La “città satellite della grande città madre”

Il 6 novembre 1954 la città di Firenze si ingrandiva con la creazione di un nuova zona residenziale situata a sud-ovest del centro storico, lungo il fiume Arno, di fronte al Parco delle Cascine. Quel 6 novembre per inaugurare il villaggio denominato Isolotto fu organizzata una grande cerimonia ufficiale.

A presiederla fu il cattolico Giorgio La Pira: esponente di spicco dell’ala dossettiana della democrazia cristiana, eletto sindaco di Firenze nel 1951. Parteciparono alla cerimonia coloro che si erano impegnati nella progettazione e creazione della nuova area abitativa, i professionisti, architetti e ingegneri,  gli assessori comunali e anche il rettore dell’Università insieme al prefetto. Furono invitati alcuni esponenti politici e ministri in carica come dimostrano le lettere che La Pira rivolse a Fanfani, segretario della democrazia cristiana, a Gronchi, presidente della Camera dei deputati, a Vigorelli, Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, a Medici, Ministro dell’Agricoltura.

Nazione Isolotto 2La cerimonia ebbe luogo nella piazza centrale dell’Isolotto, iniziò alle tre del pomeriggio e proseguì con i discorsi ufficiali tenuti dal cardinale Elia Dalla Costa, dal sindaco e dall’ingegnere Filiberto Guala.

I veri protagonisti di quella cerimonia furono senz’altro i nuovi abitanti del quartiere vestiti con l’abito delle grandi occasioni. Dopo aver ascoltato gli interventi suddetti, accompagnati dalla banda musicale dei vigili urbani, seguirono con trepidazione il responsabile di condominio, ‘colui che aveva in mano il sacchetto pieno di chiavi’. Le cronache locali raccontano che queste persone, prese dall’emozione di ricevere finalmente una nuova casa dove vivere degnamente, aprirono le case “con le mani che tremavano” .

La realizzazione dell’Isolotto, allo stesso modo di altri quartieri residenziali edificati in varie città d’Italia dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile grazie alla legge n. 43 approvata il 28 febbraio 1949, il titolo della legge recitava ‘Progetto per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori’. La legge n. 43/49, che creò anche un ente apposito l’Ina-Casa per vigilare sulla costruzione degli appartamenti da destinare in locazione o a riscatto, fu denominata dall’opinione pubblica ‘legge o piano Fanfani’ proprio perché il Ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, ne fu uno dei massimi promotori insieme al suo sottosegretario La Pira durante il V governo De Gasperi.

Il Piano-Fanfani fu la principale testimonianza dell’impegno dei politici democristiani verso una ‘modernizzazione’ del Paese “accompagnata da elementi solidaristici volti a mitigare l’impatto disgregante” dell’economia neocapitalista. Secondo La Pira esso “costituiva un esempio del tipo di azione che il partito cattolico era chiamato a svolgere per la costruzione di una società solidale”.

Il Piano dell’Ina-Casa del 1950 per l’Isolotto prevedeva: una superficie di circa 500.000 mq, 9.000 abitanti, edifici dai due ai quattro piani, plurifamiliari o unifamiliari e inoltre “(…) due scuole elementari, due scuole per l’infanzia, una casa torre per uffici e servizi, una chiesa ed opere parrocchiali; un mercato con negozi; un cinema-teatro; edifici culturali e ricreativi; installazioni per sport leggero. Nel 1954 vennero consegnati 774 alloggi, 1005 risultarono pronti nel 1955, il completamento del quartiere si sarebbe avuto solo nel 1963.”

Il 6 novembre 1954 alla cerimonia di inaugurazione dell’Isolotto, il sindaco pronunciò un discorso ispirato al principio cristiano della comunità, inteso come “promozione di un ideale sociale fondato su lavoro, famiglia e proprietà.”. Egli definì il nuovo quartiere come una “organica, armoniosa, vasta, umana, città satellite di Firenze, (…) la prima, si può dire, autentica città satellite della grande città madre”; dotata di misura, volto e bellezza tali da renderla “figlia in tutto proporzionata alla città madre”. In questa nuova città, realizzazione terrena di una ideale città divina, i nuovi abitanti avrebbero sviluppato a pieno le loro vite in un clima di solidarietà, fraternità e amicizia.

L'Unità Isolotto senza servizi 23_1Ma se questi furono gli intenti dei costruttori in realtà il nuovo centro abitativo non si presentava nel 1954 come un luogo accogliente dove poter vivere in armonia e serenamente. Sorse privo di infrastrutture e servizi  necessari: mancavano collegamenti con il centro storico, non era ancora pronta una linea Ataf che collegasse la zona residenziale col centro storico. E l’unico modo per raggiungere il parco delle Cascine era attraversare una passerella in legno a pagamento o farsi traghettare fino all’altra sponda dell’Arno. La passerella sull’Arno in cemento, già prevista nel progetto del 1951, sarà realizzata solo nel 1962. Le strade non erano state pavimentate, mancava l’illuminazione e le due piazze principali erano da completare. Non c’erano negozi, né una scuola per i numerosi bambini che per un primo periodo dovettero accontentarsi di frequentare degli edifici di legno fatiscenti, le cosiddette “baracche verdi” prive di acqua e servizi igienici. Alcuni progetti come quelli per la realizzazione di un cinema-teatro o la costruzione di edifici ricreativi e culturali non saranno mai realizzati.

Isolotto festa alberi 1954_NOVMancava anche il verde tra le nuove case, nonostante l’architetto Tiezzi le avesse progettate prendendo a modello le città giardino inglesi. Fu così che l’amministrazione comunale, su proposta di alcuni cittadini, organizzò il 20 novembre all’Isolotto la festa degli alberi. Alla presenza dall’assessore alla pubblica istruzione e alle belle arti il Professor Bargellini, i bambini del nuovo quartiere vennero chiamati a piantare il loro albero vicino alla porta di casa; alberi di cui sarebbero diventati simbolicamente i custodi.

Chi erano i primi abitanti della nuova città satellite? Da un’indagine condotta dalla ricercatrice Marina Tartara, tra il giugno 1958 e il febbraio dell’anno successivo, apprendiamo che la maggior parte era originaria della Toscana e aveva alle spalle un’esperienza di inurbamento dai centri minori iniziata già negli anni Trenta e proseguita all’indomani del 1945. Il 70% dei capifamiglia proveniva dalla Toscana ma solo il 22% era nato a Firenze, gli altri nei comuni limitrofi alla città come Fiesole, Sesto fiorentino, Scandicci, Bagno a Ripoli e Galluzzo. Oltre l’80% dei capifamiglia toscani viveva a Firenze già prima della seconda guerra mondiale.

Solo un terzo delle famiglie proveniva da altre regioni d’Italia: centro-nord, sud e Isole, in proporzione quasi uguali. Una minoranza veniva dall’estero: 105 famiglie di profughi da quei territori perduti nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto dall’Istria, e rimpatriate dalla Grecia, dall’Albania e dall’Africa orientale.

Firenze nel dopoguerra aveva visto la sua popolazione aumentare sensibilmente e molti di questi futuri abitanti dell’Isolotto, che provenivano dalle vicine campagne o dai quartieri fiorentini di Santa Croce, San Frediano, Santo Spirito, si erano trovati a vivere in una condizione di forte disagio abitativo: o in coabitazione, o sfrattati o sfollati.

Archivio Locchi 1954_2Una popolazione molto giovane, composta per la maggior parte da operai attivi nelle fabbriche della città, Galileo, Pignone, Stice, Manifattura Tabacchi, ma vi era anche un nucleo consistente di dipendenti delle Ferrovie, Vigili del Fuoco, Finanza, Forze Armate e impiegati delle amministrazioni pubbliche. Le donne erano per lo più operaie, in particolare dipendenti della Manifattura Tabacchi, oppure lavoratrici domestiche a domicilio, poche di loro erano impiegate.

La ricercatrice Tartara nella sua analisi si era soffermata a lungo sulle differenze tra coloro che avevano ricevuto la casa a riscatto e coloro che l’avevano avuta in locazione. Alla fine faceva confluire le differenze in un’unica distinzione: “gli assegnatari a riscatto godono di migliori condizioni economiche e sono professionalmente e culturalmente ad un livello più elevato”.

Al di là delle considerazioni della ricercatrice, questa umanità così eterogenea per cultura, stili di vita, appartenenza sociale, lingua, idee politiche, credo religioso, si trovò a vivere insieme nello stesso luogo.

Il Piano Ina-Casa prevedeva oltre alla costruzione di case anche la realizzazione di spazi sociali per favorire la nascita di una comunità. Il Centro sociale dell’Ina-Casa aveva il compito di “guidare dall’alto la costruzione di un’identità comunitaria”, favoriva l’inserimento delle famiglie attraverso l’aiuto di assistenti sociali. Dato che il Piano Ina-casa delegava l’amministrazione degli immobili (spazi abitativi e giardini) direttamente ai condomini, i nuovi abitanti furono chiamati a confrontarsi per arrivare a stabilire delle regole condivise. Negli spazi del Centro sociale dell’Ina-Casa gli assegnatari si riunivano per discutere dei vari problemi del nuovo quartiere e qui organizzarono alcuni servizi quali:  la biblioteca, l’ asilo,  il teatro-palestra.

Nel 1955 per volontà della Chiesa fu aperto un altro centro-sociale, guidato da Enzo Mazzi il parroco del villaggio Isolotto; qui si offriva un’assistenza di tipo morale e  un sostegno concreto fatto di aiuti monetari e materiali come la distribuzione dei pacchi forniti dalla Opera Pontificia di Assistenza. Inoltre fu attivo fin dal 1956, in una rimessa lungo l’Arno, un circolo con una sala adibita alle riunioni della sezione del PCI e uno spazio ricreativo con la televisione e il bar.

I nuovi abitanti, nonostante le diversità, si trovarono ben presto uniti e solidali nelle lotte che sorsero spontanee per rivendicare presso l’amministrazione comunale ciò che mancava nel quartiere. La prime lotte interessarono vari ambiti come la casa e i servizi. La prima battaglia importante fu quella per la scuola nel 1959. La sezione socialista dell’Isolotto, guidata da Silvano Miniati, allora componente della segreteria provinciale della FIOM-CGIL, promosse un’assemblea pubblica che scelse di costituire un comitato di lotta e proclamare una giornata di astensione dalla scuola da parte degli alunni. Tale protesta, che vide anche l’adesione dei cattolici con Enzo Mazzi, fu un successo: nessun bambino si presentò in classe e una delegazione venne ricevuta a Palazzo Vecchio dall’assessore Nicola Pistelli. Poco tempo dopo iniziarono alla Montagnola i lavori di costruzione di un edificio scolastico in muratura che venne ultimato soltanto nel 1963.

Questo solidarietà degli abitanti nel conflitto sociale, superando le contrapposizioni ideologiche tipiche dell’epoca, portò il quartiere ad essere negli anni successivi uno dei centri di dissenso più attivi in Italia: ne sono un esempio sia la mobilitazione di comunisti e cattolici dell’Isolotto in sostegno agli operai delle Officine Galileo minacciati di licenziamento nel 1959, sia la vicenda della comunità cristiana guidata da Enzo Mazzi che si trovò in profondo disaccordo con la chiesa ufficiale nel 1968.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




“Fu una mattinata tremendissima”

Gli anni del dopoguerra sono tra i più duri per la popolazione pistoiese. Il numero dei disoccupati, dopo la fine del conflitto, sale vertiginosamente dalle seimila alle dodicimila unità, di cui almeno 2.500/3.000 nella zona montana. Si aggiunge una grave carenza dei generi di prima necessità. Pane e lavoro sono le parole d’ordine di numerose mobilitazioni sociali, che cominciano fin dal 16 ottobre 1944 con la prima manifestazione delle donne con in braccio i loro figli, e si protraggono fino alla fine degli anni ’40.
Ad una situazione economica ristagnante, con numerose aziende appena riavviate costrette a chiudere per mancanza di energia elettrica, di materie prime, di ordinazioni, con i lavori di ricostruzione – in particolare dei ponti e della ferrovia Porrettana – che tardano a partire almeno sino alla fine del 1946 e mal finanziati, quella sociale diviene l’emergenza prioritaria segnalata ogni mese a Roma dai prefetti che si succedono.

cdl anni 40Ancora nel marzo 1946 una serie di manifestazioni di donne reclama alimenti e tenta, a Pistoia ed a Pescia, di assaltare i magazzini del consorzio agrario per impossessarsi di generi alimentari da consegnare poi alle cooperative del popolo per la distribuzione. L’attivismo e il protagonismo di masse ingenti di cittadini e cittadine ereditato dall’esperienza resistenziale si esprime, oltre che nella politica di partito, in un’elevata disponibilità all’azione per migliorare le proprie condizioni di vita e cercare di dare impulso a scelte di trasformazione. Le relazioni economiche tra le parti sociali rischiano spesso di tramutarsi in conflitti diffusi. Gli attori in campo, i prefetti, i sindaci, le organizzazioni dei datoriali (Confindustria, Confagricoltura ecc…), la Camera del lavoro della CGIL unitaria, i grandi partiti come la DC, il PSI e il PCI ed il CLN fino al 1946, si trovano costantemente impegnati un un’opera di mediazione che cerca di contenere la carica esplosiva della disperazione, trovando accordi, mediazioni, persuadendo le folle di disoccupati a forme di azione responsabili e sollecitando i governi. Come scrive il prefetto Mazzolani nel luglio del ’46 i problemi «possono essere risolti solo se gli organi centrali responsabili verranno nell’ordine di idee di attuare una politica economica, finanziaria e sociale, se non rivoluzionaria, almeno coraggiosa ed aderente allo stato di necessità, in cui versa attualmente il popolo italiano, senza aver paura di toccare le posizioni privilegiate di questo o quel gruppo più o meno ristretto».

contadini piazza san francescoLa situazione più critica è in montagna, dove le uniche attività in grado di garantire l’occupazione sono le cartiere della Lima, i traballanti lavori di ricostruzione ma soprattutto la SMI. Ed è proprio in conseguenza di un duro braccio di ferro alla SMI che il 28 giugno 1947 si giunge al primo grande sciopero generale della provincia, che si risolverà in un fallimento parziale e lascerà duri strascichi di divisioni interne alla CGIL tra la componente comunista e quella democristiana.

Progressivamente le trasformazioni dello scenario politico italiano, con la rottura dell’unità antifascista al governo nel maggio 1947, l’incipiente guerra fredda, lo svilupparsi ed acuirsi di uno scontro politico ed ideologico durissimo, hanno ricadute sul contesto locale, dove questi processi si vanno ad unire alla stagnazione ed alla mancanza di risposte efficaci. Se da una parte la conflittualità popolare permane e si esaspera, dall’altra gli apparati dello Stato tra il 1947 ed il 1948 cominciano a chiudere le porte ed a leggere ideologicamente la portata di conflitti fino ad allora rimasti confinati in gran parte all’ambito economico.
La stessa gestione dell’ordine pubblico risente di questo clima da muro contro muro che si va costruendo, slittando nel corso del tempo verso soluzioni sempre più di forza. Il 1947 si chiude con la rottura delle trattative sul contratto dei metallurgici, che provoca l’invasione della sede della Confindustria da parte degli operai della San Giorgio. E pochi giorni dopo il 1948 si apre con una serie di arresti preventivi nel pesciatino che causano un nuovo sciopero generale con numerosi blocchi stradali che sfociano in gravi scontri a Bonelle. Le sinistre tentavano di giocare la carta della mobilitazione, “dare una spallata” in vista delle elezioni del 18 aprile. Il nuovo prefetto, Festa, abbandona il ruolo neutrale del funzionario statale per divenire nei fatti parte della macchina della DC, informando costantemente Scelba dei progressi del suo partito e commentando positivamente i risultati democristiani dopo le elezioni, sostenendo che la sconfitta dei socialcomunisti avrebbe liberato la popolazione da un incubo.

manifestazione schianoIn questo quadro matura uno degli eventi più tragici per la storia di Pistoia nel Novecento. Nell’estate del ’48 la SMI annuncia la sua intenzione inamovibile di procedere al licenziamento di 500 tra operai e operaie. La posizione della CGIL non ammette a sua volta mediazioni al ribasso. Ne segue una vertenza che va avanti per mesi ma che, dopo la scissione della componente cristiana della CGIL ad agosto che si riorganizza nei Sindacati liberi, per Festa diventa l’occasione adatta a scalzare il sindacato delle sinistre e favorire quello vicino al governo appoggiando al tempo stesso la direzione aziendale. Si deve dimostrare ai lavoratori l’incapacità sindacale di socialisti e comunisti. La mattina del 16 ottobre 1948 si svolge l’ennesima manifestazione di famiglie disoccupate o precarie. Dalla montagna la popolazione raggiunge Pistoia, la chiamano “La marcia della fame”. Nel capoluogo le fabbriche scioperano. Le donne guidano il corteo. Per la prima volta la prefettura si rifiuta di ricevere una delegazione dei dimostranti per discuterne l’ordine del giorno e ordina di disperdere i manifestanti. Nei violenti scontri alle cariche seguono i lacrimogeni e alla fine gli spari. Rimangono a terra sette feriti, uno dei quali in modo mortale, il venticinquenne operaio della San Giorgio Ugo Schiano.

La repressione dà un duro colpo alla strategia della Camera del lavoro, che disorientata cede. Festa commenta a Scelba: «si può facilmente desumere che gli organi sindacali si sono dovuti arrendere a discrezione, accettando le condizioni imposte dalla Società, perché si sono resi conto che l’azione sindacale, male impostata e male condotta, li aveva posti in un vicolo cieco dal quale sarebbe stato impossibile uscire senza sottoscrivere l’accordo, qualunque esso fosse. Sta di fatto che, così come è stata conclusa, la vertenza di Campotizzoro, sulla quale si è fatto tanto clamore e non è mancata la più esosa speculazione politica, costituirà un grave colpo per il prestigio della locale Camera Confederale del Lavoro, mentre se ne avvantaggeranno i Sindacati Liberi e lo stesso Partito della Democrazia Cristiana»

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.




Le parallele convergenze livornesi. Pci e Dc nella lunga giunta Diaz (1944-1954)

Tra il 29 luglio 1944 e il 1° dicembre 1954 le giunte comunali di Livorno furono guidate ininterrottamente dal comunista Furio Diaz. Si tratta di una lunga esperienza amministrativa che presenta un elemento di forte peculiarità nella collaborazione e nell’intesa di governo tra comunisti e cattolici ben oltre la rottura dell’alleanza antifascista avvenuta a livello nazionale nel maggio 1947. L’alleanza di governo tra Pci e Dc si prolungò infatti per tutta la prima legislatura fino al 1951, avendo un suo corollario significativo fino al dicembre 1953, data in cui cessò l’atteggiamento di opposizione costruttiva fino ad allora assunto dai democristiani. Passaggi talmente significativi da aver assunto col tempo, nel sistema commemorativo cittadino, le sembianze di mito fondativo nella costruzione etico-identitaria della Livorno postbellica. La valenza simbolica di quegli eventi ha finito così per sminuire in parte, nella percezione pubblica, la complessità di un contesto contraddittorio come quello della Livorno di quegli anni.

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Soldati Inglesi tra le macerie di Livorno (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Con gli Alleati: una città “sotto tutela”
L’analisi del rapporto tra cattolici e sinistre livornesi nel periodo delle giunte unitarie deve in primo luogo tener conto della morfologia dei centri di governo e di potere del territorio. Poiché a limitare e condizionare la capacità di governo della giunta intervennero molti fattori. A partire dall’arrivo degli Alleati (19 luglio 1944), infatti, su Livorno si concentrarono una serie di interessi – primariamente bellici e poi politici – che di fatto dilazionarono, attraverso una lunga e contraddittoria fase di transizione, il passaggio ad un effettivo stato di pace. La presenza militare alleata, che si protrasse fino al dicembre 1947, significò per la città anche una serie di enormi problemi di ordine pubblico che si andarono ad assommare ai disastri materiali e psicologici prodotti dalla guerra.

D’altra parte il governo militare degli Alleati (Allied Military Government, Amg) pretese subito di stabilire il «completo controllo» sull’amministrazione per i superiori interessi di guerra legati alla strategicità assunta dal porto di Livorno sul fronte mediterraneo. Diaz, che non senza difficoltà il maggiore E.N. Holmgreen aveva accettato come sindaco su proposta del Cln e dopo la rinuncia di Giorgio Stoppa, sapeva di essere un primo cittadino “sotto tutela” e che il primo obiettivo alleato era quello di «organizzare una complessa rete di attività non militari al solo scopo di difendere i vantaggi militari acquisiti».

Le istruzioni di Togliatti: alleanze obbligate
In più, nella città simbolo del Partito comunista, le prime impronte di guerra fredda complicarono il quadro dei rapporti tra forze alleate, Cln, apparati di governo, partiti politici e Chiesa cattolica in un succedersi di raffinate tattiche ideologiche. Dietro i compromessi e le convergenze tra comunisti e cattolici, si celavano spesso le doppiezze e le ambiguità di una battaglia politica di cui la giunta livornese era solo una pedina di uno scacchiere ben più complesso. In questo senso è davvero emblematico un documento del 27 ottobre 1944. A meno di tre mesi della formazione della giunta espressione del Cln, il segretario del Pci Palmiro Togliatti inviò delle lapidarie «istruzioni» al sindaco di Livorno: «Non intralciare il lavoro dell’AMG; Mantenere buoni rapporti con la Dc; Non fare mostra di sentimento anticlericale e rassicurare i cattolici sulla libertà di culto».

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Diaz, secondo da sinistra, ad un’iniziativa del Pci livornese (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Il documento offre chiare informazioni non solo sulle strategie del Partito comunista, ma anche su quelle degli Alleati. Come riporta Roger Absalom, infatti, le direttive del segretario generale del Pci al sindaco di Livorno furono intercettate dall’Office of Strategic Services (Oss), il Servizio americano di informazioni politiche e militari, a conferma di una preoccupazione anticomunista che già in quella fase si era scatenata tra le forze alleate. Tanto che nei rapporti dei servizi segreti americani si paventava perfino l’esistenza di una linea diretta Mosca-Livorno: gli alleati erano dunque «particolarmente sensibili al “pericolo rosso” rappresentato dai livornesi tradizionalmente radical-rivoluzionari» in una città che era divenuta punto nevralgico del sistema logistico di una guerra ancora in corso.

In questo quadro la strategia togliattiana, condivisa da Diaz, ebbe non poche difficoltà ad essere perseguita. La necessità politica di mantenere «buoni rapporti con la Dc» si scontrava spesso con la linea non sempre conciliante espressa dalla Federazione comunista livornese. Mantenere una linea di equilibrio tra opposte tendenze e coinvolgere la base del partito nelle battaglie della giunta unitaria si rivelò spesso per Diaz un compito improbo. Complicazioni che emergono con chiarezza, ad esempio, nella lettera che il sindaco inviò alla segreteria della Federazione livornese del Pci il 9 maggio 1947: «Cari compagni, devo richiamare con maggiore energia la vostra attenzione sulle deficienze che si verificano nell’opera del Partito per fiancheggiare e sorreggere l’amministrazione comunale da noi diretta».

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Il vescovo Piccioni e don Roberto Angeli nel 1951 (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

La debole Dc: interviene De Gasperi…
Sul fronte opposto, la partecipazione alla giunta unitaria dei democristiani si inseriva in un quadro complesso caratterizzato da molte contraddizioni. Basti ricordare che la Dc locale era nata formalmente solo tre giorni dopo la liberazione di Livorno (22 luglio 1944) e che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza era stata garantita esclusivamente dal movimento cristiano-sociale, fondato da don Roberto Angeli già nel 1942, i cui membri entrarono nel Cln livornese dal 9 settembre 1943. A questo proposito è significativa la ricostruzione fatta da Carlo Lulli, storico direttore del “Telegrafo”, sulla formazione della prima giunta unitaria del 29 luglio 1944: l’allora impiegato dalla segreteria del Cln ha sostenuto che negli intensi colloqui di quelle ore con il Commissario provinciale alleato John F. Laboon per la formazione della giunta «si scoprì che in città non c’erano rappresentanti della Democrazia cristiana» e allora si organizzarono «delle ricerche affannosissime per trovare delle persone cristiano-sociali» che fossero disposte a diventare «democristiane per aderire, anche su scala livornese, a quello che era il quadro nazionale».

Questa situazione generò enormi malumori tra i cristiano-sociali, il cui credo politico era una aperta risposta progressista alla Dc dei conservatori. La “battaglia” tra cristiano-sociali e democristiani livornesi raggiunse un livello tale che solo l’intervento perentorio di De Gasperi poté risolverla e non senza strascichi polemici tra le divergenti anime del cattolicesimo livornese. L’opposizione del Cln all’entrata nel comitato degli esponenti Dc, costrinse infatti il segretario nazionale democristiano a scrivere il 20 settembre 1944 una dura lettera al presidente Ruelle, chiedendo testualmente che si mettesse termine alla «deplorevole scissione» tra i cattolici e che si superasse «l’anomalia» del Cln livornese. La Dc, diceva De Gasperi, doveva essere accettata dal Cln livornese per «adeguarsi al quadro nazionale».

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Il settimanale diocesano di Livorno “Fides”

Un cacciucco alla livornese?
Questo complesso di concause portò ad una situazione di estrema debolezza organizzativa del partito e allo scarso appeal dei suoi esponenti sulla base cattolica. Nel primo riassunto statistico dei tesserati che la segreteria De Gasperi elaborò nel 1945, lo Scudo crociato livornese era di gran lunga all’ultimo posto in Toscana per numero di sezioni (appena 10) e tesserati (1000, di cui solo 63 donne). A questo si assommava la litigiosità dei suoi vertici locali e la scarsa considerazione che essi godevano tra le gerarchie ecclesiastiche livornesi: nella relazione che don Angeli, delegato vescovile di Azione cattolica, inviava ai vertici nazionali scriveva che «l’inferiorità numerica della Dc» rispetto al Pci era «aggravata da una notevole mancanza di dirigenti capaci», da cui seguiva «un indirizzo fiacco e inconcludente, più orientato al quieto vivere che all’affermazione di un’idea».

In questo quadro il giudizio della Chiesa livornese sulla collaborazione istituzionale nella giunta non differiva dalla linea espressa da Pio XII: è noto infatti che la via della collaborazione tra cattolici, comunisti e socialisti dell’immediato dopoguerra era stata una parentesi a cui la Santa Sede aveva guardato «con estremo sospetto e che subì di malavoglia». In un articolo durissimo scritto dal direttore del settimanale diocesano «Fides» dopo la formazione della nuova giunta unitaria e il quasi plebiscito ottenuto dai comunisti alle amministrative del novembre 1946, si diceva che i comunisti si erano assicurati una «nuova brillante vittoria tattica», poiché avevano in mano la giunta senza avere oppositori in consiglio comunale. I democristiani, definiti spregiativamente «collaborazionisti», «abbacinati dall’idea di “servire il popolo” non hanno capito che il miglior mezzo per servirlo era quello di controllare l’Amministrazione socialcomunista, e non di avallarla: di difendere la democrazia e non di partecipare ai suoi funerali: di rispettare la volontà popolare e non di affogarla in un indefinibile… cacciucco alla livornese».

La tenuta istituzionale della giunta di espressione ciellenistica fu dunque messa a seria prova dalla precarietà di una situazione di “lunga liberazione” e dalle contrapposizioni scatenate dalla “guerra ideologica” che contraddistinse gli anni del centrismo degasperiano: fattori di cui è necessario tener conto per valutare in tutta la sua complessità un’esperienza che rappresenta comunque un unicum tra le esperienze amministrative uscite dalla Resistenza.

*Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

Articolo pubblicato nel settembre 2014.



Fascisti repubblicani a Lucca

Nel giugno del 1944 la notizia della liberazione di Roma e la veloce avanzata degli Alleati aveva destato nella popolazione toscana un grande entusiasmo, radicando la convinzione, che si rivelerà poi errata, di una rapida fine della guerra e dell’occupazione tedesca. A Lucca, come nel resto della Toscana, crollavano senza clamori le istituzioni del fascismo repubblicano e noti esponenti del fascismo locale, preoccupati per la propria sorte, avevano provveduto a varcare l’Appenino, a nascondersi, oppure tentato un rapido cambiamento ideologico.

Pavolini, il segretario nazionale del Fascio Repubblicano, aveva intrapreso agli inizi di giugno un viaggio attraverso le città toscane per valutare personalmente l’entità della crisi serpeggiante tra le istituzioni saloine del territorio.  Conscio dell’imminente avanzata degli Alleati, aveva deciso, in accordo con Mussolini, di direzionare tutti i suoi sforzi verso una militarizzazione del partito attraverso la creazione delle Brigate Nere, considerate quale unica possibilità di salvezza per la RSI, ormai assediata sul fronte interno dalla guerriglia partigiana e su quello esterno dalle armate anglo-americane. Il partito subiva così una trasformazione, da partito di massa a partito armato, d’avanguardia, di combattenti al servizio del fascismo e fedeli a Mussolini, per contrastare i nemici interni, i “ribelli”, gli antifascisti, ma anche verso tutti coloro che non si erano schierati e aspettavano soltanto la fine della guerra.

Ѐ con queste premesse che Pavolini arriva a Lucca il 17 giugno 1944, accompagnato dal suo braccio destro, il colonnello Giovan Battista Riggio, Beniamino Fumai e da Idreno Utimpergher, fascista della prima ora, che aveva fatto carriera durante il Ventennio come segretario provinciale dei sindacati dell’Industria. Dopo la costituzione della Repubblica Sociale, nell’autunno del ’43 si era spostato a Trieste dove aveva riaperto la sede del Fascio e insieme a Beniamino Fumai, a capo della squadra del “Mai Morti”, aveva seminato il terrore in città con rapine, estorsioni e assassinii, episodi che gli erano costati la destituzione da ogni incarico e l’allontanamento da Trieste. Utimpergher si era poi spostato nei territori dell’Italia occupata con il compito di riorganizzare squadre di fascisti e proprio con questo obiettivo era arrivato a Lucca.

Pavolini assegna a Utimpergher il compito di presiedere e organizzare la prima Brigata Nera della Repubblica Sociale italiana, intitolata a Mussolini e poi contrassegnata con il numero XXXVI. Si tratta di un unicum in Italia perché in realtà il decreto che ordina la creazione delle Brigate Nere viene pubblicato alcuni giorni dopo, il 30 giugno, e la maggior parte delle Brigate nere riesce a costituirsi soltanto due mesi più tardi, nell’agosto del 1944.

manifesto BNMa chi sono gli uomini che nell’estate del ’44 scelgono di entrare nelle Brigate Nere?

Le ricerche sull’argomento hanno rivelato che a determinare l’arruolamento nel partito armato intervengono motivazioni molteplici e diverse tra loro: condivisione convinta e agguerrita dell’ideologia fascista, opportunismo, volontà di emulazione nei confronti dei tedeschi, tentativo di rivendicare l’umiliazione dell’8 settembre, volontà di vendetta verso quelli che venivano considerati “voltagabbana” e di lotta senza quartiere al movimento partigiano, assimilazione della violenza, del razzismo e dell’intolleranza agguerrita contro il nemico, disvalori di cui il fascismo italiano si era fatto interprete fin dal ventennio.

Quando Utimpergher ai primi di luglio del ’44 provvede a organizzare la Brigata Nera lucchese si rivolge ai fascisti lucchesi con un appello che fa leva proprio su questi sentimenti. Il gruppo dei brigatisti lucchesi che risponde alla richiesta di arruolamento è molto eterogeneo, sia per esperienze politiche e militari precedenti, sia per appartenenza generazionale. Troviamo giovani e giovanissimi nati durante il Ventennio, educati e assuefatti alla retorica fascista, che compiono questa scelta a volte in modo convinto, altre ingenuamente; troviamo ex squadristi, marcia su Roma, delusi dalla burocratizzazione del partito e di nuovo esaltati all’idea dell’uso della forza e delle armi; troviamo veri e propri clan familiari che si arruolano insieme all’interno della brigata.

Completato l’organico, di circa 150 unità, alla metà di luglio, la Brigata Nera “Mussolini” diventa operativa lavorando al fianco degli occupanti tedeschi di zona ma anche in modo autonomo. Tante le operazioni che la vedono protagonista, come per esempio quella del 3 agosto 1944, quando i brigatisti organizzano una rappresaglia nella frazione di S. Lorenzo a Vaccoli che porta all’incendio delle case del paese e all’arresto e successiva deportazione nei campi di lavoro di alcuni contadini. Pochi giorni dopo i brigatisti della “Mussolini” partecipano ad interrogatori eseguiti con l’uso di sevizie nei confronti di presunti fiancheggiatori dei partigiani locali, e ancora partecipano insieme ai tedeschi al rastrellamento avvenuto il 21 agosto 1944 sul Monte Faeta, durante il quale vengono fucilati sette giovani uomini appartenenti a gruppi di resistenti accampati sui Monti Pisani. Nei primi di settembre hanno inoltre un ruolo determinante di delazione nella strage della Certosa di Farneta e infine, in questa escalation di violenza, il 23 settembre, in risposta al ferimento di un brigatista nero, pianificano ed eseguono, in totale autonomia rispetto alle forze tedesche presenti in zona, la strage del Convento dei Cappuccini a Castelnuovo Garfagnana in località Merlacchiaia, durante la quale vengono uccisi, per mano dei brigatisti lucchesi, otto giovani uomini.

Alla fine di settembre 1944 con lo spostamento del fronte e l’avanzata degli Alleati la XXXVI Brigata Nera lascia la lucchesia e continua ad essere operativa prima in Emilia, nel modenese e a Piacenza, poi in Piemonte. Ciò che resta della “Mussolini” converge infine a Milano il 25 aprile 1945: da qui un piccolo gruppo di militi lucchesi ancora al comando di Utimpergher segue Mussolini nel suo ultimo disperato viaggio. Il 27 aprile 1945, in testa alla colonna dei camion tedeschi e delle automobili del duce e dei ministri, l’autoblinda della BN lucchese viene fermata a Dongo.

Il giorno successivo Utimpergher verrà fucilato sul lungolago di Como insieme a Pavolini e ai gerarchi, gli aderenti alla Brigata invece saranno processati per collaborazionismo e per la partecipazione alle rappresaglie e alle stragi sopra citate presso le Corti d’Assise straordinarie di Lucca e di Firenze. Dopo un’iniziale comminazione di pene severe i brigatisti verranno perlopiù prosciolti o amnistiati, in linea con l’allentamento della politica in materia di epurazione e punizione dei crimini fascisti che caratterizza i governi italiani a partire dal ’46.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2014.