Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



“Non solo staffette…”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane toscane: una (parziale) ricognizione.

Avvertenza: il testo che segue è una versione ridotta e riveduta di un intervento presentato dall’autore al convegno Si fa presto a dire “staffette”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane svoltosi il 25-26 novembre 2024 presso la Casa della Memoria di Milano. Il convegno intendeva promuovere una proposta di ricerca dedicata al tema della presenza delle donne nelle carte delle formazioni partigiane. Attualmente il progetto, sotto il titolo Censimento di fonti sul ruolo delle donne nelle formazioni partigiane, è in fase di inizializzazione ed è promosso da Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Consiglio Nazionale delle Ricerche – Dipartimento di Scienze umane e sociali, patrimonio culturale (CNR-DSU), in collaborazione con la rete degli istituti associati alla Rete Parri.


Che senza la partecipazione delle donne la Resistenza al nazifascismo, anche quella in armi, non sarebbe stata possibile – in Italia, così come in tutta Europa – è un’affermazione perentoria quanto cristallina che nessuno oggi, informato sui fatti e privo di qualsiasi pregiudizio, si sentirebbe certo di smentire. Per lungo tempo, però, l’immagine e il giudizio prevalenti sul conto del ruolo giocato dalle donne all’interno della Resistenza italiana furono di tutt’altro segno. Poiché della già di per sé esigua minoranza che riuscì ad aggregarsi alle formazioni partigiane, solo una minima parte poté farlo a tutti gli effetti in qualità di combattenti in armi – vuoi per scelta personale vuoi a causa di radicati pregiudizi di genere che le costrinsero a ruoli più tipicamente femminili – della loro esperienza, a guerra finita, si ricordò prevalentemente i “compiti di cura” e non già le minoritarie ma a volte significative “mansioni di guerra”, troppo limitate e sporadiche, appunto, per emergere nel prevaricante paradigma memoriale del “maschio guerriero” con cui la Resistenza fu a lungo raccontata.

Perché le cose cominciassero a cambiare si dovette attendere, come noto, almeno la fine degli anni Sessanta, quando grazie a un radicale ribaltamento di prospettiva e all’emergere di una nuova consapevolezza politica da parte del nascente movimento femminista, le individualità, le intenzioni, le speranze, le illusioni – insomma le biografie di molte resistenti – tramite lo strumento dell’oralità e della testimonianza personale (ri)guadagnarono spazio e centralità, divenendo così fonte e risorsa determinante per una diversa interpretazione del ruolo storico giocato dalle donne. L’asse portante del paradigma armato della Resistenza ne risultò così profondamente incrinato a favore di altre progettualità ed esperienze, le quali poi, nei decenni a seguire, trovarono più idonea sistemazione in nuove e plurali categorie storiografiche di Resistenza (variamente definita come “senz’armi”, “civile” ecc.) entro le quali la gamma delle mansioni e del ruolo ricoperto dalle donne risultò assai più ampia, ricca, in ogni caso “diversamente” centrale per la sopravvivenza del movimento resistenziale. Non più e non solo, perciò, staffette o combattenti, secondo la tradizionale dicotomia escludente che le aveva sin lì relegate prevalentemente (e spesso con un diverso giudizio di valore) entro il primo dei due termini, ma più variamente, informatrici, sabotatrici, agenti oltre le linee, propagandiste, portaordini, infermiere, cuoche, ecc. ecc. Una varietà di mansioni e responsabilità che portò a riconoscere in esse il perno centrale e indiscutibile attorno al quale i partigiani poterono di fatto creare e mantenere i loro fondamentali collegamenti con il territorio e la popolazione civile e rurale.

La ricchezza del quadro poté esser raggiunta solo grazie all’emergere delle fonti della soggettività (memorie personali, diari, interviste, testimonianze dirette) raccolte e messe a disposizione per la prima volta da pioneristici lavori, di cui spesso le stesse donne si resero protagoniste, oltreché come testimoni dirette, anche come ricercatrici e storiche. Anche in Toscana, come in altri contesti regionali che avevano conosciuto importanti movimenti di resistenza, questi primi lavori cercarono coraggiosamente di andare oltre la tradizionale parzialità e reticenza delle fonti coeve ai fatti, quelle prodotte cioè nel farsi degli eventi o subito dopo la fine del conflitto dalle stesse formazioni partigiane e dagli organi dirigenti della Resistenza. La pubblicazione nel 1978 da parte del Comitato femminile antifascista per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione della Toscana del volume Donne e Resistenza in Toscana[1] costituì ad esempio un primo importante, benché per certi versi ancora incerto, tentativo di far emergere sui pochi documenti d’archivio e le consolidate ricostruzioni disponibili la voce diretta delle protagoniste[2]. Nonostante il valore aggiunto dei nuovi squarci conoscitivi proposti, il volume, soprattutto per alcune province, prendeva atto di un certo effettivo ritardo nella partecipazione femminile alla Resistenza, limite che veniva giustificato richiamando, da un lato, i tempi relativamente brevi della Resistenza toscana – la quale, nonostante la sua consistenza e il suo carattere intenso di lotta, era durata meno al confronto con quella sperimentata nelle regioni dell’Italia settentrionale – e, dall’altro, il peso della tradizionale struttura economica mezzadrile della regione, nella quale, alla centralità produttiva svolta dal lavoro delle donne non era corrisposta, a causa dell’isolamento da loro patito all’interno delle famiglie tradizionali, un’altrettanta centralità sociale che fosse in grado, soprattutto nelle campagne, di coinvolgere attivamente madri e figlie nelle organizzazioni antifasciste e resistenziali[3].

Comitato femminile Antifascista, “Donne e Resistenza in Toscana”, Giuntina, Firenze 1978

È curioso, ma al tempo significativo, che questi stessi caratteri che avrebbero costituito un freno alla partecipazione delle donne toscane al movimento resistenziale, dai primi storiografi della Resistenza venissero invece proposti positivamente come i tratti originali del modello resistenziale toscano, che era stato appunto temporalmente breve ma assai combattivo e capace soprattutto di farsi trovare nel momento di avvio del processo di liberazione dei territori regionali, inaugurato nell’estate del 1944, a uno stadio piuttosto avanzato di maturità politica e militare; un modello resistenziale che, oltretutto, se proprio in quel decisivo frangente era risultato vincente, lo doveva soprattutto alla stretta saldatura prodottasi tra mondo mezzadrile e Resistenza, tra contadini e partigiani[4]. Una conferma in più, insomma, d’una Resistenza sin lì letta ancora con un’ impostazione piuttosto carente sul piano della sensibilità di genere. Una lettura che, d’altra parte, anche la stessa documentazione partigiana coeva ai fatti tendeva spesso a confermare, anche se forse con qualche potenziale sfumatura in più.

Tornare a interrogare le carte partigiane del tempo, non già per chiedere a esse materiali e stimoli utili ad uno studio sulla storia delle donne nella Resistenza, quanto invece per indagare in modo possibilmente meno liquidatorio e parziale quale immagine (per quanto sfocata, silente, artefatta o limitata possa risultare) nei diversi contesti operativi e territoriali quelle stesse carte ci restituiscono dei percorsi e delle traiettorie femminili, può forse essere un tentativo valido e fruttuoso ai fini di un più approfondito studio sulla Resistenza tout court. Cogliere in sostanza “cosa” quelle carte partigiane – che intercettano, registrano o di contro tacciono la presenza femminile nelle formazioni partigiane – ci dicono della Resistenza stessa. Può essere che ne emerga un ritratto già noto e per certi versi stantio, ma anche che invece ne affiorino a tratti sfumature insolite e persino elementi inattesi. Certo, ciò se si è disposti a ritornare sulle carte delle formazioni – per così dire – senza pregiudizi di genere (da entrambe le parti), ma con la consapevolezza di quanto negli anni è stato acquisito grazie alla sollecitazione della soggettività delle protagoniste del tempo. Si tratta, naturalmente, di una ricerca ancora in buona sostanza da fare, anche per il caso toscano.

Quanto segue, non è perciò che una assai parziale e approssimativa restituzione di un primo tentativo di carotaggio condotto senza alcuna pretesa di esaustività su un campione assai ristretto di fonti partigiane coeve, raccolte nel fondo Resistenza armata in Toscana. Si tratta di un fondo conservato presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, nel quale sono contenute relazioni, bollettini, corrispondenza e documentazione varia (in originale e, soprattutto, in copia) relativa a tutte le formazioni partigiane della regione.

Come molte altre serie documentali sulle formazioni toscane, anche per questo fondo esiste almeno un limite euristico che è il caso di premettere e che è connesso al problema della “coevità” delle fonti che raccoglie. Gran parte della documentazione che vi si conserva è costituita infatti dalle relazioni generali sull’attività delle formazioni che, in quanto stese nella gran parte dei casi a partire dalla liberazione dei territori dove queste ultime operarono, sono spesso di qualche mese successive ai fatti descritti. Vi è naturalmente anche corrispondenza e documentazione prodotta nel farsi degli eventi, ma questa costituisce una minoranza, e spesso è oltretutto lacunosa e incerta nei riferimenti. Delle relazioni generali delle formazioni, dunque, conosciamo già i conclamati limiti come fonti: esse costituiscono intanto documenti performativi, che puntano cioè a proporre una raffigurazione della Resistenza rispondente ad alcuni obiettivi successivi, quali quelli del riconoscimento partigiano, e pertanto risultano sensibili a diverse variabili, quali ad esempio i diversi rapporti di forza esistenti tra i partiti dell’unità antifascista. Oltretutto, il più delle volte, questa documentazione, che (con pochissime e quasi del tutto rare eccezioni) è scritta da uomini, riproduce una visione sostanzialmente combattentistica e marziale della Resistenza, priva perciò di un’equanime sensibilità nel registrare il diverso coinvolgimento e lo squilibrio dei ruoli tra i generi. Se la performatività di queste fonti rispetto al problema della partecipazione delle donne agisce spessissimo da filtro, va detto però che non sempre lo fa secondo le logiche di una deliberata esclusione o di un sostanziale ridimensionamento al ribasso del ruolo delle donne. A volte, infatti, emerge dalle relazioni partigiane l’interesse e la preoccupazione a che il ruolo e la presenza delle donne – seppur comunque difficile da inquadrare al di là delle consuete mansioni assistenziali loro riconosciute – non risultino però sottodimensionate. Da parte di qualche estensore di relazione si dichiara persino l’augurio esplicito a che alle proprie gregarie – benché presentate semplicemente come staffette – in nome del coraggio e del sacrificio dimostrati venga riconosciuta la qualifica di partigiane combattenti, indipendentemente da che i requisiti assai stringenti della normativa di riferimento lo consentano o meno.

(ISREC – Lucca) La viareggina Didala Ghilarducci con il compagno Ciro Bertini “Chittò” che seguì sulle Alpi Apuane per combattere i nazifascisti

Certo, l’impressione generale che si ricava da una ricognizione parziale di questo tipo, è che non vi siano stravolgimenti rispetto a quanto ci immaginiamo possa emergere sulla partecipazione delle donne dalle carte partigiane . Affiora però di contro e anche a dispetto dell’uso totalizzante della categoria di “staffette” una maggiore varietà dei campi di impiego del personale femminile, con mansioni e incarichi, continuativi o occasionali, che a volte si muovono lungo un confine piuttosto labile tra funzioni logistico-assistenziali e attività strettamente connesse con l’azione armata vera e propria (anche se poi,  rispetto a quest’ultima, le donne appaiono più spesso nelle vesti di coadiuvanti dei compagni maschi). Continua comunque a resistere alla luce della nostra parziale ricognizione, l’idea complessiva di una specializzazione delle donne all’interno delle formazioni declinata in attività preferenzialmente assistenziali o informative, specializzazione che è certo anche frutto di un’esclusione da un concorso in armi più rilevante prodotto negli estensori delle relazioni dal permanere inconscio di quadri mentali di riferimento che guardano alla presunta minorità (fisica, morale, emotiva) delle donne.
Talvolta, questa minorità filtra in modo esplicito nella documentazione partigiana stesa dai comandi, anche se come elemento forse inconscio legato a retoriche e strategie espressive consuetudinarie e introiettate: «benché donne…», pare talvolta di leggere in tralice nelle argomentazione dei loro comandanti, come a voler dire che non poche delle loro gregarie sembrano quasi sorprendere questi ultimi per le capacità di imporsi sacrifici e rispondere coraggiosamente al dovere che impone la lotta di Liberazione, quasi non fossero da meno degli uomini. Formule avversative di questo tipo non sono rare e se anche sono utilizzate per esprimere in realtà giudizi positivi su quelle singole personalità che si dimostrano in qualche modo capaci di superare le aspettative, spesso al ribasso, che la loro condizione di genere sembra suggerire, in realtà risultano sintomatiche di un filtro tipicamente maschile nella lettura dei caratteri individuali.

Le signorine Wanda Giorgi, Editta Pinelli e Alfonsine Blasta, riferisce ad esempio Vittorio Turri il comandante del servizio informazioni della Divisione partigiana “Lunense”, «benché tutte assai giovani», dimostrano «una serietà e una abilità non comune» e in parte, appunto, inattesa[5]. Di Maria Zannoni, lo stesso Turri dice d’essere questa «una delle migliori staffette sia per l’età che per l’aspetto»[6]. L’indulgere nell’osservazione della forma estetica, se può risultare fuori luogo, sottende probabilmente il fatto che quest’ultima può costituire al tempo una dote e un’arma utile nell’espletamento di una funzione non di rado attribuita al personale femminile, quella cioè della “persuasione” o, come recita la formula moralmente più compromettente spesso usata nelle carte partigiane, della “corruzione” del nemico, che, al pari di una seduzione, viene raggiunta da queste temerarie anche attraverso il loro personale fascino. Nel giugno del 1944, il comandante della 32° Brigata Rosselli “Renzo Galli”, che opera a Siena, dopo la cattura da parte dei tedeschi è processato e condannato a morte; tuttavia, si legge in un rapporto, «elementi femminili» appartenenti alla formazione «corrussero le sentinelle», di modo che il Galli poté approfittare, fuggendo ai suoi carcerieri attraverso una fogna[7]. Nel pistoiese, Giuliana Giavazzi della Brigata GL, mentre si «intratteneva coi militi» della GNR lasciava il tempo ai compagni di introdursi nella caserma per sottrarre armi e munizioni[8]. La già citata Wanda Giorgi, informatrice della Divisione “Lunense” e prima di essa della 4° Brigata “Ligure” operante in Lunigiana, nubile, ventenne, presumibilmente avvenente, si manteneva «in continuo contatto con i soldati tedeschi e fascisti» a cui «sapeva estorcere le notizie più importanti». Anche quando catturata dai tedeschi il 5 dicembre 1944, aggiungeva il rapporto, «ella sosteneva lo stretto interrogatorio senza fare alcuna rivelazione che potesse nuocere ai suoi compagni»[9].

Quella informativa, lo si sa, è una delle mansioni, assieme a quella di staffette, in cui le donne bene o male si specializzano, anche perché, come riconoscono i comandi, a loro è concessa una libertà che i compagni maschi non possiedono. Scrive, a riguardo, nella sua relazione conclusiva Antonio Mattesini, maresciallo di fanteria già appartenete al comando del SIM prima dell’8 settembre e poi ideatore nell’aretino di un nucleo clandestino di informazioni militari poi inglobato nella 23° brigata Garibaldi “Pio Borri”: «si è notato che i più anziani di età e le donne in specie (…) sono sempre stati i più abilissimi informatori in quanto indisturbati penetrano con facilità nei ritrovi e nei luoghi attingendo le più sicure fonti militari»[10]. E pur tuttavia, nonostante questa ammissione, l’impiego effettivo dell’elemento femminile nel centro informativo del Mattesini risulta piuttosto minoritario. Su 41 agenti attivi, 39 sono uomini e solo 2 donne, per di più sorelle (Rosa e Savina Palombi), mentre ancora tra i collaboratori occasionali 28 sono uomini e 4 donne. Decisamente più nutrita risulta invece la rappresentanza femminile entro il Servizio Informazioni Militari della citata Divisione Garibaldi “Lunense”, la formazione ispirata nell’agosto 1944 da Roberto Battaglia al confine tra Garfagnana e Lunigiana. Il servizio dispone infatti di una dozzina di «addette a vari osservatori», sorta di «staffette di vigilanza» alle quali è dato il compito di osservare da punti prestabiliti, spesso coincidenti col luogo di residenza o la sede lavorativa, tutti gli eventuali spostamenti di fascisti e tedeschi che esse poi riferiscono al comando della Divisione. Questo personale femminile svolge talvolta anche missioni mobili che comportano anche il doversi infiltrare presso il nemico nel tentativo di estorcere informazioni. È il caso della già citata Wanda Giorgi o di Editta Pinelli “Annetta” «in frequente contatto con i soldati tedeschi e fascisti» ai quali – viene detto della seconda – «sapeva prendere le notizie più importanti»[11]. Molte di queste informatrici sono per lo più giovani, nubili, spesso insegnanti o impiegate pubbliche nei comuni della zona da dove accedono perciò a informazioni preziose sugli occupanti. Vi sono però altre che vengono da famiglie contadine, come nel caso di Fanny Pellegrini di Fivizzano, e che oltretutto vivono nel difficile contesto di guerra disagiate condizioni economiche. Altre ancora sono sposate e hanno famiglia e prole, fatto questo che le espone ulteriormente a un pericolo maggiore. Arduina Grassi Incerti ne ha addirittura sei di figli; Maria Altieri, casalinga, ha tre bimbi in tenerissima età coi quali, oltretutto, è costretta a passare il fronte quando la sua attività di informatrice viene scoperta ed è perciò letteralmente inseguita dai tedeschi che le devastano pure casa[12].

Il “mimetismo” relativo cui beneficiano le donne nel contesto dell’occupazione, dove sono gli uomini a esser di per sé stessi sospetti, le rendono perciò adatte per compiti di collegamento e raccolta di informazioni, attività che richiedono mobilità e, appunto, passare inosservate. Aspetto, questo, che registrano puntualmente le carte partigiane: «il servizio di collegamento», si legge negli incarti della Brigata “Buozzi” legata al Psiup fiorentino, «doveva esser fatto attraverso il nostro elemento femminile, dato che ad esso soltanto poteva esser permessa una certa libertà di circolazione»[13]. Similmente si esprime anche il comandante della Brigata Garibaldi “Gino Menconi” operante sulle Apuane: «è di valore incalcolabile l’opera svolta dalle donne nel campo dei collegamenti sia nei momenti di stasi che in quelli di combattimento. Il maggior numero di staffette fu sempre reclutato fra le donne ed esse si dimostrarono insuperabili in determinati servizi che richiedevano la massima prudenza»[14].

Sui rischi in cui le staffette possono incorrere la casistica è sterminata, come i pericoli nei quali possono potenzialmente incappare. Giusto alcuni esempi che le carte delle formazioni toscane ci riportano. Il 3 luglio 1944 le sorelle Lidia e Anna Lia Innocenti, staffette della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, sono inviate attraverso le linee nemiche nell’area di Rigutino per appurare l’eventuale spostamento delle artiglierie tedesche. Svolgono il loro incarico egregiamente, ma sulla via del ritorno sono seguite da due militari tedeschi che, insospettiti, si fanno condurre presso l’abitazione delle due giovani. Qui, accusate di spionaggio, le costringono a un duro interrogatorio: «siccome le due donne tengono un contegno sprezzante», si legge nel report della formazione, i militari le violentano. Anna Lia viene tragicamente uccisa sul momento, assieme alla madre che tenta di opporsi, mentre Lidia rimane gravemente ferita[15]. Il 7 luglio, un’altra collaboratrice di una compagnia di un battaglione poi rifuso nella stessa Brigata “Pio Borri” viene uccisa dai tedeschi nella zona di Castiglion Fiorentino in Val di Chiana durante un’analoga missione oltre le linee volta ad accertare la dislocazione e la consistenza delle artiglierie tedesche. La donna è Gabriella Brogi, una cittadina belga che porta il cognome del marito italiano, Pericle Brogi (il nome effettivo, che le carte partigiane non dicono, è Gabriella Maria De Jaquier De Rosée), e che si era fatta collaboratrice del movimento locale di resistenza sin dalle prime fasi. Fatto abbastanza singolare, a seguito della sua tragica morte, le sarà intitolata la 2° compagnia (“Gabriella Brogi”) del 2° battaglione della 23° Brigata “Pio Borri”[16]. Nell’agosto del 1944, in piena battaglia di Firenze, ci sono staffette che, come Teresa Cantini passano più volte il fronte tedesco attestato sul Mugnone per collegare gli insorti nei quartieri sotto controllo nemico con i comandi militari partigiani installati nella parte già liberata della città[17]. La staffetta Dina Giannelli, mentre si reca a portare una comunicazione al comando del distaccamento SAP del PCI prima zona di Firenze, viene colpita a morte da raffiche di mitragliatrice, mentre poco dopo un ordigno colpisce una sua compagna, la staffetta Lida Salani, che rimane gravemente ferita[18]. Il 3 settembre 1944, Giuliana Barbetti, 23 anni, staffetta del comitato militare del CLN di Lucca, incaricata di portare attraverso le linee alle avanguardie alleate rilievi topografici sulle fortificazioni tedesche della Gotica, incappa in un infernale fuoco d’artiglieria ed è ferita gravemente da schegge di granata al fianco e alla gamba[19].

(ISRT) Tina Lorenzoni, crocerossina e staffetta della Brigata GL “V”. Catturata e uccisa dai tedeschi durante la battaglia di Firenze.

Contrariamente agli esempi sopra riportati, ci sono formazioni, operanti in contesti di periferia e dal relativo valore militare, che non sembrano invece voler esporre i propri effettivi femminili a rischi inutili, anche se non è chiaro fino in fondo se ciò sia conseguenza di una consapevole volontà di salvaguardia dell’elemento femminile o di un’implicita ammissione della loro inadeguatezza a mansioni di guerra, o entrambe le cose. La Sap di Fibbiana, Montelupo Fiorentino, ad esempio, ha solo due donne all’attivo: Clara Pozzolini, che è un’impiegata dello stato civile del comune a cui sono stati attribuiti compiti di vigilanza, e la staffetta Maria Cioni. Come ci tengono a sottolineare i comandi nella relazione, sono però i soli effettivi maschi della formazione che vengono «impiegati in azioni pericolose», anche se poi la Cioni, che grazie alla sua conoscenza dell’inglese si troverà a far da interprete con le avanguardie alleate, dovrà espletare comunque questa sua mansione «anche in momenti particolarmente pericolosi per il violento cannoneggiamento»[20]. D’altro canto, nelle aree in cui si combatte, qualsiasi funzione anche non direttamente marziale attribuita al personale femminile si rivela lo stesso rischiosa: «pericolosissimo pure era il servizio di raccolta e di porta feriti disbrigato in maniera lodevole dalle staffette femminili», si legge nei report della Brigata Garibaldi fiorentina “Sinigaglia”, una delle più combattive. La Brigata GL “Vittorio Sorani”, attiva nei giorni della battaglia per Firenze nel quartiere fiorentino di Rifredi, allora sotto occupazione tedesca, organizza un ambulatorio clandestino per l’assistenza alla popolazione civile. Una sua effettiva, Tina Lorenzoni, crocerossina e tra le più attive staffette fiorentine, accompagna una partoriente in condizioni non ottimali «attraverso la linea nemica sotto varie raffiche di mitragliatrice» fino nel centro della città, già in mano alleata[21]. Non molto dopo, come noto, la stessa Lorenzoni, nel corso di un’altra missione di infiltrazione oltre le linee nemiche sulle colline a nord di Firenze verrà catturata e fucilata dai tedeschi.

Nella documentazione partigiana, non di rado si trovano a riguardo del personale femminile notazioni che rimandano ad attività collaterali all’azione militare vera a propria, spesso legate al sabotaggio, le quali, se non implicano nella pratica l’uso delle armi, richiedono quantomeno il possesso di conoscenze tecniche o un minimo di dimestichezza bellica e balistica normalmente appannaggio delle componenti maschili. Le due staffette della citata Brigata “Buozzi”, Lidia Albertoni e Ludovica Marcella Paperini, mentre la formazione è impegnata a Firenze sulla linea del Mugnone, vengono incaricate di recarsi oltre il tracciato difensivo tedesco «per individuare i punti di collocamento delle mine» che devono esser fatte brillare per rallentare la ritirata tedesca[22]; un compito che, immaginiamo, presupponeva il possesso di qualche cognizione sul funzionamento e la portata degli esplosivi. Meno complessi, tecnicamente, ma non meno rischiosi risultano altri incarichi di sabotaggio, talvolta affidati a personale femminile interno o esterno alle bande. La signora Poggi, ad esempio, collaboratrice della formazione comandata dal capitano della regia Marina Giuseppe Cecchini e attiva nella bassa valle del Serchio, in provincia di Lucca, veniva spesso incaricata dal comando di «recarsi in determinati punti a tagliare i fili telefonici»[23].

La questione capitale del porto effettivo delle armi da parte del personale femminile sembra invece sfuggire o appena trapelare dalla documentazione collazionata per questa parziale ricognizione. Ogni volta che nelle carte si trovano descrizioni dettagliate su azioni militari e se ne indicano i membri che ne prendono parte, molto raramente compaiono tra essi nomi femminili. La ragione, naturalmente, è ovvia e rispecchia l’effettiva esiguità della partecipazione in armi da parte delle donne aggregate alle formazioni nel contesto di combattimenti. È oltremodo significativo, comunque, il fatto che le volte in cui si trovano nei documenti riferimenti di questo tipo non di rado è in conseguenza di un coinvolgimento improvviso e casuale da parte di staffette o componenti femminili in scontri col nemico . Nel resoconto relativo a un attacco subito dalla 4° compagnia del 1° battaglione della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, ad esempio, delle patriote Detti Concetta, Ciofini Ester e Romani Anna Maria si specifica che «accorse sul posto di combattimento ad informare il comandante di compagnia circa i movimenti tedeschi vengono coinvolte con i partigiani nel combattimento e rimangono anch’esse ferite»[24]. Diversamente, in un contesto d’emergenza in cui gli effettivi partigiani scarseggiano, come accade ad esempio in una situazione di prima linea, può esser richiesto alle stesse staffette di svolgere attività di vigilanza armata e quindi, all’occorrenza, l’uso delle armi. Tra il 9 e il 10 agosto 1944, si riporta ad esempio in un report della 3° Brigata “Rosselli” impegnata nella liberazione di Firenze, «dato il precipitare della situazione tutti, indistintamente, dai comandanti alle staffette femminili, prestarono ininterrotto servizio armato».

La guerra partigiana nelle carte delle formazioni risulta principalmente affare per uomini. D’altra parte, la lente tradizionale attraverso la quale si legge da subito quell’esperienza è tipicamente maschile e mette al centro del discorso le virtù marziali, i valori combattentistici, la morte, gli eroismi. La partecipazione femminile, pur se molto più articolata, continua perciò a rimanere espressa con formule discorsive e retoriche prettamente ancillari, che ne mettono in luce semmai il ruolo di assistenza materiale e morale alla Resistenza in armi. Non è però questo sguardo, così parziale e soggettivo, esito esclusivo del fatto che a compilare le carte delle formazioni siano quasi sempre partigiani maschi. Appare significativo in tal senso che, anche per il caso toscano, questa visione ancillare della Resistenza delle donne trovi alcune conferme persino in quelle pochissime relazioni stese da attiviste e compagne responsabili di organizzazioni femminili legate alla Resistenza. Un esempio, tra altri, può essere la relazione stesa da Flora Giannini, responsabile del gruppo femminile della SAP di Carrara legata alla FAI (Federazione Anarchica Italiana). Si tratta di sette cartelle fitte che rivendicano al gruppo di donne in questione una gamma di attività in grado di spingersi ben oltre i meri aiuti materiali forniti ai partigiani delle Apuane e che abbraccia invece anche servizi di spionaggio, di porta armi e munizioni o di cura morale e psicologica ai combattenti. C’è, inoltre, racchiusa in quelle pagine, la netta rivendicazione di un’adesione indefessa e incondizionata da parte delle donne carrarine alla causa della Resistenza, adesione che non si cura dei sacrifici e delle difficoltà subite, e che anzi vuol porre in sodo la capacità di resistenza e adattamento delle donne della formazione alle stesse dure condizioni di vita in montagna che sperimentano i partigiani in armi. Ma, oltre a questo, pare emergere in filigrana come il loro ruolo, per quanto effettivo ed entusiasta, risponda a una vocazione orientata a dare tutto in funzione dei partigiani combattenti, che esse seguono infatti quasi come ombre, fornendo loro tutto ciò di cui essi abbisognano e non sono in grado di procurarsi. Una certa idea di sussidiarietà, forse imposta dalla forma mentis della società del tempo o forse in parte anche dalla volontà di toccare in chi doveva legger e valutare quel documento le giuste corde sentimentali e psicologiche, non era perciò del tutto assente nel modo con cui si descriveva da parte delle stesse protagoniste la collaborazione del gruppo femminile. Peraltro, il tutto espresso con un linguaggio intriso di patos sacrificale che non si discostava molto da quello infuso in molte altre relazioni partigiane di fatti d’armi:

Per le brave compagne non esistevano né pesi né fatiche, ma animate da quel coraggio che è forza e fede dell’ideale seguivano quei prodi da uno sganciamento all’altro, sotto il tiro del cannone e sotto il fischio della mitraglia, pur di portare loro il necessario: armi, munizioni e viveri abbondanti. Esse erano messaggere in tutti i pericoli, sempre pronte alla voce del dovere di giorno e di notte, non arrestandosi davanti a nessun ostacolo pur di portare a termine le loro missioni […] Esse con fulgido esempio sfuggendo alle insidie nemiche, salivano i monti affrontando tutti i pericoli, sfidando la morte per portare non solo il pane, nutrimento materiale, ma la loro buona parola che era conforto morale a quei prodi, che celati tra le creste frastagliate, passavano i giorni pieni di tristezza e privazioni, lontani dalle loro case, dai loro cari, dove un pensiero costante li portava ogni dì, dove l’attesa di quella libertà li tendeva frementi d’azione. Era vicino a loro, che esse si portavano dopo i duri combattimenti per raccogliere i feriti, prodigando loro cure ed attenzioni, dando sepolture occasionali e degne per toglierli dalle mani del nemico e toglierli al loro oltraggio.[25]

Anche quella della partigiana-Antigone che, come la grossetana Norma Parenti, a suo rischio personale sottrae i corpi dei compagni caduti all’oltraggio del nemico assicurandone contro il divieto di quest’ultimo degna sepoltura – una funzione caritatevole quanto rischiosa, coraggiosa quanto deflagrante sul piano della disobbedienza al comando della guerra nazifascista –, è elemento che trapela talvolta nelle stesse carte partigiane, anche se forse non in tutta la sua pienezza di significato.

(ToscanaNovecento) Norma Parenti, antifascista e partigiana grossetana, catturata, seviziata e uccisa dai tedeschi. Medaglia d’oro al valor militare.

Da questa ricognizione incerta e parziale, sfuggono invece molte altre questioni, sulle quali talvolta, ma non sempre, le carte partigiane tacciono o si mostrano reticenti, ma che proprio per questo sono però altrettanto importanti. Tra queste, ad esempio, il problema della convivenza e della condivisione degli stessi spazi e delle stesse condizioni di vita partigiana all’interno delle formazioni tra personale maschile e femminile, e dunque la questione della moralità e della disciplina che tali rapporti sollevano. Come ha ricordato tra altri Santo Peli, la presenza di donne giovani e potenzialmente desiderabili tra le file partigiane sollevò talvolta da parte dei comandi decisi «moralismi», volti a frenare l’insorgere nella truppa maschile di speculari «fantasie»[26], moralismi che lasciarono tracce entro i codici disciplinari che le singole formazioni si diedero e nei provvedimenti disciplinari che i comandi in alcuni casi sanzionarono. Tracce, queste, talvolta recuperabili nei carteggi e nella documentazione partigiana coeva.

Altra questione che trapela dagli incarti partigiani, con sensibile accelerazione a partire dalla vigilia della fine della guerra, è quella inerente il problema del riconoscimento partigiano per staffette e, più in generale, per il personale femminile. Considerazioni e sensibilità anche divergenti sul da farsi presero in quel frangente ad animarsi tre le stesse file partigiane. Sicuramente, da un lato, agì da parte di alcuni comandi la volontà di mantenere la guerra di Liberazione nell’alveo del paradigma combattentistico del maschio guerriero, certificandone perciò i suoi effettivi come tali e mantenendo di conseguenza la partecipazione femminile su di un piano meramente assistenziale. Dall’altro, invece, non mancarono preoccupazioni contrarie, perché si tenesse conto cioè, premiandolo adeguatamente, del valore non solo sussidiario e simbolico del contributo offerto alla Resistenza dalle donne. Il tenente di fanteria Luigi Geri, comandante della formazione “Valoris” collegata al PCI di Pistoia, ad esempio, dopo aver parlato dell’opera svolta dalle sue staffette Liana Pisaneschi e Marina Capponi chiudeva la sua relazione generale con queste parole: «Ritengo doveroso segnalare l’operato delle staffette che si sono prodigate sprezzando il pericolo, fino all’inverosimile, portando attraverso le maglie nemiche armi, munizioni e materiale di propaganda. A queste, pur non avendo partecipato a combattimenti deve spettare la qualifica di partigiane combattenti»[27].

Talvolta, come può leggersi nei carteggi che si scambiano i comandi partigiani toscani già a partire dalla fine del 1944, nella compilazione dei ruolini e nel rilascio dei primi attestati può succedere che alcuni di essi si dimostrino un po’ laschi nel concedere a collaboratrici e patriote il riconoscimento di partigiane combattenti, talvolta facendo ciò a scopi puramente assistenziali, talaltra seguendo anche logiche premiali su base politica o dietro mirate raccomandazioni. Situazioni che però si scontrarono spesso con chi, non solo insisteva perché il rilascio delle qualifiche rispecchiasse i criteri di legge, ma si dimostrava preoccupato di contenere l’esperienza resistenziale entro un canone puramente combattentistico e, come tale, eminentemente maschile. Di fronte alla troppo leggera concessione di alcuni tesserini attestanti la qualifica di partigiane combattenti per una ventina di donne della fiorentina Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, un piccato esposto inviato nel settembre 1944 al comando delle Garibaldi fiorentine protestava asserendo trattarsi in quel caso di donne chiamate in realtà dalla formazione «a disimpegnare il lavoro di pulizia, di cucina e di sguattere». Valutata la situazione, in quel caso il comando garibaldino propose di considerarle perciò come «servizio ausiliario», includendole tra le richiedenti la qualifica di «patriota»; grado che poi la Commissione regionale toscana riconobbe per alcune di loro. Almeno una di esse, sappiamo,  fece ricorso alla Commissione di secondo grado per ottenere il titolo di partigiana combattente, che tuttavia le fu rigettato[28].

Che vi siano nella documentazione partigiana coeva spunti e appigli ancora utili per approfondire e problematizzare alcune fondamentali questioni potenzialmente in grado di illuminare non solo (o non tanto) il ruolo effettivo della partecipazione femminile alla Resistenza ma in senso più in generale la stessa conoscenza complessiva della vicenda resistenziale e partigiana è qualcosa per cui davvero può valer la pena di riprendere le carte d’archivio e interrogarle con dovuta acribia e rinnovata sensibilità.

 

 

 

[1] Comitato femminile antifascista, Donne e Resistenza in Toscana, La Giuntina, Firenze 1978.
[2] P. Gabrielli, Antifascisti e antifasciste, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, vol. 1, Regione Toscana-Carocci, Roma 2006, p. 42.
[3] L. Mattei, La partecipazione delle donne, in AA.VV., Storia della Resistenza senese, Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “V. Meoni”, Betti editrice, Siena 2021, pp. 191-192.
[4] Per un esempio classico di questa interpretazione storiografica del modello resistenziale toscano cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1979, p. 357.
[5] Archivio Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea (AISRT), Resistenza armata in Toscana, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 26.
[6] Ivi, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 13.
[7] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.3 XXII Brigata Fratelli Rosselli, Div. GL 32° Brigata Carlo Rosselli, si vedano i riferimenti alle date del 29 e 26 giugno 1944 nelle due diverse versioni presenti dell’Elenco delle azioni.
[8] Ivi, b. 5 [4], fasc. 15.13 Brigata GL Pistoia, relazione a firma del comandante la Brigata Riccardo Morosi e del comandante la XII zona Vincenzo Nardi, pp. 2-3.
[9] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, pp. 4-5.
[10] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.16 XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, III Btg., Relazione organico forza e sue variazioni centrale e compagnia “I”, Costituzione del nucleo clandestino d’informazioni di Castel Focognanon (Arezzo), p. 3
[11] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 5.
[12] Ivi, pp. 4, 12, 14; ivi, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 29.
[13] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S, 1 agosto 1944, p. 5.
[14] Ivi, b. 3, fasc. 7.3.1. Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, Relazione Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, collegamenti, p. 13.
[15] Ivi, b. 8 [Resistenza in Toscana], fasc. 29.3 Relazione sull’attività della 2° compagnia “Gabriella Brogi” del II battaglione della XXIII Brigata Garibaldi “Pio Borri”, 3 luglio 1944, pp. 21-22.
[16] Ivi, 7 luglio 1944, pp. 24-25.
[17] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione dell’attività svolta dalla squadra socialista di Peretola nel periodo maggio-agosto 1944, p. 1.
[18] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.5 Sap I zona PCI Firenze, Relazione dell’attività svolta dalla costutuzione delle Squadre d’azione SAP fino allo scioglimento, p. 12; ivi, Rapporto relativo all’attività svolta dalla 2° compagnia I zona, p. 2.
[19] Ivi, b. 3, fasc. 8.1 Comitato militare clandestino dei patrioti lucchesi, Relazione, ottobre 1944, p. 40.
[20] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.4 Sap Fibbiana, Attività svolta, p. 1.
[21] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.3 Brigata V, Relazione della Brigata “V”, 29 dicembre 1944, pp. 3,6,
[22] , b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S per la Liberazione di Firenze, p. 6.
[23] Ivi, b. 3, fasc. 8.8. Formazione Cecchini, Relazione del capitano della regia marina Cecchini Giuseppe, Lucca, 2 novembre 1944, p. 3.
[24] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.8 XIII Brigata Garibaldi “Pio Borri” I Btg. IV Cpg., Attività operativa, 14 luglio 1944, p.
[25] Ivi, b. 3, fasc. 7.1.4 SAP F.A.I., Relazione militare femminile (Gruppo Flora) SAP-FAI, p. 2.

[26] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 1004, p. 215.
[27] Ivi, b. 5, fasc. 15.22, Banda Valoris, Relazione, Pistoia, 3 maggio 1946, p. 7.
[28] Ivi, Anpi Firenze, b. 3, fasc. Carteggio 1944 non datato, istanza a firma Marco Pieri al Comando Divisione Potente e ai vecchi comandanti della Brigata Sinigaglia e risposta a firma di “Gracco” e altri del 20 novembre 1945.




Le bandiere multicolori delle donne. Una storia di pacifismo e resistenza

Nel secondo dopoguerra l’Italia fu uno dei paesi protagonisti del movimento dei Partigiani della pace, costituitosi a Parigi nel 1949. Nel suo alveo, tra gli anni ’40 e ’50, si sviluppò “dal basso” la pratica della realizzazione delle “Bandiere multicolori della pace”. Si tratta di una pratica autonoma e parallela rispetto a quella delle bandiere della pace arcobaleno.

Le bandiere sono un artefatto classico. Prima dell’avvento delle bandiere prodotte in serie si trattava di un oggetto singolo, “La bandiera”, simbolo identitario soggettivo di quella specifica organizzazione e potente strumento comunicativo. La bandiera attira lo sguardo, trasmette contenuti, unisce le persone, risveglia emozioni. L’uso della bandiera in scioperi e manifestazioni occupa lo spazio, crea collettività, anche attraverso una precisa grammatica dei colori.

La bandiera arcobaleno è oggi conosciuta globalmente. Un ruolo importante nella sua diffusione e standardizzazione pare averlo giocato Aldo Capitini, che portò una bandiera molto simile a quella che conosciamo, riprendendola da alcune che già circolavano, durante la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi nel 1961. Ma già agli inizi del ‘900 James Van Kirk aveva proposto la World Peace Flag. Nel 1897 ne era stata proposta un’altra da Cora Slocomb e qualche anno prima, nel 1891, un’altra versione ancora era stata proposta da Henry Pettit.

Poco note sono invece le bandiere della pace delle donne italiane, che nonostante la loro diffusione all’epoca restano quasi sconosciute al grande pubblico. Per le loro fattezze sono conosciute come bandiere multicolori. Venivano realizzate spesso a risparmio, con scampoli di tessuto, spesso arricchite con ricami di testo, di disegni o oggetti del lavoro. Sono arrivate a noi attraverso la memoria e gli archivi. Ne sopravvivono numerosi esemplari, a volte in bella vista, altre volte in cassetti e sgabuzzini.

La loro estetica pone un interrogativo: perché fare delle bandiere multicolori per simboleggiare la pace? Probabilmente l’idea che la pace andasse rappresentata con tanti colori si era già fatta strada, a partire dai primi prototipi, e veniva tradotta dallo spirito internazionalista dei movimenti socialisti e comunisti in una bandiera che con i suoi tanti colori rappresentasse i popoli del mondo uniti sotto le insegne della pace.

Furono soprattutto le donne dell’Unione donne italiane (UDI) ad impegnarsi maggiormente nella campagna pacifista e contro la minaccia atomica. Di conseguenza, le bandiere ebbero anche una caratterizzazione e grammatica di genere. La realizzazione delle bandiere era già una delle forme dell’attivismo delle donne. Le laboriose e infaticabili mani femminili cucivano da tempo i vessilli del movimento di emancipazione del lavoro. Le bandiere multicolori divennero così le bandiere della pace “delle donne”, un simbolo delle istanze di emancipazione, esibite e portate in piazza.

Le prime informazioni sulle bandiere multicolori risalgono alla fine del 1948, diventando subito un simbolo di lotta e di opposizione all’ingresso dell’Italia nella NATO, contro la guerra di Corea e la bomba atomica. Nel 1949 a Parma la bandiera, rimossa dalla polizia dalla torretta della fabbrica Bormioli (occupata dalle maestranze), venne portata in bicicletta in alcuni paesi, dove si costituirono i Comitati della Pace al suo passaggio e si raccolsero firme contro il Patto Atlantico. Lo stesso anno l’UDI invitò le donne a portare le bandiere alle manifestazioni dell’8 marzo. Le bandiere vennero utilizzate anche negli eventi delle ragazze dell’UDI, come gli Incontri di Primavera o le gare sportive, legandosi così alla gioventù e all’idea di futuro che incarna. Sono numerose le fotografie apparse sulle riviste del tempo in cui le ragazze sventolano le bandiere. A Siena presso le “Stanze della memoria” è esposta una bandiera dove si può leggere la scritta ricamata: «Le ragazze d’Anqua s’impegnano per la pace».

Ma nell’Italia di quel tempo queste bandiere erano un oggetto politico conflittuale. Dato che la campagna pacifista si contrapponeva alle politiche internazionali e di riarmo dei governi italiani, la bandiera della pace era di fatto uno strumento di opposizione e veniva considerata la manifestazione di un’ostilità politica ai governi, che ne perseguirono l’uso attraverso le forze dell’ordine. Le bandiere divennero così anche un simbolo e uno strumento di resistenza, e con questa declinazione furono incorporate nei repertori dell’azione sindacale. Le ritroviamo in piazza il Primo maggio, esposte ai convegni e ai congressi della CGIL, utilizzate in scioperi e manifestazioni. Capitava spesso che sulle bandiere venissero ricamate le rivendicazioni sindacali. Furono numerosi i mondi del lavoro che realizzarono le proprie bandiere, dalle fabbriche alle mondine, e non mancarono bandiere dallo spirito “confederale”.

Le bandiere divennero uno strumento di lotta a tutti gli effetti, come nell’occupazione della fabbrica Bormioli. Molte testimonianze della loro funzione in questo senso provengono dal mondo mezzadrile. Si affermò la pratica di portarle durante gli scioperi e di issarle sulla vetta dei pagliai e nelle aie durante la trebbiatura del grano. Le bandiere riempivano così lo spazio della conflittualità sociale. Le forze dell’ordine furono impegnate in una lunga battaglia per rimuovere le bandiere dai pagliai, in una ricorsa continua, da un pagliaio all’altro, da un’aia all’altra, che si risolveva nel rafforzamento della volontà delle famiglie mezzadrili di issarle, vedendovi un’espressione di emancipazione dai proprietari e della conquistata libertà politica. Sul la rivista della CGIL Lavoro del 1952 si legge sotto a una foto: «Dopo una combattuta lotta i contadini dipendenti degli agrari fratelli Sonnino di Chiaravalle, issano sull’aia la bandiera della pace. I Sonnino pensavano di poter imporre i loro sistemi antidemocratici, ma la lotta dei contadini ha avuto ragione di loro».

Oggi è in corso un movimento di riscoperta di queste bandiere, sull’onda del rinnovato protagonismo dei movimenti delle donne e del nuovo impegno pacifista oggi sempre più urgente. Nel semiottagono delle Murate, a Firenze, dal 5 marzo al 25 aprile 2025 sarà visitabile una mostra che ripercorre la loro storia in dialogo con le opere d’arte del collettivo Lediesis.

 

Stefano Bartolini è direttore della Fondazione Valore Lavoro, responsabile del Centro di documentazione archivio storico CGIL Toscana e direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).

Martina Lopa svolge attività di ricerca sulla storia delle donne, collabora con la Fondazione Valore Lavoro e fa parte del gruppo di lavoro “Paura non abbiamo” dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).




MUSA LIBERTARIA. Virgilia D’Andrea

Le ricerche storiche talvolta nascono da semplici curiosità, salvo poi rivelare imprevisti motivi d’interesse, e questo è uno di quei casi.
Di Virgilia D’Andrea, sindacalista anarchica, poeta e propagandista vi sono diverse biografie, ma in nessuna di queste avevo trovato traccia di una sua conferenza di cui sapevo soltanto il titolo, insolito: Musa libertaria.
Ne ero venuto a conoscenza, nel corso di una ricerca sulla storia della Camera sindacale del lavoro di Livorno, fra il 1920 e il ’22, prima del fascismo.
Infatti, la sera del 15 giugno 1922, Virgilia D’Andrea, allora trentaquattrenne, tenne una partecipata conferenza presso la Camera sindacale, aderente all’USI, situata in viale Caprera, nel popolare quartiere della Nuova Venezia.
Nei giorni precedenti in varie zone della città erano avvenuti ripetuti scontri tra fascisti e sovversivi, anche con rivoltellate, e la tensione era alta così come lo sarebbe stata nelle settimane seguenti, per cui il titolo di quella conferenza poteva apparire quanto meno fuori luogo, anche se per l’anarchica di Sulmona la poesia era un’arma.
Questo il sintetico resoconto della serata che venne pubblicato sul periodico degli anarchici livornesi «Il Seme» del 18 giugno 1922:

Improvvisamente il giorno 12 corr. un telegramma giunto alla Camera del Lavoro Sindacale, annunciava l’arrivo della valorosa compagna Virgilia D’Andrea, invitando a preparare una conferenza per il giovedì sera.
Per quanto il tempo fosse ristretto la C.d.L.S. fece subito delle circolari di avviso a tutte le sezioni aderenti, nonché ai gruppi ed ai partiti di avanguardia, invitandoli a fare la necessaria propaganda per la riuscita della conferenza, disponendo poi per l’affissione di un manifesto murario che ne avesse dato l’annuncio, ma che all’ultim’ora la Questura non volle permettere con la scusa dell’ordine pubblico.
Inutile commentare intorno a questo artificioso sabottamento [sic] dell’imprevista conferenza, che però non è riuscito ad impedire che la vasta sala fosse gremita di lavoratori tra cui buon numero di donne e fanciulle.
Alle ore 21, presentata con acconce parole, dal nostro [Riccardo] Sacconi, la compagna D’Andrea imprese il suo dire, svolgendo maestrevolmente il tema: Musa libertaria.
Ci è impossibile seguire la valente oratrice nella sua fine e forbita dicitura, solo ci limitiamo a dire che simili conferenze dovrebbero essere fatte più spesso ed ascoltate anche da chi dimentico di ogni forma di vivere civile vive compiendo le più tristi azioni non escluso il delitto.
L’impressione dell’uditorio fu superiore all’attesa, ed in tutti è rimasto vivo il desiderio di potere al più presto provare ancora un simile godimento intellettuale, che noi speriamo la buona compagna non vorrà negarci.

Sfogliando le cronache del quotidiano anarchico «Umanità nova», si apprende che nei mesi precedenti Virgilia D’Andrea aveva proposto e svolto un tour di conferenze pro-Umanità nova in varie città, richiedendo che il costo del biglietto per assistervi fosse di almeno una lira; i temi proposti erano Musa libertaria, Il valore del sentimento nella vita, I nostri prigionieri, «che meglio si addicono al suo temperamento oratorio e alle sue facoltà».
Da «Umanità nova» del 4 gennaio 1922 si apprende che la sera del 31 gennaio 1921, presso un teatro di Rimini, nonostante i problemi frapposti dalla polizia, aveva tenuto, a sostegno del giornale anarchico, una conferenza dal titolo analogo: Musa liberatrice:

la compagna D’Andrea [che] per oltre un’ora tenne il pubblico legato alla parola sua vibrante e commossa. Rievocò il periodo di calma tranquilla dell’anteguerra, disse dell’ubbriacatura guerresca e continuò declamando le sue poesie, tutte vibranti di pura ed umana passione.

Come avvenuto a Rimini e Livorno, però i relativi resoconti di tali iniziative non riferivano i temi toccati nel corso della conferenza e, a quanto mi risulta, il testo della stessa non è mai stato pubblicato e comunque non figura nelle diverse raccolte edite delle sue conferenze, suscitando dunque almeno in chi scrive un certo interesse.
Probabilmente, per la stessa ammissione dei militanti autori di tali resoconti, vi era imbarazzo a descrivere le suggestioni letterarie e le emozioni da queste suscitate tra i proletari e i compagni presenti; d’altronde, come avrebbe annotato Virgilio Mazzoni, nel recensire positivamente su «Umanità nova» del 27 luglio 1922, i «versi ribelli» di Tormento, «sebbene nel nostro campo, la poesia non abbia gran fortuna… commerciale».
La mia curiosità è quindi rimasta a lungo senza risposta ma, per caso, è stata almeno parzialmente soddisfatta avendo di recente trovato nella cronaca romana di «Umanità nova» del 22 marzo 1922, un articolo che raccontando della stessa conferenza svoltasi il 19 marzo a Roma, ne tratta in modo abbastanza circostanziato, tanto da meritare d’essere trascritto integralmente.

Come fu accennato ieri, la conferenza tenuta dalla compagna Virgilia D’Andrea domenica mattina al Salone dei Parrucchieri, è riuscita splendidamente.
Benchè fosse a pagamento, organizzata pro Circolo di Studi Sociali, il pubblico è accorso ugualmente numerosissimo e molti compagni e simpatizzanti affollavano il salone di via Cavour.
La compagna D’Andrea venne presentata dal compagno Billi, studente universitario, e parlò circa un’ora fra l’attenzione vivissima e commossa del pubblico, che dimostrò una comprensione una sensibilità vivissima.
Con il lirismo semplice ma suggestivo che le è abituale, con le parole vibranti di commozione interiore che ella sa dire e che sanno sì bene trovare l’animo dell’uditorio e scuoterlo profondamente, l’oratrice evocò gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo, incastonando nel discorso che appunto aveva per tema «Musa libertaria», brani di poesie ed intere liriche di sua composizione (esse verranno tra breve raccolte in volume), le quali scritte sotto l’impressione immediata degli avvenimenti man mano che si svolgevano in questi ultimi tempi e aventi perciò tutta la naturalezza delle cose spontanee, non potevano non avvincere e non appassionare l’uditorio.
«Cieco di guerra», «Decimazione», «Il ritorno dell’esule» (riferentesi al rimpatrio del nostro Malatesta), «Presa e resa delle fabbriche», tutti questi episodi, queste tappe del faticoso cammino dei lavoratori verso il suo domani, verso le sue conquiste, ebbero nei versi della nostra buona compagna tale impeto comunicativo, che tutti i presenti non potettero astenersi dal manifestare nel modo più tangibile la loro commozione.
Noi siamo sicuri che trattenimenti artistici e sociali ad un tempo come questi, giovino assai alla propaganda ed all’educazione delle masse.
Il proletariato, i giovani, gli uomini del lavoro, hanno bisogno , non solo della conferenza critica e polemica, non solo della fanfara, ma anche della melodia. Sono queste delle sublimazioni dello spirito il cui giovamento non è affatto da mettersi in dubbio.
In questa conferenza si è verificato quel che accade quando l’oratore riesce ad avvincere l’anima ed il cervello di chi ascolta. Il pubblico applaude; ma è più forte in lui il bisogno di trattenere l’applauso per non turbare lo stato di godimento spirituale in cui è versato. Ma l’applauso trattenuto è poi scoppiato scrosciante quando l’oratrice, ricordando tutte le nostre vittime, tutti i morti sulla via della lotta rivoluzionaria ha chiuso con i magnifici versi del Carducci:
«… Sangue dei morti affretta
I rivi tuoi vermigli e i fati
Al ciel vapora e di vendetta
Inebria i nostri figli!».

L’annunciato libro era Tormento, con prefazione di Errico Malatesta e copertina scarlatta, pubblicato a Milano nello stesso anno dalla Tipografia Zerboni, e nel marzo del 1923 l’Autrice venne denunciata per vilipendio e istigazione all’odio di classe, con mandato di cattura, proprio in relazione a quella sua raccolta di poesie che, evidentemente, oltre a commuovere il proletariato lo invitavano alla rivolta.
Nel patetico tentativo di sintetizzare il contenuto della raccolta di poesie, uno zelante funzionario di questura scrisse: «Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito».
Prima però di soffermarsi sulle “trasmodanti” poesie presentate da Virgilia nel corso della conferenza, faccio qualche ipotesi sulla parte di questa in cui, come accennato dall’anonimo redattore romano, aveva evocato «gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo».
Presumibilmente furono, più o meno, gli stessi temi e protagonisti ripresi nelle innumerevoli conferenze che avrebbe tenuto tra il 1929 e il 1932 negli Stati Uniti dove era emigrata, assieme al compagno di vita, ideali e militanza Armando Borghi, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e poliziesche.
In particolare, nelle conferenze Tenebre e fiamme nella tragedia italiana e Le Tradizioni italiane rinnegate e tradite dal fascismo, partendo dalle pagine della letteratura italiana, non sottomesse per amore di libertà alle precedenti dominazioni, Virgilia D’Andrea aveva sostenuto che «il fascismo fu ed è l’antitesi profonda del pensiero italiano», citando anche Vittorio Alfieri: «L’arte mia sono le muse; la predominante mia passione l’odio della tirannide».
Tenendo conto che quelle conferenze americane erano rivolte ad un pubblico composto soprattutto da lavoratori immigrati dall’Italia, verso cui il regime fascista svolgeva un’intensa propaganda incentrata sul patriottismo, attraverso i giornali e le conferenze organizzate dai Fasci costituiti anche negli Stati uniti, si comprende il senso antifascista delle conferenze culturali dell’instancabile anarchica.
Delle quattro poesie recitate a Roma, e quasi sicuramente anche a Livorno, Cieco di guerra (agosto 1920) e Decimazione (settembre 1919) erano contro gli orrori della Prima guerra mondiale, con la maledizione della retorica patriottica «irridente insulto», e ne Il ritorno dell’esule (dicembre 1919), dedicato al rientro clandestino di Malatesta in un’Italia attraversata dai sommovimenti rivoluzionari, vi era l’attesa «Per l’urto immane della «rossa» storia», mentre La presa e la resa delle fabbriche (ottobre 1920) era una sorta di amaro bilancio politico dell’Occupazione delle fabbriche, conclusasi pochi mesi prima, «sotto il cielo nero».
Tutte questioni che urlavano vendetta e giustizia sociale, facendo pericolosamente appello al cuore non meno che all’intelligenza di ogni oppresso e di ogni sfruttata.

 




Il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo

Introduzione.

L’enciclopedia Treccani definisce l’antifascismo come una «reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi antidemocratica del fascismo al potere», sorto per mano di «alcune formazioni e partiti politici».[1] La sottosezione dell’Enciclopedia Treccani, intitolata “Dizionario di Storia”, risulta più aderente alla realtà dell’antifascismo, nella sua definizione di tale fenomeno come un «atteggiamento di opposizione al fascismo, che va dal semplice stato d’animo al movimento organizzato».[2]

A questo fenomeno di rilevanza nella storia nazionale prendono parte tre donne livornesi, rispettivamente: Erminia Cremoni (1905-1956), Osmana Benetti (1923-2016), Ubaldina Pannocchia (1923-2021). Per comprendere i loro contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza all’occupazione nazifascista dell’Italia, occorre immergersi nel complesso quadro del percorso di emancipazione delle donne italiane tra anni Venti e Quaranta del Novecento. Un percorso che porta le «bravi madri e mogli» designate dal fascismo, a diventare donne «riottose e intemperanti», antifasciste, partigiane, staffette. Queste pagine buie, del fascismo prima e della guerra dopo, porteranno a una ridefinizione dei ruoli di genere in Italia.

Nello sviluppo dell’elaborato è stata adottata una prospettiva originale, che sapesse unire le biografie delle staffette livornesi alla storia della città labronica, dei suoi periodi più bui e della Resistenza all’occupazione nazifascista. L’analisi delle donne resta il “comune denominatore” nei capitoli dell’elaborato, così come la battaglia per l’affermazione della loro voce e delle loro azioni. Potrebbe esser necessario fare qualche accenno alle battaglie per l’uguaglianza di genere intraprese dalle donne dopo la Seconda guerra mondiale, ma l’elaborato limita la sua riflessione al giorno della Liberazione dell’Italia, avvenuta il 25 aprile 1945.

Questi volti femminili, che direttamente hanno vissuto gli orrori del fascismo e della guerra, sembrano appartenere a una “storia silente”. Infatti, ancora ad oggi prevale una cultura che sembra metter in secondo piano il contributo di queste donne. È molto importante il tipo di ricerca condotto nell’ elaborato perché conoscere la storia passata, l’evoluzione e l’involuzione di alcuni fenomeni, aiuta a orientarsi meglio negli impegni personali, politici, sociali e culturali di queste donne.

La storia del contributo femminile alla causa antifascista è stata riscoperta soltanto negli ultimi decenni dalla storiografia. Si tratta di una storia nuova e inerente ai rapporti di genere, una storia da ricostruire e da ricordare. Per realizzare questo elaborato è stato necessario consultare una grande mole di fonti secondarie, quali monografie e articoli di giornale. Con la morte recente di due antifasciste livornesi, Osmana nel 2016 e Ubaldina nel 2021, è stato impossibile analizzare delle fonti primarie.

L’elaborato mira quindi a dar voce a delle storie di donne comuni, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, che «non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero nemmeno usarle».[3] Donne comuni che operano nel contesto livornese e che hanno dovuto combattere per una “doppia liberazione”: dal fascismo e dall’oblio. In particolare, queste storie devono essere tutelate da una memoria che tende a esaltare l’eroismo e il cameratismo maschile, e dimentica il contributo femminile.

Storie di donne nell’antifascismo livornese.

Alle lotte compiute per la liberazione del Paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca hanno preso parte le donne livornesi. Queste donne coraggiose hanno dato sostegno alle azioni dei partigiani, soprattutto nel ruolo di staffette. Le staffette provvedevano alla diffusione di volantini, aiutavano i soldati e i partigiani fornendo viveri e medicine, non aderivano a formazioni combattenti scegliendo comunque di abbracciare gli ideali della Resistenza. La distribuzione della stampa clandestina e dei volantini antifascisti da attaccare nella notte richiedeva continui spostamenti.

Le donne erano in grado di superare più facilmente i controlli e riuscivano a smistare per il territorio volantini, armi e medicine: tutto ciò era possibile perché, in una società autoritaria e profondamente maschilista, venivano continuamente sottovalutate.[4] Loro stesse riuscirono a sfruttare la libertà di movimento di cui godevano, col fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dalle organizzazioni antifasciste. Inoltre, con l’avvento della conflittualità locale, diventava sempre più pericoloso farsi trovare addosso dei documenti che dimostrassero una collaborazione antifascista. Si trattava di un rischio personale ben preciso, che metteva a repentaglio sia la vita della donna che l’attività dell’organizzazione.

Per le donne la Resistenza è stata una specie di viaggio verso la progressiva conquista dei diritti e delle libertà. Attraverso quest’esperienza si ritrovano a essere più consapevoli dei propri mezzi e dei propri diritti, molti ancora da conquistare. Molte donne livornesi, come Osmana e Ubaldina, nel secondo dopoguerra intraprendono un percorso di emancipazione, entrando in associazioni politiche e sociali, di cura dell’infanzia e dell’educazione. Questa parte analizza il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo: Erminia Cremoni, Osmana Benetti, Ubaldina Pannocchia.

1.      Erminia Cremoni (1905-1956).

Erminia nasce a Livorno in una famiglia modesta e fin da piccola viene iscritta all’Azione Cattolica, a cui partecipa con slancio e con entusiasmo. Erminia fu espressione del laicato cattolico, ovvero quel complesso di persone laiche che aderirono o vennero poste ai vertici di associazioni cattoliche ed ecclesiali, che si scontrò con il regime negli anni Trenta. Lo scontro tra associazioni cattoliche e regime riguardava principalmente l’educazione dei giovani, un campo che veniva rivendicato dalla Chiesa, ma che il fascismo non voleva contendere e che voleva porre sotto il suo esclusivo dominio. Gli anni Trenta sono anni difficili, che Erminia definisce come «vissuti con le rotine sotto i piedi» (come lei descrive tale periodo secondo il dialetto livornese).[5] Si sposta continuamente per portar aiuti pratici e conforto spirituale tra i bisognosi di ogni ceto: nelle carceri, nei quartieri poveri della città, nelle fabbriche, negli ospedali.

La politica ufficiale della chiesa livornese in quegli anni è improntata su una sorta di coesistenza pacifica col fascismo, ma al di là dell’ufficialità, i comportamenti erano sfumati. Una prova di quest’ultima affermazione è la tolleranza del vescovo Giovanni Piccioni – il quale ha esercitato il suo ministero episcopale dal 1921 al 1959 – verso la presenza di docenti antifascisti nelle scuole cattoliche, di ex esponenti del Partito Popolare Italiano non iscritti al Fascio a capo di organizzazioni diocesane e, l’esistenza di frange fasciste anticlericali nei circoli giovanili cattolici.[6] Il compromesso tra la curia livornese e il Partito Nazionale Fascista livornese si fonda su un patto tacito in base al quale, in materia di associazionismo femminile, si stabilisce ambiti di azione diversi, mentre in realtà ognuna delle istituzioni cerca di guadagnare ampi consensi.[7] Il vescovo mira a rafforzare l’aspetto religioso e di preghiera nelle proprie organizzazioni , consolidando le opere sociali legate agli ordini religiosi. Così le associazioni femminili cattoliche intensificano l’attività liturgica e di preghiera, ma allo stesso tempo incrementano quella verso le famiglie ed i bisognosi.

L’Unione Femminile Cattolica viene fondata dalla curia livornese nel 1932, così come altre associazioni, quali l’Unione Donne Cattoliche e Gioventù Femminile Cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote Don Roberto Angeli. Don Angeli è stato un sacerdote antifascista militante e promotore di una Resistenza ideologica e culturale: sue sono le conferenze tenute nei primi anni Quaranta al Cenacolo di Santa Giulia, finalizzate a dimostrare che «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano».[8] Ha rappresentato i cristiano-sociali all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale toscano, impegnandosi soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani e trovando rifugi quando necessario. Nel secondo dopoguerra, alcuni esponenti cristiano-sociali toscani confluiranno in uno dei partiti simbolo della ricostruzione della vita democratica del Paese: la Democrazia Cristiana.

Dopo l’8 settembre, la Cremoni partecipa ad azioni di rifornimento e di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno fino al giugno del 1944. Aiuta anche un gruppo di novanta ebrei nascosti in una palazzina di via Micali, percorrendo una o due volte alla settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche sotto i bombardamenti. Unisce attività spirituali e trasporto di volantini, armi, medicinali e viveri, ai gruppi partigiani cristiani nella zona: nella sua grande borsa, sotto gli opuscoli dell’Azione Cattolica, porta nascoste veline e informazioni da consegnare, a volte rimanendo coinvolta nei conflitti a fuoco.

Dopo la guerra Erminia continua a dedicarsi alle opere di assistenza dei più deboli: fonda e presiede il Centro Italiano Femminile nel 1944. Due anni dopo viene eletta in un consiglio comunale nella lista della Democrazia Cristiana.

Muore nel 1956 ma il suo intervento giunge fino ai giorni nostri, il suo nome compare infatti nel database creato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.[9] Compare il suo ruolo di partigiana combattente durante la Seconda guerra mondiale, prestando servizio presso la I divisione di Giustizia e Libertà tra il 9 settembre 1943 e l’11 agosto 1944.

2.      Osmana Benetti (1923-2016).

Osmana Benetti nasce a Livorno nel 1923, è figlia di un operaio dei cantieri navali ed è la prima di cinque fratelli. Sua mamma lava i panni e fin da piccola vuole imparare a cucire ma, il futuro che la attende è molto diverso.[10] Cresce in una famiglia di ideali democratici e antifascisti, sebbene non in aperta opposizione al regime. Nonostante abbia frequentato la scuola solo fino alla quinta elementare, è una grande appassionata di libri, che la aiutano a riflettere sulla situazione politica in cui vive.[11] La giovane generazione, di cui Osmana fa parte, cresce in fretta con l’avvento della guerra. Fin da quando è giovane, si dichiara come pronta a sacrificare la sua vita in nome della libertà e della democrazia. Durante il suo sfollamento nel 1940 a Castellana Marittima conobbe alcuni giovani, anch’essi sfollati, i quali avevano mantenuto dei contatti col Partito Comunista a Livorno.

L’attività di staffetta comincia nel 1943: è incaricata di trasportare materiale a stampa, documenti e informazioni tra le varie cellule che operano nella zona di Livorno.[12] Il suo compito è creare una linea di collegamento tra la campagna e la città, ma grazie al suo fisico esile non viene mai perquisita ai posti di blocco.[13] Un altro compito è la distribuzione di volantini di propaganda antifascista, che Osmana lega con i fiocchi i colorati del suo corredo ai rami delle piante, lungo la strada per la miniera della Valle Benedetta, affinché gli operai li possano leggere.

La famiglia è all’insaputa di tutto, poiché credono che «le donne non si devono occupare di politica».[14] La madre non appena scopre che sua figlia è staffetta, tenta di chiuderla in casa perché «spariva fino a tardi» e «si incontrava con i compagni maschi, spesso più grandi di lei».[15] Grazie alla madre, sfugge all’arresto nel gennaio 1944, che porta all’arresto di ventotto partecipanti ad una riunione clandestina, a causa di una soffiata. Nei mesi successivi organizza assemblee per parlare ad alcune donne e per convincere le famiglie a non aderire alla Repubblica di Salò. Parla di prospettive, di futuro, di ricostruzione della città e del tessuto sociale.

È una delle fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, organizzazione nata nel 1943 per iniziativa del Partito Comunista con l’intento di organizzare una rete di aiuti alle famiglie di carcerati, di internati e di partigiani. Anche se l’obiettivo primario è quello di promuovere la Resistenza femminile in ogni ambiente sociale, «non basta incitare gli uomini alla lotta» (come scrive Osmana in un volantino redatto per l’organizzazione).[16]

Nell’estate del 1944, frequentando la federazione del Partito, conosce Garibaldo Benifei: figura di spicco dell’antifascismo livornese, comunista, già condannato al carcere due volte per attività sovversiva. Nel dopoguerra i due di sposano e lei continua l’attività politica come responsabile del gruppo delle donne comuniste nel Partito Comunista Italiano. Con le donne dell’Unione Donne Italiane (UDI) contribuisce alla costruzione dei primi asili della città. Fino alla sua morte, ha continuato ad occuparsi dei diritti delle donne come membro dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA) ed ha svolto un’attività di testimonianza alle nuove generazioni, soprattutto nelle scuole. A differenza di Garibaldo, lei ha dovuto aspettare settant’anni per ottenere la Livornina ovvero l’onorificenza del comune, che ha ottenuto solo nel 2015.

Spesso le fonti rappresentano la lotta per la liberazione del Paese intrapresa da Osmana come “combattuta in funzione del marito”. Queste rappresentazioni sono assai riduttive e tradiscono alcuni messaggi tramandati da lei stessa, in cui affermava:

«[…] Onori e riconoscimenti ce li siamo conquistati sul campo perché abbiamo collaborato a rimettere in piedi le strutture democratiche in tutto il Paese, a costo di grandissimi sacrifici. […] Alle ragazze di oggi consiglio di trovare un lavoro che le renda indipendenti, perché senza indipendenza economica non esiste nessuna indipendenza […]». [17]

È necessario ricordarla come una partigiana che ha lottato contro il fascismo e che, fino agli ultimi giorni della sua vita, si è fatta promotrice dei diritti delle donne. Osmana è morta nel 2016 all’età di 93 anni ed ha lasciato una preziosa eredità che «spetta a noi tener viva».[18]

3.      Ubaldina Pannocchia (1923-2021).

Ubaldina è coetanea di Osmana, nasce a Livorno nel 1923. La sua infanzia scorre tranquilla ma, essendo l’unica femmina, frequenta la scuola fino alla quinta elementare perché la priorità è far studiare i suoi due fratelli maschi. Col tempo impara a ricamare e a suonare il pianoforte all’Istituto delle suore in via Galilei. Vive in un mondo fatto di musica e di spensieratezza, finché il padre rischia di perdere il posto di lavoro in macelleria perché non iscritto al Fascio. Inizia a odiare il regime attraverso i racconti sull’uccisione dei fratelli Gigli (1922), che vennero massacrati nella loro abitazione, nel palazzo di fronte a dove abita la zia di Ubaldina. Si interessa alla politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Nedo le spiega la situazione italiana ed estera, le parla dell’opposizione al regime fascista e delle repubbliche sovietiche.[19]

A seguito dei bombardamenti, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana nel 1943. Prima della sua partenza, aiuta Nedo a diffondere alcuni manifesti antifascisti per le strade di Livorno, Ubaldina ha paura e gli dice: «[…] Ma sei impazzito? Se ci scoprono o li trovano, ci arrestano […]».[20] Ma nonostante la paura, Ubaldina non crede al fascismo e nemmeno alla guerra lampo, vuole salvare i suoi giovani amici catturati ed imprigionati. Ricorda il suo sfollamento in un’intervista rilasciata al programma televisivo “Noi partigiani”, in cui vengono intervistati alcuni esponenti della Resistenza. Le autorità nazifasciste giungono a Lorenzana per arrestare il fratello Roberto e Ubaldina ricorda l’accaduto con sarcasmo livornese: «[…] i tedeschi… bimba mia, farciavano […]».[21] In casa è presente un pianoforte verticale che viene perquisito per cercare ulteriori prove di colpevolezza contro Roberto, ma non notano sul fondo la presenza dei manifesti contro la guerra e il fascismo. Questi manifesti erano stati realizzati da Concetto Marchesi, all’epoca rettore dell’università di Bologna e militante antifascista. Per Ubaldina «i tedeschi non si intendevano di musica» ed è stata forse quella la sua salvezza.[22]

Con l’armistizio dell’8 settembre, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma ha già preso la decisione di partecipare alla lotta come partigiano. In formazione è collocato a Castellaccio e, proprio per avere sue notizie, Ubaldina comincia a stringere in prima persona contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti. Collabora facendo la staffetta: procurando viveri, trasportando armi nella borsa della spesa, cercando e nascondendo medicinali e volantini, in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.

Ma Ubaldina dopo questa esperienza d’impegno civico non riesce a tornare a casa perché, come aveva capito già Giuseppe Fenoglio (scrittore e partigiano italiano), «chi è partigiano lo è per tutta la vita».[23] Finita la guerra, Ubaldina e Nedo si sposano nel 1946. Lui rimane in politica e riceve incarichi presso il Partito Comunista, mentre lei si avvicina al movimento femminile. Partecipa all’Unione Donne Italiane alla ricostruzione della città e delle scuole, alla creazione dei primi asili e all’allestimento della prima Festa dell’Unità al Parterre.[24] Ha preso coscienza di essere stata staffetta solo in maturità, leggendo il libro di Miriam Mafai intitolato “Pane nero: donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale” (1987).[25] Per il nipote Valerio ha messo nero su bianco il racconto delle sue memorie di partigiana, inizialmente condiviso di scuola in scuola e infine stampato dal comune nel 2016, intitolato: Nonna raccontami. Ricordi di Ubaldina Pannocchia, staffetta partigiana.

Ubaldina è morta nel 2021 all’età di 98 anni. Prima della sua morte ha preso parte al film “Indizi di felicità” realizzato dal Dirigente dell’ANPI Walter Veltroni, lui stesso la descrive come capace di «saper cogliere le tracce di felicità nei momenti più bui della sua vita privata e del suo impegno pubblico».[26] Così Ubaldina «per amore, per ideologia o per entrambi» ha deciso di prender parte alla Resistenza, un evento che ha cambiato la sua vita e la vita di tante altre.[27]

Conclusioni.

Spesso ci domandiamo perché sia importante tornare a ricordare o a raccontare. Una delle risposte possibili può essere “per non dimenticare” o per “dare una giustizia postuma”, salvando il ricordo di quello che è accaduto e non disperdendo le parole di chi c’era e ha visto. «Nulla se non le parole» ci rimangono per ricordare, come afferma Primo Levi.[28] L’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, hanno occupato e occupano un ruolo centrale nella coscienza contemporanea, ecco perché il tema è così importante. In particolare, l’elaborato ha cercato di rispondere a una domanda: qual è stato il contributo di Erminia, Osmana e Ubaldina alla causa dell’antifascismo e della Resistenza?

I contributi delle donne alla causa dell’antifascismo variano da biografia a biografia, così come tra le tre antifasciste livornesi. Erminia si sposta continuamente per portare aiuti pratici e conforto spirituale ai bisognosi di ogni ceto: la battaglia contro il fascismo avviene attraverso la fede cristiano-cattolica. Osmana lotta contro le ingiustizie sociali e a sostegno dei lavoratori, promuovendo negli ambienti sociali una nuova Resistenza al femminile. Ubaldina è semplicemente una «ragazzina tra le altre» quando scoppia la guerra, ma sono chiari nella sua mente gli ideali di giustizia e di libertà, che la spingono a diventare staffetta in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.[29] Le storie esemplari di queste donne che hanno lottato per la libertà, necessitano di un’attenzione maggiore che ancora manca. Nella sintesi conclusiva, è possibile affermare che queste figure sono essenziali per la comprensione della storia di Livorno e della storia del contributo delle donne alla liberazione del Paese.

Nella realizzazione dell’elaborato sono emerse delle problematiche che riguardano il contesto storico-geografico prescelto: quello livornese. La produzione monografica sulla storia di Livorno risulta esigua, soprattutto se facciamo riferimento agli eventi della storia contemporanea. L’invito per il futuro è quello di porre maggior attenzione agli eventi che hanno scosso una città portuale, crocevia di popoli dalle culture e dalle storie diverse, quale è Livorno.

Insieme alle problematiche menzionate in precedenza, anche un’altra questione rimane aperta: quella della memoria. Col passare degli anni, i diretti protagonisti della Resistenza scompariranno e con essi anche delle fonti preziose. Per questo motivo, il dovere delle future generazioni è quello di mantenere vivo il ricordo e il contenuto di queste fonti.

 

NOTE

[1] Enciclopedia Treccani, Antifascismo, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[2]Dizionario di Storia, “Antifascismo”, in Enciclopedia Treccani, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo_%28Dizionario-di-Storia%29/ , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[3] A. Bravo; A. M. Bruzzone; In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945). Bari: Editori Laterza, 2000, p. 14.

[4] I. Carrone, Le donne della Resistenza. La trasmissione della memoria nel racconto dei figli e delle figlie delle Partigiane. Formigine (MO): Infinito edizioni, 2014, p. 40.

[5] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, «Comune di Livorno online», 12 febbraio 2016, < http://www.comune.livorno.it/_cn_online/indexff46.html?id=184&lang=it >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[6] T. Noce, Nella città degli uomini, Donne e pratica della politica a Livorno tra guerra e ricostruzione. Roma: Rubettino, 2004, p. 31.

[7] Ivi, p. 32.

[8] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[9] Istituto Centrale degli Archivi, Erminia Cremoni, «I partigiani d’Italia. Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della resistenza», < https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/persona/?id=5bf7d1ce2b689817c8bac480 > , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[10] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro”, «la Repubblica», 24 aprile 2015, < https://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/04/24/news/osmana_abbiamo_lottato_come_gli_uomini_poi_siamo_rimaste_un_passo_indietro_-112742382/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[11] In ricordo di Osmana Benetti in Benifei. La vita, la lotta, la cooperazione, «Fondazione Memorie Cooperative», 11 febbraio 2016, < http://www.memoriecooperative.it/i-soci-raccontano/in-ricordo-di-osmana-benetti-in-benifei-la-vita-la-lotta-la-cooperazione/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[12] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[13] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[14] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[18] Addio a Osmana, simbolo della Resistenza delle donne, «Il Tirreno», 11 febbraio 2016, < https://necrologie.iltirreno.gelocal.it/news/26220 >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[19] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[20] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016, p. 7.

[21] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, 2019 – 2020, < https://www.noipartigiani.it/ubaldina-pannocchia/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[22] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, cit.

[23] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016., p. 3.

[24] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[25] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore. Le lotte nella Livorno da ricostruire«Il Tirreno», 30 luglio 2021, < https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/07/30/news/si-e-spenta-ubaldina-pannocchia-staffetta-partigiana-per-amore-le-lotte-nella-livorno-da-ricostruire-1.40553977 >, data di consultazione:  7 agosto 2022.

[26] Ibidem.

[27] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[28] I. Carrone, Le donne della Resistenza, cit., p. 9.

[29] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore, cit.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.

Articolo pubblicato nel gennaio 2024.




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.