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Articolo: temi - ToscanaNovecento1

La solitaria impresa di Mario Bonacchi

La figura del comandante è spesso decisiva per la vita di una formazione partigiana. Un capo autorevole e carismatico che unisce all’abilità di condurre la guerriglia anche qualità di natura etica come il coraggio e lo spirito di sacrificio può fare la differenza. Un uomo con queste caratteristiche è sicuramente il primo comandante delle squadre armate lucchesi, Roberto Bartolozzi, che però, alla fine di giugno 1944, viene ucciso dai fascisti in un agguato. Proprio la consapevolezza dell’importanza per un capo di dare l’esempio ai suoi uomini, così come per mesi ha fatto Bartolozzi, spingerà il suo successore a essere protagonista di un’iniziativa tra le più audaci nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Castelnuovo di Garfagnana, domenica 20 agosto 1944.

Silla Turri, da alcuni giorni a capo del locale distaccamento della XXXVI Brigata nera “B. Mussolini” e commissario prefettizio del Comune, si trova nella sala consiliare della Rocca ariostesca. Non sa che nel corso della notte alcuni partigiani della Brigata garfagnina della Divisione Garibaldi Lunense hanno piazzato una bomba a orologeria sotto la pedana del tavolo riservato al podestà. Tuttavia, Turri non è seduto al suo posto. Così, quando l’ordigno esplode, a rimanere ucciso è il sergente della Brigata nera Giovanni Battaglini. Turri rimane ferito e con lui altre due Camicie nere, Giulio Tamburi e Antonio Broglio detto “Zacchia”, oltre all’impiegato comunale Francesco Simonetti.

Vengono subito arrestate e tradotte al carcere di San Giorgio a Lucca diverse persone, tra cui un manovale quarantunenne appartenente al III Battaglione della Brigata garfagnina della Lunense, Giorgio Giorgi, e un’impiegata del Comune, Luciana Bertolini, accusata di aver dato le chiavi della sala ai partigiani. Il giorno successivo ai due si aggiunge anche Gina Gualtierotti: è fidanzata con Michele Bertagni, fratello di Giovanni Battista comandante proprio del III Battaglione. È in realtà quest’ultimo il vero obiettivo dei fascisti: ventitré anni, di Pieve Fosciana, ha combattuto sul fronte balcanico e dopo l’armistizio è rientrato in Garfagnana. A metà giugno 1944 si aggrega a una neonata formazione armata che si è costituita a Careggine e che sarà l’embrione della futura Garibaldi Lunense. In meno di due mesi, egli trova il modo di portare a termine diverse azioni di sabotaggio e, per la fantasia e il clamore che esse suscitano, il gruppo da lui comandato diventa ben presto noto anche tra la popolazione civile come “Battaglione Casino”. Così, quando c’è da trovare un responsabile dell’attentato a Turri, le indagini puntano subito nella direzione di Giovanni Battista Bertagni.

Lucca, mercoledì 23 agosto 1944

Il CLN di Castelnuovo informa degli arresti Pietro Mori, del Comitato Militare del CLN comunale di Lucca e questi coinvolge il Plotone Questura: già da alcuni mesi si è formato, in seno alla Questura di Lucca, un gruppo di effettivi e ausiliari che partecipa alla lotta partigiana cittadina come una sorta di quinta colonna, soprattutto controllando l’attività delle truppe tedesche e delle autorità repubblicane e informandone il CLN. Ne è a capo il tenente Luigi Giusti che, peraltro, proprio quel giorno sta sostituendo il questore Carlo Alberto Gusmitta: grazie a questa circostanza viene a sapere che Bertolini, Giorgi e Gualtierotti sono in procinto di essere fucilati. Capisce che non c’è tempo da perdere: qualcuno deve agire prima che qualcuno dei tre catturati parli o che la sentenza di morte sia eseguita.

Il Plotone Questura è inquadrato nella formazione partigiana comandata, da un mese e mezzo, da Mario Bonacchi. Ventisette anni, reduce dalla campagna di Russia, dai primi mesi del 1944 guida il gruppo del quartiere di Sant’Anna. Dopo l’uccisione di Roberto Bartolozzi, il CLN lucchese ha affidato a lui la riorganizzazione e il comando dei partigiani lucchesi. Pertanto, Giusti si rivolge a Bonacchi per organizzare in poche ore una spedizione che liberi le persone catturate e a rischio uccisione. Il piano è tanto semplice quanto rischioso e si basa su un finto ordine di scarcerazione a scopo di interrogatorio con tanto di timbro della Brigata nera e firma falsa del tenente Carlo Dinelli. Ci vuole però qualcuno che entri in carcere travestito da milite della Brigata: sarà Bonacchi stesso.

Lucca, giovedì 24 agosto 1944, ore 18

Il capo partigiano, procuratosi una divisa da brigatista, la camuffa sotto una giacca blu, nasconde il mitra e l’elmetto in una borsa di paglia e si avvia in bicicletta verso San Giorgio. Una volta arrivato vicino al carcere, incontra Anna Maria Nardi: le lascia la borsa e la giacca blu e la trasformazione in milite fascista è completata; un’altra partigiana, Wilma Franceschini, è appostata in via San Giorgio, mentre Enzo e Guglielmo Bini (padre e figlio) sono davanti al carcere per segnalare eventuali pericoli.

Bonacchi entra dunque con il suo mitra in carcere e presenta il documento di scarcerazione: il secondino, dopo avergli ordinato di deporre l’arma, lo accompagna nell’ufficio competente. Bonacchi esegue, ma il timore di trovarsi disarmato di fronte a qualche vero milite della Brigata nera è forte. È fortunato: prima che qualcuno si accorga dell’inganno, i tre detenuti vengono portati da lui. Il quartetto si può dirigere ora verso l’esterno, con il capo partigiano che ancora non può svelare la sua vera identtià e sempre con il timore di venire scoperto. Ancora una volta tutto va bene e gli viene restituito il mitra. Una volta fuori dal carcere, Bonacchi svela chi è veramente  raccomandando ai tre liberati di far finta di niente: Bertolini e Gualtierotti vengono affidate a Wilma Franceschini, che le nasconde nel convento di Santa Zita in piazza Sant’Agostino (e lì rimarranno fino all’arrivo degli Alleati), a poche centinaia di metri da San Giorgio, mentre Giorgi fugge con i Bini: il giorno successivo ripartirà per la Garfagnana.

Lucca, venerdì 25 agosto

Dinelli si presenta al carcere e chiede dei prigionieri. Saputo che sono stati liberati dietro presentazione di un documento recante la sua firma, vengono passati in rivista tutti i militi della Brigata nera, quelli veri. Nessuno di loro è quello visto dai secondini del carcere. I sospetti si dirigono su uomini della Questura, perché solo lì possono avere carta intestata e timbri, e tutti sono sottoposti a una prova calligrafica, per capire chi può essere stato a falsificare la firma. Il principale indiziato è Giusti, ma il perito grafologo non avvalora tale ricostruzione.

Lucca, domenica 27 agosto, mattina

Idreno Utimpergher, comandante della XXXVI Brigata nera, è furioso per lo smacco subìto e, nonostante non siano state raccolte prove, ordina l’arresto e la consegna ai tedeschi di Ferdinando Lucchesi, professore di disegno caposquadra del plotone Questura, dello stesso Giusti e di tutti gli ausiliari di polizia. Alcuni di loro verranno deportati in Nord Italia e torneranno a Lucca soltanto a guerra finita, mentre Giusti e altri riescono a sfuggire alla cattura.

 

Il motivo per cui è Bonacchi stesso a eseguire la liberazione in prima persona verrà da lui spiegato in un articolo pubblicato un anno dopo sul quotidiano La Nazione:

Gli Alleati si avvicinavano a Lucca; il giorno dell’insurrezione era prossimo. I componenti le squadre di città dovevano avere la prova definitiva che [il comandante, NdA] non sarebbe rimasto in preda a timori o esitazioni.




Il Campo P.G. n. 60 di Colle di Compito (Capannori)

IL CAMPO FINO AL 10 SETTEMBRE 1943[1]

Nel giugno 1940 l’Italia fascista entrò in guerra. Fin dai primi giorni il Ministero degli Interni istituì su tutto il territorio nazionale campi per i militari nemici catturati. Contestualmente inasprì la legislazione antiebraica del 1938 e, con norme che si fecero sempre più restrittive, impiantò campi di concentramento e luoghi per il “normale internamento di guerra degli stranieri nemici e/o indesiderabili, e degli italiani pericolosi”. [2]

Il campo P.G. n.60, sorse[3] come campo per soldati e sottufficiali angloamericani ma dopo il tragico episodio del 10 settembre 1943, oggetto di questa nota, fu ristrutturato e servì al fascismo repubblicano come campo di concentramento – fino alla metà del ’44 – per ebrei e oppositori alla RSI e ai tedeschi occupanti.

Fu scelta l’area paludosa del Pollino, paradiso dei cacciatori di uccelli acquatici,[4] appartenuta al conte Gaddo della Gherardesca e da lui parzialmente bonificata grazie a un’idrovora inaugurata nel 1925. Al tempo della requisizione da parte dell’Esercito Regio, ne era proprietario il genovese Giuseppe Ravano che, con la moglie Candida Bombrini, vi gestiva una fattoria. Non ci è documentato l’assetto originario del campo; possiamo però ricavarne alcune caratteristiche – dimensione e strutture – oltre che da testimonianze – da una pianta di poco successiva. [5] La recinzione, con “fili spinosi“, abbracciava un perimetro di circa 600 mt, con diverse garitte per le sentinelle. Vi trovavano posto baracche di legno utilizzate come dormitori cui si aggiunsero tendoni di tipo “Roma” per fare fronte alle maggiori esigenze. Un luogo insalubre e soggetto ad alluvioni, assai freddo d’inverno per la nevicate sui monti antistanti e infestato da insetti nei mesi estivi; situato a tre km dal primo posto di ristoro (un dopolavoro[6]), ma con il vantaggio della prossimità (grazie a una stradina vicinale che attraversava il campo) alla piccola stazione di Colle di Compito, sulla linea Lucca-Pontedera: all’epoca uno snodo ferroviario vitale, soprattutto per il collegamento con la Piaggio. La linea, dopo il bombardamento della stazione di Pisa, il 31 agosto ’43, era diventata arteria logistica nevralgica per i tedeschi e, proprio perciò, bersaglio di frequenti e rovinose incursioni aeree alleate che ne decretarono il finale abbandono, spesso colpendo anche il campo. [7]

In questa fase (prima dello “sbandamento”) la sorveglianza e il controllo fanno capo al Ministero degli Interni. Il comando del campo è affidato a un colonnello dell’esercito coadiuvato da ufficiali, carabinieri e soldati. [8] Nonostante le forti carenze igieniche rilevate anche da ispezioni della CRI[9] e qualche problema di convivenza[10] i prigionieri vengono trattati con umanità: ricevono pacchi con generi di prima necessità; presso il campo è in servizio per un certo tempo un capitano medico; in certe occasioni possono, accompagnati, uscire in paese. La popolazione locale – che vede “i neri” per la prima volta – prova nei loro confronti curiosità e sentimenti di solidarietà; non mancano i piccoli baratti (molto richiesta la canapa, per fumarla) e l’abituale quota di mercato nero. Nel complesso le relazioni, anche tra soldati e popolazione locale, sono buone. Lo scenario bellico, però, evolvere. Nel giro di soli tre mesi, da luglio a fine settembre 1942, il numero dei prigionieri, soprattutto inglesi e sudafricani, cresce vertiginosamente. È un picco cui farà seguito un brusco e drastico calo. [11] Lo Stato Maggiore dell’Esercito decide comunque la trasformazione del campo da ‘attendato‘ a ‘baraccato’, ma alla fine di agosto alcune “difficoltà” impongono il ripiegamento delle tende e il trasferimento altrove di tutti i prigionieri di guerra. [12] Si rendono necessari alcuni lavori per la riapertura del campo che però, nonostante l’ordine dello Stato Maggiore del 31/12/42, figura ancora chiuso al marzo ’43. [13] Sicuramente il campo P.G. n. 60 è di nuovo in funzione nell’agosto del 1943, come si evince da forniture fatte in quel mese.

IL SACRIFICIO DEI MILITARI E LA SOLIDARIETA’ AI FUGGIASCHI

L’armistizio coglie di sorpresa anche i militari che gestiscono il campo. Lo dirige, da quasi un anno, il 65enne colonnello Vincenzo Cione, un veterano decorato della Grande Guerra, (di intuibili sentimenti antitedeschi) per la seconda volta richiamato in servizio. Un “uomo bravo” secondo un testimone[14] che spesso lo accompagna alla stazione dalla casa dove abita, sul vicino Colle dell’Uccelliera. Da due giorni incertezza e inquietudine gravano sulle guarnigioni di un esercito lasciato senza direttive dopo la fuga del re e del generale Badoglio a Brindisi. Forse già nelle ore immediatamente successive all’annuncio la mancanza di ordini ha prodotto anche lì qualche riuscito tentativo di fuga. Il giorno 10 settembre[15] verso metà mattinata, il campo è in allerta. Qualcuno ha avvertito del prossimo arrivo di una pattuglia tedesca che, infatti, giunge poche ore dopo dal vicino aeroporto di Tassignano dove è di stanza la Luftwaffe. Non sono molti, i tedeschi: arrivano in moto e sidecar, forse soltanto in quattro, ma ben armati. Intimano la consegna del campo, dei prigionieri e della relativa documentazione. Cione non obbedisce, forse perché spera ancora di poter ottenere ordini superiori, forse perché preoccupato per la sorte dei soldati e dei prigionieri. [16] Certo è che non riconosce subito l’autorità degli avieri del Reich, non si piega immediatamente agli ordini seccamente impartiti. Sulla dinamica dell’episodio si sono date versioni diverse. Alcune testimonianze, nessuna però “in presa diretta”,[17] hanno attribuito l’inizio dell’eccidio (a questo, più che a un vero scontro a fuoco mi pare assimilabile) a cause accidentali: un gesto di sorpresa male interpretato, il terreno sconnesso, le mani alzate in segno di resa. Incidenti, dunque, che avrebbero provocato la “reazione” tedesca, ovvero le raffiche di mitra che freddano, insieme a Cione, il capitano Massimo De Felice e il soldato Felice Mastrippolito, mentre un altro ufficiale resta ferito. È lecito dubitare di questa versione. Quella forse più rilevante (anche se riferita),[18] è del trombettiere del campo, Giuseppe Mangino, presente ai fatti. “Beppe” raccontò chiaramente, la sera stessa, di un allarme da lui suonato su ordine di Cione e del suo netto rifiuto di consegnare il campo. “E subito lo mitragliarono all’istante“. Una “postura” resistenziale, dunque, diversa da quanto accade a Cefalonia o a Rodi, ma espressione di valori (senso di responsabilità e protezione verso i prigionieri nemici affidati alla propria custodia; sentimento di appartenenza all’Esercito Regio, anche se in disfacimento; incompatibilità con la prepotenza brutale degli occupanti) che ritroviamo anche negli ufficiali che, al Sud, stanno ricostituendo i Gruppi di Combattimento e nella “lunga resistenza” degli IMI. I momenti che seguono immediatamente la tragedia sono di inevitabile caos. Difficile che 4 tedeschi possano controllare cosa accade lungo tutto il reticolato. Numerosi testimoni raccontano di soldati e carabinieri (anch’essi allo sbando) che aprono varchi o cancelli per far uscire i prigionieri. Non sappiamo con certezza chi, generosamente, lo fece per primo; non abbiamo i nominativi né il conteggio preciso di quanti riuscirono a fuggire e di quanti invece, soldati e prigionieri, restarono intrappolati in quel recinto che sarebbe poi diventato uno dei “Campi di Salò” riservati all’internamento civile di ebrei (pochi giorni dopo inizierà la “caccia”), oppositori, “diversi”. Abbiamo però una costellazione di episodi, belli e significativi: da quelli ricordati da A. Mancini[19] alle testimonianze rese a Galli e ai successivi studi di E. Pesi e ISREC Lucca. Perfino troppi gli esempi. La famiglia di Giulia Angelini che vuota “le casse dei vestiti” per rivestire i prigionieri; la contadina Zaira di Castelvecchio Alto, che ospita e nutre il trombettiere Beppe e altri tre paracadutisti inglesi; oppure la “Bianca” di S. Leonardo (il “maternage” delle donne fu decisivo). È tutto un pullulare di storie di solidarietà (e futura amicizia) tra chi soccorre e chi fugge, se non dal campo PG. 60, da altri distaccamenti di lavoro. A Matraia, ad esempio, dove l’assistenza delle famiglie è corale. [20] È la nascita di quella rete di protezione che estenderà il suo operato, a dispetto delle pene severissime,[21] anche a renitenti, ebrei, partigiani. Ne faranno parte luminose figure di sacerdoti che si prodigano fino all’estremo sacrificio per fornire, continuativamente e spesso in accordo con CNL e formazioni partigiane, riparo e assistenza ai perseguitati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e dai nazisti occupanti.

Il C.P. 60 continuerà ancora per alcuni giorni ad esistere. Trasferiti i militari, deportati i prigionieri e rimasto dunque incustodito, divenne quasi interamente oggetto di appropriazione da parte della popolazione ormai allo stremo. [22] I corpi di Cione e De Felice furono portati a Lucca, nel “campo dei soldati” e deposti in un apposito sacrario, per essere poi sepolti, nel 1990, nei loro luoghi d’origine, ad Avellino e a Chieti. [23]

 

PROSPETTIVE FUTURE

La vicenda del Campo per prigionieri P.G. 60, fissatosi nella memoria popolare postbellica come “campo di concentramento di Colle di Compito“, ha acquistato negli ultimi due decenni, grazie anche a un’accresciuta visibilità mediatica,[24] una forte carica simbolica, travalicando il livello locale. Da un lato, l’immediata adiacenza all’annuncio armistiziale ne fa un epicentro ideale in quanto primo – unico forte e tragico – episodio di resistenza dei militari in Provincia di Lucca (e tra i primi in Toscana). Dall’altro, la concorde gara di solidarietà verso i prigionieri in fuga, che vede protagonista la popolazione del compitese, arricchisce i profili biografici ed esemplifica il nesso tra le diverse resistenze. Non mancano, certo situazioni, analoghe[25] che però, nel panorama nazionale, restano assai contenute.

A ridosso della via dei cipressi, un cippo posto nel 1993 ricorda oggi il sacrificio dei tre militari in un luogo di notevole bellezza paesaggistica: il lago della Gherardesca, zona turisticamente vocata e mèta frequente di passeggiate nella via della Memoria.

A conclusione di quanto finora esposto risulteranno forse utili due raccomandazioni: l’urgenza di sperimentare nuove forme di valorizzazione di questo importante “luogo della memoria” (benché, rispetto ad altre realtà preda di “oblio”, non sia mai venuta meno nei due decenni trascorsi l’attenzione istituzionale) e, soprattutto, l’esigenza ormai matura di procedere ad una sistematica trattazione in sede storiografica.

 

 

NOTA:

[1] Il primo, essenziale, lavoro di raccolta di una parziale ma significativa documentazione, arricchita da 19 testimonianze sui periodi in cui il campo era in funzione, si deve al pionieristico impegno del Prof. Italo Galli, appassionato conoscitore della realtà storica locale coadiuvato dalla Associazione Il Melograno. Italo Galli. I sentieri della memoria: il campo di concentramento di Colle di Compito: i documenti e le voci dei testimoni 1941-1944. Consiglio Regionale della Toscana, 2005.

[2] C.S. Capogreco, I campi del Duce, 2004 p.9; sulle norme: https://www.annapizzuti.it/normativa/testocircolari40.php

[3] I. Galli (op.cit., p.31-33) ritiene di poter assumere per la decisione formale d’allestimento il luglio 1940, anche se la costruzione inizierebbe dal 1941; la fonte è una nota del Podestà di Capannori in cui si cita un decreto (17/7/40) del Comandante della Zona di Pisa che ne dispone, insieme ad altri campi, la costruzione. Le testimonianze rese, pur se discordanti, sono perlopiù inclini a posticipare tale data. Vedi, più oltre, anche la nota n. 7. Il sito “Campi Fascisti” (che riporta documentazione d’archivio consultabile online) ne colloca addirittura al luglio 1942 la piena operatività (cfr: https://campifascisti.it) individuandolo come uno dei sette campi per prigionieri censiti in Toscana (tra cui l’ospedale di guerra per prigionieri n. 202 a Lucca).

[4] Lo scherzoso addio ai beccaccini lo si legge nella targa apposta il 22/8/1925 in prossimità dell’impianto idrovoro.

[5] Una relazione dell’Ufficio tecnico provinciale (LU) (20/12/1943) reca una pianta allegata: si tratta del nuovo progetto di ricostruzione (in forma più ampia, dopo lo smembramento all’indomani del 10 settembre) come “campo di Salò”, operantetra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 (I. Galli, op. cit. p.157). Un testimone che, ‘nel 41, aveva lavoratoalla costruzione del campo parla di due casette in legno – altri invece di quattro – lunghe una trentina di mt.  “imperliate e incatramate sopra”. Le costruzioni per i soldati (dall’altro lato della via vicinale) erano invece “scialbate e murate” mentre le garitte distavano tra loro 50 mt. (I. Galli, op. cit; p.130-31) e passarono dalle iniziali 4 angolari a 12. (I. Galli, op. cit, p.34)

[6] Ne fa menzione una donna di Castelvecchio C. che in data 2/7/42 chiede al podestà il permesso di vendere bibite e frutta nel campo di concentramento “che viene montato” vicino al paese.

[7] Cfr. Documenti e Studi (Isrec Lucca) n.32/2010 p. 285. Nell’incursione del 21/5/’44 fu ucciso l’industriale James C. White (Glasgow, 1889) che risulta – dalla documentazione riferita – internato lì, assieme alla moglie, fin dall’agosto del 1941.

[8] La presenza di ufficiali risulta da testimonianze e documenti, oltre che dai tragici fatti del 10/9/43. Edo Toschi, carabiniere che aveva accesso al campo, poi passato con i partigiani dell’XI zona Patrioti, parla di 9 carabinieri, un maresciallo e un centinaio di soldati in forza nell’agosto ’43 (I. Galli, op.cit. p.37). Il colonnello Vincenzo Cione(dopo il Col. Crarino Di Pietro) assume il comando il 1/10/1942. Neanche un anno dopo il suo rifiuto di consegnare il campo ai tedeschi ne segnerà la sorte.

[9] Le latrine esterne sono assi di legno sul fossato; mancano libri o simili, l’assenza di zanzariere genera 180 casi di malaria. Cfr.https://www.liberationroute.com/it/pois/1477/colle-di-compito-concentration-camp

[10] Alcune testimonianze parlano di “risse” e “pestaggi” tra bianchi e neri e di conseguente divisione degli ambienti.

[11] Al 1/8/’42 sono registrati nel campo 2.465 prigionieri di guerra. Al 30/9/’42 salgono a 3.970, così suddivisi: 2.224 inglesi, 1.737 sudafricani, e 9 di altre nazionalità. Cfr. https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=685. Il numero dei prigionieri, fin dall’inizio costante e non molto elevato (alcune centinaia), conosce invece nel secondo semestre del ‘42 andamenti opposti: un’impennata e un crollo. Tant’è che il Prefetto Marotta, in una lettera al colonnello medico scrive (15/11/’42): “il campo dei prigionieri si sta sciogliendo e non si sa dove verranno destinati gli ufficiali medici ad esso addetti” (I. Galli, op cit. pag. 47). Nel settembre ’43 il numero risalirà a 1000-1200, forse anche di più (E. Toschi in I. Galli, op.cit., p.37).

[12] La stasi nel funzionamento del campo che risulta “ripiegato per l’inverno” meriterebbe – ci pare – una ricerca approfondita, quantomeno sulla destinazione di un numero così rilevante di prigionieri e sulla natura delle “difficoltà” insorte. Su questo aspetto anche la fonte da cui attingiamo (https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=738) non va oltre l’esibizione dei documenti. Probabili cause della sospensione: l’inizio delle piogge, la scarsa illuminazione e l’assenza di riscaldamento.

[13] Il 23 aprile 1943, (si legge nella stessa fonte) “si propone di utilizzare alcuni prigionieri di guerra tratti dal campo n. 82 di Laterina per portare a termine i lavori di riapertura del campo. In particolare si propone per evitare gli inconvenienti che hanno portato alla chiusura del campo lo scorso inverno” di “spostare l’area cintata dalla parte opposta di quella attuale; montare le tende sui terrazzi a nord e a sud della nuova area utilizzando lo spazio centrale per le adunate e come campo sportivo per i prigionieri”.

[14] Capini Vito, in I. Galli, op.cit. p.99

[15] La data dell’episodio e del decesso di Cione (e dei due militi) verrà definitivamente certificata con rettifica del 21/4/’47 sul suo Stato di servizio. Ciononostante, alcune testimonianze raccolte da I. Galli continuano a indicare date diverse. Edo Toschi, ad es., indica, dichiarandosene certo, il 9/9 come data dell’uccisione dei tre militari.

[16] Del tutto realistica l’interpretazione di G.L. Fulvetti con cui concordiamo: “Cione cerca di guadagnare tempo per consentire la fuga sia ai suoi uomini che ai prigionieri ma i tedeschi indovinano subito le sue intenzioni”. Cfr. G.L. Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del Mediterraneo, 2006. Fondamentale su tutta la vicenda dei prigionieri evasi e sulla assistenza ricevuta dalla popolazione del compitese (e non solo) resta: E. Pesi, Resistenze civili, M.P. Fazzi, 2010, in particolare p.111 e sgg.

[17] Cfr. I. Galli, op.cit., pagg.53-54

[18] Testimonianza di Giulia Angelini (I. Galli, op.cit. p. 124-25). “Beppe” (a cui la famiglia di Giulia forniva latte) ha mantenuto rapporti di amicizia con loro fino alla morte.

[19] A. Mancini (illustre antifascista lucchese, filologo e storico, promotore e presidente del CLN) nelle sue “Memorie dal carcere” (Le Monnier, 1986, p.49) scrive di come molti contadini, nel loro rudimentale inglese di ex emigranti in America, chiamavano i fuggiaschi: “Come, come into my house!” e li ospitavano a prezzo di grandi rischi.

[20] Storie esemplari, come quelle del carbonaio Ghigo e di Doug Harrison del North Yorkshire; oppure quella di Giuseppe Taddeucci e Thomas Dormant dell’Essex.

[21] Il decreto del governo della RSI del 9/10/’43, diffuso a mezzo stampa e manifesti, ricorda che “qualsiasi borghese italiano che potrà dare indicazioni in merito a prigionieri americani o inglesi evasi, atte a facilitare la cattura, avrà una ricompensa di L.500. Ogni borghese italiano che darà alloggio ai prigionieri o suddetti o comunque li aiuterà, sarà immediatamente arrestato e passato per le armi”. In diversi, invece, riceveranno come riconoscimento il “Diploma Alexander”.

[22] Una nota dell’Ufficio tecnico Provinciale di Lucca del 20/12/43 elenca minuziosamente i materiali asportati da ignoti con “vandalico saccheggio” (Cfr. I. Galli, op.cit. pp.157-158).

[23] La famiglia di Mastrippolito, di S. Buoro (CH), raggiunta dopo molti tentativi, lo aveva dato per disperso in Russia; si trovava invece, in licenza, al CP.60.

[24] Oltre al citato libro del Prof. I. Galli, ricordiamo: la prima delle dieci “Pillole di Resistenza” (visibile anche su canale YT Isrec Lucca) e il fumetto Come into my house, M.P. Fazzi, 2019, con testi di E. Pesi e disegni di L. Lenci

[25] Soprattutto le popolazioni dell’Appennino tosco romagnolo, fin dal settembre 1943 accolsero e salvarono dalla prigionia e dalla morte decine di migliaia di persone, ricercate e perseguitate dall’occupante tedesco e dai fascisti della Repubblica sociale italiana (https://percorsisolidarieta.istorecofc.it/)




Antifascismo, Antifascismi

Lo scorso marzo si è tenuto a Lucca il convegno nazionale “Antifascismi, antifasciste e antifascisti. Pratiche, ideologie e percorsi biografici”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea, e curato da Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura. L’appuntamento si è svolto su due intense giornate di studio e si è inserito all’interno del filone di iniziative promosse dagli istituti storici della Resistenza toscani per l’anniversario della marcia su Roma. La particolarità di questo convegno è che ha rappresentato la tappa in cui per la prima volta al centro del dibattito storiografico collettivo è stato posto il fenomeno stesso dell’antifascismo. Infatti, se negli altri momenti di discussione si era comunque sempre tenuto in considerazione l’intreccio indissolubile al fine della comprensione storica tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo ne era rimasto ugualmente in qualche modo schiacciato, visto che ci si era concentrati prettamente sul primo fascismo, sul suo avvento e sul consolidamento del potere durante il ventennio nei vari territori.

L’incontro nazionale ha avuto alcuni importanti meriti, tra cui innanzitutto la capacità di affrontare la riflessione sull’antifascismo in tutta la sua complessità e secondo diversi livelli di analisi: esplicito fin dal titolo, la discussione si è mossa a partire dalla pluralità delle forme del fenomeno, delle sue varie declinazioni, senza dare per scontato un’univoca pratica antifascista, e con la scoperta (o riscoperta) di alcuni percorsi individuali biografici che hanno permesso di dare dignità a singoli spaccati di vita e al tempo stesso di comprendere meglio le specificità dell’agire politico. Anche in questo caso le singolarità non sono state rappresentate come fine a se stesse, ma ricondotte all’interno di una cornice unitaria, seppur multiforme, con un’attenzione non scontata al transnazionalismo come elemento sostanziale alla comprensione dell’antifascismo e delle sue riflessioni teoriche che troveranno poi una concretizzazione nel dopoguerra democratico. Altra caratteristica che secondo chi scrive ha dato un valore aggiunto al convegno è stata la scelta da parte degli organizzatori di raccogliere i contributi grazie ad una call for paper di ampio respiro tematico: ciò non solo ha dato la possibilità a storiche e storici di varie zone d’Italia di avanzare le proprie proposte, indipendentemente dalla provenienza accademica, ottenendo di fatto un allargamento democratico dell’offerta, degli spunti di riflessione e degli ambiti di ricerca, ma ha anche consentito una composizione intergenerazionale fra coloro che hanno esposto la propria relazione, una compresenza fra giovani che per la prima volta si confrontavano con l’esperienza convegnistica, con studiose e studiosi navigati, in una contaminazione che è parsa vincente.

Le relazioni selezionate dal comitato scientifico si sono tenute su due giorni e sono state suddivise all’interno di quattro sessioni: antifascismi come ideologie politiche, biografie dentro la guerra civile europea e le resistenze, antifascismi come vissuto quotidiano, storia e memoria. Assente ufficialmente come blocco tematico, ma presente trasversalmente in molte delle relazioni è stato quello del metodo storico e dell’approccio all’uso delle fonti per la storiografia dell’antifascismo. Durante ogni fase della discussione l’antifascismo, o meglio gli antifascismi, sono stati inquadrati in elaborazioni storiche di lungo periodo, che non di rado guardavano direttamente, pur mantenendo chiare le dovute differenze, anche alla Resistenza (e alle resistenze), se non addirittura al dopoguerra e all’Italia contemporanea. In particolare, in questo senso è stata pensata l’ultima sessione del convegno, in cui i vari interventi hanno portato i risultati di alcune ricerche ancora in corso che dimostrano come la narrazione di determinati avvenimenti storici sia cambiata nel tempo e come questa esprima molto della memoria pubblica. La storiografia e la memoria dell’antifascismo, quindi, come lenti privilegiate per analizzare l’Italia repubblicana.

In generale sono emersi, tra le altre cose, il consolidamento di riflessioni e persino gli avanzamenti sull’uso di fonti considerate classiche per lo studio dell’antifascismo, come ad esempio il Casellario Politico Centrale: da una parte continua ad essere proficuamente utilizzato per riscoprire biografie e costruire dizionari biografici o altre raccolte, dall’altra si studia per valutazioni innovative che riguardano il dopoguerra, per avere un riflesso di come all’indomani del 1945 veniva gestito l’ordine pubblico, quindi sostanzialmente analizzare chi fossero i funzionari dediti a tale lavoro, quali i soggetti controllati dal nuovo Cpc, quali le categorie considerate come possibili sovvertitrici delle nuove istituzioni. Ci permette, cioè, di osservare le ombre dell’Italia del dopoguerra, i motivi dietro la scelta di recuperare uno strumento liberticida e di controllo sociale all’interno di una cornice democratica, che risente fin da subito dell’incombere della guerra fredda. Inoltre, una certa attenzione degna di nota è stata posta alle riflessioni sul metodo riguardo lo studio delle figure femminili dell’antifascismo e della Resistenza con la consapevolezza di dover volgere con maggiore cura uno sguardo alle carte secondo la loro parzialità e contemporaneamente la necessità di fare approfondimenti attraverso un affinamento e fonti non convenzionali e non istituzionali.

Il convegno è stato inaugurato dalla lectio del professor Renato Camurri dell’Università di Verona, che ha posto al centro della sua relazione il carattere transnazionale dell’antifascismo, la particolarità di come biografie, culture e rotte di migrazioni si intreccino e si influenzino nello sviluppo di un’analisi politica collettiva. L’antifascismo degli esuli europei è stato osservato come laboratorio politico e culturale, come una comunità in cui la circolazione dei saperi e la riflessione teorica danno avvio ad un pensiero anticonformista e antitotalitario. All’estero gli antifascisti e le antifasciste si riuniscono e provano a immaginarsi oltre la crisi totalitaria del nazionalsocialismo e del fascismo, si proiettano verso un futuro democratico e iniziano in un certo qual modo a porre quelle che saranno le sue basi nel dopoguerra.

Infine, si riprende la valutazione conclusiva di Ventura su momenti collettivi di studio e discussione come quello lucchese: oltre all’importanza per quanto riguarda il piano della comprensione storica e della ricerca, che si arricchisce dei vari contributi e ci consente evoluzioni nella conoscenza del passato, ritornare ed esplorare i vissuti di uomini e donne che con le loro azioni hanno fatto dell’antifascismo una fondamentale scelta vita, è per noi oggi, a livello puramente personale, un modo per affrontare con maggiore fiducia questo presente così buio.

Tutti gli interventi divisi per sessioni di discussione sono consultabili online nel canale YouTube dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca.




Sport, società, violenza: la rivolta di Viareggio

Lo sport è una realtà organica che si è modificata al cambiare delle società. È una pratica viva, non solo per l’attività sul campo da gioco degli sportivi. Gli uomini e le donne dello sport, infatti, sono entità che nascono e crescono in determinati ambienti sociali con propri linguaggi e modi di rappresentarsi; sono loro che tratteggiano lo sport, perché inseriscono nelle istituzioni e nelle società sportive le complessità delle società a cui appartengono.

Questo è un dato trasversale gli attori in campo, nel senso che sia i giocatori sia gli spettatori partecipano attivamente nel mostrare la propria cultura e il momento socio-politico d’appartenenza. Per esempio, ai Mondiali in Francia del 1938 la nazionale italiana fece due volte il saluto fascista per rispondere provocatoriamente ai fischi degli spettatori – molti erano italiani antifascisti in esilio[1].

Alcuni episodi sono il frutto momentaneo della veemenza dell’agonismo. La Rivolta di Viareggio del 2-4 maggio 1920 presenta questo elemento, nel senso che nella partita di calcio tra lo Sporting Club Viareggio e l’Unione Sportiva Lucchese emerse il clima di incertezza e di violenza del primo dopoguerra italiano. Lo sport era diventato nel primo dopoguerra un fatto sociale, perché riverbera le sensazioni e i modi d’intendere dei partecipanti. E la Rivolta di Viareggio rientra in pieno nella rappresentazione concreta di quei problemi e di quei valori che passano anche attraverso il fatto sportivo, determinando atti esterni al campo da gioco[2].

 

Il contesto

 

La Grande Guerra lacerò l’Italia sotto ogni punto di vista. Nonostante la vittoria, il popolo italiano ne uscì traumatizzato per le centinaia di migliaia di morti e per la recessione economica causata dal conflitto. Era una società che aveva convissuto con la morte e la sua narrazione per tre lunghi anni, tanto che durante il conflitto anche la stampa sportiva divenne un mezzo di cronaca e di propaganda bellica.

Fu un processo che influenzò la società, perché se da un lato i valori della trincea come il cameratismo e la virilità passarono nella sfera sociale e culturale – tra cui lo sport -, dall’altro ci fu la normalizzazione degli aspetti cruenti della guerra. La violenza divenne, infatti, la normalità per quelle società che uscirono malconce dal conflitto. In alcuni luoghi d’Europa, come Germania e Italia, vi fu un certo grado d’assuefazione verso la violenza, tanto che il suo uso venne banalizzato al pari di un qualsiasi gesto quotidiano. E, come ha mostrato George Mosse, si è trattato di un dato che ha influenzato ogni pratica sociale, dal gioco al confronto tra le persone[3]. Lo sport non era esente da questo processo, proprio perché, come una spugna, assorbe tutti i sentimenti e i valori presenti nella società che lo praticano.

Tutto questo, in Italia, coincise con un momento di sviluppo e di rinnovata attenzione della popolazione italiana verso lo sport. Prima della guerra lo sport era, in generale, esclusivo a chi poteva permettersi di avere il tempo libero per l’attività fisica e a chi viveva in determinate zone geografiche. La Grande Guerra fu propedeutica alla conoscenza e alla crescita dello sport in tutta la Penisola, perché lo sport venne conosciuto e praticato dalla massa di soldati proveniente da ogni luogo d’Italia. Non è un caso se nel primo dopoguerra gli sport incontrarono un accentuato interesse, tanto che il calcio iniziò la propria rincorsa nei cuori degli italiani verso il popolarissimo ciclismo[4].

Una delle conseguenze della popolarizzazione dello sport fu l’incremento degli spettatori, che, specialmente tra il 1919-20, venne accompagnato da un aumento verticale dei casi di violenza tra tifosi e i giocatori. Le questioni socio-politiche coeve non necessariamente avevano a che fare con questi atti di violenza, perché forme di maggior aggressività avevano attecchito trasversalmente ogni ambito della socialità. Nello sport, e nel calcio in particolare, questo aspetto venne ulteriormente accentuato dalle rivalità e dal campanilismo. Il caso della Rivolta di Viareggio del maggio 1920, il primo evento calcistico in Italia dove è morta una persona, rientra proprio in questo contesto.

 

Sporting Club Viareggio contro l’Unione Sportiva Lucchese: l’inizio della Rivolta

 

La partita si svolse il 2 maggio a Viareggio sul campo da gioco di Villa Rigutti. Era la quarta giornata della Coppa del Comitato Regionale Toscano, una competizione locale minore nata dalla generale riorganizzazione del calcio nel primo dopoguerra.

C’era molta tensione nell’aria quel giorno, non solo per il campanilismo acceso tra le due società, ma per gli strascichi dell’ultima gara a Lucca tra US Lucchese e SC Viareggio dell’11 aprile finita 2-1. Il risultato poteva di certo creare dispiacere e un sentimento di rivalsa nella squadra viareggina; però, rimase impresso il sentimento d’ingiustizia sportiva di aver subito alcuni infortuni, tanto che già al termine della partita a Lucca scoppiò un tafferuglio.

Il precedente giustifica ulteriormente la presenza dei carabinieri a Villa Rigutti, perché il calcio erano state individuate come un potenziale luogo di disordine pubblico sociale. Il 2 maggio le forze dell’ordine dovevano controllare il comportamento di quasi 300 persone, per la quasi totalità composta da viareggini, soprattutto operai e lavoratori.

La partita stava andando molto bene allo SC Viareggio, che alla fine del primo tempo stava vincendo per 2-0. Nel secondo tempo tutto cambiò: la gara si fece man mano più fisica e tesa, con molti interventi di gioco duri e una forte progressione di insulti dei tifosi locali verso l’avversario. In tutto questo, l’US Lucchese arrivò a pareggiare l’incontro; fu in quel momento che il guardialinee Augusto Morganti, della squadra viareggina, colpì un giocatore lucchese con la bandierina, azionando così l’invasione di campo e un grande tafferuglio.

Le forze dell’ordine chiamarono dei rinforzi e si sbarrarono in protezione della squadra avversaria – rinchiusa negli spogliatoi -, anche se le minacce di violenza verso i lucchesi non si trasformarono in reali tentativi di assalto. Alcuni membri delle forze dell’ordine impugnavano armi bianche, mentre altri, come il carabiniere Natale De Carli, una rivoltella; e fu proprio contro Augusto Morganti che usò la sua arma, perché il militare, arrivato a faccia a faccia col guardialinee, gli sparò un colpo a bruciapelo ammazzandolo sul colpo. Tutti, compreso De Carli, avevano immediatamente compreso la gravità della reazione, tanto che il carabiniere proverà a giustificarsi in tribunale sostenendo di essersi sentito minacciato dalla folla di tifosi.

Dopo pochi secondi la folla portò via il corpo di Morganti e caricò le forze dell’ordine, che, dopo una breve resistenza, ruppero in ritirata. I giocatori e i dirigenti della Lucchese scapparono verso i binari della tratta Lucca – Viareggio; arrivarono a piedi fino alla frazione di Quiesa, dove vennero portati a Lucca da alcune carrozze che sopraggiunsero a prenderli.

A Viareggio scoppiò un tumulto generale e i rivoltosi presero con la forza e con l’intimidazione le armi dal Tiro a Segno locale e dalle caserme. Alcuni luoghi chiave della comunicazione vennero occupati per frenare ogni tentativo di arrivo di rinforzi dalle città limitrofe.

Nei due giorni successivi nella città ci furono alcuni atti di violenza verso le forze armate, che condivisero l’odio sociale assieme ai loro familiari che abitavano a Viareggio. Fu con la complessa trattativa tra il deputato socialista Luigi Salvatori e il generale Carlo Castellazzi che venne trovato un accordo per calmare gli animi dei rivoltosi, a condizione di evitare l’arrivo dell’esercito prima del funerale di Morganti e cacciando i carabinieri accusati della mala gestione della partita di calcio.

Ristabilito l’ordine, Viareggio rimase per qualche tempo sotto l’occhio del ciclone delle autorità per timore di altre possibili rivolte, per trovare i responsabili o i fomentatori dell’accaduto e per ritrovare le armi sequestrate alle autorità[5].

 

Conclusione

 

La morte di Augusto Morganti avvenne nel contesto sportivo; anche se il momento agonistico era concluso, lo strascico emotivo che culminò con lo sparo di De Carli deriva dal pathos della partita tra SC Viareggio e US Lucchese. È vero che la Camera del Lavoro di Viareggio e il deputato socialista Salvatori assunsero un ruolo centrale di dialogo con lo Stato, ma né l’inizio della rivolta né i fatti delle ore successive assunsero dei connotati politici.

In conclusione, lo sport nei primi decenni del Novecento era diventato un fatto sociale da cui potevano nascere azioni ritenute importanti per le soggettività o per la collettività. Sono manifestazioni che determinano alcuni comportamenti delle persone, sia nel periodo riportato sia nella quotidianità. Anche un solo evento sportivo poteva – e può – assumere un significato valoriale e una rilevanza pratica decisiva nell’economia dei fatti, perché sono le individualità che compongono la società a darle più o meno importanza. A Viareggio, effettivamente, l’eccesso di emotività nella partita di calcio contro la Lucchese accese molto facilmente la miccia della violenza, un tratto quasi normalizzato che permeava la società italiana nell’incertezza e nell’instabilità del primo dopoguerra.

 

 

NOTE

[1] P. Dietschy, Storia del calcio, Paginauno, Vedano al Lambro (MB), 2014, pp. 159-160

[2] D. Marchesini, S. Pivato, Tifo. La passione sportiva italiana, il Mulino, Bologna, 2022, pp. 136-137

[3] G. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Editori Laterza, Roma-Bari, edizione “Economica Laterza”, 2002, pp. 139-172

[4] A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, il Mulino, Bologna, nuova edizione 2002, p. 105

[5] A. Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma, novembre 2020, pp. 17-60; 1920: le giornate rosse di Viareggio, in Almanacco, Rai, RaiTeche, 1968, https://www.teche.rai.it/2018/05/1920-le-giornate-rosse-viareggio/

 

 

 




Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




La Città Bianca in camicia nera: gli anni della guerra

Poverannoi!”: l’Italia entra in guerra

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso italiano nel conflitto, il regno di Carlo Scorza a Lucca si è concluso da otto anni, e con esso il tentativo del ras cosentano di scalzare “quel gelatinoso collante di interessi” (Umberto Sereni) che costituiva il sistema di potere cittadino. La vita era proseguita, il volto della città stava cambiando: nel corso degli anni ’30 vengono inaugurate nuove infrastrutture (l’autostrada A11 Firenze-Mare, la tratta Montecatini Terme-Lucca, l’aeroporto di Tassignano), i templi del commercio (il Mercato del Carmine) e del pallone (lo stadio Littorio, oggi Porta Elisa, ultima eredità di Scorza che l’aveva fortemente voluto), i luoghi della memoria fascista (il sacrario ai caduti fascisti sul baluardo S. Paolino, oggi sostituito dal monumento al musicista Alfredo Catalani)[1].

La guerra scatenata dalla Germania di Hitler nel 1939 fino a quel momento era sembrata lontana, nonostante le esercitazioni antiaeree, le prime limitazioni sulla vendita di alcuni alimenti e i cortei del maggio 1940 contro Francia e Inghilterra [2]: poi la “spettacolosa adunata del popolo lucchese […] che resterà impressa nei secoli […]. La folla ha avuto un solo sentimento, ha sentito un solo dovere: quello di accorrere attorno ad un altoparlante per udire la parola del Duce”[3]. Così il quotidiano La Nazione; in realtà, ricorda Loredana Pera (classe 1926), non c’è altra scelta:”quando Mussolini dichiarò guerra […] il suo discorso fu trasmesso via radio alla città, e tutti furono obbligati, se non volevi passare dei guai, ad ascoltarlo”[4]. “Una marea di gente”, è la testimonianza di Neva Fontana, nata nel 1927, “ma obbligata ad andarci. Poverannoi!, si stava lustri se non ci si andava!”[5]. È il momento delle delazioni, bastano poche parole tacciabili di disfattismo per ritrovarsi in guai seri: nel migliore dei casi un rimprovero da parte del proprio datore di lavoro, come accade alla madre della Pera, la sigaraia Velia Luporini, denunciata da una collega per aver commentato sarcasticamente le possibilità di una vittoria italiana[6]; altrimenti si aprono le porte del carcere di S. Giorgio, dove alcuni membri della Milizia fascista portano il professor Favilli, uno dei docenti dell’allora sedicenne Divo Stagi, per sottoporlo all’umiliazione dell’olio di ricino [7].

Il giorno successivo le prime partenze per il fronte francese (i miliziani del Battaglione Intrepido); il 15 giugno la benedizione dell’altare, con l’arcivescovo Torrini che esorta i fedeli lucchesi all’obbedienza in tempo di mobilitazione: porta la stessa data la circolare del Ministero dell’Interno che dispone l’arresto degli ebrei stranieri tra i diciotto e i sessant’anni, ritenuti “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari” [8]. In provincia di Lucca per coloro che sono ad un tempo nemici dello Stato e della presunta purezza razziale, dopo i primi provvedimenti limitativi sul commercio disposti dalla Questura nel marzo 1940 [9], si aprono le porte delle sedi di internamento di Castelnuovo Garfagnana, Bagni di Lucca e Altopascio [10]: i successivi due anni sarebbero stati all’insegna delle privazioni e del più totale isolamento, tanto che i severissimi regolamenti impediscono agli internati persino di disporre di denaro e gioielli di valore [11].

Dalla caduta alla rinascita: la prima fase della RSI a Lucca

Sono passati tre anni dall’inizio dell’avventura bellica italiana: la “guerra parallela” prefigurata da Mussolini si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, portando al definitivo crollo del regime ufficialmente suggellato nelle drammatiche ore del 25 luglio 1943 [12]. Il fascismo si scioglie con una rapidità tale da lasciare sconcertati gli alleati tedeschi, e nemmeno la nomina di Carlo Scorza a segretario del PNF qualche mese prima – nel segno di un ritorno all’instransigenza delle origini – è bastata a invertire il declino [13]. La sera dell’8 settembre l’annuncio dell’armistizio, accolto dai lucchesi con la gioia di chi vi scorge l’imminente fine del conflitto: pochi giorni dopo la liberazione di Mussolini per mano tedesca, la rinascita del fascismo sulle rive del Garda e, il 16 settembre, la riapertura del fascio lucchese sotto la guida di Michele Morsero – parallelamente alla nascita delle prime formazioni partigiane capeggiate da Manrico Ducceschi e Carlo Del Bianco [14].

Per tutti i dodici mesi successivi fino alla liberazione di Lucca (5 settembre 1944), la Repubblica sociale avrebbe cercato in ogni modo di legittimarsi agli occhi della popolazione con scarsi risultati: tre capi si sarebbero alternati al vertice della provincia dopo Morsero (il duro Mario Piazzesi, il più moderato Luigi Olivieri e infine il fedelissimo di Pavolini, l’empolese Idreno Utimpergher), scontrandosi da un lato con la disobbedienza civile di fatto della Chiesa lucchese (che non raccoglie l’invito delle autorità repubblicane a convincere i giovani a rispondere ai bandi di leva, disertati in massa [15], e anzi fornisce assistenza e aiuto a ebrei, prigionieri di guerra in fuga e partigiani [16]), dall’altro scontando la crescente ostilità della popolazione civile causata dalla pratica dei rastrellamenti, effettuati allo scopo di scovare renitenti o braccia abili da destinare al lavoro coatto in Germania (è quanto accade ad esempio il 21 agosto 1944 proprio nel capoluogo di provincia, dove pur non essendovi alcuna vittima i fascisti si lasciano andare a veri e propri atti di brigantaggio a danno degli arrestati [17]). Il tutto senza dimenticare la guerra ancora in corso, che lambisce sempre più da vicino il territorio: il 1° novembre viene bombardata Viareggio, il 6 gennaio 1944 è la volta di Lucca stessa. E mentre da sud le truppe Alleate avanzano, il morale vacilla – e così pure le sempre più deboli istuzioni repubblicane: resta loro, come mezzo di autoaffermazione, soltanto l’esercizio della violenza, l’esibizione della forza per mascherare la debolezza.

Il “posto d’onore”: la XXXVI° “Mussolini” e gli ultimi colpi del fascismo lucchese

Quando a cavallo tra il 1943 e il 1944 inizia a prendere corpo la militarizzazione del nuovo Partito fascista repubblicano, decisa al I° congresso del Partito fascista repubblicano di Verona (anche per far fronte al disastroso risultato dei bandi di leva della RSI), Lucca si trova a giocare il ruolo fondamentale di “città campione” (C. Giuntoli), la prima in assoluto nell’Italia sottoposta a occupazione tedesca a veder costituita sul proprio territorio una Brigata Nera – la famigerata XXXVI “Mussolini”, nata con ben otto giorni di anticipo rispetto a quanto stabilito dal decreto costitutivo che ne autorizzava la creazione e comandata da Utimpergher. “Le ragioni della scelta di Pavolini […]”, ha sottolineato Carlo Giuntoli, “furono probabilmente legate a tutta una serie di ragioni tattiche, Lucca era infatti una delle poche città toscane […] non ancora minacciate dalle truppe anglo-americane”; al contempo però gioca un ruolo non secondario la “fiducia che [Pavolini] nutriva in questo gruppo di fedelissimi” [18]. Sono gli stessi “fedelissimi” che avevano rivendicato dalle colonne dell’Artiglio – il foglio del fascismo lucchese – il proprio “posto d’onore” nelle neo-costituite BN [19].

Scarsa in termini numerici tanto da essere una brigata soltanto nel nome (236 effettivi [20], in larga parte veterani e reduci della Grande guerra e del primo squadrismo, oppure giovani nati e cresciuti sotto il regime[21]), la XXXVI° di Utimpergher rinuncia anche a quel poco di copertura istituzionale che la RSI aveva cercato di ammantare le proprie azioni fino al giugno 1944: i brigatisti neri sono entusiasti collaboratori, nelle vesti di spie e delatori, dei tedeschi nell’opera di ripulitura delle retrovie del fronte, un’occasione unica per portare avanti vendette personali e rappresaglie: come nel caso della Certosa di Farneta, presso la quale si rifugiava l’ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano e antifascista militante, Guglielmo Lippi Francesconi, arrestato ai primi di settembre dai tedeschi assieme al resto degli occupanti del convento e fucilato a Massa pochi giorni dopo, vittima della delazione del collega/rivale Vittorio Marlia, acceso sostenitore del regime[22]; oppure il camaiorese Amedeo Biancalana, sospettato autore di scritte antifasciste consegnato ai tedeschi che lo giustizieranno dal vicecomandante locale della XXXVI° Cirillo [23]; e ancora le spedizioni punitive, come quella di San Lorenzo a Vaccoli (la prima in assoluto, il 3 agosto 1944), per vendicare l’attentato contro due commilitoni e vede i brigatisti razziare il paese e arrestare 5 uomini, poi deportati in Germania [24].

Il 5 settembre 1944 Lucca viene liberata, ma i brigatisti neri continuano a spargere sangue: il 23 settembre a seguito di un’azione partigiana viene colpita Castelnuovo Garfagnana (8 vittime uccise a colpi di mitra e rivoltellate dai brigatisti neri, che poi completamente ubriachi si danno al saccheggio)[25]; il 29 settembre a Castiglione di Garfagnana, dove il locale presidio repubblicano si accanisce sul partigiano Luigi Berni, legato per il collo ad un camion con un cavo d’acciaio e trascinato per le strade fino alla morte per soffocamento [26]. Lo scempio a danno del Berni è l’ultimo atto della XXXVI° sul territorio toscano: su pressione delle SS i reparti della brigata sarebbero stati trasferiti prima in Emilia e poi in Piemonte, dove avrebbero continuato ad essere operativi fino al drammatico epilogo del fascismo a Dongo: qui Utimpergher viene fucilato il 28 agosto 1945, lo stesso giorno di Mussolini.

1Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 130-131

2Andrea Ventura (a cura di), La voce dei testimoni, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2020, p. 121

3Cit. in Ibidem, p. 95

4Ivi

5Ibidem, pp. 64-65

6Ibidem, pp. 95-96

7Divo Stagi, Racconto della mia vita, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, p. 49

8Cit. in Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, L’internamento libero nel comune di Altopascio (1941-1943), p. 39, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 39-61

9“Il ministro dell’interno […] ha disposto che non debbono rilasciarsi o rinnovarsi licenze per commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toilette uso personale a persone appartenenti alla razza ebraica.”, in Virginio Monti, La Questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca, TraLeRighe Libri, Lucca 2021, p. 19

10Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, Op. cit, p. 40

11Ibidem, pp. 42-43

12 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2002, p. 47

13Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista , 1940-1943, Mondadori, Milano 1996, p. 474

14Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, tesi di laurea magistrale – Università di Pisa, a.a. 2017-2018, pp. 59-60

15 Ibidem, p. 61

16Il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e più in generale dei cattolici nella Resistenza è stato aprofondito nel volume a cura di Gianluca Fulvetti Di fronte all’estremo. Don Aldo Mei, cattolici, chiese, resistenze, edito da Maria Pacini Fazzi nel 2014.

17Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…., pp. 79-80

18Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata Nera Mussolini, p. 92, in “Documenti e Studi” nn. 40-41/2016, pp. 89-115

19Ivi, p. 91

20Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata…, p. 94)

21Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 75-76

22Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 51-56, in Gianluca Fulvetti (a cura di), Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca – vol. 3, Pezzini, Viareggio 2016

23 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini, pp. 82-83

24 Ibidem, p. 84

25 L’intera vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Feliciano Bechelli nel saggio La rappresaglia fascista del 23 settembre 1944 a Castelnuovo, in “Documenti e Studi” 43/2018, pp. 27-57

26 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 87-88




Il “caso Raffo” e la sua cacciata violenta dalla Cooperativa di Consumo di Pietrasanta.

Giovan Battista Raffo primo direttore Cooperativa Consumo Pietrasanta

Il 7 aprile 1924 una spedizione punitiva, guidata dal sindaco e segretario politico del fascio di Pietrasanta, invase gli uffici della Cooperativa di Consumo cercando di raggiungere il suo direttore commerciale che, a stento e con uno stratagemma, riuscì a sottrarsi alla furia degli invasori. Una violenza certamente grave che, senza nulla aggiungere di significativo, potremmo ben ricomprendere nel novero dei tanti, analoghi episodi già accaduti in questa città. Aggressioni e devastazioni, compiute dai fascisti fin dalla loro costituzione in partito, qui avvenuta piuttosto tardivamente il 5 marzo 1921. Così, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, era toccato alla camera del lavoro a essere invasa e devastata mentre nel successivo mese di giugno sarà il presidente della stessa Cooperativa a venire malmenato. In seguito, subirono violenze anche due sindaci: quello di Pietrasanta e quello della vicina Massa casualmente di passaggio in città.
In realtà quanto avvenuto nei locali della Cooperativa nel pomeriggio del 7 aprile andava ben oltre una canagliesca azione fascista. Il tentativo, fallito, di far fuori fisicamente il direttore Giovan Battista Raffo si inquadrava in una più complessa vicenda che ebbe per protagonisti due acerrimi rivali: Renato Ricci, capo del fascismo apuano, e Carlo Scorza, suo omologo lucchese. Al centro dello scontro tra i due gerarchi e le rispettive fazioni era il controllo della Versilia, un territorio già a quel tempo appetibile e considerato strategico per gli assetti politici e di potere del nascente fascismo. Uno confronto durissimo che finì per coinvolgere lo stesso Mussolini, pronunciatosi in un primo momento a favore della tesi di Ricci per l’annessione della Versilia all’area apuana, quali zone contigue e omogenee, entrambe economicamente a prevalente vocazione marmifera. Un pronunciamento, quello del Duce, segnato dal rapporto di amicizia intrattenuto con Ricci. In seguito, su pressioni interne ed esterne al partito, a Mussolini non rimase che fare marcia indietro, dichiararsi contrario all’operazione e di fatto fermando-la. Scorza da una eventuale annessione dell’area versiliese a Carrara avrebbe avuto tutto da perdere, dato che la Versilia, come sappiamo, era parte integrante della provincia di Lucca.
In quel tempo a Pietrasanta, da una quindicina di anni, operava una delle più grandi e consolidate società cooperative d’Italia nel ramo del consumo. Una prestigiosa realtà commerciale e associativa con alle spalle un considerevole sviluppo produttivo, distributivo e organizzativo maturato durante e dopo il conflitto mondiale. Basti pensare ai risultati di un anno come il 1920 quando la giovane Cooperativa di Pietrasanta contava già 53 dipendenti, ai quali si dovevano aggiungere i fornai e i calzolai, una ventina di spacci e una base sociale che supera-va i 2.300 aderenti.
Una componente fondamentale, dunque, dell’economia locale, fortemente radicata nel tessuto sociale, fonte di consenso e di potere per chiunque ne controllasse le sorti. All’interno dell’antagonismo tra i due ras Scorza e Ricci si verranno definendo anche i destini della Cooperativa di Pietrasanta fino alla sua piena fascistizzazione.
Volantino 1912 Cooperativa MacelloMa per una completa comprensione del quadro ora descritto è necessario, almeno per cenni, andare alle origini della Cooperativa e ai suoi tratti distintivi che risulteranno decisivi a preservarla dall’assalto che il fascismo porterà alla cooperazione italiana.
La “Società Anonima per azioni Cooperativa” con sede in Pietrasanta nacque dopo lunga gestazione alla fine del 1907 dalla locale Società di mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi” e dalla sua base sociale marcatamente operaia. Oltre al perseguimento delle finalità statutarie (lotta al carovita, case operaie e così via) la Cooperativa avrebbe dovuto essere un prezioso ponte per mantenere saldo e sviluppare il legame con l’ambiente sociale e culturale della “mutuo soccorso”. L’ente cooperativo, al contrario, riverberò da subito tutt’altra luce mostrando natura e fini assai diversi da quelli di classe pur non potendosi neanche definire figlia o figliastra di quel cooperativismo “bianco”, di stampo clericale che, al di là dei confini versiliesi, aveva già attecchito a Lucca e nel resto della provincia.
La “Pietrasanta” nacque dalla secca quanto inattesa sconfitta della componente socialista in seno alla “Garibaldi”. Una sconfitta determinata in massima parte dalle abili e spregiudicate manovre del notaio Adriano Ricci, allora sindaco di Pietrasanta a capo di una giunta liberale, considerato dai socialisti la lunga mano della borghesia sulle organizzazioni operaie e del proletariato.
Della Cooperativa, nonostante la discutibile conduzione, Ricci ne sarà per sette anni il presidente. Un tempo sufficiente per imprimere all’Azienda caratteristiche sì di progresso ma con tratti moderati e borghesi, lasciandola scevra da quelle connotazioni classiste e, in certi casi, fortemente classiste che contraddistinsero tanta parte del movimento cooperativo in Toscana e nel resto dell’Italia. Questi connotati la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta non li cambierà nel corso dei suoi sessant’anni di vita.
M - La costruzione dei magazzini generali (1927)A imprimere un indirizzo prevalentemente aziendalista alla neonata Cooperativa contribuì in misura decisiva il decisionismo di Giovan Battista Raffo, un giovane scultore di origini genovesi, che in città aveva aperto un laboratorio di scultura, di vaghe idee socialiste e noto per la sua intraprendenza e pragmaticità. Le indubbie capacità di Raffo, avvicinatosi alla Società cooperativa fin dalla sua costituzione, si manifestarono soprattutto all’indomani della disastrosa gestione del suo primo presidente. Saranno gli anni della guerra e quelli immediatamente successivi ad esaltare le doti e le capacità di Raffo. Egli, infatti, non solo contribuirà a risanare i conti e a consentire di chiudere i bilanci in attivo, con risultati davvero sorprendenti, ma sotto la sua direzione l’Azienda in poco tempo fece registrare una ulteriore espansione dei suoi commerci e dei suoi punti vendita.
Quando il fascismo, non ancora regime, iniziò un’implacabile opera di penetrazione delle istituzioni e delle più diverse realtà cittadine – da quelle associa-tive a quelle sindacali, imprenditoriali e così via – Raffo per i fascisti si presentò come l’unico vero ostacolo alla possibilità di mettere fino in fondo le mani sulla Cooperativa. Per qualche tempo essi mal sopportarono l’autonomo operare del direttore e, dopo non poche frizioni e qualche avvertimento, giunsero alla determinazione che non ci fosse altra soluzione che sbarazzarsi della sua persona.
L’appiglio fu banale. Lo ricorderà lo stesso Raffo in una “memoria” scritta molti anni dopo. “Col pretesto che il 6 aprile 1924 non avevo voluto votare nelle elezioni politiche” scrive Raffo “il giorno seguente un gruppo di facinorosi fascisti capeggiati dal segretario politico e sindaco di Pietrasanta, Andrea Ballerini invase la Cooperativa ed alcuni, anche con le armi in pugno, mi cercarono per punirmi. Riuscii ad evitare la furia degli invasori nascondendomi. Mi costrinsero però, fa-cendo sempre uso della violenza, ad abbandonare la Cooperativa con la sempre espressa minaccia che mi sarebbero derivate più serie conseguenze ove avessi osato ripresentarmi in Ufficio”.
La cacciata violenta dalla Cooperativa del suo direttore originò una lunga scia di atti persecutori nei confronti dello stesso Raffo, atti che lo costrinsero a lasciare la città per riparare a Pisa dove avviò una attività commerciale che in poco tempo fu costretto a chiudere sempre sotto la minaccia dei fascisti.
Cooperativa Magazzini. Anni TrentaIn un contesto così difficile la determinazione di Raffo fu tale da sfidare il regime ricorrendo alla magistratura e a Mussolini in persona per farsi vedere ri-conosciuto il diritto alla liquidazione, negatogli dai fascisti locali. Quella che passò come “la vertenza” trovò formale e giusta conclusione nel corso degli anni Trenta con una sentenza che riconobbe all’ex direttore i diritti economici acquisiti e ne dispose la liquidazione. Un riscatto tardivo per Raffo che non si piegò mai ai fascisti ma che non valse a evitargli un’ultima amara sorpresa. Convocato nella sede del fascio di Pietrasanta per ritirare la somma dovutagli, si sentì dire che per dimostrare fino in fondo il suo amore per la Cooperativa, tante volte da lui stesso rivendicato, ora per coerenza avrebbe dovuto elargire l’intero ammontare della liquidazione a favore della Cooperativa stessa. La lettera era già stata preparata e rimaneva solo da firmarla. Raffo la lesse e senza batter ciglio la firmò.
La storia di Raffo con la Cooperativa non finì lì. Quando la bandiera della libertà era da poco tornata a sventolare su Pietrasanta, il vecchio direttore della Cooperativa, tra la fine di settembre e l’ottobre del 1944, chiamato dal Governatore militare alleato, riprese le redini dell’Azienda in qualità di commissario straordinario. Negli stessi giorni, su designazione del Comitato di liberazione nazionale, il Governatore militare nominò a capo del Comune l’avvocato Giovan Battista Cancogni, dopo la rinuncia dell’avvocato Luigi Salvatori, e Raffo entrò a far parte dell’esecutivo come “esperto in alimentazione”.
Quei delicati e importanti incarichi rappresentarono per Giovan Battista Raffo il vero riscatto tanto a lungo atteso, salvo doversi dimettere dopo pochi mesi da entrambi gli impegni, già debilitato dalla malattia che nel marzo 1945 lo condurrà alla morte.




La Città Bianca in camicia nera: il decennio di Scorza

La repressione degli antifascisti sul territorio provinciale

La segreteria Scorza si distingue fin da subito per la violenta offensiva contro le amministrazioni locali guidate dalle sinistre e dai popolari: nel 1925 “cade” Borgo a Mozzano, ultimo comune antifascista [1], il cui commissariamento viene salutato sulle colonne de L’intrepido – il foglio del fascismo lucchese – come una “vittoria morale e reale dei Fasci” [2]. Ma la sola conquista del potere politico non è sufficiente: sono gli individui che debbono essere colpiti, perseguitati, schedati. Gli archivi del Casellario politico centrale – istituito per la prima volta nel 1894 sotto Francesco Crispi e adesso ufficio autonomo alle dipendenze della PS – si gonfiano letteralmente durante il fascismo; nel mirino non soltanto l’adesione a fedi politiche avverse al regime, ma anche la moralità stessa delle persone, soprattutto se donne: così l’anarchica Pia Bertini, residente in provincia di Pisa ma nata ad Altopascio, è sia una sovversiva che una “di facili costumi”[3]. Prostitute dunque, oppure pazze: come Clementina Masini di Monte San Quirico, arrestata nel 1929, le cui parole contro il duce sarebbero da attribuirsi ad un “momento di esaltazione mentale per disturbi psichici”[4].

Gli squadristi imperversano in tutta la provincia, non basta allontanarsi dalla città per essere al sicuro: il montecatinese Agenore Dolfi, già socialista e poi membro del PcdI, viene aggredito più volte tra il 1922 e il 1923 (in un’occasione la spedizione punitiva avviene addirittura all’esterno del tribunale di Lucca, dove assieme a Dolfi viene ferito anche il suo avvocato e compagno di militanza politica, Luigi Salvatori); trasferitosi infine a Viareggio, viene addirittura rapito dagli squadristi e riportato a Lucca, dove subisce l’ennesimo pestaggio. Dolfi sarà infine costretto a rifugiarsi in Argentina, dove continua a spendersi in favore del movimento antifascista: muore nel 1944 in Italia, dove era tornato per prendere parte alla Resistenza, in circostanze mai del tutto chiarite [5]. Come Dolfi, anche il socialista massarosese Giuseppe “Beppino” Cosci, nativo della frazione di Stiava, è costretto all’emigrazione in Francia per sfuggire alle persecuzioni. Verso Cosci, che in paese gode di stima e rispetto, i fascisti lasciano da parte il manganello per ricorrere a più subdole strategie, offrendogli dapprima un posto presso il locale oleificio in cambio dell’adesione al fascio, per poi impedirgli di trovare e mantenere un lavoro che gli consenta di sfamare la numerosa famiglia (arrivando a incendiare i locali della falegnameria aperta da Beppino a Viareggio)[6].

La ferita più grave all’antifascismo però Scorza l’ha già inflitta nell’estate 1925, quando i suoi uomini aggrediscono uno dei più importanti leader dello schieramento liberaldemocratico: il deputato Giovanni Amendola.

20 luglio 1925: il “Delitto Amendola”

Ostile sin dal principio al fascismo e ai suoi metodi illegali, pur partecipando nel 1922 in vesti ministeriali ai due Governi Facta (che includevano anche i fascisti), Amendola nel 1925 è ormai uno dei capi riconosciuti dell’opposizione costituzionale a Mussolini. Già a un anno dalla marcia su Roma il deputato è stato sottoposto a fermo presso la sua abitazione salernitana, per poi subire una prima aggressione nella capitale poche settimane dopo. L’azione contro Amendola viene pianificata dal segretario del PNF Farinacci d’intesa con Scorza, reputato l’uomo giusto per portare a segno il colpo senza lasciarsi dietro “pasticci” (U. Sereni) analoghi a quelli del Delitto Matteotti.

L’aggressione al rappresentante liberale avviene sulla strada tra Montecatini Terme e Pistoia la notte del 20 luglio: come ricorda il figlio Giorgio (poi deputato del PCI), che da Salerno si affretta a raggiungere il padre convalescente a Roma dove è stato trasportato, Amendola “era tutto piagato. Facevano impressione soprattutto le ferite alla testa, all’occhio e all’orecchio. Il corpo era pesto, ma allora non si sapeva che il colpo mortale era stato inflitto proprio ai polmoni” [7]. Amendola sarebbe morto nove mesi dopo in Francia a Cannes, il 7 aprile 1926, e le indagini, svogliatamente compiute dalla magistratura [8], portano a un nulla di fatto: l’aggressione viene fatta passare dal regime come genuina reazione popolare contro l’odiato antifascismo. I bastonatori di Scorza resteranno impuniti, così come il loro capo, che nel dopoguerra fugge in Argentina proprio per non affrontare la giustizia italiana e rispondere dei propri capi d’imputazione (il principale dei quali riguarda proprio i fatti di Montecatini). In suo favore intercedono le gerarchie ecclesiastiche pistoiesi, e fra tentativi di depistaggio e interventi della Cassazione, il processo si concluderà nel 1949 con la concessione dell’amnistia da parte della Corte d’assise di Perugia, scampando al gerarca la precedente condanna a trent’anni di reclusione [9].

Guerra a tutto campo dentro il Partito

Se è vero che i colpi più duri Scorza li riserva agli antifascisti, non più tenero il ras di Lucca si dimostra nei confronti delle opposizioni interne allo stesso PNF: i primi a farne le spese sono addirittura due dei principali rappresentanti del partito in città, Nino Malavasi e Anatolio Della Maggiora. Malavasi, romagnolo di formazione repubblicana e anticlericale [10], nonché tra i fondatori del fascio lucchese, viene allontanato nel marzo 1921 al termine di una campagna diffamatoria per il suo mancato allineamento alle direttive della dirigenza milanese; Della Maggiora, che ricopre il ruolo di segretario ed è inviso a Scorza per la sua alleanza con Augusto Mancini e altri esponenti democratico-borghesi e del combattentismo alla vigilia delle elezioni della primavera 1921, viene a sua volta epurato per la mancata candidatura di rappresentanti fascisti nelle liste del Blocco Nazionale, e la segreteria passa nelle mani dello stesso Scorza.

Per consolidare il proprio potere, il ras cosentano non esita a far scorrere del sangue: il 22 maggio 1921 il sangue è quello di due squadristi, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini, entrambi a bordo del camion partito da Borgo a Mozzano in direzione Valdottavo, colpito nel Morianese da alcuni massi caduti dal soprastante monte Elto. Immediatamente si parla di un attentato antifascista, il casellante di Saltocchio Esmeraldo Porciani – presunto testimone oculare dei preparativi dell’attentato – viene bastonato e preso a rivoltellate da un gruppo di fascisti in piena notte davanti alla propria abitazione, e muore poche ore dopo all’ospedale di Lucca. Scorza nega qualsiasi coinvolgimento fascista, e il processo-farsa contro i responsabili si conclude con l’assoluzione per tutti salvo Alfredo Menesini, datosi latitante (che rientra comunque in seguito ad amnistia e apre una ditta di costruzioni, ricevendo importanti commesse pubbliche). Ben più dura sarà la giustizia nei confronti dei tre “attentatori antifascisti” di Valdottavo (Giannarini, Della Nina e Ramacciotti), condannati su pressione di parte fascista a pene severissime che spaziano dall’ergastolo all’interdizione perpetua dai pubblici uffici [11].

Nel 1927 la fronda antiscorziana dentro il PNF prova a riorganizzarsi attorno al podestà di Lucca Mario Guidi e ai suoi alleati Oscar Galleni e Fedele Pennacchi, membri del direttorio provinciale che intendono screditare Scorza in sede congressuale portando alla luce alcune torbide faccende legate alla Banca di Lucca (disastrosamente gestita dal fratello del gerarca, Giuseppe) nelle quali era implicato anche l’ex deputato di Pescia Tullio De Benedetti [12]: il vicesegretario nazionale Renato Ricci però all’ultimo momento ritira il proprio sostegno ai tre dissidenti, che vengono costretti a dimettersi dalle rispettive cariche ed espulsi dal Partito.

1930 – 1932: Scorza dal trionfo alla caduta

Il regime scorziano a Lucca riceve la sua “consacrazione” ufficiale il 12 maggio 1930, in occasione della visita di Mussolini in città, in ricordo della quale viene aperto nel 1931 un nuovo varco nelle Mura alla presenza del segretario nazionale del PNF Giuriati, Porta della Vittoria (l’odierna Porta San Jacopo, familiarmente detta “il buco nuovo”)[13]. Pochi mesi prima lo stesso Giuriati ha chiamato al proprio fianco Scorza, nominandolo responsabile dei fasci giovanili.

Resta un solo, mal tollerato ostacolo, e proprio nel cuore del regno di Scorza: la potente famiglia Bertolli, ricca dinastia dai ramificati interessi economici, nei cui confronti il ras porta avanti una cauta “guerra fredda” (Umberto Sereni) e che intrattiene buoni rapporti con il neosegretario nazionale Starace, subentrato a Giuriati e ostile a sua volta a Scorza. Nel giro di poco tempo il gerarca di origini cosentane viene costretto a restituire i propri incarichi, e le missive inviate a Mussolini, che certo non ha digerito l’opposizione di Scorza alla sua linea di accordo con il Vaticano, restano lettera morta. La faccenda di Valdottavo viene rispolverata per l’occasione, i fedelissimi dell’autoproclamatosi “condottiero” ed erede di Castruccio Castracani vengono colpiti uno dopo l’altro [14], e il 10 dicembre 1932 viene sancita ufficialmente la decadenza di Scorza dalle pagine del Popolo Toscano [15]. Soltanto un decennio più tardi – in frangenti ben più drammatici per il regime e il paese – il fascismo avrebbe riabilitato Scorza.

Mussolini_manifattura_Lucca 1930

Mussolini in visita alla Manifattura Tabacchi durante il suo soggiorno a Lucca nel 1930 (foto di Ettore Cortopassi, 1930; Archivio Fotografico Lucchese, ECN 2329)

[1] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del saggio di Nicola Laganà Borgo a Mozzano: l’ultima amministrazione comunale antifascista della Lucchesia (1924-1925), secondo i documenti d’archivio e le cronache dei periodici locali, in “Documenti e Studi – Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca” n. 27/28, dicembre 2006, pp. 17-143

[2] Ibidem, p. 19

[3] Teresa Catinella, Bertini, Pia, in Gianluca FULVETTI, Andrea VENTURA (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 54-55

[4] Marta Giusti, Masini, Clementina Maria Luisa, in Ibidem, pp. 138-139

[5] Andrea Ventura, Dolfi, Agenore, in Ibidem, pp. 91-93

[6] Andrea Ventura, Cosci, Giuseppe, in Ibidem, pp. 80-81; vedi anche Vanda Puccetti, Memorie su Beppino Cosci (a cura di Fabio Flego), Pezzini, Viareggio 2010

[7] Giorgio Amendola, Una scelta di vita, BUR, Milano 1979, pp. 126-127

[8] Umberto Sereni, Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217

[9] Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 166-167

[10] La convergenza tra settori del repubblicanesimo di matrice mazziniana e fascismo a Lucca porta anche alla nascita di un periodico di respiro nazionale, Retaggio”, pubblicato dall’agosto al dicembre del 1924. La sua breve ma significativa storia è stata ricostruita nel dettaglio da Nicola Del Chiaro nel saggio L’Edera con il littorio. “Retaggio”: un ambizioso periodico mazziniano fascista (Lucca, agosto-dicembre 1924), in “Documenti e Studi” 42/2017, pp. 41-63

[11] La vicenda è stata ricostruita approfonditamente da Nicola Laganà nel saggio L’eccidio di Valdottavo: domenica 22 maggio 1921. Un falso attentato antifascista, ordito dal fascista Carlo Scorza e realizzato dai suoi squadristi, in “Documenti e Studi” 32/2010, pp. 11-76

[12] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del già citato saggio di Umberto Sereni Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in particolare pp. 201-206

[13] Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, p. 129

[14] In particolare si vedano a titolo di esempio i casi di Luigi Stefanini (segretario del fascio di Altopascio) e Artidoro Nieri (subentrato a Scorza come segretario federale provinciale dopo che questi era stato eletto alla Camera dei deputati), entrambi approfonditi nel saggui di Moreno Bertolozzi Uomini e vicende del fascismo di Altopascio (1922-1932… e oltre, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 17-37

[15] Umberto Sereni, Op. cit., in particolare pp. 206-217