“In clandestinità”

Abboccamenti e contatti alla ricerca di nuove adesioni, riunioni in luoghi appartati (una taverna, una bottega, un casolare, il folto di un bosco) per discutere la mutevole linea politica (l’unità d’azione, la bolscevizzazione, le tesi di Bordiga e quelle di Gramsci, il socialfascismo, i fronti popolari) modellate, volta a volta, secondo i dettami della Terza Internazionale. E contemporaneamente le scritte sui muri, il lancio di fogli ciclostilati per le strade di campagna e nei paesi, la diffusione dell’Unità e di altra stampa clandestina, la raccolta di soldi per aiutare i compagni carcerati, le fughe all’estero, gli arresti, gli interrogatori, gli anni di prigione e di confino, le amnistie seguite da nuove incarcerazioni.

In questa sequenza si può riassumere, non diversamente dal resto della Toscana e dell’Italia, la vicenda dei militanti comunisti senesi nel lungo periodo della clandestinità sotto il regime fascista. Una clandestinità iniziata precocemente poiché ben prima della legislazione eccezionale dell’autunno del 1926, l’azione combinata delle squadre fasciste e degli organi di polizia avevano messo di fatto oltre i margini della legge un’organizzazione che contava solo alcune centinaia di iscritti (la scissione di Livorno era stata nel Senese fortemente minoritaria), ma possedeva sul territorio una diffusione capillare che era ulteriormente cresciuta nel 1924, anno dell’adesione al PCd’I dei socialisti terzointernazionalisti di Giacinto Menotti Serrati, capeggiati, a livello locale, da Ricciardo Bonelli segretario della Federterra, il sindacato dei lavoratori agricoli che rappresentavano la grande maggioranza della forza lavoro della provincia. In quell’anno si contavano, infatti, una trentina di sezioni, dalla Val d’Elsa alla Val di Chiana, dal Monte Amiata al Chianti, dalla Val d’Orcia alla Val di Merse, insediate sia in alcuni dei centri maggiori, sia ancor più nelle frazioni rurali come S. Andrea a Montecchio e Rosia, Scorgiano e Gracciano, Ville di Corsano e Bettolle.

Due episodi possono essere portati ad esemplificazione di quanto appena detto. Un candidato nella lista di Unità Proletaria (comunisti e terzointernazionalisti) alle elezioni politiche del 1924 fu proprio il Bonelli. Tradito da un infiltrato, una settimana prima del voto era finito agli arresti perché in casa sua e nell’ufficio del suo negozio (faceva il fruttivendolo) la polizia aveva rinvenuto e sequestrato una grande quantità di opuscoli e giornali sovversivi, ovvero nient’altro che gli strumenti della campagna elettorale. Di sicuro Bonelli non sarebbe stato eletto (Unità Proletaria raccolse il 3,6% dei voti), ma la traduzione in carcere l’aveva comunque tolto di mezzo nell’ultimo scorcio di competizione. Di nuovo arrestato l’anno successivo, fu costretto ad andarsene da Siena insieme a suo fratello Gino che era segretario provinciale. In conseguenza di ciò, come annotava un rapporto interno al partito, l’organizzazione si era ridotta “al lumicino” poiché Gino Bonelli, «ripetendo quanto si è verificato in altre province d’Italia, colpite dalla reazione, non aveva comunicato agli altri compagni del centro federale gli indirizzi ed i nominativi ai quali ci si doveva rivolgere per mantenere i collegamenti» ed aveva costretto il nuovo segretario, Vittorio Bardini, a un complicato lavoro di ricucitura dei rapporti politici e organizzativi fra le diffidenze di quanti, una volta contattati, rispondevano che riconoscevano solo Bonelli e che avrebbero atteso da lui di sapere se altri erano effettivamente autorizzati a parlare a nome della federazione.

L’altro episodio riguarda Fosco Mazzoncini delegato senese al congresso nazionale di Lione del gennaio 1926. Il congresso provinciale, in forma molto ridotta (solo cinque le sezioni rappresentate, Siena, S. Andrea a Montecchio, Coroncina, Murlo, Gracciano, per un totale di 58 delegati) si era svolto in piena segretezza all’interno di una trattoria di Siena. Ma la federazione senese, nonostante le precauzioni adottate, mancò l’appuntamento con la storia del partito che segnò, secondo la storiografia ufficiale comunista, il momento decisivo del completamento del lungo e travagliato processo di formazione del PCd’I, poiché Mazzoncini, munito di passaporto falso, fu individuato ed arrestato alla frontiera di Domodossola.

Agli inizi del 1927, ormai sotto la dittatura conclamata, gli arresti colpirono una trentina di lavoratori, in prevalenza mezzadri, della zona compresa fra Sinalunga, Bettole, Guazzino, Foiano della Chiana, tutti accusati di complotto comunista, anche se probabilmente solo alcuni erano iscritti al partito e gli altri pagavano la colpa di essere stati fra i protagonisti delle vertenze sindacali per la riforma del patto colonico nel periodo 1919-1921.

All’inizio degli anni Trenta, Siena, con solo due sezioni (una in città e l’altra nella frazione di S. Andrea a Montecchio), non fu più in grado di ospitare la federazione che venne spostata a Poggibonsi, dove era già stata nel 1921 e dove i contatti con la Val d’Elsa fiorentina e con Empoli in particolare offrivano l’opportunità di un lavoro politico più intenso.

E proprio in sintonia con i militanti empolesi fu organizzata una delle azioni di propaganda più clamorose. Il 28 aprile 1930 due auto partirono contemporaneamente una da Empoli verso Colle Val d’Elsa e una da Poggibonsi verso Siena, gettando volantini che inneggiavano alla festa del 1° Maggio. I fascisti si lanciarono all’inseguimento di quella che ritenevano essere una sola auto (di colore rosso sostenevano) che appariva in contemporanea in luoghi diversi e distanti. Non riuscirono nel loro intento. In compenso nell’eccitazione e nella confusione della ricerca riuscirono a uccidere un giovane aderente al fascio poggibonsese.

Il partito a Poggibonsi era costituito dal comitato federale, dal comitato di settore a cui era affidato il compito di organizzare i corrieri verso Siena e Empoli, dalle cellule alle quali toccava la propaganda fra i lavoratori, contattandoli se necessario fin dentro il sindacato fascista. Esisteva inoltre la struttura del Soccorso Rosso che raccoglieva fondi talvolta addirittura alla luce del sole, come  nel caso di Azelio Lami che approfittava del suo lavoro stagionale di venditore di caldarroste per farsi dare qualche lira da destinare alle famiglie di chi era in prigione o al confino. Si pensò anche alla pubblicazione di un giornale che in effetti sarebbe uscito con il titolo “La Scintilla”.

Alcuni arresti nel 1932 (che si estesero anche a Siena), se ebbero l’effetto di eliminare dei  militanti e di spingerne altri verso l’emigrazione (dalla metà degli anni ’20 al 1943 i senesi sorvegliati all’estero furono 218, dei quali 113 comunisti, 53 socialisti, 24 anarchici, 28 antifascisti), non distrussero la rete che poté beneficiare di alcuni ritorni in seguito all’amnistia del 1933.

Una vera e propria catastrofe si verificò invece nel 1934, sia per la clamorosa violazione delle norme di sicurezza (due incontri campestri nel 1933, con bevute e canti, in occasione del 1° maggio e dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre), sia per la scarsa resistenza agli interrogatori (e alle percosse) da parte di alcuni degli arrestati. L’organizzazione comunista sembrò cancellata non solo nella Val d’Elsa, ma in tutta la provincia.

Eppure, in modo largamente spontaneo e senza collegamenti, un nuovo gruppo sarebbe nato, fra il 1935 e il 1937, ad Abbadia S. Salvatore. Così ne raccontò la genesi Fortunato Avanzati: «Le adunate oceaniche […] avevano diffuso l’illusione che il fascismo fosse ormai imbattibile […]. Ma vi fu anche chi […] capiva che le cose stavano diversamente […]. Appunto questa riflessione stimolò me ed altri giovani badenghi a muoverci, dapprima ognuno per proprio conto […]. Poiché ognuno di noi era legato ad altri giovani nacquero nuove amicizie e, da qui un’ulteriore circolazione di idee. Ci lambiccavamo il cervello su che fare, commettendo ingenui errori come quello di ostentare il nostro antifascismo […]. Coltivavamo sempre qualche speranza di stabilire qualche contatto con l’organizzazione clandestina del partito comunista che ci avrebbe permesso di raggiungere la Spagna repubblicana».

Anche a Poggibonsi, nel 1941, ormai in piena guerra, sarebbero tornati ad incontrarsi alcuni oppositori del regime per ascoltare Radio Londra e Radio Mosca, scambiarsi informazioni e libri auspicando, secondo quanto riferiva un rapporto di polizia, la vittoria sovietica che avrebbe portato al trionfo della rivoluzione bolscevica in tutto il mondo.

Erano i segni di clandestinità rinascenti in un contesto diverso (quello delle guerre del fascismo) che da lì a due anni sarebbero state una delle molteplici radici della Resistenza.

 

Fonti d’archivio
Asmos, Casellario politico centrale, fascicoli di: Aiazzi Gino, Bonelli Gino, Bonelli Ricciardo, Borghi Pietro, Frilli Gastone, Rocchi Otello.
Archivio di Stato di Siena, Questura di Siena – III versamento, Bardini Vittorio.
Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Fondo dell’Istituto Gramsci, b. 457 e b. 1304.

Bibliografia
Avanzati Fortunato, Fatti e gente dell’Amiata, La Pietra, Milano 1989.
Bardini Vittorio, Vita di un comunista, Guaraldi, Firenze 1977.
Burresi Francesco-Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla Liberazione, Poggibonsi 209.
Detti Tommaso, La frazione terzointernazionalista e la formazione del Pci, in “Movimento operaio e socialista”, n. 4, ottobre-dicembre 1972.
Orlandini Andrea, L’antifascismo a Siena: le schede del Casellario Politico Centrale, in “Maitardi”, n. 3, 2011.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




“Comunisti d’acciaio”

Giovani e giovanissimi, di un’età compresa fra i 18 e 25 anni, a formare una serie di nuclei in alcune località del territorio provinciale, soprattutto laddove più forte era il tradizionale insediamento socialista. Un unico punto di riferimento nazionale in Amedeo Bordiga (di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, nel Senese nessuno aveva sentito parlare, o quasi). Forti motivazioni ideologiche per separarsi dal Psi. Una fede altrettanto robusta nella rivoluzione proletaria sul modello leninista. Una sostanziale incomprensione e sottovalutazione del fascismo montante, nonostante le evidenze della sua aggressività pagata spesso sulle proprie ossa. Infine, una presa elettorale minoritaria, ma non irrilevante (2.072 voti provinciali alle politiche del 1921, pari al 3,7%; percentuale confermata tre anni dopo alle politiche del 1924). Sono questi alcuni dei tratti del PCd’I della provincia di Siena ai suoi albori.
Fra le biografie dei primi iscritti, tratteggiamo di seguito quelle di Vittorio Bardini, Giovanni Guastalli e Pietro Borghi, nelle quali l’impegno politico attraverso i decenni della dittatura, fino alla Resistenza, lascia intuire l’importanza della fase fondativa del partito sulla formazione di uomini che, con una retorica riecheggiante il nome di Stalin, ma non priva di agganci alla realtà, sarebbero stati definiti “comunisti di acciaio”.
Vittorio Bardini era nato a Sovicille nel 1903. Figlio di muratore e muratore lui stesso, aderì alla gioventù socialista su posizioni massimaliste, passò al PCd’I subito dopo Livorno e divenne segretario provinciale dei giovani comunisti. Presente fra i 67 difensori della Casa del Popolo di Siena dall’assalto fascista avvenuto nel marzo 1921 con il sostegno delle forze di polizia, subì altre aggressioni squadriste. Nel 1927, dopo le leggi eccezionali, venne arrestato per ricostituzione del Partito comunista. Inviato al Tribunale speciale, ebbe una condanna a otto anni di carcere. Dopo essere uscito di galera espatriò clandestinamente in Unione Sovietica, frequentò la scuola di partito, partì per combattere in Spagna nelle brigate internazionali. Dopo aver lasciato la Spagna ormai franchista, trascorse un periodo nei campi di concentramento frances. In seguito alla sconfitta della Francia da parte dei tedeschi e alla nascita del regime fantoccio di Vichy, fu riconsegnato alle autorità italiane finendo di nuovo in carcere e al confino. Tornato libero dopo il 25 luglio 1943, dall’8 settembre si dedicò al lavoro organizzativo nella lotta contro il nazifascismo, a Siena e a Milano. Seguirono la cattura, la deportazione a Mauthausen, la sopravvivenza al campo di prigionia, il ritorno e, nel 1946, l’elezione nelle liste del Partito comunista all’Assemblea Costituente.
Anche Giovanni Guastalli era del 1903, nato a S. Lorenzo a Merse (comune di Monticiano), licenza di terza elementare, mestiere boscaiolo. Nell’ottobre 1921, da segretario giovanile della sezione del PCd’I, partecipò insieme al padre ad una manifestazione di protesta di fronte alla caserma dei carabinieri che avevano arrestato alcuni lavoratori, finendo agli arresti lui stesso. Nel 1924 espatriò in Francia unendosi a quel flusso di emigrazione che era insieme economica (la speranza di occasioni di lavoro e remunerazioni migliori) e politica (sfuggire allo squadrismo). Nella zona di Draguignan, dipartimento del Var, riprese a tagliare alberi e proseguì nel suo impegno politico e sindacale. Inviato dal partito in Italia nel 1933 per svolgere attività clandestina, fu individuato a Modena, deferito al Tribunale speciale, assolto per insufficienza di prove, scarcerato e spedito in soggiorno obbligatorio al suo paese natale, poi condannato a tre anni di confino nell’isola di Ponza.
La sua scheda biografica, redatta dalla polizia, ne descrive il comportamento: «25 febbraio 1935, denunciato per aver preso parte ad una protesta e condannato a dieci mesi di arresto; 12 marzo 1937, dimesso dal carcere viene reintrodotto nella colonia di Ponza; […] 23 giugno 1938, con disposizione ministeriale […] viene trasferito da Ponza a Tremiti; 21 luglio 1938, il consiglio di disciplina della coloniale lo punisce con 20 giorni di divieto di libera uscita per essersi rifiutato di salutare romanamente; 4 luglio 1938, 30 giorni di divieto per lo stesso motivo; 4 agosto 1938, il Ministero […] aggiunge anche due mesi di detenzione alla pena del 4 luglio; 19 dicembre 1938, ritradotto a Tremiti […]; 21 dicembre 1938, ritradotto carceri Foggia, in attesa punizione, essendosi nuovamente rifiutato di ottemperare all’obbligo del saluto romano; 31 dicembre 1938, l’On. Ministero […] autorizza infliggergli un altro mese di detenzione e lo trasferisce a Ventotene».
Infine Guastalli, senza mai aver alzato il braccio con la mano tesa venne rimandato a casa. Durante il periodo resistenziale divenne commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini.
Pietro Borghi era nato a Poggibonsi nel 1898, di mestiere falegname. La data di nascita gli aveva garantito il “privilegio” di partire soldato nella Grande Guerra. Essendo iscritto a Psi dall’età di 18 anni fu uno dei tanti socialisti a vivere la contraddizione fra il rifiuto politico e morale del conflitto e l’onorevole partecipazione ad esso sancita dalla Croce al merito. Nel 1921 passò al PCd’I e ne condivise le fasi organizzative fra Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, le due località che per un certo periodo ospitarono la sede della Federazione provinciale. Con la legislazione eccezionale passò all’attività clandestina fino al 1932, quando l’organizzazione comunista poggibonsese di cui faceva parte venne individuata. Borghi fu arrestato insieme ad altri suoi compagni, ma eludendo la sorveglianza, riuscì a scappare dalla caserma dei carabinieri dove era stato portato. La fuga lo condusse in Francia, ad Antibes e a Tolone, a svolgere azione politica e sindacale nell’emigrazione antifascista e in collaborazione con i comunisti francesi, poi in Spagna dove, come mitragliere antiaereo, si guadagnò una decorazione e il grado di tenente.
La Prefettura di Siena così ne delineava il profilo nel 1937: “Non ha desistito giammai dallo esternare i suoi inveterati sentimenti di inconciliabile odio verso il fascismo e il suo Capo del quale […] non ha esitato spesso, nelle lettere alla moglie, a preconizzare la morte. […] Tali suoi sentimenti hanno di recente avuto piena rispondenza nel gesto da lui compiuto arruolandosi nelle file rosse, il che rivela in lui maggiori sintomi di pericolosità […] esasperata anche dalla forzata lontananza dalla moglie e dal figlio per i quali nutre grande affetto e sa privi di aiuti”.
Tornato in Francia dopo la vittoria dei fascisti spagnoli, Borghi transitò in vari campi di prigionia per essere infine estradato in Italia e confinato a Ventotene. Rientrato a Poggibonsi nell’agosto 1943, divenne uno degli organizzatori del Cln della sua città e dei Gap Val d’Elsa.

BIBLIOGRAFIA

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze, Guaraldi 1977

Guastalli Giovanni, Il boscaiolo, Mulano, La Pietra 1979

Burresi Francesco, Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019

Archivio di Stato di Siena, Questura, cat. A8, b. 93, f. Giovanni Guastalli

Archivio Isrsec, Fascicoli del Casellario politico centrale, Pietro Borghi




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




La nascita della Democrazia Cristiana a Siena

La liberazione della città del Palio, come era logico, vide l’immediato riaffiorare dalla clandestinità dei partiti democratici. Già il tre di luglio 1944 (giorno in cui terminò l’occupazione tedesca), in via dei Fusari, si tenne la prima assemblea cittadina della Democrazia cristiana presieduta da Giovanni Cresti, Cesare Viviani, Alberto Radicchi e Antonio Guasparri, nonché dal domenicano Giacinto D’Urso.

Il movimento affondava le proprie radici nel Partito popolare, ma soprattutto nell’Azione cattolica, guardando, all’interno di quest’ultima, con simpatia verso coloro che provenivano dalle file dell’antifascismo[1] come lo stesso Giovanni Cresti, membro del CLN, o Martino Bardotti, un militare che aveva preferito restare in un campo di prigionia tedesco anziché aderire alla Repubblica sociale[2].

Le sfide che si presentarono al nuovo partito, una volta che il conflitto ebbe termine su tutto il territorio nazionale e che iniziò a profilarsi lo spettro della Guerra fredda, furono numerose e tra queste, nell’area senese, ebbero un gran peso l’organizzazione e la costruzione del consenso, la definizione della natura sociale del movimento, il rapporto nei confronti della forza politica che appariva il nuovo nemico, ossia il Partito comunista e, ultima ma non priva di spine, l’autonomia dalla gerarchia cattolica, gerarchia che era ben decisa a giocare un ruolo fondamentale nella DC e di fatto, almeno per i primi anni, lo fece. Furono proprio i vescovi del territorio, con il metropolita Mario Toccabelli in testa, a prendere l’iniziativa intensificando le manifestazioni religiose e conferendo, in molti casi, a queste ultime una connotazione politica più o meno evidente come nel caso della commemorazione, celebrata nel 1945, dell’offerta delle chiavi della città alla Madonna del voto per scongiurare lutti e rovine avvenuta l’anno precedente poco prima della liberazione (il 18 giugno 1944), o l’istituzione della giornata dei cattolici militanti nell’ambito della festa patronale di Sant’Ansano del 1945.

Dal canto loro i laici, costretti a fare perno sulle strutture delle parrocchie e dell’Azione cattolica, tentarono di rafforzare la loro presenza, soprattutto a partire dalla primavera-estate 1945, creando, in città e sul territorio, le prime Acli, per far breccia nel mondo del lavoro, e i centri italiani femminili, destinati a innestarsi sulle forme di filantropismo femminile già presenti in città e a operare in campo assistenziale nei confronti dei minori nonché della promozione del lavoro casalingo delle donne[3]. Gli interventi furono particolarmente intensi all’interno delle mura del capoluogo dove si tenne una vivace attività culturale organizzando lezioni su temi particolarmente attuali come ‘monarchia e repubblica’, ‘i sistemi elettorali’, ‘lo Stato e i comuni’, ‘cos’è il comunismo’, ‘perché il fascismo aveva vinto’ e si provvide, già nel primo semestre del ’45, a mettere in piedi un corso di preparazione politica per i giovani della provincia[4] mentre nel settembre successivo vide la luce il primo settimanale democristiano della provincia di Siena, ossia “Popolo e liberà”, che tuttavia ebbe un’esistenza breve e travagliata cessando le pubblicazioni nell’agosto del 1948[5].

La prima verifica sul campo a cui dovette sottoporsi la giovane DC senese furono le elezioni amministrative del 1946.

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946per il comune di Siena[6]
Votanti 34.766
Voti validi 29.078
Partito Voti Percentuale Seggi in c.c.
PCI-PSI 14.867 51,1% 21
DC 7.849 26,9% 11
Balzana 3.977 13,6% 6
PRI 1.899 6,5% 2
PdA 466 1,6% 0

Come si può osservare dalla tabella proposta, i risultati del nuovo partito, nel capoluogo, furono tutt’altro che disprezzabili in quanto la Democrazia cristiana ebbe quasi il 27% dei consensi divenendo la seconda forza cittadina alle spalle del Partito comunista, ma non solo. Il nuovo sindaco, Ilio Bocci, probabilmente per stemperare le polemiche nate nelle zone rurali dove i democristiani, talvolta, erano visti con un certo sospetto, chiese ai cattolici di entrare nella giunta e costoro, dopo una certa esitazione, decisero di accettare ottenendo tre assessorati che vennero ricoperti da Vittoria Adami Piccolomini Clementini, Arturo Viviani e Adolfo Agostini[7].

A decretare il positivo risultato per la DC cittadina era stato, prevalentemente, il voto degli impiegati pubblici, delle casalinghe, dei commercianti, degli artigiani e degli studenti medi superiori[8]. Al lusinghiero risultato del capoluogo faceva da contraltare il netto insuccesso patito nel resto del territorio dove in ben 34 comuni le sinistre avevano riportato delle affermazioni piuttosto nette lasciando al predominio cattolico la sola Gaiole in Chianti. Le ragioni di questo insuccesso furono molteplici. In primo luogo aveva giocato a favore del Partito comunista italiano l’indiscusso prestigio acquisito nell’ambito della guerra di liberazione che si era combattuta sul territorio, il nuovo clima creatosi con la guerra fredda, nonché una linea politica chiara per quanto riguardava la mezzadria. Dal canto loro i cattolici, arroccati sul tema dell’anticomunismo, non avevano saputo organizzare una strategia convincente per dare una risposta ai problemi dei contadini che, numericamente, costituivano buona parte degli abitanti delle zone rurali. Il solito Toccabelli, in una lettera al vescovo di Montalcino di qualche anno dopo, sintetizzava il nocciolo della questione affermando che “Una delle difficoltà ad avvicinare il mondo operaio da parte del clero è l’accusa che il clero è dalla parte dei padroni. Parte è pregiudizio e parte è dolorosa realtà.” In effetti all’interno della DC erano confluiti anche numerosi proprietari terrieri che, in contrasto con i compagni di partito ex antifascisti e con i cattolici sociali, erano ostili all’idea della riforma agraria, ma anche poco inclini a finanziare sul territorio l’apertura dei nascenti centri di aggregazione cattolici (all’ombra dei quali nascevano le sezioni della DC) che i parroci più intraprendenti stavano aprendo[9] per dare una risposta efficace all’associazionismo di sinistra.

Nonostante l’aspro dibattito interno legato al tema della mezzadria, il partito dovette ben presto organizzarsi per il secondo banco di prova di quell’anno, ossia le elezioni del 2 giugno 1946.

L’organizzazione per il delicato appuntamento iniziò a partire con il congresso provinciale che si tenne a Siena il 3 aprile dello stesso anno (presieduto da Amintore Fanfani, mentre il segretario provinciale era Aldo Buonomini); l’incontro era in funzione propedeutica ai lavori del primo congresso nazionale che si sarebbe tenuto a Roma dal 24 al 28 aprile successivi[10], tuttavia si decisero anche le strategie da mettere in campo sul territorio. L’orientamento della DC senese, per quanto riguarda il referendum, fu favorevole alla repubblica, ma il tema maggiormente dibattuto fu quello legato all’elezione dell’Assemblea costituente. Per quest’ultima venne fatta una campagna elettorale serrata che, come di consueto, vide il massiccio intervento della gerarchia ecclesiastica con la proclamazione per il 19 maggio 1946, da parte di Toccabelli, della giornata di preghiera per la Costituente ma non solo: si ribadì a chiare lettere, e in modo martellante, che il comunismo era inconciliabile con il cattolicesimo[11].

La macchina organizzativa democristiana, almeno per quanto riguarda la città, vide premiati i propri sforzi poiché per soli 43 voti non strappò la leadership di primo partito al PCI[12].

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea CostituenteComune di Siena[13]
Elettori   36.709
Votanti   34.092
Partito Voti Percentuale
PCI 9.839 29,96%
DC 9.796 29,83%
PSIUP 5.456 16,62%
FR.UOMO QUALUNQUE 3.379 10,29%
PRI 1.992 6,07%
DEMOC. NAZIONALE 1.181 3,60%
PARTITO D’AZIONE 439 1,34%
BLOCCO NAZ.LIBERTA’ 409 1,25%
PARTITO CRISTIANO SOCIALE 344 1,05%

Il sorpasso era tuttavia soltanto rimandato poiché, pur continuando a perdere negli altri comuni della provincia nonostante un certo rafforzamento, alle politiche del 18 aprile 1948, la DC divenne il primo partito a Siena con 15.902 consensi contro i 14.420 del fronte delle sinistre nonostante i sempre maggiori dissidi interni e l’inevitabile corsa ai posti di potere[14].

Note:

[1] Balocchi Enzo, Un democristiano senese, pp. 162-168, in La nascita della democrazia nel senese dalla liberazione agli anni ’50, Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996, a cura di Alessandro Orlandini, Firenze, ed. regione Toscana, 1997, pp.162-165.
[2] Per questa ragione, Martino Bardotti non poté partecipare alla vita politica senese fino alla seconda metà del 1945. Per quanto riguarda la sua esperienza in prigionia si veda Diario di prigionia del sottotenente Martino Bardotti. Internato militare settembre 1943 – dicembre 1944, a cura di M. Borgogni e A. Vannini, Siena, Cantagalli, 2007.
[3] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa: DC e mondo cattolico nella provincia di Siena 1945-1955, in La nascita della democrazia …, cit., p.138.
[4] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., p.166 e ss.
[5] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.158
[6] Sindaci e consigli comunali nel territorio senese del Secondo dopoguerra. Banca dati a cura di Michelangelo Borri, https://www.istitutostoricosiena.it/admin/DOC/Banca%20Dati%20Sindaci%201946.xlsx, visitato il 17 settembre 2020.
[7] Ivi.
[8] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., pp.163-165.
[9] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.145.
[10] Democrazia Cristiana (DC) – 1946-1994, in http://www.dellarepubblica.it/congressi-dc, visitato il 18 settembre 2020.
[11] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.145-146.
[12] Nella circoscrizione Arezzo-Siena-Grosseto, i costituenti eletti furono otto; quattro comunisti, due socialisti e due democristiani: Amintore Fanfani e l’avvocato senese Francesco Ponticelli, il quale tuttavia, nel settembre dello stesso anno fu costretto alle dimissioni per motivi di salute lasciando il seggio a Reginaldo Monticelli.
[13]Assemblea costituente 02/06/1946, area ITALIA, circoscrizione SIENA-AREZZO-GROSSETO, Provincia SIENA, https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=A&dtel=02/06/1946&tpa=I&tpe=P&lev0=0&levsut0=0&lev1=17&levsut1=1&lev2=75&levsut2=2&ne1=17&ne2=75&es0=S&es1=S&es2=S&ms=S, visitato il 17 settembre 2020.
[14] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.142-144.




Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia.

Fra il pomeriggio e la notte del 6 gennaio del 1920 a Pisa l’Arno rompe gli argini inondando interi quartieri, tra gli altri quello di S. Francesco subisce i danni più ingenti, le arcate del ponte delle Cascine cedono all’irruenza delle acque che, nel piano, tracimano nella zona di Uliveto e Caprona. È la seconda volta in un anno che l’alluvione mette in ginocchio la città.

A fronte della drammatica esperienza, e come già si è verificato nel corso della precedente inondazione nel gennaio del 1919, le autorità politiche non riescono a provvedere alle immediate richieste di assistenza né tanto meno ai bisogni della popolazione. Tutto ciò va ad aggravare la situazione già estremamente disagiata delle classi popolari colpite dagli aumenti dei generi di prima necessità e dalla disoccupazione[1]. A distanza di qualche giorno dalla piena, le forze dell’ordine devono intervenire per sciogliere una manifestazione di disoccupati che al grido «vogliamo pane e lavoro» tentano di avvicinarsi alla Prefettura[2].

È dalla primavera del ’19 che in città e provincia si susseguono moti spontanei di protesta, scavalcando spesso le organizzazioni sindacali e di categoria, contro le speculazioni, il rincaro dei prezzi e la disoccupazione.

I vertici prefettizi, in evidente difficoltà, subiscono continue modifiche. Ben cinque prefetti si avvicenderanno alla guida della città tra il 1919 e il 1922. Al contempo le tradizionali organizzazioni popolari, il Partito socialista, i gruppi anarchici, la Camera del lavoro confederale (CGdL) e la Camera del lavoro sindacale (USI) vedono infoltirsi le proprie file. In particolare i socialisti in questo momento sembrano essere la forza trainante dello schieramento popolare, nel collegio elettorale Pisa-Livorno alle recenti elezioni politiche del 16 novembre 1919 hanno raggiunto un risultato storico con il 41,1% dei consensi conquistati ‒ il 41,7% nella provincia pisana ‒, e ben tre deputati eletti: Giuseppe Emanuele Modigliani, Giuliano Corsi, Russardo Capocchi[3].

La speranza di arrivare in tempi brevi ad una rivoluzione «soviettista» come all’epoca si definisce, anima gran parte delle massi subalterne e fa da eco ad una propaganda caratterizzata da un forte massimalismo quasi messianico. Nel primo dopo guerra si diffonde la convinzione in tutte le forze di sinistra, che la crisi del regime liberale e monarchico sia ormai irreversibile. Il primo maggio del ’19 l’«Avvenire anarchico», il settimanale del movimento libertario locale che esce regolarmente dal 1910, apre il numero a tutta pagina con un titolo inneggiante alla imminente «rivoluzione mondiale»[4].

L’anno nuovo, quello della seconda piena dell’Arno, si apre con un altro ciclo di lotte soprattutto nel settore del pubblico impiego che crea la sensazione di essere vicini al punto di non ritorno della «marea rivoluzionaria». Proprio a Pisa sono compatti gli scioperi dei postelegrafonici che dei ferrovieri che hanno nella città della torre pendente uno dei leader più prestigiosi a livello nazionale, il macchinista anarchico Augusto Castrucci[5]; altri scioperi si verificano durante l’estate nelle campagne per il rinnovo del contratto colonico, mentre in settembre varie iniziative di protesta si verificano in occasione delle occupazioni delle fabbriche insieme ad una lunga agitazione dei boraciferi di Lardarello[6].

Di fronte alle continue manifestazioni, soprattutto quelle dei dipendenti pubblici, i partiti di governo reagiscono nel tentativo di bloccare un movimento che non solo crea disagi enormi nella pubblica amministrazione ma prende sempre più l’aspetto di un movimento di tipo insurrezionale. I pochi treni che viaggiano sono scortati da ufficiali e soldati, mentre alla stazione e lungo le linee vengono predisposti presidi militari con mitragliatrici e autoblindate. In città, come in altri luoghi in tutto il centro nord del Paese, si costituiscono gruppi di cittadini, per lo più composti da studenti e commercianti, che si offrono di sostituire i lavoratori in lotta e promuovono la costituzione di un Fascio di organizzazione civile[7]. La riunione di fondazione voluta con particolare fermezza dai dirigenti liberali locali si svolge presso l’Associazione commercianti e vi partecipano oltre ai liberali, esponenti radicali e massoni come i professori Alfredo Pozzolini, Quinto Santoli e Francesco Pardi. I popolari pur approvando i contenuti dell’iniziativa non vi aderiscono per la presenza dei massoni mentre si adoperano per costituire sindacati «bianchi» all’interno delle categorie di lavoratori più combattive. La sera stessa della costituzione del Fascio d’organizzazione civile le autorità di polizia, sotto la pressione delle forze politiche conservatrici, danno il via ad una larga serie di perquisizioni e di arresti. Per la prima volta a Pisa civili armati partecipano assieme alla forze dell’ordine al tentativo di stroncare la protesta operaia[8].  In Pisa, la notte dal 20 al 21, imperversò una bufera reazionaria, sino ridicola nella sua sproporzione. Furono arrestati da vere compagnie di armati, a baionetta innestata, tutti i più noti estremisti della città: G. Petracchini, E. Facciaddio, V. Mazzoni, F. Cioni, G. Fontana, G. Mariani, F. Gori ed altri moltissimi ferrovieri: Pagliai, Matteini, De Filippis, Cappagli, Castellacci, Favali e alcuni socialisti: Stizzi, Cammeo, ecc. […] Il giorno dopo, malgrado lo stato d’assedio effettivo, il terrore e lo scorrazzare per la città di camions armati di mitragliatrici e di gruppi di violenti e brutali armati provocatori. La città protestò spontaneamente proclamando lo sciopero generale, che non cessò che quando vennero posti in libertà tutti gli arrestati[9]. Lo sciopero dei ferrovieri si chiude il 30 gennaio con una vittoria: il governo è costretto ad accettare le richieste dei lavoratori; la riassunzione del personale licenziato, le otto ore di lavoro per il personale di macchina e per quello viaggiante, l’istituzione di finanziamenti per la costruzione di abitazioni per i lavoratori e l’introduzione nel Consiglio d’Amministrazione di cinque rappresentanti dei sindacati.

Tuttavia la mobilitazione delle organizzazioni proletarie continua ed il giorno stesso della conclusione dello sciopero arriva in città Errico Malatesta, l’agitatore anarchico che rientrato da poco più di un mese in Italia, ha assunto un ruolo determinante non solo all’interno del movimento anarchico ma più in generale per tutto il movimento operaio. Egli viene salutato da una folla che via via si infoltisce dietro il passaggio delle bandiere e l’eco degli inni proletari. Il «Lenin d’Italia», come Malatesta viene soprannominato tiene un acceso comizio in piazza dei Cavalieri, attorniato dai suoi compagni di fede. Il giorno dopo va a Livorno e al ritorno, nella nottata del 2 febbraio, viene arrestato a Tombolo[10]. Subito la notizia si propaga in ogni città e nei borghi delle province toscane. Le Camere del lavoro della regione proclamano uno sciopero generale. La sera stessa il governo è costretto a rilasciare il rivoluzionario. L’arresto di Malatesta non è casuale[11]. Il suo ritorno in Italia coincide, infatti, con una crescita notevole del movimento libertario: nella primavera del 1919 si costituisce a Firenze l’Unione comunista anarchica italiana che raccoglie centinaia di gruppi e sezioni in tutta Italia. Il movimento libertario può contare su solide radici nel tessuto popolare di vaste aree del paese come la Liguria, la Toscana, le Marche, ecc., inoltre ha una notevole influenza sull’Unione sindacale italiana, l’organizzazione sindacalista rivoluzionaria, il cui segretario è l’anarchico Armando Borghi[12], che conta diverse centinaia di migliaia di iscritti. Proprio intorno alla metà gennaio del ’20, durante lo sciopero dei dipendenti pubblici, il lavoro degli anarchici si concentra nel tentativo di portare sul piano operativo il Partito socialista nell’ipotesi di un progetto insurrezionale. Proprio a questo scopo gli anarchici organizzati propongono un fronte unico proletario dal basso quale elemento fondamentale della proposta rivoluzionaria che rivolgono a tutte le forze della sinistra di classe[13]. Il tentativo però fallisce soprattutto per l’opposizione di Serrati che è contrario ad un fronte che coinvolga anche il movimento fiumano di Gabriele D’Annunzio[14]. A febbraio esce il primo numero del quotidiano «Umanità nova» che arriva ad avere una tiratura di circa cinquantamila copie, nonostante i boicottaggi messi in opera dal Governo.

Pisa si colloca all’interno di questo progetto in una posizione particolare e contraddittoria. Da una parte la forte tradizione anarchica fa si che la cittadina sia considerata uno dei cardini della rete del movimento[15], dall’altra le posizioni critiche della redazione del settimanale l’«Avvenire anarchico» e di gran parte dei gruppi locali sul progetto di un’organizzazione unitaria nazionale comporta un forte antagonismo nei confronti della neonata Unione e di «Umanità nova»[16].

La cultura e l’orientamento politico degli anarchici pisani riflettono in parte quelle che sono caratteristiche molto diffuse in buona parte del movimento operaio e anarchico di quei tempi: un eccessivo massimalismo che nel caso pisano fa da cornice a una forte tradizione antiorganizzatrice, anche se su basi comuniste-anarchiche. Con l’arrivo di Renato Siglich (Souvarine) alla redazione del settimanale, anarchico individualista e «illegalista» triestino[17], le posizioni antiorganizzatrici dei gruppi pisani si rafforzano. Nonostante ciò l’anarchismo locale mantiene una notevole influenza su numerosi settori proletari della città. Le contraddizioni del gruppo redazionale dell’«Avvenire anarchico» si evidenziano in occasione dei moti del caroviveri dell’estate del ’19. Infatti la redazione esalta la spontaneità e l’autonomia delle masse e saluta la costituzione dei «comitati operai» come nuova forma di organizzazione capace di scavalcare le organizzazioni politiche e sindacali, ma al momento della proclamazione degli scioperi i redattori non possono fare a meno di intervenire sia come rappresentanti delle masse in movimento, nei confronti delle autorità, sia per stringere alleanze con i «cugini» socialisti[18].

La polemica antisocialista comunque, si rafforza anche per le posizioni del Partito socialista che oscillano fra il massimalismo ed il riformismo senza entrare quasi mai nei termini operativi per lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Il contrasto poi si accentuerà, a livello nazionale, nel 1920 per i cedimenti della CGdL e del PSI – si pensi solo ad esempio all’atteggiamento della direzione del partito nei confronti dell’occupazione delle fabbriche – ma a livello locale si acutizzeranno già durante i primi giorni di maggio quando l’eco dei moti di Viareggio arriva in città.

Nell’occasione la Camera del lavoro sindacale e gli anarchici tentano di proclamare uno sciopero generale cittadino di solidarietà ma il progetto non trova molte adesioni e ad esso si oppongono francamente i socialisti. Gli anarchici accusano di tradimento il PSI e scatenano contro il gruppo dirigente del partito una violenta polemica che si trascina per parecchi mesi, esasperata anche dal fatto che le Guardie regie occupano arbitrariamente, per la prima volta, la Camera del lavoro sindacale[19] aderente all’USI. La sede era allora in una parte dell’attuale edificio dell’ex convento delle Benedettine e l’organizzazione sindacale pur essendo circoscritta nell’ambito territoriale della città, poche erano le sezioni a Cascina e Pontedera, poteva contare su diverse migliaia di iscritti, su un organo di stampa, il «Germinal», e su un attivo segretario come Primo Petracchini e propagandisti come Gusmano Mariani[20].

Fra anarchici e socialisti nascono altri dissidi non solo sulla questione degli scioperi politici e di solidarietà ma anche su altri problemi come l’organizzazione degli ex-combattenti. In città esiste già un’associazione di ex-combattenti rigidamente legata ad ambienti nazionalisti e conservatori. Fra le file dei rivoluzionari il problema è sentito non solo da un punto di vista rivendicativo, cioè di difesa degli interessi economici e assistenziali, ma anche in funzione di una prospettiva rivoluzionaria. Come in Russia si pensa che i soldati e gli ex combattenti possano avere un ruolo fondamentale nel processo rivoluzionario. Gli anarchici puntano sulla creazione di associazioni autonome di ex-soldati non legate ad ipotesi istituzionali. E a Pisa nasce dalla confluenza di elementi anarchici e socialisti, una Sezione autonoma combattenti che non ha, comunque, grande fortuna anche per lo sviluppo di una sezione della Lega proletaria sostenuta soprattutto dai socialisti e criticata dagli anarchici che vedono l’associazione come una emanazione del Partito con un solo fine, quello di aumentarne il consenso elettorale[21].

Il Partito socialista da parte sua non rinuncia all’antagonismo storico nei confronti del movimento anarchico, forte anche del fatto che per la prima volta dalla nascita del movimento operaio locale, sta assumendo un ruolo sempre più egemonico grazie ad una sua crescita soprattutto nelle campagne dove l’organizzazione Camerale, guidata dai socialisti, conta, all’inizio del 1920, oltre ventimila organizzati[22].

Nell’estate del ’20, come già accennato, le campagne sono attraversate da una lunga agitazione dei contadini che nella provincia avrà un epilogo tragico: ad Orciano, nella metà di luglio, una manifestazione di contadini viene fatta segno da parte dei carabinieri di numerosi colpi d’arma da fuoco causando la morte di un colono e il ferimento di alcune persone[23]. Lo sciopero che in tutta la Toscana coinvolge migliaia di contadini e coloni è importante perché, oltre a conquistare il primo e unico patto colonico regionale[24], rappresenta anche una prova di forza nei confronti dei popolari che negli ultimi due anni hanno fatto notevoli progressi nell’organizzazione sindacale delle leghe «bianche». Lo sviluppo del leghismo bianco coincide con quello del Partito popolare, soprattutto con la costituzione della Confederazione italiana del lavoro (CIL) il cui primo congresso nazionale si svolge nel marzo del 1920 proprio nel capoluogo della provincia[25]. Il sindacalismo cattolico, che si pone su di un piano di aperta rivalità nei confronti di quello socialista, è guidato da Giovanni Gronchi, deputato al parlamento e segretario della CIL, e ha le sue principali roccaforti fra i piccoli coltivatori ed i mezzadri[26], in particolare della Valdera, anche se non mancano sezioni fra i lavoratori tessili, ferrovieri e postelegrafonici. Nella mezzadria i cattolici vedono il superamento della concezione classista del socialismo. Nella mezzadria l’antitesi sociale, di cui si nutre il socialismo per nutrire l’odio di classi, è soppressa. Il lavoratore dei campi è un socio del proprietario. La proprietà diventa un condominio, nel quale l’ingegno e il braccio, il lavoro e il capitale si fondano in una delle più alte forme, nella primordiale e fondamentale forma di produzione della ricchezza[27]. La struttura dell’economia agraria della provincia pisana, che all’epoca si estende fino all’alta Maremma e tocca un centro industriale importante come Piombino[28], è legata all’istituzione della mezzadria, mentre il latifondo riguarda più la parte meridionale, quella appunto dell’alta Maremma. La mezzadria fino all’epoca è stata una delle colonne del sistema politico e sociale della Toscana intera e vanto delle classi dirigenti moderate che vedono in essa un ottimo «vaccino» contro il dilagare del socialismo. Nell’immediato dopoguerra questo sistema entra in crisi e il mondo della campagna si sposta decisamente verso sinistra accentuando profonde contraddizioni che esplodono in conflitti di classe di grande importanza[29].

Pisa città rimane all’epoca un’area urbana dove il salto industriale si è fermato e non ha saputo cogliere lo slancio della dinamica nazionale. Gran parte delle manifatture presenti sul territorio sono legate al settore tessile[30] e le uniche grandi realtà industriali della città rimangono la Saint Gobain, per il vetro, e la Richard Ginori per la ceramica. Le classi subalterne sono composte in grandi linee, da un cospicuo settore femminile di lavoranti tessitrici, le cosiddette «fabbrichine», da un ceto operaio qualificato presente nelle industrie vetrarie e ceramiste, da un consistente nucleo di edili e soprattutto da un combattivo e omogeneo gruppo di ferrovieri[31]. Di fronte all’ondata delle lotte rivendicative e all’occupazione delle fabbriche le forze che all’inizio dell’anno hanno dato vita al Fascio d’organizzazione civile si riorganizzano, soprattutto in previsione delle elezioni amministrative dell’autunno, in un blocco eterogeneo liberaldemocratico di cui fanno parte oltre ai liberali, il Partito radicale con in prima persona Alfredo Pozzolini, maestro venerabile, i pensionati, i socialriformisti, i nazionalisti e le associazioni dei combattenti e mutilati.

Qualche mese prima nel frattempo, il 28 aprile 1920 a Pisa, alla presenza dello squadrista fiorentino Abbatemaggio[32], si è costituito il primo Fascio di combattimento. I primi aderenti sono soprattutto studenti, ex militari e liberi professionisti. Segretario è Luigi Malagoli che ben presto entrerà in rapporto con i vertici del movimento fascista, ed in particolare con Umberto Pasella che fa visita alla nuova sezione nel giugno del 1920[33]. Nella provincia i fasci di combattimento nasceranno più tardi fra l’ottobre del 1920 ed il gennaio-febbraio del 1921. La presenza del fiorentino Abbatemaggio testimonia, come poi successivamente sarà confermato, che la diffusione del fascismo in tutta la Toscana è legata in gran parte all’opera organizzatrice del centro di Firenze, che offre ai centri periferici della regione i quadri, i finanziamenti, le armi e le coperture politiche. A Firenze nasce uno dei primi fasci di combattimento della regione con l’aiuto del segretario nazionale Umberto Pasella e nella medesima città si tiene tra il 9 e il 10 ottobre del 1919 la prima adunata nazionale con la partecipazione di Benito Mussolini, Filippo Tommaso Marinetti, il capitano degli arditi Ferruccio Vecchi oltre al già citato segretario[34]. Umberto Pasella è il trad-union tra la sede di Milano e la Toscana grazie ai suoi rapporti di affari e d’interessi generali con gli ambienti economici e le autorità del capoluogo regionale. La figura del segretario sintetizza bene lo stereotipo del primo militante del nascente fascismo: ex segretario della Camera di lavoro di Piombino, è nato ad Orbetello, ex funzionario di altre organizzazioni economiche e sindacali a cavallo del primo decennio del secolo, vive di espedienti vari, il prestigiatore, il commerciante e il «truffatore». Dopo l’esperienza sindacalista, trasferitosi a Firenze per seguire i propri affari, diventa un acceso interventista e durante la guerra si avvicina alle posizioni di Mussolini. Non mancherà, come riferiscono alcune testimonianze di suoi “camerati d’armi”, di lavorare per il contro spionaggio dando informazioni sul movimento sovversivo. Tutta questa attività gli permette di stringere amicizie sia negli ambienti militari, sia nell’alta borghesia fiorentina. Sarà proprio lui, uno dei partecipanti alla fondazione dei Fasci a Milano il 23 marzo 1919, di cui ricoprirà fino al novembre del 1921 la carica di segretario generale, ad introdurre e a portare alla segreteria fiorentina all’inizio del ’21 il massone, interventista e “marchese” Dino Perrone Compagni[35].

06_Pardi_FrancescoCon la fine del 1920 e l’inizio del 1921 quello, che fino ad allora è sembrato un movimento di scarso rilievo e incisività ha un’improvvisa svolta ed è interessante cercare di capire come sia potuto maturare nel particolare clima politico e sociale di allora in Italia. L’occupazione delle fabbriche di settembre ha spaventato non poco le classi medie e i ceti dirigenti dando l’idea che i lavoratori siano capaci di preparare un’insurrezione rivoluzionaria, PSI e CGdL nonostante le proprie incertezze sono viste come i principali responsabili della «bolscevizzazione» del paese. A Pisa come detto sono i liberali e buona parte della massoneria che sostengono con maggiore determinazione, in questo spiazzando il nascente fascio locale, la necessità di un’organizzazione di autodifesa di fronte all’assenza dell’autorità statale nel far rispettare l’ordine e la legge[36]. In previsione della campagna elettorale, come detto, i liberali propongono una coalizione d’ordine guidata dalla loro organizzazione sotto il nome di Fascio liberale democratico che raccoglie l’adesione, oltre che della sezione pisana del Partito liberale, anche quella del Partito radicale, del Gruppo nazionalista, dell’Associazione fra i pensionati e quella più importante dell’Associazione dei combattenti[37]. Scopo principale della nuova coalizione, sostituendo l’aspetto meramente localistico/amministrativo con quello politico della scadenza elettorale, è quello di contrapporre un fronte unico «antibolscevico» alla «torbida marea comunista che avanza», un’alleanza politica di difesa dei «più nobili valori morali che costituiscono l’essenza della nostra civiltà». Esponenti di spicco dell’alleanza sono il professore Giovanni Battista Queirolo, il docente Francesco Pardi, l’industriale Luigi Guidotti e l’agrario Francesco Ruschi[38]. Bersaglio della campagna elettorale del blocco liberale condotta attraverso le pagine del periodico «Rinnovamento» per le amministrative d’autunno non sono solo i socialisti ma soprattutto i popolari e i repubblicani che sono degli antagonisti diretti nel controllo dei ceti medi, artigiani e commerciati, come del mondo contadino. I popolari e i repubblicani vengono attaccati con una campagna virulenta che vuole denunciare i loro cedimenti verso la sinistra[39].

Sul piano nazionale questo primo banco di prova per i liberali, dopo un periodo contrassegnato da forti conflitti sociali e dalla sconfitta elettorale dell’anno precedente, rappresenta un tentativo di riscatto seppur parziale delle forze moderate borghesi e l’esperienza dei «blocchi nazionali anti-bolscevichi» verrà riproposta in molte zone per le elezioni politiche del maggio 1921. Fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre si tengono le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali, il fronte liberale conquista la città di Pisa. I liberali con 48 seggi controllano la maggioranza del consiglio comunale (20 liberali, 5 democratici nazionali, 4 pensionati, 7 combattenti e 12 fra radicali, socialriformisti e democratici indipendenti). Il Partito repubblicano con 12 seggi rappresenta l’opposizione mentre popolari e socialisti rimangono esclusi dal consiglio. La coalizione vincente esprime come sindaco Francesco Pardi, presidente della sezione pisana del PLI. Va detto che queste elezioni sono ampiamente caratterizzate da un astensionismo diffuso, soprattutto tra le classi subalterne, che tocca il 44% per le elezioni comunali in città mentre per le provinciali si attesta intorno al 55,5%. Nelle elezioni per il consiglio provinciale si affermano invece nettamente i socialisti con 23 consiglieri mentre le altre forze politiche conquistano pochi seggi a testa: 4 popolari; 5 repubblicani e 8 liberaldemocratici. Ad accentuare la frattura politica tra la città della Torre e la provincia vi è poi il dato delle elezioni degli altri comuni dove 26 amministrazioni su 42 vanno ai socialisti, 5 ai popolari, 2 ai repubblicani, mentre i liberali riescono a spuntarla oltre che a Pisa in soli altri nove comuni[40].

L’andamento delle elezioni amministrative locali, nonostante l’affermazione dei socialisti in provincia, comporta però una grossa novità nel quadro politico, come già sottolineato in campo storico, e cioè lo spostamento di una parte consistente dell’opinione pubblica di centro e moderata verso destra. L’affacciarsi sulla scena politica del movimento fascista offre alla borghesia cittadina un’alternativa come forza d’ordine e baluardo contro i movimenti sovversivi soprattutto dopo la grande paura del settembre con l’occupazione delle fabbriche[41]. In campo locale, come vedremo più avanti, l’ultima campagna elettorale contribuisce ad avvicinare il fronte liberale con quello fascista nonostante quest’ultimo, per motivi tattici, si sia astenuto dalla partecipazione diretta alle elezioni. Di fatto però il repentino cambiamento del clima politico sancisce l’avviamento di un processo non sempre lineare di fusione di forze che si concretizzerà l’anno successivo con la riorganizzazione del fascio locale e l’ingresso di nuovi elementi e dirigenti.

Nel frattempo il quadro politico nazionale si aggrava: la crisi di Fiume, fra il governo e i legionari guidati da D’Annunzio, ha un’impennata improvvisa che sfocia nel conflitto del Natale del 1920. Giolitti è sotto il fuoco della destra e della sinistra, in particolare la stampa e le associazioni degli industriali e degli agrari lo attaccano per la sua politica considerata troppo cedevole verso le sinistre. In realtà Giolitti non è stato con le mani in mano, da un parte è riuscito ad imbrigliare la dirigenza socialista e a condurre in porto la crisi determinata dalle occupazioni delle fabbriche e dall’altra ha avviato una vasta operazione repressiva contro il movimento anarchico e del sindacalismo d’azione diretta senza suscitare l’opposizione decisa del PSI e della CGdL. Ad ottobre, fra il 17 e il 21, Errico Malatesta, Carlo Frigerio, Armando Borghi, Luigi Fabbri, la redazione del quotidiano anarchico «Umanità nova», i principali esponenti dell’Unione anarchica italiana e dell’Unione sindacale italiana insieme a centinaia di propri iscritti finiscono in carcere con accuse pesantissime. Una delle avanguardie del movimento operaio viene così decapitata in un momento delicatissimo dal punto di vista politico.

Il 5 novembre a Firenze nel contempo si riuniscono in un convegno regionale i fascisti; le uniche realtà presenti oltre al capoluogo regionale e dintorni sono Siena e Pisa[42]. Nella stessa città, un mese più tardi e precisamente il 1° dicembre, è convocato un congresso degli agrari toscani che decreta la costituzione dell’Associazione agraria toscana. L’associazione diviene ben presto una delle principali finanziatrici del movimento di Mussolini e fascisti saranno i suoi principali esponenti. È a questo punto che a dirigere il fascismo toscano entra il marchese Dino Perrrone Compagni che è nominato segretario del fascio fiorentino nel febbraio del 1921 e con lui arrivano i primi consistenti finanziamenti e le prime partite d’armi[43]. Il fascismo pisano trae giovamento da questa serie di novità nei vertici regionali mentre fino ad ora non ha trovato molto spazio in città e nel resto della provincia.

Il fronte «antibolscevico» conquistato il comune ma non la provincia[44] inizia una dura campagna con lo scopo di delegittimare i socialisti dalla guida dell’amministrazione provinciale. Tale iniziativa di fatto porta all’intesa politica fra il Fascio liberale e il Fascio di combattimento che uscito da una crisi di attività, e grazie all’intervento deciso del centro milanese e di quello fiorentino, sostituito il segretario Malagoli con Bruno Santini ex capitano degli alpini[45], pubblica all’inizio del dicembre sul giornale «Il Ponte di Pisa», organo del Fascio liberale, il proprio programma che recita:

1 ‒ Difesa dell’ultima guerra nazionale e valorizzazione della vittoria; 2 ‒ Rappresentanza dei lavoratori nel funzionamento dell’industria; 3 ‒ Affidamento alle organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente), della gestione di industrie e servizi pubblici; 4 – Formazione dei Consigli nazionali tecnici del lavoro, eletti dalla collettività professionali di mestieri con poteri legislativi; 5 – Sistemazione tecnica e morale dei grandi servizi pubblici sottratti alle burocrazie di Stato che li manda in rovina. Mentre i “postulati di opposizione” sono: “I fasci non disarmeranno finché non avranno vinto: 1 ‒ Chi diffama la nostra guerra, svaluta la vittoria, esalta i disertori e deride i combattenti; 2 ‒ Chi minaccia la rivoluzione bolscevica, chi è contro la tradizione, la capacità e la reale situazione italiana; 3 ‒ Chi provoca e calunnia i nostri uomini e i nostri organismi; 4 – Chi sfrutta e turlupina le masse dei lavoratori manuali e tecnici; 5 ‒ Chi si agita su un terreno permanente antinazionale […]. Al di sopra delle classi e dei partiti, i Fascisti pongono la Nazione […] Difendono tutte le libertà contro ogni violenza con ogni violenza[46].

 Si aggrega nel nascente fascismo pisano quella parte di gioventù, che individua nella crisi del sistema liberale gran parte dei mali del paese ed è violentemente avversa a coloro, i sovversivi, che negano ogni valore ideale alla guerra combattuta e alla difesa degli interessi nazionali. Comunque nell’autunno del 1920 il fascio pisano non supera ancora il centinaio di iscritti. Altri “ras” fascisti tristemente noti per le loro imprese iniziano il loro apprendistato come Alessandro Carosi, farmacista di Vecchiano, che sarà autore di diversi omicidi e Francesco Adami di Navacchio[47].

L’alleanza stretta fra liberali, combattenti, nazionalisti e fascisti – quest’ultimi comunque, in questo momento, molto critici nei confronti dei propri alleati e non disposti a ruoli subalterni – porta alla prima azione di una certa consistenza proprio contro la «giunta rossa» dell’Amministrazione provinciale. La lotta contro le «amministrazioni rosse» ha già avuto degli epiloghi tragici a Bologna e sicuramente quegli eventi hanno avuto un’influenza nel determinare la decisione da parte dei fascisti locali di bloccare anche a Pisa l’insediamento del Consiglio provinciale. D’altronde per tutto il fronte liberale, conservatore, massonico e nazionalista l’elezione a presidente della Provincia dell’ex «anarchico», ora socialista di sinistra, Ersilio Ambrogi[48] viene vista come un passo verso la «bolscevizzazione» delle amministrazioni locali e va impedita ad ogni costo.

Fatti affluire in città il 4 dicembre, ma l’impresa si ripeterà anche il 14 dicembre, fascisti da altre province, soprattutto da Firenze, si impedisce al Consiglio provinciale di insediarsi e con soddisfazione il «Ponte di Pisa» può salutare la «vittoria» della parte «buona» della nazione[49]. A margine della seconda azione il 14 dicembre, nel pomeriggio, viene attuata un’altra spedizione a Lucca contro un comizio dei socialisti che causa la morte di due sovversivi e il ferimento di numerose persone[50]. Il Consiglio provinciale potrà riunirsi e deliberare l’elezione dei propri organi ai primi del gennaio del 1921 quando le forze socialiste, nonostante la presenza di squadre armate fasciste, riescono a garantire il regolare svolgimento della seduta[51]. L’attività del Consiglio provinciale verrà tuttavia bloccata dal prefetto Achille De Martino, condizionato e complice delle forze moderate e conservatrici, che emanerà un decreto di sospensione come misura di ordine pubblico[52].

L’azione delle squadre fasciste che riescono ad impedire l’insediamento del Consiglio provinciale da un ulteriore impulso alla diffusione dei fasci in provincia che, sempre con l’aiuto del centro fiorentino, iniziano a costituire nuclei in tutte le principali località. Ad esempio, a Lardarello il principe Ginori-Conte si fa promotore con l’aiuto di squadristi fiorentini della costituzione del fascio locale, di cui primo finanziatore sarà lui stesso, composto da impiegati e capo-reparti delle proprie aziende. Sarà poi lo squadrista fiorentino Giuseppe Fanciulli che con i propri uomini devasterà l’intera zona di Volterra, Pomarance e Lardarello, tanto da destare le preoccupazioni delle autorità che cercheranno in un primo momento di limitare la furia distruttrice dello squadrista, senza per altro riuscirvi[53].

Il nuovo anno si aprirà con l’esplodere del conflitto fra le organizzazioni operaie e le squadre dei fascisti, soprattutto nell’Emilia Romagna, subito dopo la conclusione del XX congresso di Livorno del PSI che vede la nascita del Partito comunista d’Italia. Una conseguenza dell’attacco fascista all’amministrazione provinciale guidata dai socialisti e in particolare al suo presidente Ambrogi, che in questo momento ricopre anche l’incarico di sindaco di Cecina, si avrà proprio alla fine di gennaio del 1921. La causa del nuovo conflitto scatenato dai fascisti nasce dalla decisione, presa qualche tempo prima, della giunta comunale di Cecina di rimuovere una lapide con il bollettino della vittoria della guerra del ’15-’18. La spedizione avrà un esito inatteso: all’arrivo nella cittadina i fascisti trovano i socialisti pronti a difendersi e al primo sparo segue una fitta serie di colpi che alla fine lasciano feriti sul campo alcuni fascisti di Livorno di cui uno morirà nei giorni successivi[54]. I carabinieri che partecipano al conflitto, dopo la cessazione della sparatoria, occupano la sezione socialista. Il sindaco Ambrogi verrà arrestato insieme ad altri socialisti e la città sarà messa in stato d’assedio. Il sindaco sarà poi dal prefetto destituito dall’incarico perché come riportano le cronache dei giornali dell’epoca ha «levato dagli uffici del Municipio di Cecina i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[55].

10_Pisa_Manifestazione_fascista_1921Nei medesimi giorni a Firenze si proclama uno sciopero generale contro la violenza degli squadristi che si sono resi responsabili della distruzione della tipografia e della redazione del giornale socialista «La Difesa». E mentre alla Camera si apre un infuocato dibattito sulle imprese del movimento di Mussolini, a Pisa e in tutta la Toscana, la tensione cresce. In città si apre una vertenza fra la giunta del sindaco Pardi e gli spazzini in gran parte libertari e aderenti all’organizzazione sindacale dell’USI. Lo sciopero dura quasi un mese con un crescendo di tensione: gruppi di studenti e fascisti cercano invano di sostituire gli scioperanti e gli spazzini vengono intimiditi con tutti i mezzi[56]. La vertenza si conclude sull’onda degli eventi che scoppiano dopo le drammatiche giornate di Firenze di fine febbraio, con una parziale accettazione da parte della Giunta delle richieste degli operai. La nuova offensiva fascista prende un impulso decisivo soprattutto dopo la battaglia di Firenze. Tra il 28 febbraio e il 1° marzo del 1921, dopo l’ennesima provocazione e un attentato, l’esercito, le guardie regie ed i carabinieri attaccano i quartieri popolari d’Oltrarno. Dopo tre giorni di combattimento in cui vengono utilizzate anche le autoblindo la resistenza popolare cede. Le squadre fasciste entrano nei quartieri protette dall’esercito e si lasciano andare ad efferati delitti. Già nel primo giorno di combattimenti uccidono Spartaco Lavagnini, esponente di spicco del sindacato ferrovieri e dei comunisti locali, e alla fine i morti saranno oltre venti, un centinaio i feriti e oltre cinquecento gli arresti fra i sovversivi. Nei giorni successivi incidenti simili a quelli di Firenze accadono a Empoli (1° marzo), a Siena (4 marzo) dove la Camera del lavoro viene cannoneggiata, San Giovanni Valdarno, Foiano della Chiana, Castelnuovo dei Sabbioni fino ad Arezzo ed oltre[57]. A Firenze, d’altronde i fascisti possono contare, oltre al sostegno delle alte gerarchie militari e buona parte della borghesia cittadina, sull’appoggio di un giornale quotidiano come «La Nazione» che via via definisce le imprese dei “fasci” come «gite» di propaganda, mentre ne riporta freddamente i resoconti in numero dei morti e dei feriti. L’azione dei gruppi sovversivi è invece descritta quasi sempre in termini briganteschi. Anche nella provincia pisana le testate giornalistiche di tendenza conservatrice o liberale si allineano a quelle nazionali. «Il Corrazziere» di Volterra definisce il fascismo «nobile e santa manifestazione di italianità, […] meravigliosa reazione contro i nemici interni venduti alla Russia…» e i sovversivi «epigoni dell’ebreo Lenin»[58]. Anche un giornale cattolico come «Il Messaggero toscano» non riesce a mantenere una posizione equidistante, accecato dal fanatismo antisocialista, definisce sempre le azioni dei sovversivi «agguati» mentre le violenze fasciste a parte le recriminazioni formali sono sempre giustificate come forme di autodifesa.

Le spedizioni ora nascono una dopo l’altra in un susseguirsi convulso. Le squadre fasciste chiamate dai propri simpatizzanti, arrivano nei paesi anche più piccoli della campagna toscana, all’improvviso, generalmente la mattina molto presto: innalzano la bandiera nazionale; con le liste dei proscritti, quasi sempre fornite dalla questura o dal comando dei carabinieri, bastonano, incendiano, uccidono e saccheggiano. Uno di questi squadristi ci ha lasciato un’utile ed esplicativa testimonianza per capire lo stato d’animo dei fascisti galvanizzati dalla vittoria di Firenze:

 12 marzo (1921). Voliamo, è la parola esatta, in soccorso dell’esimo professore bloccato in casa dagli anarchici a Santa Maria a Monte in quel di Pisa. Una telefonata ieri sera dal Fascio, e eccoci in quindici già in viaggio verso Pontedera in questa prima mattina di sole caldo. Siamo allegri e le giornate di Firenze ci hanno resi audaci, ora si può portare sicuri il Fascismo in altre province, ‘che Firenze l’è bell’e che addomesticata’. Come dice Solino. ‘E in dove si va? a S. Lucia?’ No, a S. Maria a Monte, dove ci sono gli anarchici[59].

 A Pisa, come in tutta la Toscana, la risposta popolare non si fa attendere e dopo i fatti di Firenze viene proclamato lo sciopero generale. A Pisa lunedì 28 febbraio i ferrovieri tengono un comizio davanti alla stazione dove parlano Roberto Barsotti, De Filippis e Bechi. Il giorno dopo sale la tensione e le forze dell’ordine faticano molto a tenere a distanza i gruppi dei sovversivi dai fascisti, i quali cercano di attraversare la città con un piccolo corteo che percorre Borgo Stretto, ponte di Mezzo e Lungarno Gambacorti sciogliendosi senza incidenti. Nel pomeriggio scontri tra opposte dazioni scoppiano in piazza dei Miracoli e si propagano in via S. Maria e piazza dei Cavalieri con continue sparatorie che causano il ferimento di due giovani. Il 2 marzo si svolge un grande comizio di protesta nell’ex giardino dell’Arena, vicino alla cooperativa dei ferrovieri. Oltre duemila persone rispondono all’appello delle forze politiche e sociali della sinistra; gli oratori si susseguono, per primo interviene Serrati, di passaggio a Pisa, segue Mingrino, segretario della Camera del lavoro confederale, Pagliai per i ferrovieri e Mariani per gli anarchici. Il comizio decide la prosecuzione dello sciopero fino a quando il Sindacato ferrovieri lo riterrà opportuno. I dimostranti dopo il comizio vengono caricati dalla forza pubblica e gli scontri si allargano al resto della città che ormai vive da tre giorni in un clima da guerra civile. La sera a Porta nuova un nuovo conflitto fra fascisti e sovversivi lascia ferito un altro giovane aderente al fascio di combattimento. Numerosi sono gli arrestati fra i sovversivi, mentre i fascisti partecipano insieme alle forze dell’ordine alla repressione. Per due volte si tenta di prendere d’assalto la Camera del lavoro confederale ma senza risultati. A Pontedera le guardie regie fanno irruzione in un circolo comunista devastandolo e arrestando venti sovversivi.

Negli stessi giorni anche il piano pisano è scosso dal moto di protesta contro la violenza fascista. Il fatto più grave accade nella zona di S. Casciano e S. Prospero dove i popolani che stanno assistendo ad un comizio alla vista della macchina del marchese Serlupi, inviso proprietario terriero nonché fascista, si lanciano in una disperata rincorsa. Secondo la versione dei viaggiatori, l’auto sarebbe stata fermata, il marchese aggredito insieme alla moglie e nel tentativo di difendersi egli avrebbe estratto la rivoltella e sparato a casaccio ferendo gravemente un giovane di sedici anni, Angelo Di Sacco. Serlupi e la moglie visto il «disorientamento» della folla sarebbero poi riusciti così a scappare e raggiungere Pisa. La versione popolare parla invece di colpi di rivoltella sparati dall’auto in corsa contro i proletari che stanno assistendo al comizio. Diffusasi la notizia del fatto, immediatamente nasce una spontanea manifestazione che si dirige verso la casa del marchese a S. Casciano. Ma i dimostranti giunti all’abitazione trovano il figlio del Serlupi e altre persone che sparano sui manifestanti disarmati. Cade ferito a morte Enrico Ciampi, molti altri sono feriti, come i popolani Giuseppe Pecchia, Giuseppe e Olga Betti. Molti dei feriti di questi scontri non si faranno medicare all’ospedale per paura di essere identificati e arrestati. Il sopraggiungere dei carabinieri in aiuto del figlio del marchese farà terminare il conflitto. Il giorno dopo a Navacchio e nelle zone circostanti un manifesto annuncia lo sciopero e sui negozi viene affisso un cartello con la scritta «chiuso per lutto proletario»[60]. A Livorno a metà del mese ci sono furiosi scontri fra fascisti e sovversivi e sempre nella città marinara si svolge il 22 un convegno regionale fascista che commemora i propri caduti ed elabora i propri progetti di assalto alle cittadelle rosse della Toscana che ancora resistono. Il 25 marzo da Pisa parte una squadra di fascisti diretta a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte al fascio locale per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei «Soviet». L’obiettivo viene raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese per affrontare i fascisti che si danno alla fuga. Alcuni di loro però rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto dell’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati. Nel tafferuglio che nasce tra gli operai e i fascisti che anno la peggio. Il fascista pisano Tito Menichetti rimane a terra ferito mortalmente[61].Pisa il giorno dopo è listata a lutto, un manifesto fascista invita allo scontro, e lo stesso capitano Santini, ormai leader indiscusso del fascio locale, ai funerali incita pubblicamente alla vendetta. Funerali ai quali partecipa tutta la Pisa conservatrice e nazionalista in un lugubre clima di isterismo collettivo. Il fascio locale affigge sui muri di Pisa un manifesto che recita:

 Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fasciti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà![62]

 09_1921_Carlo_Cammeo_cartolina_commemorativaIl 13 aprile 1921, neanche dopo due settimane dai funerali del fascista Menichetti, Carlo Cammeo, giovane esponente del socialismo locale, viene freddamente assassinato nella scuola dove insegna. Il gruppo di fuoco che porta a termine l’esecuzione è composto da due donne Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti ed un uomo Elio Meucci, mentre altri coprono la fuga. È interessante analizzare la composizione del gruppo degli assassini, che saranno tutti assolti dall’accusa di omicidio. Le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare pisano, in particolare la Lupetti è figlia del Colonnello del 22° Fanteria, ed assumerà l’incarico di segretaria del fascio femminile.

La successiva assoluzione degli esecutori e l’intoccabilità dei mandanti dell’assassinio di Cammeo è testimonianza dell’intreccio che da subito si instaura fra i gruppi di fascisti e buona parte delle autorità militari, della magistratura e delle forze dell’ordine. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal Prefetto che in una missiva al presidente del Consiglio Giolitti scrive:

 In questa città per esempio alcuni ufficiali erano iscritti ufficialmente fascio. Per esse Comando Presidio deve aver provveduto in questi giorni ma anche figlie ufficiali superiori sono fasciste e un gruppo di esse fu causa diretta della uccisione maestro Cammeo. Ritengo in ultimo mio preciso dovere segnalare E.V. che la spinta eccessiva e violenta al movimento fascista in questa regione proviene soprattutto da Firenze, ove con larghezza di mezzi e senza alcuna riserva organizzano anche fuori provincia vere e proprie spedizioni armate che pel modo come sono condotte creano continui luttuosi avvenimenti e mantengono eccitate spingendole agguato violenze intere popolazioni. Certa bassa forza Carabinieri e guardie regie anche in questa provincia desta qualche preoccupazione perché spiritualmente orientate verso i fascisti[63].

 I funerali di Cammeo per partecipazione la popolare sono una ulteriore prova dello strappo netto fra lo Stato e le forze reazionarie da una parte e il  movimento operaio dall’altro[64]. Per due giorni le città di Pisa e Livorno sono bloccate da un altro sciopero generale, mentre altri gravi incidenti con due morti e molti feriti scoppiano nel porto livornese. Con l’assassinio del segretario del PSI locale la città e l’intera provincia si avviano ad una lunga stagione di violenza sistematica che prende le mosse dalla vittoria del Fascio democratico liberale nelle elezioni comunali dell’autunno e che passa attraverso l’assalto fascista al Consiglio provinciale del dicembre del 1920. Ora l’illegalismo e l’assassinio degli avversari politici viene “legittimato”, in questo modo il movimento fascista si conquisterà sul campo il ruolo egemone d’avanguardia rispetto alle altre forze liberali, nazionaliste e massoniche. Si può, in conclusione, concordare con lo storico Fabbri nell’affermare che l’inasprimento della violenza durante la campagna elettorale amministrativa dell’autunno del 1920 giocò un ruolo decisivo nell’ancorare il giovane movimento fascista alla politica dei blocchi nazionali come trampolino di lancio di quella strategia d’attacco che, con la guerra civile nel paese, segnò duramente il successivo biennio sanzionando la sconfitta la sconfitta delle forze democratiche e del movimento operaio (65)

[1] Per la cronaca dell’alluvione cfr. «Il Messaggero toscano», 8 gennaio 1920 e i nn. dei giorni seguenti.

[2] Cfr. «Il Messaggero toscano», 16 gennaio 1920.

[3] Questi i dati raggiunti dagli altri partiti: Unione democratica (monarchici liberali) 31%; Partito popolare italiano 14,9 %, Partito repubblicano 12,4%. A Pisa i monarchici costituzionali avevano retto meglio alla marea socialista confermandosi il primo partito con il 38,1%, mentre i repubblicani si erano attestati al 26,9%, i popolari al 14,5% e i socialisti al 20,5%. In questo caso il voto socialista era stato penalizzato fortemente dalla presenza in città, tra i ceti proletari, di una forte componente anarchica storicamente astensionista.

[4] Il primo numero dell’«Avvenire anarchico» esce il 1° maggio 1910, l’ultimo il 15 dicembre 1922. Per altre informazioni Cfr. L. Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol. 1, t. 1, Firenze 1972, pp. 233-235.

[5] Sul ruolo del Sindacato ferrovieri italiani nel biennio rosso si veda la preziosa testimonianza di A. Castrucci, Battaglie e vittorie dei ferrovieri italiani. Cenni storici dal 1877 al 1944, Milano 1945. Inoltre, cfr. Castrucci Augusto di M. Antonioli in Dizionario biografico degli anarchici italiani (d’ora in poi DBAI), t. 1, Pisa, BFS, 2003, pp. 346-349.

[6] Sul Biennio Rosso nel pisano si v. la ricerca di S. Cortopassi, Lotte sociali in provincia di Pisa durante il Biennio Rosso: 1919-1920, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa aa. 1972-73. Per un confronto con la situazione nazionale cfr. G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920, Bologna, Il mulino, 1975.

[7] Per un quadro complessivo di questo periodo si v. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918-1921), Torino, UTET libreria, 2009, pp. 151-162.

[8] «Il Messaggero toscano», 22-24 gennaio 1920. Sul numero del 22 gennaio appare il documento di costituzione del Fascio di organizzazione civica: «L’assemblea dei cittadini pisani, senza distinzione di partito riunita la sera del 20 gennaio, presa in esame la situazione creata in seguito all’abbandono dei servizi pubblici pi vitali per la nazione, unanime afferma, ora pi che mai, necessaria la salvezza della coscienza nazionale di fronte ai tentativi di sovvertimento incomposto dell’ordine sociale mascherati sotto l’aspetto di rivendicazioni economiche e sfruttamento delle masse lavoratrici ingannate e illuse; denuncia alle classi lavoratrici l’opera di coloro che provocano e alimentano la civile discordia a vantaggio del capitalismo internazionale; afferma non potersi riconoscere nei funzionari dello Stato il diritto allo sciopero che gli stessi socialisti in Germania e i massimalisti in Russia assolutamente negano; considera come un dovere di tutti i cittadini di dare opera a che la continuità della vita nazionale non sia spezzata; riconosce perciò la necessità di una salda organizzazione per gli scopi sopra indicati; dichiara costituito il fascio di organizzazione civile […]. La Commissione provvisoria». Altre notizie sul Fascio di organizzazione civile su «L’Ora nostra», settimanale socialista, 24 gennaio 1920, in particolare l’articolo Lo sciopero e i fasci cittadini!

[9] Cfr. Stato d’assedio e sciopero generale a Pisa, «L’Avvenire anarchico», 30 gennaio 1920.

[10] Cfr. M. Rossi, Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta, «Rivista storia dell’anarchismo», luglio-dicembre 2004, pp. 47-55.

[11] Sull’attività dell’agitatore campano in questo periodo si v. P. Finzi, La nota persona. Errico Malatesta dicembre 1919-luglio 1920, 2. ed., Ragusa, La Fiaccola, 2008.

[12] Cfr. M. Antonioli, Armando Borghi e l’Unione Sindacale Italiana, Manduria-Roma, Lacaita, 1990.

[13] Cfr. Radames, Il fronte unico rivoluzionario, a cura dell’Unione anarchica bolognese, 1920.

[14] Cfr. L. Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio rosso alla Guerra di Spagna (1949-1939), Pisa, BFS, 2001, pp. 48-53.

[15] Al convegno provinciale degli anarchici che si svolge a Pisa il 10 ottobre del 1920 sono presenti 36 gruppi così suddivisi: Pisa 13 circoli; La Battaglia (S. Giusto), IL Pensiero Libertario, La Comune, Giovanile “L’Anarchico”, Né Dio Né Padrone (P.ta a Mare), Esedra Libertaria (P.ta a Piagge), C. Cafiero, Gli Scamiciati, Luce e Verità, Bruno Filippi, F. Ferrer (La Cella), La Libertà (P.ta a Mare), Umanità Nuova (P.ta Nuova); Piombino, Né Dio Né Padrone e Giovanile “Piero Gori”; Campiglia M., Studi Sociali; Maremma, Giovanile e I Martiri di Chicago; Fornacette, Intesa Anarchica; La Rotta, Pietro Gori; Marina di Pisa, Libertario; Pontedera, Gruppo Anarchico e L’Avvenire; Acciaiolo, Umanità Nova; Montecatini Val di Cecina, Il Pensiero e Spartaco; S. Giuliano, Pietro Gori; Peccioli, L. Molinari; S. Pietro, Umanitˆ Nova; Cascina, Gruppo Anarchico; Cucigliana, Libertario; Riglione, La Demolizione; Vicarello, Alba dei Liberi; Navacchio, Pietro Gori; Collesalvetti, M. Angiolillo; Valle Del Serchio, Giovanile B. Filippi.. Cfr. «L’Avvenire Anarchico», 15 ottobre 1920. Sulla tradizionale presenza nella città del movimento anarchico si v. F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla I Internazionale alla Camera del Lavoro, Pisa, Biblioteca F. Serantini, 1988.

[16] Si v. in proposito il n.u. «Le Nostre documentazioni», 23 giugno 1922 suppl. all’«Avvenire anarchico».

[17] Cfr. Siglich Renato di F. Bertolucci, DBAI, t. 2, Pisa, BFS, 2004, pp. 550-552.

[18] «L’Avvenire anarchico», 11 luglio 1919. Il Comitato operaio eletto il 6 luglio durante lo sciopero è così composto: R. Siglich (Souvarine), Di Ciolo e Lumani per gli anarchici, Matteini, Panicucci e Serani per i socialisti, Stizzi, Ruberti, Benedetti e Puntoni per le due Camere del Lavoro e Jacoponi per il sindacato delle Arti Tessili. Il Prefetto dopo l’incontro decreta un abbassamento dei prezzi del 60%.

[19] Cfr. Il cosiddetto sciopero generale a Pisa e il sabotaggio della rivoluzione, «L’Ora nostra», 8 maggio 1920. Su questi fatti ed in particolare sull’invasione della Camera del lavoro sindacale c’è un’interrogazione parlamentare dell’onorevole socialista Modigliani. Cfr. «L’Ora nostra», 7 agosto 1920.

[20] Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016, pp. 113-125. Cfr., inoltre, Petracchini Primo di F. Bertolucci, DBAI, t. 2, cit, 2004, p. 332. Il primo congresso della Camera del lavoro sindacale si tiene il 12 e 13 giugno del 1920. Il resoconto è pubblicato su «Germinal!», 26 giugno 1920. Il secondo congresso camerale si svolge il 10 aprile 1921 («Germinal!», 1° maggio 1921).

[21] Cfr. I. Cozza, Gli anarchici, le associazioni di ex-combattenti e le leghe proletarie, «Avvenire anarchico», 28 novembre 1919. Nello stesso numero appare la seguente dichiarazione: «Noi anarchici sottoscritti, poiché la Lega Proletaria di Pisa si è data il programma ufficiale, obbligatorio della conquista dei Poteri, dello Stato del PSU, riteniamo incoerente l’ulteriore nostra permanenza nella suddetta Lega, sia perché ciò è una violenza ai nostri sentimenti libertari, antistatali, sia perché è una deviazione dallo lotta diretta rivoluzionaria per la difesa dei nostri interessi, che sono quelli di tutti i proletari e che non trionferanno che col trionfo della Rivoluzione Sociale. Noi non vogliamo servire da sgabello a dei candidati. Firmato Niccolai Pilade, Sivieri Egidio e Bracci Ovidio».

[22] Sulla presenza socialista vedi N. Badaloni, Le prime vicende del socialismo a Pisa 1873-1883, «Movimento operaio», 1955. Cfr. anche L. Savelli, Propaganda e organizzazione socialista a Pisa. La presenza dei docenti e studenti universitari 1892-1900, in «Bollettino storico pisano», 1986. Sui progressi della Camera del lavoro confederale e sulla sua attività si veda il resoconto del secondo congresso riportato da «L’Ora Nostra», 31 luglio 1920. Il movimento comunista pisano con la costituzione del partito nel gennaio del 1921 è composto da poche sezioni, soprattutto dislocate nella provincia. In questo periodo la federazione locale del PCdI è direttamente legata a quella livornese.

[23] Cfr. «L’Ora nostra», 17 luglio 1920.

[24] Sulle agitazioni delle campagne si v. L’Uomo e la Terra. Lotte contadine nelle campagne pisane, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.

[25] Cfr. «L’Eco del popolo», settimanale del PPI, 21 marzo 1920.

[26] Secondo i dati riportati dall’«Eco del Popolo», 18 luglio 1920, la Federazione provinciale pisana mezzadri e piccoli affittuari ha complessivamente 4627 soci. Le sezioni più forti sono quelle di Pontedera, Buti e Peccioli rispettivamente con 2411, 807, 927 iscritti. Su Giovanni Gronchi e il PPI a Pisa si v. U. Spadoni, Giovanni Gronchi nell’Azione Cattalica, nel Partito Popolare, nella Confederazione Italiana dei Lavoratori, v. 1, 1904-1922, Firenze, The Courier, 1992, pp. 129 e sgg.

[27] Cfr. La funzione della mezzadria, «L’Eco del popolo», 28 marzo 1920.

[28] Cfr. P. Bianconi, Il movimento operaio a Piombino, Firenze, La nuova Italia, 1970; v. anche P. Favilli, Capitalismo e classe operaia: Piombino 1861-1918, Roma, Editori riuniti, 1974; I. Tognarini, Fascismo, antifascismo, resistenza in una città operaia, v. I. Piombino dalla guerra al crollo del fascismo (1918-1943), Firenze, CLUSF, 1980.

[29] Sui caratteri generali dell’agricoltura in Toscana vedi: G. Mori, La mezzadria in Toscana alla fine del secolo XIX, «Movimento Operaio», 1955; G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia Moderna, Torino, Einaudi, 1974. Sulla diffusione del socialismo nelle campagne toscane vedi E. Ragionieri, La questione delle leghe e i primi scioperi dei mezzadri, «Movimento operaio» 1955. Sulla specificità della provincia pisana vedi E. Mannari, Agricoltura e classi contadine nella provincia di Pisa tra ’800 e ’900. Primi aspetti di una ricerca, «Ricerche storiche», 1978. Nella provincia di Pisa si registrano nelle campagne rispettivamente 4 astensioni dal lavoro nel 1919 e 5 nel 1920. Gli scioperanti sono undicimila nel 1919 e oltre ventimila nel 1920. Le agitazioni coinvolgono tutte le categorie agricole (braccianti, coloni e obbligati). Cfr. Ministero dell’economia nazionale, I conflitti del lavoro in Italia nel decennio 1914-1923, Roma, Grafia, 1924.

[30] Cfr. C. Ciano, Appunti sulla decadenza dell’industria pisana dei tessuti del cotone, «Bollettino storico pisano», 1970.

[31] Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove!…, cit., pp. 27-65.

[32] Gennaro Abbatemaggio, ardito di guerra e fiumano, legato alla malavita napoletana, è allontanato dal Fascio fiorentino verso la fine del 1920 per i suoi atteggiamenti delinquenziali. Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi, 1972, pp. 118 e 127.

[33]Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista. Pisa e il caso Santini 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983, p.15. Anche P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995, pp. 13-14.

[34]Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino, cit., p. 62 e pp. 71-81.

[35] Cfr. Pasella Umberto di A. Roveri in Movimento operaio italiano. Dizionario biografico (d’ora in poi MOIDB) a cura di F. Andreucci e T. Detti, v. 4, Roma 1978, pp. 59-60. Vedi anche R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., pp. 273-274. Sul rapporto fra Mussolini e Pasella vedi R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, in particolare i capitoli XII-XIV. Pasella con la trasformazione del movimento in partito, dopo il congresso di Roma del dicembre del 1921, sarà estromesso dalla segreteria e dimenticato, ricomparirà sulla scena politica, come altri fascisti sansepolcristi, durante la Repubblica Sociale tra il 1943-45.

[36] Cfr. Le elezioni amministrative, «Il Ponte di Pisa», 28-29 agosto 1920. Nello stesso n. si v. inoltre l’art. Per un partito nazionale italiano nel quale si afferma la necessità di una nuova organizzazione politica del fronte moderato e democratico su basi nazionaliste per «far argine alle mene estremiste».

[37] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 28 ottobre 1920.

[38] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 31 ottobre 1920.

[39] Cfr. «Il Rinnovamento», 2 ottobre 1920 e nn. seguenti.

[40] Cfr. P. Nello, Dal rosso al nero: Pisa e provincia al voto nel primo dopoguerra (1919-1924), «Nuovi studi livornesi», 2016, pp. 97-118.

[41] Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 294-307.

[42] Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., p. 126.

[43] Ivi, p. 143.

[44] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 11 novembre 1920.

[45] Bruno Santini originario di Carrara, non si distingue precedentemente nel campo della politica, si può dire che il fascismo lo tiene a battesimo. Santini come formazione politica culturale si pone nel fascismo con quella corrente che cercherà di rimanere fedele nel tempo al programma sansepolcrista: squadrista della “prima ora”, antiborghese, anticlericale, nazionalista, fedele sostenitore di un indirizzo populista, applicava alla politica il sistema della guerriglia degli arditi di guerra; così Santini opera nel pisano fino a scontrarsi apertamente con la più solida e robusta corrente del fascismo legata agli agrari e all’alta borghesia.

[46] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 4/5 dicembre 1920.

[47] Cfr. R. Vanni, La resistenza dalla Maremma alle Apuane, Pisa, Giardini, 1972, pp. 21 e sgg.

[48] Ersilio Ambrogi nasce a Castagneto Carducci il 16 marzo 1883, fin da giovane aderisce alle idee libertarie e sovversive. Prima della guerra milita nel gruppo anarchico “Pietro Gori” del suo paese natale. Laureato in giurisprudenza a Pisa dopo la guerra si iscrive al PSI mantenendo però una posizione di sinistra. Sindaco di Cecina, presidente dell’Amministrazione provinciale è arrestato nel gennaio del 1921 per essersi opposto armi alla mano ai fascisti. Ambrogi viene liberato nel maggio perché eletto deputato comunista nella circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa. Per altre informazioni cfr. F. Bertolucci, Ambrogi Ersilio, DBAI, t. 1, cit., pp. 32-33.

[49] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 18/19 dicembre. Vedi l’art. Il Consiglio provinciale non ci sarà…più?

[50] Cfr. «La Nazione», 15 dicembre 1920.

[51] Cfr. «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.

[52] Cfr. «L’Ora nostra», 25 febbraio 1921.

[53] Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., pp. 20-21.

[54] Cfr. «L’Ora Nostra», 4 febbraio 1921. V. anche «Il Messaggero toscano», 27 gennaio 1921.

[55] Cfr. «Il Messaggero toscano», 3 febbraio 1921. Fra gli arrestati ci sono gli assessori comunali socialisti Bonsignori, Lorenzi, Romoli, ed il capo-lega dei contadini Bocelli.

[56] Cfr. «Il Messaggero toscano», 16 febbraio 1921. In questo numero è pubblicato un comunicato della Camera del lavoro Sindacale: «Compagni lavoratori e compagne lavoratrici! Alla magnifica compattezza dei compagni Spazzini – scesi in lotta per il riscattare i loro calpestati diritti – l’amministrazione del Comune di Pisa ha risposto col licenziamento in massa di tutti gli scioperanti. Quest’Amministrazione che nega a chi lavora un miglioramento di vita, protestando la mancanza di fondi occorrenti, compie opera di ingaggiamento di crumiri a £ 30 al giorno. Il tentativo per ora  fallito. Il personale fatto venire da Viareggio, appena accortosi di quale infamia si macchiava ha subito abbandonato la città. Compagni e Compagne! Abbiamo sempre detto di non permettere atti di rappresaglia verso chi lotta per una giusta causa. L’amministrazione comunale deve trovarci pronti per una energica risposta. I compagni Spazzini attendono ora dalla vostra solidarietà la loro vittoria. Tutti per uno – Uno per tutti. Tenetevi pronti! Viva la fraterna solidarietà tra sfruttati e sfruttati. La commissione esecutiva». Sulla vertenza degli spazzini v. l’art. Un comizio contro l’Amministrazione comunale fascista, «L’Ora nostra», 25 febbraio 1921.

[57] Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, Laterza, 1976, pp. 177-179. Si v. anche R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., pp. 177-217.

[58] Cfr. «Il Corrazziere», 8 maggio 1921.

[59] Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980, pp. 123-125.

[60] Cfr. «Il Messaggero toscano», nn. 4 e 5 marzo 1921. V. anche «L’Ora nostra», nn. 4 marzo e 11 marzo 1921. Ai funerali di Enrico Ciampi i primi di una vittima della violenza fascista partecipano gli on. Salvatori, Pucci, Cappellini, Mingrino, Salutini e il sindaco di Cascina il socialista Guelfi oltre che ad una folta presenza di popolani.

[61] Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., p. 27. Vedi anche «Il Ponte di Pisa», 3 aprile 1921 l’art. M. Razzi, In memoria del Martire. Il presunto responsabile del delitto Giuseppe Neri, ferroviere originario di Castagneto Carducci viene condannato nel maggio del 1922 a 17 anni e 7 mesi di reclusione. Cfr. «L’Idea fascista», 7 maggio 1922.

[62] Cfr. «Il Messaggero toscano», 27 marzo e 30 marzo 1921. Sull’atteggiamento dei fascisti sul caso Menichetti si v. l’art. su «L’Ora nostra», 1° aprile 1921, Incoscienza di Carlo Cammeo.

[63] Documento citato da M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., p. 97. Il governo compie  un’inchiesta durante il 1921 per verificare le voci che parlano con insistenza degli stretti rapporti che corrono fra carabinieri e fascisti. A Firenze alla scuola per allievi carabinieri si scopre che oltre duecento militari hanno la tessera del fascio o sono in attesa d’iscrizione. Il generale di corpo d’armata Carlo Petitti arriva ad affermare: «Essendo dal regolamento di disciplina militare proibita la partecipazione di ufficiali ad associazioni sovversive e questa dei (fasci) non essendo un’associazione sovversiva bensì patriottica essa non deve considerarsi esclusa da quelle cui i militari possono partecipare». Riportato da R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino, cit., pp. 220-221.

[64] Cfr. «L’Ora nostra», 15 aprile 1921. Il manifesto funebre di Cammeo porta la firma della Federazione prov.le socialista, Gruppo comunista, Camera del lavoro confederale, Camera del lavoro sindacale, Sindacati ferrovieri, Lega proletaria e Unione anarchica pisana.

65) Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 319-325.