aver profuso i propri sforzi nel ”governare” tumulti ed espropriazioni, dedicano il proprio attivismo e cercano d’indirizzare il malcontento popolare verso l’atteso sciopero internazionale del 20-21 luglio «in difesa delle repubbliche sovietiche ed ungherese», sciopero “rivoluzionario” al quale aderisce anche l’Unione Sindacale Italiana.

Sull’«Avanti!» del 7 luglio viene annunciato in prima pagina: «Tutto il mondo del lavoro incrocierà le braccia il 20 e il 21 corrente. Il movimento popolare induce finalmente il governo a provvedere contro il caro-viveri» e, nell’articolo a commento della proclamazione dello sciopero, è possibile leggere un tentato collegamento tra la questione – sociale – dei moti contro il carovita e le motivazioni politiche internazionali dello sciopero, presentandolo come un momento di riscossa «verso la totale emancipazione».

Le aspettative per l’inizio di una sollevazione sociale vengono però escluse dal Consiglio generale della CGdL tenutosi a Bologna il 13 e 14 luglio e, quando a Livorno la decisione confederale di non dare carattere insurrezionale allo sciopero viene riportata nel Consiglio delle Leghe, «parecchi anarchici e socialisti ufficiali [massimalisti], nonché un repubblicano, inveirono violentemente contro i capi della Camera del lavoro, perchè essi ritenevano che fosse giunto il momento dell’azione» (L. Tomassini, 1990).

Ad ogni buon conto, il Prefetto si prepara al peggio, temendo che la piazza sfugga di nuovo al controllo riformista, e con un manifesto alla cittadinanza comunica il suo «fermo intendimento di reprimere ogni violenza, ogni eccesso, ogni attentato alla libertà e alla sicurezza civile» («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Nello stesso giorno, il rappresentante del governo sospende la circolazione di auto, camion, motociclette, così come la vendita di benzina. Inoltre, l’autorità di PS esegue una «retata» di circa ottocento (800!) «individui sospetti di ambo i sessi», preventivamente arrestati e internati in Fortezza Vecchia e in Fortezza Nuova («La Gazzetta Livornese», 22-23 luglio 1919).

Pochi giorni prima, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, erano stati già arrestati sette noti militanti anarchici (Aristide Colli, Oreste Piazzi, Augusto Consani, Libero Masnada, Turiddo Giuseppe Carlotti, Dante Nardi) per «procedimenti politici» in relazione ai moti del caroviveri («Il Telegrafo», 23 luglio). Considerata la vicinanza al Mercato centrale della sede del Fascio operaio di via dei Cavalieri, è presumibile che si volesse criminalizzare i suoi aderenti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, indicandoli come i responsabili dei saccheggi.

Alla vigilia alla mobilitazione, i diversi sodalizi politici e sindacali si riuniscono e prendono posizione, per lo più a favore dello sciopero. Particolarmente animata deve essere stata l’assemblea dell’Unione repubblicana livornese dopo che, fin dal marzo precedente, si erano registrate forti divergenze verso l’atteggiamento da assumere nei confronti degli scioperi socialisti, fermo restando l’«essere all’avanguardia di qualsiasi movimento per incanalarlo ai fini politici e sociali del partito stesso» (C. Scibilia, 2012).

Anche la Società di Mutuo Soccorso fra il personale della Regia Accademia Navale, pur non aderendo allo sciopero politico, «dichiara altresì di rendersi solidale con i compagni per quei movimenti di carattere economico, essendo questo lo scopo principale della Società» («Il Telegrafo», 19 luglio 1919).

Così come quasi ovunque, le due giornate trascorrono in relativa tranquillità, con la città paralizzata dallo sciopero e pattugliata dai militari. Il comando del Distretto militare alcuni giorni prima aveva invitato «gli arditi in congedo e in licenza o comunque presenti nel Comune di Livorno […] a presentarsi subito» per un presumibile impiego in funzione d’ordine pubblico, così come avvenuto in altre città, tra le quali Piombino dove avevano affiancato carabinieri e bersaglieri («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Le banche vengono presidiate, cinema e teatri chiusi, sospeso il servizio telegrafico: «anche la passeggiata a mare, e gli stabilimenti a mare, non videro quella folla chiassosa e spensierata di belle signorine, che nei giorni trascorsi mettevano, con i loro graziosi sorrisi e con le loro seducenti toilettes, la nota gaia  in quell’ambiente mondano» («Il Telegrafo», 22 luglio 1919).

Mentre i sovversivi sono detenuti nelle due Fortezze, al Politeama si tiene il comizio del segretario della Camera del lavoro e dell’on. Modigliani, davanti a circa cinquemila persone, ma senza particolari tensioni ed anche la consistente partecipazione non fa notizia.

«Dell’entusiasmo e del protagonismo creativo delle folle in azione durante i recenti moti annonari sembrava rimanere poco o niente, e i tentativi di razionalizzazione politica attuati dagli organizzatori dello sciopero parvero paradossalmente stamparsi al di sopra  dei linguaggi e degli slogan che avevano dominato nelle strade e nelle piazze in tumulto, rendendoli quasi invisibili» (R. Bianchi, 2006).

Lo sciopero, in tutta evidenza, sconta infatti la mancata saldatura tra lo spontaneismo delle insorgenze per il caroviveri  e lo svolgimento dello sciopero politico, tanto da far parlare di fallimento la stessa stampa che aveva paventato lo sciopero; laconico invece il commento de «Il Libertario» del 31 luglio: «l’astensione dal lavoro è stata generale; la vita normale nelle città è stata per due giorni paralizzata, non solo, ma sconquassata dalle disposizioni di prevenzione e di difesa prese dalle autorità contro lo stesso sciopero».

Di fatto, comunque, la sottovalutata rilevanza dei moti livornesi dei caroviveri sembra essere, a posteriori, colta – forse anche autocriticamente – dagli stessi socialisti labronici che scrivono, rivendicando politicamente – compresi i deprecati eccessi – quanto accaduto venti giorni prima:

la storia è piena di questi crimini, i grandi sommovimenti sociali sono tutti pieni di questi crimini, le rivoluzioni vivono tutte di questi crimini sociali. Lo storico ufficiale riderà scettico e sardonico dal suo palazzo dorato battendosi il ventre ben panciuto finchè la verità storica nuova non lo desterà dalla sua visione del vecchio mondo. Cinque anni di storia sanguinosa ci precedono atroci come tanti rimorsi […] Dai trivi, dalle piazze, dalle strade, dai bassifondi, questa cloaca dirompente […] avanza scalzando le basi di una società caduca e sanguinaria […]. Sgorga e dilaga come un fiume limaccioso […] il crimine della folla multicolore e multiforme. Signori della vecchia coscienza sociale, filosofi dell’aristocrazia politica, mummie della diplomazia, fate largo e inchinatevi. Passa Gravoche [recte: Gavroche]! («La Parola dei Socialisti», 27 luglio 1919).

La battuta d’arresto sarà però destinata a durare poco; nei mesi seguenti, il conflitto sociale riprenderà esprimendo posizioni e pratiche sempre più radicali. Infatti, il Biennio rosso livornese vedrà l’occupazione generalizzata delle fabbriche locali e la comparsa delle Guardie Rosse; la nascita della Camera sindacale del lavoro, aderente all’USI; lo sciopero politico in solidarietà con l’anarchico Errico Malatesta nel febbraio 1920 e la sommossa contro la questura del maggio 1920.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.