Costanzo Ciano e il controverso affondamento della “Viribus unitis” (1° novembre 1918)

Tra le numerose onorificenze conferite a Costanzo Ciano (Livorno 1875 – Ponte a Moriano 1939), “eroe navale” nonché ricchissimo armatore e gerarca ministeriale del regime fascista, è annoverata quella di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia, attribuitagli il 19 gennaio 1919; tale riconoscimento rimane però il più controverso ed anche il meno conosciuto fra quelli ricordati nelle biografie – sia agiografiche che critiche – del noto esponente militare, politico e imprenditoriale livornese.
L’attribuzione onorifica della “commenda” era infatti legata ad un episodio bellico, costato la vita a circa trecento marinai (le stime a riguardo oscillano fra 250 e 350) quando ormai il conflitto si era virtualmente concluso; inoltre, poneva non poche ombre sull’atteggiamento morale e la fama dell’intrepido “violatore” di porti nemici[1].
L’azione di guerra in questione avvenne nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918, nel porto adriatico di Pola (Pula), base strategica della Marina austro-ungarica, dove furono affondate la corazzata “Viribus unitis” e la nave passeggeri “Wien” del Lloyd Austriaco ad opera di due ufficiali della Regia Marina italiana, mentre a Padova erano in corso i negoziati per stipulare l’armistizio fra Italia e Austria-Ungheria, poi formalizzato il 3 novembre con la firma delle rispettive delegazioni che, il giorno seguente, mise fine alle ostilità.
L’imperatore Karl I d’Asburgo, fin dal 16 ottobre 1918, aveva emanato un proclama che offriva la trasformazione della Duplice Monarchia in uno stato federale. Tra i provvedimenti connessi, era prevista la cessione della flotta imperial-regia alla nuova, ipotetica, federazione jugoslava, ossia dei Croati e degli Sloveni.
Di fatto, dunque, fin dal 17 ottobre era da ritenersi conclusa per l’Austria la guerra sul fronte navale.
Il 29 ottobre, il Comando supremo delle forze armate austriache aveva quindi accettato le condizioni per la resa imposte dalle forze alleate, fra cui la consegna dell’intera flotta alle nazioni vincitrici e il 30 ottobre, venerdì, l’imperatore Karl I aveva preventivamente disposto la consegna della flotta al Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi[2].
Infatti, fin dal pomeriggio del 30, sulle unità navali ancorate nel porto di Pola erano state ammainate le bandiere austriache, per essere sostituite da quelle croato-slovene. Sulla “Viribus unitis”, prontamente ribattezzata “Jugoslavija”, la bandiera imperiale venne ammainata alle ore 16.45 del 31 ottobre e, poco dopo, furono issate le bandiere croato-slovene sui due alberi principali della nave, così come altrettante bandiere rosse, salutate da 21 salve di cannone. Molti marinai avevano già cucito sui berretti i distintivi jugoslavi, mentre il comando della flotta era stato trasferito, su decisione del Consiglio nazionale jugoslavo, al capitano di fregata, croato, Janko Vukovič von Podkapelski che sarebbe perito nell’affondamento.
A terra, come a bordo delle navi ormeggiate, marinai, soldati e operai dell’Arsenale militare, oltre a festeggiare la fine della guerra, avevano formato comitati dei soldati e dei marinai, alla stregua di soviet, secondo le rispettive nazionalità (austriaci, boemi, cecoslovacchi, polacchi, ucraini, ungheresi e romeni), reclamando l’immediato congedo ed issando bandiere coi colori nazionali ma anche rosse. Anche la città era in tumulto e ovunque erano apparse bandiere italiane.
L’equipaggio effettivo della corazzata – 1.087 uomini tra marinai, sottufficiali e ufficiali – era assolutamente composito: 47% slavi (croati, sloveni, serbi…), 20% ungheresi, 16% austriaci, 15% italiani. Alcuni marinai di nazionalità austriaca ed ungherese erano già sbarcati, altri (inclusi gli italiani) sarebbero partiti l’indomani; il restante equipaggio era formato solo da sloveni e croati. Nessuno avrebbe più obbedito e combattuto e, nell’illusione della pace ormai venuta, sia in città che sulle navi, si era rinunciato alle misure d’oscuramento e la vigilanza era stata allentata.
L’obiettivo dell’incursione subacquea, la “Viribus unitis”, varata il 24 giugno 1911 a Trieste ed entrata in servizio nel 1912, assumeva una valenza simbolica in quanto ammiraglia della flotta imperiale. Inoltre, a fine giugno 1914 aveva riportato a Trieste le salme dell’erede al trono Franz Ferdinand e della consorte Sofia, uccisi nel fatidico attentato di Sarajevo e, il 24 maggio 1915, aveva partecipato al bombardamento navale di Ancona. Costata 67 milioni di corone, dal punto di vista militare, era risultata inadatta alla guerra marittima nell’Adriatico ed infatti, nel corso del conflitto, la “dreadnought” rimase quasi sempre alla fonda nel porto di Pola.
LA MISSIONE IN EXTREMIS
La missione di guerra subacquea, a lungo progettata, divenne operativa il 29 ottobre quando giunse a Venezia il telegramma con l’ordine di esecuzione immediata, da parte dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato maggiore della Marina italiana, impartito al capitano Costanzo Ciano, capo dell’Ispettorato dei Motoscafi Antisommergibili[3].
Alle due pomeridiane del 31 ottobre 1918, due torpediniere (65-PN e 66-PN) e due Mas (94 e 95), a traino di queste, lasciarono dunque il porto di Venezia, al comando di Ciano, imbarcato sulla torpediniera 65-PN[4].
Verso sera, secondo il piano prestabilito, il Mas 95, su cui prese posto Ciano, fu “mollato” dalla torpediniera e fece rotta verso Pola, trasportando a bordo la “mignatta” S2, ossia un siluro modificato e munito, a prua, di due cariche esplosive magnetiche con 175 kg di tritolo ciascuna. Giunto nei pressi delle Isole Brioni, a circa tre miglia da Pola, il Mas 95, alle 22.13, mollò la “mignatta” lasciandola alla guida dei due “incursori” subacquei che, dopo circa quattro ore di navigazione semi-sommersa, riuscirono a superare gli ultimi sbarramenti del porto e raggiungere l’obiettivo. Non senza difficoltà, una delle due cariche fu
assicurata allo scafo della ex “Viribus unitis”, mentre l’altra, innescata e trasportata dalla “mignatta” abbandonata alla deriva, sarebbe finita nei pressi del piroscafo “Wien” affondandolo, senza causare altre vittime. I due «motonauti», scoperti e condotti a bordo della corazzata, avvisarono il comandante che la nave stava per saltare in aria, ma a causa di un ritardo del meccanismo ad orologeria, l’equipaggio tornato a bordo, dopo un primo abbandono, fu tragicamente coinvolto dell’esplosione e nel rapido naufragio della nave da battaglia, ormai non più “belligerante”.
Le ragioni di tale affondamento restano controverse; se forse i due “incursori” erano all’oscuro che ormai la “Viribus unitis” non poteva più essere ritenuta un’unità nemica, gli alti Comandi italiani ne erano verosimilmente al corrente. Innanzi tutto, a Pola, oltre al Consiglio nazionale degli jugoslavi si era costituito anche un Consiglio nazionale degli italiani in contatto con l’Italia così come, sicuramente, in città operavano agenti dell’intelligence militare italiana. Inoltre i servizi di informazione della Marina italiana sin dalla mattina del 31 ottobre avevano intercettato messaggi che riferivano dell’avvenuto passaggio di poteri. La notizia della cessione della flotta era peraltro già di dominio pubblico ed aveva raggiunto le redazioni dei giornali.
Nonostante ciò, alle torpediniere in navigazione non fu trasmesso via radio alcun contrordine da parte dell’Ammiragliato e su tale circostanza si possono fare almeno due ipotesi: i vertici della Marina italiana intendevano concludere il conflitto con una propria clamorosa affermazione, volta a bilanciare l’ultima “gloriosa” offensiva dell’Esercito italiano a Vittorio Veneto, oppure gli stessi comandi – d’intesa con il Ministero della guerra – miravano a indebolire la flotta del nascente stato jugoslavo, per assicurarsi il controllo navale dell’Adriatico nel dopoguerra[5].
Di fatto, circa trecento marinai di varie nazionalità morirono, assurdamente, ormai convinti d’essere sopravvissuti a quattro anni di guerra.
I due ufficiali italiani, protagonisti dell’incursione, rimasero prigionieri a bordo di due unità sino al 5 novembre quando vennero liberati all’arrivo della navi italiane che presero possesso del porto di Pola; i due ardimentosi, decorati entrambi con Medaglia d’oro al valor militare e promossi di grado, erano il maggiore Raffaele Rossetti[6] e il sottotenente Raffaele Paolucci[7].
La tragica vicenda però non si concluse con tali riconoscimenti; come ha scritto Pietro Spirito: «dall’oscuro fondo del mare, in quel remoto punto dell’Adriatico, dal relitto capovolto e silenzioso della corazzata adagiata nel fango, escono un po’ alla volta i fantasmi dei marinai morti nel naufragio, e chiedono conto».
Nel marzo-aprile 1919, Raffaele Rossetti scoprì casualmente i provvedimenti che la Marina italiana aveva decretato a tutto favore di Costanzo Ciano, al quale era attribuito il merito principale dell’impresa di Pola e persino dell’invenzione della “mignatta”, ossia della “Torpedine semovente Rossetti”, per cui a Ciano veniva assegnato anche un terzo del premio in denaro previsto per l’affondamento, «in ragione del tipo della nave distrutta di L. 1.300.000, secondo la percentuale del 2 per cento sul costo della nave stessa»[8] che, teoricamente, doveva spettare ai soli Rossetti e Paolucci, secondo quanto previsto dal Decreto luogotenenziale n. 615 del 21 aprile 1918.
Di fronte a quella che riteneva un’ingiustizia si rivoltò Rossetti che, a tutti gli effetti, era stato l’ideatore, il sostenitore, il progettista, il collaudatore ed infine il pilota dell’ordigno subacqueo, mentre Ciano era intervenuto quale “supervisore” solo nella fase sperimentale con alcuni suggerimenti tecnici (qualcuno accolto e qualcuno errato). Le rimostranze di Rossetti peraltro si collegavano all’analoga partecipazione di altri 14, fra ufficiali e marinai, imbarcati sui due Mas dell’impresa di Pola, che potevano avere simili diritti[9].
Rossetti, dopo aver dato le proprie dimissioni dalla Marina, intraprese ricorsi legali, proteste e rimostranze di vario genere, comprese due lettere dirette a Ciano, il quale – pur riconoscendo in privato – il diritto reclamato da Rossetti, non si sarebbe attivato conseguentemente presso i vertici della Marina, dando adito al sospetto che fosse stato proprio Ciano ad avanzare la pretesa “tripartizione”. Il dubbio si rafforzò dopo che Rossetti apprese dall’ammiraglio Eugenio Cento che nel dicembre 1918 Ciano era andato a Parigi, in occasione delle consultazioni per il Trattato di Versailles, per incontrare l’ammiraglio Thaon di Revel allo scopo di esigere una parte del premio d’affondamento tanto che, in effetti, l’ammiraglio, accogliendo l’istanza di Ciano, inoltrò al ministro della Marina, Alberto del Bono, e al Consiglio superiore della Marina l’indicazione di dividere il compenso fra Rossetti, Paolucci ed appunto Ciano.
La vertenza aperta da Rossetti durò un anno, concludendosi con un parziale riconoscimento delle sue motivazioni; mentre a Ciano, al quale era stato negato pure l’avanzamento di grado, venne concessa la “commenda”, a titolo di consolazione. Per sottolineare la sua rivendicazione, nel 1924 Rossetti ritenne opportuno dare alle stampe un documentato quanto polemico libro sull’intera vicenda. Il libro, intitolato Contro la “Viribus Unitis” (sottotitolo: Le vicende di un’invenzione di guerra), fu edito all’inizio del 1925 dalla Libreria Politica Moderna di Roma, ma, appena stampato, un’incursione fascista incendiò la tipografia e quasi tutte le copie. Fortunatamente, il piombo dei caratteri e parte dei clichés delle fotografie si erano salvati permettendo una seconda edizione, stampata presso la Società anonima poligrafica italiana, nel settembre 1925[10].
Significativamente, il libro era dedicato alla memoria di Janko Vukovič, il capitano della “Viribus unitis”, «avversario di guerra che mi lasciò, morendo, esempio indimenticabile di generosa umanità».
A dimostrazione del suo disinteresse economico, Rossetti nel 1919 devolse l’intero importo del premio e, in particolare, destinò centinaia di migliaia di lire alla vedova e al figlio undicenne del capitano Vukovič, a favore dei quali s’aggiunse un analogo ingente contributo da parte di Paolucci.
Successivamente, le strade dei due protagonisti dell’impresa si sarebbero divise, anche politicamente.
SU OPPOSTI FRONTI
Terminato il conflitto, con decreto dell’11 novembre 1919 Rossetti fu dispensato, su sua richiesta, dal servizio attivo permanente e inserito nel ruolo degli ufficiali di complemento; l’anno successivo rinunciò al grado e venne posto in congedo a decorrere dal 1° settembre 1920. Rossetti, dopo aver appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume di Gabriele D’Annunzio, con l’ascesa del fascismo si iscrisse al Partito repubblicano italiano, entrando in rotta di collisione col regime, in conseguenza anche dello sdegno suscitato dal comportamento di Ciano che nel 1921 era stato eletto deputato per i Fasci di combattimento (del cui Consiglio nazionale era membro) nella lista del Blocco nazionale e poi, nel primo governo Mussolini, divenuto sottosegretario di Stato per la Regia Marina, nonché commissario per la Marina Mercantile.
Sin dal 1922, Rossetti fu invece posto sotto sorveglianza poliziesca e schedato, come sovversivo repubblicano, nel Casellario politico centrale[11]. Nel marzo del 1923, riteneva governo e partito fascista «entrambi ripugnanti», soprattutto per i metodi violenti e corrotti. Il 4 aprile 1923, a Santa Margherita Ligure subì quindi un’aggressione squadristica per aver gridato «Viva la libertà, abbasso il fascismo, viva l’Italia libera!» durante un comizio fascista e, dopo essere stato oggetto di un pestaggio, fu arrestato e tradotto a Genova, prima in Questura e poi in una caserma dei carabinieri.
Nel giugno del 1923 fu tra i fondatori del movimento Italia Libera che raccoglieva ex-combattenti di tendenza repubblicana ed ex-legionari fiumani su posizioni antifasciste e, proprio il grido di Rossetti, fu assunto come nome dell’organizzazione, divenendone una sorta di “padre spirituale”.
Il 13 giugno 1925, mentre era impegnato a testimoniare solidarietà nei confronti di Gaetano Salvemini, arrestato per reati d’opinione, fu nuovamente aggredito da alcuni fascisti dovendo essere ricoverato in ospedale per le lesioni subite. Dopo questo episodio lasciò l’Italia stabilendosi a Parigi, dove trovò lavoro come tipografo. Nel 1930 aderì prima al movimento antifascista Giustizia e Libertà. Nel 1932, su posizioni di sinistra, fu eletto segretario del Partito repubblicano, carica passando, successivamente, a quello de La Giovine Italia. che mantenne sino al 1933 quando venne soppiantato da Randolfo Pacciardi. Nel gennaio 1935, assieme all’ex legionario fiumano Silvio Bettini, fondò, su posizioni antifasciste, l’Association franco-italien des Ancient combattants.
Durante la guerra di Spagna partecipò ad alcune trasmissioni di Radio Barcellona lanciando proclami antifascisti e, per questo “tradimento” il regime fascista annullò la sua Medaglia d’oro al valor militare (confermata dopo la Liberazione) ma, soprattutto, la sua figura fu emarginata dalla storia ufficiale[12].
Nel 1939, in occasione della morte di Costanzo Ciano, si giunse a sostenere che «a lui, al suo inesauribile talento, si dovettero poi i sagaci studi e il perfezionamento degli ordigni necessari per forzare i porti di Trieste e Pola e colpire le grandi unità austriache; geniali fatiche che nell’ottobre 1918 si conclusero con l’affondamento della Viribus Unitis»[13].
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1939 Rossetti fu espulso dalle autorità francesi e a Modane consegnato alla polizia italiana che gli concesse di ritirarsi nella sua residenza a Rapallo. Nella primavera del 1941 trovò lavoro come linotipista presso l’editore Pirola di Milano; in tale periodo, pur vivendo in modeste condizioni economiche, accettò una somma di denaro dalla Marina, a patto però che fosse versata sul conto corrente di un orfanotrofio.
Dopo la Liberazione divenne membro del Consiglio comunale di Santa Margherita Ligure come consigliere indipendente in una lista comunista e capo dell’opposizione e, alle elezioni del 18 aprile 1948, fu candidato del Fronte popolare al Senato nella circoscrizione di Lucca.
Al contrario, una volta tornato alla vita civile, l’ex-capitano Paolucci intraprese una rilevante attività medico-scientifica unitamente alla carriera accademica e politica all’ombra della monarchia e del regime fascista[14]. Nel 1921, assunse la guida dello squadrismo nazionalista quale comandante generale dei “Sempre Pronti per la Patria e per il Re” e fu eletto deputato al Parlamento per il Blocco Nazionale e poi del PNF, carica mantenuta sino al 1943. Nel 1935 era tornato ad indossare l’uniforme durante la guerra d’Etiopia, quando fu richiamato alle armi alla direzione di una Ambulanza Speciale Chirurgica della C.R.I. raggiungendo il grado di Maggiore generale medico. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista, fu richiamato in servizio dal 5 settembre 1940, anno nel quale venne nominato dal re conte di Valmaggiore, una località nei pressi di Pola. Destinato a Roma presso il Ministero della Marina, il 22 marzo 1943 fu promosso tenente generale, per poi essere esonerato dal richiamo in servizio dal 5 agosto 1944. Nel secondo dopoguerra, Paolucci sarebbe tornato in Parlamento (1953) come presidente e senatore del Partito Nazionale Monarchico, in rappresentanza dell’Abruzzo e Molise.
Ben diverso il percorso di Costanzo Ciano, figura di primo piano del sistema di potere fascista, legato a Mussolini anche dall’acquisita parentela a seguito delle nozze fra il figlio Galeazzo e Edda Mussolini, nonché “padrone” di Livorno.
Nel 1925, nell’ambito della tendenza invalsa dopo il conflitto e incrementata durante il fascismo di creare una nuova nobiltà per meriti guerreschi, Ciano venne anche insignito, in onore dell’episodio del novembre 1917[15], del titolo nobiliare di conte di Cortellazzo che, di certo, a Livorno deve essere stato motivo di popolaresca ironia.
NOTE
- La motivazione venne riportata, con scarso rilievo, su «Il Telegrafo» del 6 marzo 1919: «Con regio decreto al capitano di vascello Costanzo Ciano, di Livorno, è stata conferita la commenda dell’ordine militare di Savoia, perché ispettore dei M.A.S. con intelligenza e perizia attendeva sino all’inizio al loro miglioramento, mentre nello stesso tempo preparava con grande fede ed amore i comandanti che dovevano portare alla vittoria le piccole unità. Nell’ultima spedizione di Pola studiò dapprima il congegno con il quale due eroi riuscirono ad affondare la nave ammiraglia della flotta nemica e accompagnò la spedizione sino sotto la diga di Pola, attendendo fino all’alba il ritorno».
- Il 6 ottobre 1918, a Zagabria, era stato fondato il Consiglio Nazionale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (della Croazia). Il 29 ottobre il Consiglio interruppe tutte le relazioni politiche e diplomatiche tra Croazia e Austria, e tra Croazia e Ungheria. In seguito, Croazia, Slovenia e Bosnia si unirono nello Stato di Slovenia, Croazia a Serbia (SHS), poi Regno di Jugoslavia.
- Dopo essere entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1891, Ciano era stato nominato guardiamarina nel 1896, sottotenente di vascello nel 1898, tenente di vascello nel 1901. Partecipò alla guerra di Libia (1911-’12), ricevendo nel 1913 un encomio solenne per aver compiuto missioni speciali di polizia coloniale al comando del piroscafo Siracusa, requisito durante le azioni di guerra. All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, venne destinato alla direzione del silurificio di Venezia della Regia Marina, ottenendo il grado di Capitano di corvetta nell’agosto del 1915 e nel 1916 sostituì il fratello Arturo al comando del cacciatorpediniere “Zeffiro”. Nel giugno 1917 venne promosso capitano di fregata e, dal luglio 1917 al maggio 1919, quale comandante di unità siluranti di superficie (Mas e torpediniere), venendo decorato con medaglia d’oro al valor militare per la famosa “beffa di Buccari” (febbraio 1918), operazione militarmente fallimentare ma che ebbe grande risonanza propagandistica grazie alla partecipazione di D’Annunzio. Nell’agosto del 1918, era stato quindi promosso capitano di vascello per meriti di guerra.
- Entrambi i Mas (94 e 95) erano stati costruiti a Livorno, presso il Cantiere Navale “F.lli Orlando”, e consegnati alla Marina italiana nel 1917.
- L’ordine impartito era, secondo quanto riportato dallo storico Giacomo Scotti, di entrare in azione «prima che fosse inalberata la bandiera jugoslava sulla nave ammiraglia ex austriaca, per impedire che ciò avvenisse. Se fossero arrivati dopo, avrebbero dovuto distruggere la bandiera insieme alla nave».
- Raffaele Rossetti (Genova 1881 – Milano 1951). Laureato in ingegneria industriale nel 1904; dopo aver ha frequentato la regia Accademia Navale di Livorno, divenne tenente del Genio navale;. Nel dicembre del 1906 dopo aver conseguito la laurea in ingegneria navale e meccanica presso il politecnico di Milano fu destinato presso la Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale Militare marittimo di Taranto quale capitano del Genio navale. Nel 1912, imbarcato sull’incrociatore “Pisa” prese parte alla Guerra di Libia. Dall’aprile del 1915 al maggio del 1917 prestò servizio presso l’Ufficio Tecnico della Regia Marina a Genova, passando poi alla Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale di La Spezia col grado di maggiore del Genio navale, impegnandosi nella realizzazione di “mezzi insidiosi” per incursioni nei porti nemici. Promosso al grado superiore per merito di guerra, il 16 novembre 1919, a domanda, venne posto in congedo e promosso Tenente colonnello nella Riserva Navale.
- Giovanni Raffaele Paolucci (Roma 1892 – 1958). Dopo il servizio militare nel 1913 nella 10ª compagnia di sanità militare dell’Esercito, col grado di caporale e poi di sergente, allo scoppio della guerra venne richiamato e assegnato ad un lazzaretto per colerosi sul Carso. Laureatosi in medicina nel luglio del 1916, fu promosso sottotenente medico di complemento in forza all’8° Rgt. bersaglieri in Cadore. Successivamente divenne tenente e, su sua richiesta, passò in Marina, prestando servizio presso l’ospedale militare marittimo di Piedigrotta e successivamente presso il Forte San Felice a Chioggia (Ve). Imbarcato sulla “Emanuele Filiberto” come secondo medico di bordo, aveva iniziato ad interessarsi alle armi subacquee per colpire unità nemiche, entrando in contatto nel luglio del 1918 col capitano Rossetti.
- Il valore della “Viribus unitis” era stato stimato in Lire 65.000.000. Secondo il contatore de «Il Sole-24 Ore», l’importo di Lire 1.300.000 nel 1919 corrisponderebbero attualmente a quasi 2 miliardi di Euro (1.959.778,19).
- Infatti, un ricorso in tal senso venne presentato anche dal capitano di fregata Giovanni Battista Scapin che, a bordo del Mas 95, era stato il comandante di entrambi i Mas impegnati nella missione.
- Una copia originale della seconda edizione del libro è conservata presso al Biblioteca “F. Serantini” di Pisa ed è possibile riscontrarvi la mancanza di buona parte dell’apparato fotografico andato distrutto. Il libro è stato riedito dall’Associazione Culturale Sarasota (Massa, 2014).
- Secondo Sergio Benvenuti avrebbe invece militato nelle file del Partito Socialista Unitario (Il fascismo nella Venezia Tridentina (1919-1924), Trento, Società di studi trentini di scienze storiche, 1976, p. 114); tale affermazione appare però derivare dal fatto che nel 1922 Rossetti sostenne economicamente e collaborò, con alcuni suoi articoli contro il fascismo, a «La Giustizia», organo del Partito Socialista Unitario, oltre ad intrattenere rapporti di stima ed amicizia con Turati, Kuliscioff e Treves.
- Già nel 1934, nel capitolo L’affondamento della «Viribus Unitis», nel libro di Corrado Rossi Corrado, Gli Arditi del Mare, l’autore aveva preferito utilizzare le memorie di Paolucci, piuttosto che quelle scomode di Rossetti, dando rilievo alla partecipazione di Ciano e definendo «grottesca favola» e «ignobili calunnie» ad opera degli ex-alleati le obiezioni in merito all’opportunità dell’affondamento.
- La risibile affermazione citata era all’interno di un articolo commemorativo pubblicato su «Il Legionario», riproposto nella raccolta di scritti necrologici (Costanzo Ciano, Roma, Pinciana, 1939), curata da Angelo Chiarini, avente come prefazione il discorso celebrativo pronunciato alla Camera da Raffaele Paolucci il 15 luglio 1939.
- Libero Docente di Patologia Chirurgica nel 1924, meritò la fama quale “chirurgo dei poveri” fin dal 1925, quando diresse l’Ospedale di Lanciano. Fu incaricato di Patologia Chirurgica all’Università di Bari dal 1926 al 1930, direttore della Clinica Chirurgica a Parma dal 1930 al 1932, a Bologna dal 1933 al 1938 e a Roma dal 1939 in poi come direttore dell’Istituto di Chirurgia Generale dell’Università degli Studi di Roma ”La Sapienza”. Dopo un anno di “epurazione”, nel 1946 riprese l’insegnamento all’Ateneo di Roma. Nel campo medico fu un pioniere della chirurgia polmonare, pubblicando numerosi lavori scientifici oltre a diversi volumi di tecnica chirurgica.
- Il 16 novembre 1917, due corazzate austriache, scortate da 14 unità minori, bombardarono per circa quattro ore la batteria costiera della Marina italiana a Cortellazzo (Ve), venendo invano attaccate da due Mas, uno dei quali comandato da Ciano.































