PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




Il progetto “Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana”



Sai chi sei? Sai a che cosa sei chiamata? Per cosa vale la pena vivere e morire? Che cosa è giusto fare? 

Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose? 

Invisibile o sfrontata, mani impeccabili o spellate, sporche d’inchiostro o di farina, mitra in spalla o in casa a dar di pedale sulla macchina da cucire. In quanti modi puoi lottare? 

(Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, 2022)

 

Il progetto Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana vuole accompagnare le celebrazioni dell’80esimo della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ponendo al centro dell’attenzione il tema della Resistenza femminile con una campagna social divulgativa.

Sulla base della documentazione raccolta negli archivi della Rete toscana degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea si è voluto impostare un “album di famiglia” che ritraesse alcune delle donne coinvolte, con vari e diversificati ruoli, nella lotta di Liberazione dei nostri territori.

Vera Vassalle

50 biografie di donne toscane saranno proposte sui social (facebook e instagram) degli Istituti della rete dal 14 aprile all’8 maggio, due al giorno, e ampliate confluiranno progressivamente in questa pagina di ToscanaNovecento, con l’intento di farne la base per un futuro database sul partigianato femminile in Toscana, via via aggiornabile e quindi preludio a ulteriori e più approfondite ricerche.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Al di là di una complessa e forse impossibile ricostruzione quantitativa, infatti, ciò che è apparso necessario – e ha costituito la spinta per tutto questo – è stato fare, a 80 anni di distanza, il punto sullo stato dell’arte delle conoscenze sulla Resistenza femminile in Toscana. Un obiettivo possibile se si radunano in questo unico spazio virtuale le ricostruzioni realizzate dagli istituti nel corso degli anni, a partire da questo primo nucleo, a campione, di cinquanta donne su cui tracce documentarie sono presenti all’interno degli archivi degli Istituti storici della rete toscana. Fra loro cinque delle diciannove medaglie d’oro al valor militare conferite a donne nel dopoguerra, ma anche storie molto meno note che pur meritano la stessa attenzione.

Un lavoro da continuare, quindi, che richiede risorse finanziarie e i tempi lunghi della ricerca storica, ma che si è voluto simbolicamente avviare a 80 anni dalla fine della guerra di Liberazione. Cosa rimane nella memoria di oggi di quelle vicende cruciali per l’Italia, infatti, è tema dibattuto. Ma quale sia la conoscenza dei percorsi biografici delle donne che a quella lotta presero parte è certamente ben poca, al di là dell’immagine standardizzata delle staffette diffusamente loro attribuita.

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Le loro storie a volte non sono emerse nemmeno nella narrazione resistenziale del dopoguerra. In quel racconto del partigianato, eroico e tutto al maschile, avviatosi fin dal 1945, rimaneva infatti un tabù il tema del rapporto fra le donne e l’uso della violenza. Una riflessione che le “poche feroci” (secondo la definizione di Jean Bethke Elshtain) ci consegnano attuale anche oggi, in un momento in cui la rappresentazione della Resistenza pare a volte farsi tutta disarmata.

Invece, come dimostrano molte delle biografie proposte da questo progetto, la Resistenza, o meglio le diverse Resistenze delle donne implicano differenti gradi di coinvolgimento nelle azioni armate su cui sarebbe opportuno tornare a riflettere, come hanno iniziato recentemente a fare alcuni storici, per analizzare concretamente i molteplici ruoli rivestiti dalle resistenti e l’attività da loro effettivamente compiuta in un contesto a prevalenza maschile.

Francobollo commemorativo di Tina Lorenzoni

La storia delle donne, anche toscane, ha del resto proprio nell’esperienza della guerra e della Resistenza uno dei suoi punti nodali, forse il più importante momento di cesura: da lì in poi le loro vicende si sviluppano con traiettorie esistenziali variegate che le portano a uscire dalla dimensione prettamente domestica e a cominciare ad agire nello spazio pubblico.

La loro partecipazione alla Resistenza è indubbiamente variegata: sono partigiane, patriote, resistenti. Per la maggior parte di loro vale ciò che scrive la storica Anna Rossi Doria quando sottolinea come nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione vi sia un passaggio dalla compassione (vicina a quella categoria del “maternage di massa” introdotta da Anna Bravo nel 1991) alla solidarietà, e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona.

Fra le molte qui raccontate, infatti, ci sono alcune che fin dall’8 settembre prendono parte o sostengono la lotta armata, sulla scia di un antifascismo le cui origini possiamo ricercare nel contesto familiare o nella rete delle relazioni fra i pari. Ma vi sono anche le altre che, a partire da pratiche di autodifesa sociale necessarie durante la guerra, sviluppano quella che si può definire un’intenzione antinazista e da lì si muovono più o meno gradatamente sui percorsi variegati della Resistenza civile.

Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti) (© Press Association, Inc. )

Proprio le biografie femminili, del resto, hanno portato storiograficamente all’attenzione quell’insieme di comportamenti che hanno come matrice comune il disconoscimento della legalità fascista e che oggi riunifichiamo sotto questa categoria interpretativa. Comportamenti che, così come l’ingresso in banda o la salita “ai monti”, traggono sempre però origine da una precisa scelta resistenziale.

Le storie qui raccontate, se ricostruite sul lungo periodo, come si è tentato di fare, mettono in evidenza le motivazioni molteplici alla base di quella scelta, siano esse politiche o di altra natura, e come esse talvolta proseguano nella lotta di classe, attraverso i ruoli politici assunti da talune nel dopoguerra, e si intersechino alle battaglie per i diritti delle donne, ma non solo.

In quei percorsi femminili, insomma, ritroviamo in parte la genesi dell’oggi, così come nella Resistenza ritroviamo l’origine della democrazia italiana, attraverso la Costituzione. Ma per poter parlare di queste donne spesso bisogna andare in cerca di loro fra le pieghe della narrazione, superando gli ostacoli rappresentati dall’assenza di fonti e soprattutto dall’assenza di memorie. Ecco cosa questo progetto ha tentato di fare, non come conclusione ma come inizio di un percorso.

Ofelia Giugni

__________

🟧 Coordinamento progetto:

Ilaria Cansella

🟥 Gruppo di lavoro:

Ilaria Cansella, Teresa Catinella, Francesca Cavarocchi, Laura Mattei, Matteo Mazzoni, Barbara Solari, Catia Sonetti

🟩 Istituti coinvolti:

Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea

 Istituto storico della Resistenza Apuana e dell’età contemporanea

Istituto storico aretino della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea nella provincia di Livorno

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia

Biblioteca Franco Serantini di Pisa

Fondazione Museo e Centro di documentazione della deportazione e della Resistenza di Prato

Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea

🟦 Con il sostegno di:

           




FIRENZE, 1° SETTEMBRE 1944

Terminata la battaglia per la liberazione, Firenze si sveglia non più oppressa dal macigno dell’occupazione nazifascista ma con una serie di problemi da risolvere nel breve periodo, al punto che la gioia di assaporare quel senso di libertà anelato da tanto tempo viene in parte strozzata da una realtà fatta di macerie, dove tutto è da ricostruire, e da una popolazione stremata che necessita nell’immediato dei bisogni primari. Case, strade, ponti che non esistono più, uomini, donne e bambini sfollati che hanno bisogno di un tetto e di piatti caldi quotidiani, e che per bere e lavarsi spesso sono costretti a stazionare in lunghe file davanti alle poche fontane funzionanti.

Una città che versava in condizioni critiche sotto il profilo annonario, igienico e abitativo, oltre che dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza annonaria era la più drammatica come risulta dai rapporti ufficiali britannici e dal diario di guerra della XIV armata germanica, i tedeschi avevano lasciato ai fiorentini il 9 agosto 1944 scorte alimentari per 22 giorni, più precisamente 125 tonnellate di farina, 25 di riso, 10 di pasta e 25 di pane, oltre ad una tonnellata e mezzo di latte condensato per il sostentamento delle madri e dei malati[1]. Si trattava di una minima parte di quanto i militari tedeschi, rimasti di fatto gli unici padroni della città, dopo la fuga delle autorità civili fasciste, avevano requisito e in molti casi razziato nelle ultime settimane. Ad ogni modo con queste scorte modeste ma provvidenziali la città riuscì a sopravvivere fino alla fine del mese. Con l’arrivo delle truppe alleate i benefici sperati furono disattesi, infatti la situazione annonaria nell’autunno-inverno ‘44 non migliorò, e nonostante le promesse delle autorità alleate gli alimenti base continuavano a mancare o a essere reperibili solo alla borsa nera.

Un problema altrettanto grave era costituito dall’emergenza abitativa, Firenze pur non avendo subito ferite paragonabili a quelle inflitte in altre città italiane, per il rispetto tributato al suo patrimonio artistico, per l’assenza di strategiche concentrazioni industriali o perché la guerra era finita otto mesi prima che al Nord, aveva avuto danni al suo tessuto urbano niente affatto trascurabili.

Dopo la liberazione la popolazione fiorentina, che era salita in poco tempo da 350.000 a 500.000 abitanti, trovò rifugio un po’ dovunque, in particolare nelle case requisite ai fascisti e nei centri per sfollati, organizzati nelle parrocchie, nelle case del popolo, nei locali del comune e soprattutto nelle scuole[2]. In accordo con gli alleati furono riorganizzate le strutture di accoglienza, e in molti si riversarono soprattutto presso l’Ente comunale di Assistenza, uno dei più attivi in città, che a fronte di questa situazione di estrema precarietà fu chiamato a rispondere con urgenza ed efficacia. Grazie all’opera del direttore Luigi Rondoni, del presidente Giorgio La Pira, e all’aiuto economico e logistico degli alleati, una delle prime azioni dell’Ente fu la riapertura delle mense già adibite in passato alla distribuzione dei “ranci del popolo” e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione. Come refettori furono utilizzati i locali delle parrocchie, che crearono una rete capillare e diffusa in città, a cui si aggiunsero centri assistenziali, case del popolo e molte altre strutture di fortuna.

Dal punto di vista amministrativo, già nel pieno della battaglia, l’11 agosto, la guida della città fu subito assunta da una giunta comunale nominata direttamente dal Comitato toscano di liberazione nazionale (Ctln). Vi fu un lungo braccio di ferro con le forze alleate per la definizione dell’organico amministrativo, ma il Ctln ebbe la meglio e riuscì ad imporre alla carica un medico socialista, Gaetano Pieraccini, mentre alla carica di vicesindaco furono designati il democristiano Adone Zoli e il comunista Mario Fabiani. La scelta di Pieraccini non fu la più gradita agli Alleati, che avrebbero preferito come primo cittadino non un rappresentante del partito storico della sinistra, ma altri uomini come il conte Paolo Guicciardini, esponenti liberali come Dino Philipson e l’avvocato Gaetano Casoni, o anche Piero Calamandrei del Partito d’Azione. Alla base della loro opposizione vi era la consapevolezza del valore simbolico della figura del primo cittadino che avrebbe rappresentato Firenze a livello nazionale e mondiale; ma gli Alleati preferirono giustificare diplomaticamente le loro riserve con l’età avanzata del medico fiorentino[3]. Alla fine nonostante le infondate obiezioni sull’età, la scelta di Pieraccini risultò la più adatta “per un sindaco della Liberazione” che era sempre stato un tenace oppositore del regime, oltre che uno dei padri nobili del socialismo toscano[4].

Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

Giunto alla guida della città quasi ottantenne, Gaetano Pieraccini fu chiamato a risolvere problemi di assoluta emergenza, con i quali nessun sindaco del capoluogo toscano si era mai dovuto misurare, come quel problema sorto a termine della guerra – ma che esisteva sia pure in misura ridotta dallo scoppio delle ostilità – dei profughi di guerra e dei sinistrati dai bombardamenti, che Firenze, al pari delle altre città italiane, si trovò ad accogliere, sistemare e sfamare. Fu un’emergenza abitativa che continuò per diversi anni e rappresentò uno dei problemi più drammatici dell’intera storia della città[5].

In città subito dopo la liberazione esistevano soprattutto due categorie di persone che dovevano essere assistite perché prive di vitto e alloggio: gli sfollati residenti in altri comuni d’Italia che avevano dovuto abbandonare la propria casa per la guerra e i sinistrati fiorentini a cui era stata distrutta o lesionata la propria abitazione. Molti di loro avevano trovato rifugio temporaneo in Palazzo Pitti e nell’adiacente Giardino di Boboli quando Firenze nella notte fra il 3 e il 4 agosto fu trasformata in un “teatro di paura e distruzione” da parte delle truppe tedesche in ritirata. Per rallentare l’avanzata degli alleati, che stavano risalendo la penisola, i tedeschi distrussero dietro di loro tutte le vie di comunicazione, compresi tutti i ponti ad eccezione del Ponte Vecchio.

A molti sinistrati successivamente fu trovata una sistemazione soprattutto nelle scuole dell’area fiorentina che velocemente furono adibite allo scopo, mentre molti altri sfollati trovarono rifugio soprattutto presso la caserma Cavani ex Genio di via della Scala, dove poterono rimanere fin quando non arrivarono migliaia di profughi provenienti da vari paesi, in particolar modo dalle ex colonie africane e dai territori esteri quali la Grecia, l’Albania e la Tunisia, che alla fine del ’45 si abbatterono come una valanga nel Centro stravolgendo quella già precaria sistemazione che avevano trovato gli sfollati ed i sinistrati fiorentini[6].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze, Fondo Eca, Filza n. 7, Categoria IV, Inserto n. 22, Centro sinistrati e sfrattati, anno 1945 e seguenti.

 

Da quel momento in poi le Istituzioni si mobilitarono costantemente per trovare nuovi locali adatti ad accogliere tutti coloro che avevano bisogno di un tetto, soprattutto quando si sarebbe aggiunto quel nuovo flusso di esuli, provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, conseguente alla stipula del Trattato di Pace, del 10 febbraio 1947, che segnò una rinuncia definitiva alla sovranità italiana sui territori del confine orientale. Dal febbraio di quell’anno giunsero a Firenze, come in molte altre località della penisola, cittadini italiani, indotti ad abbandonare i luoghi nativi dal sentimento di appartenenza alla madrepatria, dalla politica persecutoria praticata dal regime titino nei confronti dell’elemento italiano, e in molti casi anche dal rifiuto di vivere sotto un regime comunista.

Firenze fu meta di un ampio flusso migratorio dal litorale adriatico e come nel resto d’Italia, l’esodo coinvolse esponenti di tutti i ceti sociali, «dal professionista e dal pubblico funzionario alla “sigaraia di Pola”, accomunati dal desiderio di tenere fede alla propria italianità anche a costo di abbandonare i loro beni»[7].

Come avvenuto per i territori della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia, il Trattato di Parigi consentiva agli italiani residenti nel Dodecaneso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Iniziarono così i rimpatri di quanti avevano scelto la nazionalità italiana, e alcuni di essi, sbarcati a Bari, giunsero a Firenze e si sommarono ai “greci”, arrivati nel novembre del ’45, provenienti da Patrasso (la maggior parte), da Atene, Corfù e Salonicco.

I primi sintomi della gravità del problema si verificarono quando si cominciò a cercare i locali per sistemarli, in quanto quelli disponibili erano già tutti occupati dagli sfollati e dai sinistrati fiorentini. Furono individuati come edifici adatti ad ospitarli alcune scuole, alcune abitazioni private e soprattutto la caserma di via della Scala, la caserma Laugier, in via di Tripoli e il convento sconsacrato di Sant’Orsola in via Guelfa. Ma l’emergenza abitativa apparve presto evidente e le condizioni di questi italiani privati delle loro terre, delle loro case e dei loro beni dalla sconfitta militare si rivelarono drammatiche anche in un’epoca di privazioni generalizzate. Questi centri di raccolta rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e al contempo costituivano un problema sociale per Firenze che doveva “sopportarli e in parte supportarli[8].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze , Fondo ECA, Filza n. 7, Categoria IV, Atti e carteggio vario con l’ufficio provinciale per l’assistenza post-bellica, 1945 e seguenti.

 

I profughi giuliano-dalmati, appena arrivati alla stazione, ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi, esule da Pola[9], furono accolti da un signore che si era già stabilito a Firenze e sistemati nel fatiscente complesso dell’ex convento di Sant’Orsola, che accolse circa 580 istriani[10], nelle cui stanze vennero ricavati 272 ambienti familiari, senza il diritto ad un minimo di vita privata, con gli spazi riservati a ciascun nucleo familiare delimitati da semplici coperte appese ad un filo. Ma nonostante gli spazi ristretti e la promiscuità esistente erano riusciti a creare una sorta di Kibbutz con all’interno una scuola, uno studio medico, e addirittura avevano formato una squadra di pallavolo maschile e femminile e un’orchestra che si esibiva durante le feste. Liana Di Giorgi Sossi, allora bambina, in un’intervista ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia:

Ricordo che, mentre stavo al campo ho fatto la prima comunione nella chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo nel centro e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare[11].

 

Il Centro Raccolta Profughi di Via Guelfa, presso la ex Manifattura Tabacchi e, prima ancora, Monastero di Sant’Orsola. Fotografia di Elio Varutti.

 

Sant’Orsola, Firenze, Centro di accoglienza degli esuli istriani, fiumani e dalmati, Pasqua 1947 (archivio Liana Di Giorgi Sossi).

 

Firenze, CRP ex Manifattura Tabacchi, Comunione e Cresima, 15 giugno 1948.

 

Non tutti i profughi giuliano-dalmati passarono attraverso il Centro di Sant’Orsola, i più fortunati, che avevano trovato un lavoro, poterono contare sull’ospitalità di parenti o riuscirono ad ottenere un tetto dal Commissariato Alloggi, evitando così il passaggio dal campo profughi.

Una settantina di altri esuli adriatici invece trovarono posto nei locali di via della Pegola, che negli ultimi tempi erano stati utilizzati come magazzini dall’Università: «Il Genio civile, l’associazione degli industriali e il centro italiano femminile, hanno fatto il possibile per rendere abitabili e confortevoli i nuovi ambienti»[12]. Le 22 famiglie che compongono la piccola comunità hanno così trovato ospitalità in questa specie di “centro profughi”.

L’accoglienza che incontrarono gli esuli giuliano-dalmati ha rappresentato una brutta pagina della storia fiorentina, specie se paragonata all’atteggiamento molto più aperto di realtà locali spesso più povere, come la Sardegna, che ospitarono, con assai maggiore disponibilità i profughi. In molti casi pesò su di loro il pregiudizio che fossero “fascisti”:

C’era una gran malinconia, una tristezza diffusa nei nostri genitori, per il fatto di non essere accettati dagli altri, dai fiorentini, che ci consideravano fascisti e stranieri solo perché eravamo fuggiti da Pola. Per un periodo di tempo il controllo su di noi fu talmente forte che venne addirittura installato un corpo di guardia della Celere nella portineria e gli adulti dovevano esibire sempre un documento per entrare[13].

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta i profughi scappati da Tito avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita ottenendo l’assegnazione di case popolari di recente realizzazione, all’Isolotto, a Bellariva, in via Fanfani, o accedendo all’affitto di abitazioni realizzate nel 1953 per loro e per altri profughi nei complessi di via Niccolò da Tolentino (via delle Gore) e in via di Caciolle.

Non mancarono problemi anche per il rinserimento dei profughi provenienti dalle ex colonie africane e dall’Egitto che, pur non essendo una colonia italiana, aveva accolto, fin dall’Ottocento una folta e qualificata comunità di italiani, sessantaseimila all’inizio del secondo conflitto mondiale.

A Firenze arrivarono anche i rimpatriati provenienti dalla Tunisia e per loro venne requisito l’albergo Cavour in via del Proconsolo per alloggiarvi circa 220 profughi[14]. Un numero minore di “tunisini” trovò posto invece nel Centro profughi di via della Scala ormai quasi completamente occupato dai profughi “greci”.

Non riusciamo a ricavare un numero preciso di profughi che hanno alloggiato a Firenze, ci affidiamo a riguardo al quotidiano “La Nazione” che in data 12 dicembre 1945 riporta un numero di 2700 connazionali dall’estero alloggiati al Centro profughi di via della Scala e che sarebbe presto aumentato con l’arrivo di altri gruppi di profughi. Diventava così fondamentale per gli Enti incaricati di provvedere alla loro accoglienza organizzando nel migliore dei modi le strutture adibite allo scopo per “rendere l’ospitalità non uguale a quella dei lager![15]. E la città di Firenze, con un fragile apparato di emergenza, riunì tutte le forze per attrezzarsi al fine di offrire vitto e alloggio a questi sventurati diventando così un crocevia di razze, dialetti e lingue di tutto il mondo.

Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

In questo movimento continuo di persone accadeva anche che il 23 novembre 1945 arrivasse a Firenze un treno carico di 700 profughi, di ignota provenienza e senza nessun preavviso né da Roma né da alcuna delle stazioni di transito. E neanche al ministero dell’Assistenza post-bellica sapevano dell’esistenza di questo treno in viaggio per Firenze… un vero treno fantasma. E mentre si cercava di correre ai ripari per trovare una sistemazione a queste persone, dalla stazione di Campo di Marte si annunciava l’arrivo di un altro treno: altri vagoni stracolmi di uomini donne e bambini che viaggiavano con il solo bagaglio della propria sofferenza, «senza neppure farli precedere da quell’avviso che si usava per le merci!»[16]. Fu avvisata dell’arrivo di questi treni la direzione del Centro profughi per provvedere all’accoglienza, ma in via della Scala tutti i locali disponibili erano già al completo. Lo sconforto e la rabbia di coloro che avevano viaggiato per giorni stipati all’interno di un vagone esplose quando, arrivati a destinazione, vennero a sapere che nessuno li aspettava, che lì non vi era posto per loro. Risolutivo fu l’intervento del direttore del Centro, che giunto alla stazione con gli addetti della mensa popolare ed un carico di buone pietanze alimentari, riuscì a calmare gli animi e convincerli ad accettare di rimettersi in viaggio verso Bologna (città da cui, di lì a poco, sarebbero tornati a Firenze!)[17].

Questo clima di caos e di incertezza, tipico di una situazione al collasso, era causato anche da difficoltà di comunicazione con gli organi centrali e dalla confusione creata dai movimenti degli eserciti insieme agli intralci provocati dagli organismi di controllo degli Alleati.

L’afflusso di profughi proseguì per tutto il 1945, soprattutto furono numerosi i rimpatri dalla Grecia (il nucleo più consistente di profughi a Firenze alloggiati nella ex caserma di via della Scala) che giunsero ininterrottamente per tutto il mese di novembre e l’inizio di dicembre, poi iniziò l’arrivo degli istriani che proseguì anche negli anni Cinquanta. Mentre il flusso di profughi “africani” nel capoluogo toscano si protrasse fino agli anni Settanta, quando, dopo il colpo di stato nel 1969 del colonnello Gheddafi, fu messa in atto la “cacciata” di tutti gli italiani dal territorio libico. Non solo, Gheddafi per appagare il suo sentimento di vendetta nei confronti dell’Italia, andò oltre ordinando la restituzione dei morti italiani che furono dissotterrati dai cimiteri e imbarcati sulle navi per tornare in patria.

 

NOTE:

[1] Enrico Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957) dall’11 agosto all’anno dei tre ponti, Ibiskos, Empoli 2008, p. 56.

[2] Daniela Poli, Storie di quartiere. La vicenda Ina-Casa nel villaggio Isolotto a Firenze, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[3] Cfr. Lelio Lagorio, Cronache di lotta socialista a Firenze, in Il socialismo a Firenze dalla Liberazione alla crisi dei partiti 1944-1994, a cura di Luigi Lotti, Polistampa, Firenze 2013, p. 119.

[4] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957), cit., p. 53.

[5] Negli anni ‘60, dopo la realizzazione di molti alloggi, erano ancora in attività 32 centri sfrattati con 779 famiglie alloggiate composte da 2696 persone, in Daniela Poli, Storie di quartiere, cit., p. 84.

[6] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[7] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione, cit., p. 189.

[8] Elio Varruti, I diritti e le ortiche. Esuli dai campi profughi ai villaggi per rifugiati di firenze-1945-2009, https://eliovarutti.wordpress.com/2020/10/10/

[9] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in Daniela Tartaglia, Sant’Orsola. Fotografie da un monastero, Crowdbooks, 2019.

[10] Il Crp di Sant’Orsola operò dal 1945 al 1955 per i profughi istriani. Vi confluirono con le loro famiglie 580 dipendenti della manifattura tabacchi di Pola assegnate alla manifattura tabacchi di Firenze, che dall’Ottocento fino al 1941 aveva sede proprio a Sant’Orsola (Il Centro continuerà ad essere attivo fino alla fine degli anni Sessanta accogliendo sfrattati o senza tetto).

[11] Ibidem.

[12]Dopo le nostre segnalazioni. I profughi giuliani decentemente sistemati, «La Nazione», 13 marzo 1948.

[13] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in D. Tartaglia, Sant’Orsola, cit.

[14] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[15] E. Miletto, In fuga. Assistenza e accoglienza degli italiani di Grecia in Piemonte, in Convegno internazionale “Grecia e Italia 1821-2021: due secoli di storie condivise, Atene 2023, p.716.

[16] Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

[17] Ibidem.

 

Articolo pubblicato nel marzo 2025.




Le bandiere multicolori delle donne. Una storia di pacifismo e resistenza

Nel secondo dopoguerra l’Italia fu uno dei paesi protagonisti del movimento dei Partigiani della pace, costituitosi a Parigi nel 1949. Nel suo alveo, tra gli anni ’40 e ’50, si sviluppò “dal basso” la pratica della realizzazione delle “Bandiere multicolori della pace”. Si tratta di una pratica autonoma e parallela rispetto a quella delle bandiere della pace arcobaleno.

Le bandiere sono un artefatto classico. Prima dell’avvento delle bandiere prodotte in serie si trattava di un oggetto singolo, “La bandiera”, simbolo identitario soggettivo di quella specifica organizzazione e potente strumento comunicativo. La bandiera attira lo sguardo, trasmette contenuti, unisce le persone, risveglia emozioni. L’uso della bandiera in scioperi e manifestazioni occupa lo spazio, crea collettività, anche attraverso una precisa grammatica dei colori.

La bandiera arcobaleno è oggi conosciuta globalmente. Un ruolo importante nella sua diffusione e standardizzazione pare averlo giocato Aldo Capitini, che portò una bandiera molto simile a quella che conosciamo, riprendendola da alcune che già circolavano, durante la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi nel 1961. Ma già agli inizi del ‘900 James Van Kirk aveva proposto la World Peace Flag. Nel 1897 ne era stata proposta un’altra da Cora Slocomb e qualche anno prima, nel 1891, un’altra versione ancora era stata proposta da Henry Pettit.

Poco note sono invece le bandiere della pace delle donne italiane, che nonostante la loro diffusione all’epoca restano quasi sconosciute al grande pubblico. Per le loro fattezze sono conosciute come bandiere multicolori. Venivano realizzate spesso a risparmio, con scampoli di tessuto, spesso arricchite con ricami di testo, di disegni o oggetti del lavoro. Sono arrivate a noi attraverso la memoria e gli archivi. Ne sopravvivono numerosi esemplari, a volte in bella vista, altre volte in cassetti e sgabuzzini.

La loro estetica pone un interrogativo: perché fare delle bandiere multicolori per simboleggiare la pace? Probabilmente l’idea che la pace andasse rappresentata con tanti colori si era già fatta strada, a partire dai primi prototipi, e veniva tradotta dallo spirito internazionalista dei movimenti socialisti e comunisti in una bandiera che con i suoi tanti colori rappresentasse i popoli del mondo uniti sotto le insegne della pace.

Furono soprattutto le donne dell’Unione donne italiane (UDI) ad impegnarsi maggiormente nella campagna pacifista e contro la minaccia atomica. Di conseguenza, le bandiere ebbero anche una caratterizzazione e grammatica di genere. La realizzazione delle bandiere era già una delle forme dell’attivismo delle donne. Le laboriose e infaticabili mani femminili cucivano da tempo i vessilli del movimento di emancipazione del lavoro. Le bandiere multicolori divennero così le bandiere della pace “delle donne”, un simbolo delle istanze di emancipazione, esibite e portate in piazza.

Le prime informazioni sulle bandiere multicolori risalgono alla fine del 1948, diventando subito un simbolo di lotta e di opposizione all’ingresso dell’Italia nella NATO, contro la guerra di Corea e la bomba atomica. Nel 1949 a Parma la bandiera, rimossa dalla polizia dalla torretta della fabbrica Bormioli (occupata dalle maestranze), venne portata in bicicletta in alcuni paesi, dove si costituirono i Comitati della Pace al suo passaggio e si raccolsero firme contro il Patto Atlantico. Lo stesso anno l’UDI invitò le donne a portare le bandiere alle manifestazioni dell’8 marzo. Le bandiere vennero utilizzate anche negli eventi delle ragazze dell’UDI, come gli Incontri di Primavera o le gare sportive, legandosi così alla gioventù e all’idea di futuro che incarna. Sono numerose le fotografie apparse sulle riviste del tempo in cui le ragazze sventolano le bandiere. A Siena presso le “Stanze della memoria” è esposta una bandiera dove si può leggere la scritta ricamata: «Le ragazze d’Anqua s’impegnano per la pace».

Ma nell’Italia di quel tempo queste bandiere erano un oggetto politico conflittuale. Dato che la campagna pacifista si contrapponeva alle politiche internazionali e di riarmo dei governi italiani, la bandiera della pace era di fatto uno strumento di opposizione e veniva considerata la manifestazione di un’ostilità politica ai governi, che ne perseguirono l’uso attraverso le forze dell’ordine. Le bandiere divennero così anche un simbolo e uno strumento di resistenza, e con questa declinazione furono incorporate nei repertori dell’azione sindacale. Le ritroviamo in piazza il Primo maggio, esposte ai convegni e ai congressi della CGIL, utilizzate in scioperi e manifestazioni. Capitava spesso che sulle bandiere venissero ricamate le rivendicazioni sindacali. Furono numerosi i mondi del lavoro che realizzarono le proprie bandiere, dalle fabbriche alle mondine, e non mancarono bandiere dallo spirito “confederale”.

Le bandiere divennero uno strumento di lotta a tutti gli effetti, come nell’occupazione della fabbrica Bormioli. Molte testimonianze della loro funzione in questo senso provengono dal mondo mezzadrile. Si affermò la pratica di portarle durante gli scioperi e di issarle sulla vetta dei pagliai e nelle aie durante la trebbiatura del grano. Le bandiere riempivano così lo spazio della conflittualità sociale. Le forze dell’ordine furono impegnate in una lunga battaglia per rimuovere le bandiere dai pagliai, in una ricorsa continua, da un pagliaio all’altro, da un’aia all’altra, che si risolveva nel rafforzamento della volontà delle famiglie mezzadrili di issarle, vedendovi un’espressione di emancipazione dai proprietari e della conquistata libertà politica. Sul la rivista della CGIL Lavoro del 1952 si legge sotto a una foto: «Dopo una combattuta lotta i contadini dipendenti degli agrari fratelli Sonnino di Chiaravalle, issano sull’aia la bandiera della pace. I Sonnino pensavano di poter imporre i loro sistemi antidemocratici, ma la lotta dei contadini ha avuto ragione di loro».

Oggi è in corso un movimento di riscoperta di queste bandiere, sull’onda del rinnovato protagonismo dei movimenti delle donne e del nuovo impegno pacifista oggi sempre più urgente. Nel semiottagono delle Murate, a Firenze, dal 5 marzo al 25 aprile 2025 sarà visitabile una mostra che ripercorre la loro storia in dialogo con le opere d’arte del collettivo Lediesis.

 

Stefano Bartolini è direttore della Fondazione Valore Lavoro, responsabile del Centro di documentazione archivio storico CGIL Toscana e direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).

Martina Lopa svolge attività di ricerca sulla storia delle donne, collabora con la Fondazione Valore Lavoro e fa parte del gruppo di lavoro “Paura non abbiamo” dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).




La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




L’ISRPT conclude riordino e digitalizzazione del “fondo manifesti”

Si è concluso il lavoro di riordino, inventariazione e digitalizzazione del fondo manifesti conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia. Si tratta di un patrimonio ricco ed eterogeneo, che spazia su un’ampia spanna temporale e si caratterizza per la varietà di enti produttori e temi trattati o rappresentati. Il fondo conta un totale di 826 esemplari unici di vario formato (A0, A1, A2, A3).

Gran parte del materiale è originale; sono per lo più ristampe solo i giornali murali emessi da comuni, prefetture e altri organi pubblici fra gli anni ’10 e gli anni ’50 del ‘900. Fra i nuclei documentari più rilevanti e consistenti si segnala una raccolta proveniente dal fondo archivistico appartenuto all’ex sindaco di Pistoia Francesco Toni, con materiale risalente agli anni ’60, ’70 e ’80 che è riconducibile in parte ai movimenti per i diritti civili, per il disarmo, per la pace, per la cooperazione internazionale e per la solidarietà con i popoli del terzo mondo, in parte si lega a questioni inerenti alla politica locale quali elezioni, partiti e lotte sindacali.

La storia dell’Istituto, di altri istituti della rete Parri, della rete stessa e di molte altre organizzazioni assimilabili o prossime – quali, ad esempio, l’ANPI – è ampiamente documentata, con innumerevoli locandine riferibili a iniziative e attività, così come alle politiche memoriali elaborate dagli enti pubblici comunali, provinciali e regionali nella seconda metà del secolo scorso.

Non mancano infine serie di manifesti inerenti alla storia d’Italia, pubblicati a scopo divulgativo e propagandistico.

Si tratta dunque di un corpus di fonti primarie utili ai fini della ricerca relativamente alla storia del ‘900 e alla storia locale, rilevanti inoltre in un’ottica di conservazione della memoria storica dell’ISRPt.

L’opera di catalogazione e digitalizzazione ha richiesto l’impegno assiduo e prolungato nel tempo di professionisti, tirocinanti e ricercatori. I manifesti sono stati suddivisi per formato e disposti in un’apposita cassettiera metallica all’interno dei locali che ospitano l’archivio dell’ente. L’inventario è consultabile in formato excel sul sito dell’Istituto alla pagina “fondo manifesti” .
La consultazione è liberamente garantita in sede nei giorni di apertura dell’Istituto, segnatamente il lunedì, martedì e giovedì pomeriggio dalle ore 15:00 alle ore 19:00.

 

Emilio Bartolini è dottorando in scienze storiche presso l’Università del Piemonte Orientale. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




La marcia della morte: da Molin dei Falchi a San Polo

Il valore della testimonianza e del ricordo sono fondamentali perché certi episodi non si verifichino più”. Così esordiva Laura Ewert il 14 luglio alla commemorazione della strage di San Polo, venuta appositamente dalla Germania in Italia per chiedere perdono. Suo nonno, il colonnello Wolf Ewert, è stato colui che ha ordinato quell’orribile eccidio, e dopo averlo recentemente scoperto per caso, sua nipote Laura non ha esitato a partecipare, per manifestare la propria “tristezza, dolore e vergogna”, all’ottantesimo anniversario di quella che è stata definita una delle più orrende e barbariche stragi protratte dai nazisti sul suolo italiano.

Il dottor Carlo Silli, che aveva assistito al disseppellimento delle salme, nella sua relazione scriveva: “Mai ho visto e mai ho potuto concepire la scena da incubo che si parava davanti ai miei occhi in quel boschetto di lecci dietro Villa Gigliosi… Tre fosse colme di cadaveri ammucchiati gli uni sopra gli altri, parte dilaniati da esplosivi, tutti con i visi tumefatti e con un aspetto trasfigurato da essere irriconoscibili…Ancora vivi, ma probabilmente tramortiti (non trovammo segni di arma da fuoco nella maggior parte) furono ammucchiati e ricoperti dalla terra nella quale morirono soffocati e poi furono fatti esplodere. Alcune delle salme erano atrocemente mutilate e frammenti di tessuti umani e di vestiti furono trovati sulle piante circostanti fino ad un’altezza notevole”[1].

Ed è per l’atrocità di questo eccidio con quell’orribile modo con cui si è consumato che la signora Laura Ewert si è abbandonata ad un pianto a dirotto, si è inginocchiata ed ha deposto fiori sulla lapide di Villa Gigliosi. Qui ha incontrato ed ha abbracciato la nipote di una sopravvissuta all’eccidio, qui ha cercato di capire, senza trovare alcuna spiegazione, il perché suo nonno dette quell’infausto ordine ai soldati della Wehrmacht, qui ha dichiarato che per lei “… è l’ora dell’ascolto, dalle testimonianze e dagli incontri… voglio tentare di capire perché tutto ciò successe. Viviamo tempi difficili, con guerre in corso e questo dimostra che non siamo del tutto fuori dal pericolo che certi momenti possano essere vissuti nuovamente”. E qui va considerato il valore del gesto di Laura perché è una delle rare volte in cui un discendente di un nazista chiede scusa per i misfatti combinati durante la seconda guerra mondiale.

Di tutte le grandi stragi del ’44 quella di San Polo oltre ad essere una delle più orribili e disumane per come è stata eseguita possiamo considerarla una delle più beffarde se pensiamo che fu messa in atto proprio quando gli Alleati erano ormai alle porte di Arezzo e si preparavano a lanciare l’offensiva per la liberazione della città. La dinamica di quel massacro fu frammentaria e complessa, fatta almeno di tre momenti distinti: i rastrellamenti nella notte fra il 13 e il 14 luglio con le fucilazioni nella zona di Pietramala e Molin dei Falchi, l’uccisione di 48 “rastrellati” a Villa Gigliosi e le fucilazioni di San Severo [2].

I fatti di San Polo furono l’epilogo di un’azione stragista, in parte pianificata, che in quattro mesi nella sola provincia aretina portò al compimento di 42 eccidi, raggiungendo il loro culmine per numero e per ferocia nel mese di luglio, quando le truppe naziste si trovarono ad affrontare l’aumento della combattività e la consistenza delle brigate partigiane da un lato e l’avanzata irrefrenabile degli alleati dall’altro. Quel “filo di sangue” ebbe inizio alla fine di giugno quando a Palazzo del Pero, in località l’Intoppo, vennero uccise 10 persone e proseguì a Badicroce, dove ne morirono nella notte tra il 3 e il 4 luglio altre 17. Seguirono successivamente le stragi dell’11 luglio compiute a Staggiano, Quota di Poppi, Matole di Cavriglia, Pogi e Castiglion Fibocchi, per poi giungere alla scena finale – per quanto riguarda il territorio aretino – dell’azione stragista del 14 luglio a Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo e San Severo, eventi distinti ma che fecero parte di un’unica azione repressiva.

Nei primi giorni di luglio il Comando della Divisione Arezzo aveva cercato di realizzare un collegamento tra le varie formazioni partigiane operanti nella zona, in particolare tra il primo Battaglione Sante Tani della Brigata Pio Borri, dislocato nella zona di Poti – Molin dei Falchi, e gli alleati fermi lungo la Valdichiana, per mettere a punto una strategia per liberare la città di Arezzo [3]. La loro intenzione era quella di attaccare alle spalle quelle truppe tedesche che da alcuni giorni erano assestate sulle alture della Valdichiana per permettere la ritirata sulla Linea Gotica ostacolando l’avanzata degli Alleati.

Ma l’indisponibilità degli Alleati per questo progetto, non avendo al momento le truppe adatte alle operazioni di montagna, portò a concordare un piano che prevedeva l’invio in segreto di un gruppo di partigiani dentro la città di Arezzo il giorno 14 luglio, al fine di agevolare la discesa delle altre brigate che stazionavano nella zona di Poti. L’operazione effettuata contemporaneamente all’attacco delle truppe alleate alla Sella dell’Olmo avrebbe dovuto indebolire le difese tedesche agevolando così l’ingresso degli Alleati in città [4].

All’alba di quel 14 luglio i partigiani del primo Battaglione si affacciavano sulla displuviale di Poti pronti a marciare sulla pianura di Arezzo. Analogo movimento venne effettuato dai reparti del secondo Battaglione che non avevano ancora oltrepassato le linee di Palazzo del Pero. Compito di questi reparti era quello di conquistare la foce dello Scopetone, svolgendo un’azione di sostegno a quella contemporanea del primo Battaglione al quale avrebbero coperto il fianco [5].

Ma l’azione Alleata concordata per il 14 luglio non ebbe luogo e ciò dette la possibilità ai tedeschi di attaccare il mattino stesso le posizioni di San Severo e Molin dei Falchi. L’attacco fu preceduto da azioni di artiglieria e trovò le formazioni partigiane ancora in fase di schieramento offensivo, per cui queste non poterono reggere all’urto del fuoco nemico. Il ripiegamento dei partigiani avvenuto nella zona di San Severo provocò la reazione dei tedeschi che si accanirono sulla popolazione di quella località compiendo il primo eccidio di quella nefasta giornata [6].

Così scrive nel suo diario Almo Fanciullini, allora un ragazzo di quindici anni, il quale registrò con straordinaria lucidità tutto ciò che stava avvenendo intorno a lui in quei terribili mesi:

“Mercoledì notte arrivarono i tedeschi a San Severo (…) i partigiani scappando lasciarono sul luogo le loro armi ritrovate poi dai tedeschi (…) La popolazione visto che i tedeschi non molestarono nessuno non temeva grandi sorprese (…) ma stamani una decina di nazisti armati di mitra e di bombe a mano irrompevano in San Severo e catturavano 17 uomini, la maggior parte capi famiglia (come mio zio) e tra il pianto di bambini e di donne li portarono per un viottolo in direzione del Pineto. Pochi minuti dopo una volta scomparsi dietro una piccola vallatina a 500 metri dal caseggiato, si udirono raffiche di mitra. (…) tutti furono sfracellati da molti proiettili (…)” [7].

A San Polo già il 12 luglio era giunto il 274° reggimento tedesco, un reparto dipendente dalla 94° Divisione di fanteria [8], aggregato in quel momento alla 305° Divisione di Fanteria, agli ordini del colonnello Wolf Ewert, che requisì la villa dei fratelli Mancini e vi stabilì il comando.

I bombardamenti degli Alleati in quel periodo sempre più intensi si spinsero verso San Polo e molti degli sfollati, che avevano lasciato Arezzo per rifugiarsi nel paese, decisero di spostarsi nelle frazioni e nelle fattorie di montagna, come Pietramala e Molin dei Falchi, dove erano nascosti anche alcuni partigiani. Avevano lasciato San Polo nella speranza di salvarsi ed evitare di trovarsi in mezzo agli scontri che potevano verificarsi con l’arrivo degli Alleati che ormai erano alle porte di Arezzo. E di sicuro non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio…

I nazisti vennero a conoscenza di un concentramento di partigiani alle estreme pendici dell’Alpe di Poti, nei pressi di Pietramala, in seguito alla cattura di un giovane disertore tedesco, tale Heinrich Kruger, legato alla “Pio Borri”, che sotto tortura rivelò dove erano nascosti i prigionieri nelle mani dei partigiani. Erano gli uomini del comandante Siro Rossetti, che si preparavano a scendere su Arezzo per liberarla insieme agli Alleati in arrivo dalla Valdichiana. Secondo le testimonianze dello stesso Rossetti, rilasciate in più occasioni, la brigata aveva fatto prigionieri 19 tedeschi che il giorno 13 luglio erano tenuti a Molin dei Falchi e poi portati a Pietramala e rinchiusi in una grande autorimessa nei pressi di alcune case del paese [9].

Nella zona di Molin dei Falchi si trovava anche il comando di brigata, che si era spostato quella notte perché qui erano giunti, provenienti da Cortona, i partigiani Eugenio Calò, Angelo Ricapito e Villa, portatori di un messaggio del comando alleato.

I nazisti organizzarono un’azione che mirava alla liberazione dei propri commilitoni e non si limitarono solo a questo…

L’azione tedesca venne compiuta di sorpresa all’alba del 14 luglio quasi contemporaneamente all’eccidio che si consumava a San Severo: i tedeschi riuscirono a liberare i prigionieri, che fino ad allora erano stati sicuro pegno di garanzia per azioni di rappresaglia, ma che adesso non più vincolati dalla preoccupazione di ritorsioni, si sfogarono sulla popolazione, rastrellando decine di persone e dando alle fiamme le loro abitazioni [10].

Una quindicina di civili furono uccisi in questa prima fase del rastrellamento a Molin dei Falchi e Pietramala: almeno sette donne, due bambini e alcuni anziani.

Da qui inizia “la marcia della morte”: una lunga fila di prigionieri civili e partigiani tenuti legati col fil di ferro si trascinava verso San Polo, e man mano che si andava avanti le abitazioni venivano incendiate e aumentava il numero degli ostaggi, più il cammino proseguiva più la coda si allungava, con altri catturati nei pressi di Vezzano e Castellaccio, e coloro che non riuscivano a tenere il passo (una donna incinta, suo marito, alcuni bambini e anziani) venivano eliminati lungo il tragitto.

L’ordine di esecuzione fu emanato dal comandante del reparto Wolf Ewert ma avvallato da Klaus Konrad ufficiale del Reggimento, dal sottotenente Schmidt e dall’ufficiale austriaco Herbert Hantschk, sul quale è stata pronunciata la sentenza di primo grado nel febbraio 2007 dal Tribunale Militare di La Spezia. Dai vari interrogatori effettuati si può escludere la presenza a San Polo di reparti o unità SS, i soldati presenti appartenevano alla Wermacht, nonostante alcuni testimoni li abbiano scambiati per SS a causa del berretto tipo bustina con il bottone rosso e bianco [11].

La “lugubre processione” che si lasciava dietro una lunga scia di sangue arrivò a destinazione a Villa Gigliosi, a San Polo, posta a pochi metri da quella Villa Mancini sede del comando tedesco.

I soldati scesero in cantina con i loro ufficiali e si ubriacarono. Con le canne di gomma poi, che servivano per travasare il vino, presero a fustigare i prigionieri. Caddero svenuti sotto i colpi. I tedeschi costrinsero quelli rimasti in piedi a scavare tre fosse nel giardino e vi gettarono dentro tutti i prigionieri alcuni finiti a colpi di pistola altri tramortiti, iniziando a ricoprirli di terra, seppellendoli vivi e poi fatti esplodere” [12].

Alla fine del massacro le vittime furono 63, 48 delle quali civili, 8 furono le donne [13]. I tedeschi lasciarono Villa Mancini lo stesso pomeriggio del 14 luglio.

Una costante di tutte le testimonianze raccolte nelle varie epoche è quella di aver visto rastrellare ed uccidere senza pietà dai tedeschi indistintamente sia uomini, anziani, giovani, invalidi, donne, sfollati e partigiani di qualsiasi età o condizione. E questa stessa condanna totale e senza appello che i nazisti infliggevano alle popolazioni, agli inermi, agli innocenti, confermava un dato di fatto: “la convinzione che partigiani e civili fossero la stessa cosa, uniti nella lotta contro il nemico invasore, protagonisti tutti, in forme e modi diversi, di una guerra patriottica per la liberazione del suolo nazionale e per il rovesciamento di quei valori liberticidi, razzisti, reazionari che erano rappresentati dal nazifascismo”[14].

La vittima più giovane e più inerme fu un bambino di tre settimane, Dante Buzzini battezzato appena due giorni prima.

Ultimo ad essere ucciso fu lo studente di medicina Mario Sbrilli che prestava servizio in qualità di medico nella formazione partigiana: inizialmente risparmiato perché medico, poi freddato da un colpo di mitra per avere tirato uno schiaffo al generale nazista che stava torturando i suoi compagni.

La ferocia con cui si accanirono contro le vittime fu accentuata anche dalla partecipazione alla strage degli ex prigionieri tedeschi liberati poco prima, che scatenarono tutta la loro rabbia, la loro sete di vendetta in modo bestiale. Alla brutalità dell’operazione contribuì anche l’opera di Hans Plumer, medico tedesco pure lui ex prigioniero, che continuamente incitava i soldati ad eliminare tutte le persone incontrate, donne e bambini inclusi, urlando più volte che nella zona vi erano solo partigiani che dovevano essere giustiziati [15].

 

Luglio 1944 – Popolane aretine a San Polo in attesa di identificare le vittime.

 

L’immagine di queste donne ritratte immobili, quasi pietrificate, nell’atteggiamento di attesa e di atavica rassegnazione, che sono lì ad aspettare di poter riconoscere i propri cari tra quei corpi mutilati e sfigurati delle vittime di San Polo, è forse la spiegazione più esauriente dell’assurdità delle guerre, di qualunque guerra, di quelle di ieri e soprattutto di quelle di oggi che seminano tra i civili le vittime più numerose.

Luglio 1944 – San Polo: disseppellimento e identificazione delle vittime.

 

Luglio 1944 – San Polo: un carro agricolo per il trasferimento al cimitero.

 

Nei giorni successivi alla liberazione di Arezzo gli inglesi aprirono un’inchiesta sui fatti di San Polo, che non ebbe seguito. Nel 1972 il caso fu riaperto in Germania ma archiviato l’anno seguente. In Italia nel 1960 fu avviato un procedimento di provvisoria archiviazione e tutta la documentazione venne chiusa nel tristemente noto “Armadio della Vergona” custodito a Roma a Palazzo Cesi. Un intero archivio fu occultato con documenti che riguardavano stragi come quella di Marzabotto, delle fosse Ardeatine e tra gli eccidi toscani anche quello di San Polo. Solo nel 1994 “l’Armadio” venne riaperto e una commissione di indagine visionò tutto il materiale inviandolo poi alle procure militari. Nel 1995 il Tribunale Militare di La Spezia riaprì la pratica, finché nel 2007 arrivò la sentenza che assolse, per insufficienza di prove, Herbert Hantschk, l’unico soldato tedesco imputato sopravvissuto, che ormai ultraottantenne aveva atteso la sentenza nella sua casa a Vienna.

I sessant’anni della giustizia negata sono finiti per Civitella e Marzabotto, ma non per San Polo, che resta quindi impunita. Non per la storia che ha già indicato i responsabili nei soldati della 274° reggimento della Wehrmacht, ma per la legge.

 

Note:

[1] La testimonianza è riportata da Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’appennino toscano, Tipografia D. Badiali, Arezzo 1957, pp. 508-9.

[2] Salvatore Mannino, La giustizia divisa: Civitella e San Polo, cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008, p. 152.

[3] Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La nuova Europa, Carrara 1972, p. 232.

[4] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, cit., p. 226.

[5] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 233.

[6] Un dramma indimenticato che i nipoti di una delle vittime, Silvestro Lanzi, componenti della band “Casa del Vento” hanno reso immortale nella canzone “Notte di San Severo”, https://www.youtube.com/.

[7] Almo Fanciullini, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Polistampa, Firenze 1996, p. 158.

[8] La 94 Divisione Tedesca traeva origine dalla analoga formazione perduta dai tedeschi a Stalingrado. Ricostruita in Francia, la divisione fu nuovamente distrutta a Cassino. I suoi resti operarono contro i partigiani in Val Tiberina e, poi a San Polo. Subito dopo San Polo risulta trasferita a Ferrara e poi Udine per la ricostruzione, in Enzo Droandi, La Battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984, p. 16.

[9] Memoria di un eccidio: San Polo1944, Le Balze, Montepulciano 2003, p. 41.

[10] A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, cit., p. 242.

[11] Memoria di un eccidio, cit. p. 44.

[12] L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, cit. p. 235. Nella testimonianza rilasciata di fronte alla Court of Inquiry alleata, nel dicembre 1944, il proprietario della villa, Alfredo Mancini, racconta le terribili torture subite dagli ostaggi e in particolare dai partigiani che, secondo l’inchiesta britannica, sarebbero stati soltanto sei, una stima probabilmente difettosa, in Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili: le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2008, p. 147.

[13] Questa stima appare secondo lo storico G. Fulvetti la più realistica, in Ivi, p. 135.

[14] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 14.

[15] G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 135.

 

Bibliografia sull’argomento:

Chianini Vincenzo, Gli Unni in Toscana, Valecchi, Firenze 1946.

Curina Antonio, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957.

Droandi Enzo, Arezzo distrutta 1943-44. Calosci, Cortona 1995.

Droandi Enzo, La battaglia per Arezzo 4-20 luglio 1944, Luciano Landi Editore, Arezzo 1984.

Fanciullini Almo, Diario di un ragazzo aretino 1943-1944, Regione Toscana- Consiglio regionale, Firenze 1996.

Foghini Curzio, San Polo: ricordi di famiglia e di guerra, Letizia Editore, Arezzo 2018.

Fulvetti Gianluca, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009.

Mannino Salvatore, La Giustizia divisa. Civitella e San Polo: cronaca e storia di due stragi, Protagon, Arezzo 2008.

Memoria di un eccidio: San Polo 1944, Le Balze, Montepulciano 2003.

Tognarini Ivan (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza, ESI, Napoli 1990.

Tognarini Ivan (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo, 1943/1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale, Arezzo 1988.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di ottobre 2024.