Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Corrado Mascagni, un soldato toscano nella Grande Guerra

Corrado Mascagni era nato a Rosignano Marittimo il 9 aprile 1898. Nel piccolo paese toscano in cui viveva con la famiglia, nel marzo del 1917 gli giunse la chiamata dell’esercito. Nell’anno più terribile della Grande guerra europea, a diciannove anni ancora da compiere, fu costretto a partire per Savona dove fu assegnato alla compagnia distaccata nella vicina località di Finalborgo. Mascagni aveva completato la sesta elementare e sviluppato una passione per la lettura che lo porterà per tutta la vita a collezionare libri dei generi più vari. Ciò gli garantì una certa padronanza di linguaggio, e qualche strumento critico, che gli fu utile per orientarsi nell’esperienza dolorosa della guerra e nella successiva rielaborazione di quel tremendo ricordo.

Come molto giovani della sua generazione, uscita falcidiata da quella grande carneficina, non poté sottrarsi al bisogno incessante di uomini della macchina bellica. Trasferito per un periodo di addestramento in un campo a Dego, piccolo Comune sul Bormida, il 24 luglio partì in direzione del fronte. Giunto in zona di guerra e aggregato all’85° reggimento fanteria di marcia ad Aquileia, finita l’offensiva di agosto passò al primo battaglione del 118° reggimento che faceva parte della brigata Padova. Dopo la partecipazione a qualche scontro sul fronte visse in prima persona il drammatico evento della “rotta” di Caporetto.

L’esperienza traumatica della guerra e di quella tragica ritirata segnarono profondamente il suo immaginario e la sua identità personale. Nel 1966 volle non a caso compiere un viaggio sui luoghi di quegli eventi, scattando fotografie accompagnate da precise annotazioni che ne rivelano la ragguardevole capacità di ricordare quel lontano passato. Giusto alcuni mesi prima aveva sentito del resto il bisogno di ordinare tutti quei densi ricordi in un puntuale manoscritto a cui diede il termine, improprio, di “Diario”. Non si tratta infatti di una narrazione stesa in tempo reale ma redatta a significativa distanza dagli eventi vissuti. Più che di diario di guerra in senso stretto il suo inedito testo è un tipico esemplare di memoria proveniente dalla voce di un testimone diretto.

In un momento di grande interesse per le scritture popolari come fonti storiche, e in coincidenza con il centenario della fine di quel terribile avvenimento che ha segnato in profondità la storia e la memoria dell’Europa, l’Istoreco di Livorno, grazie al sostegno della Provincia e del Comune natale di Mascagni, ha deciso di promuovere la pubblicazione critica e commentata di quel manoscritto conservato per anni dal nipote Andrea.

caporetto-modi-di-direFra i fattori che hanno consigliato la stampa e che costituiscono uno dei principali elementi di legittimazione di questo testo memorialistico vi sono l’interesse e il rilievo dei fatti narrati, l’affidabilità dei ricordi attestati dalla precisione, facilmente riscontrabile, con cui l’autore ricorda ed espone con essenzialità antiretorica molti dettagli.

Al pari di tanti altri che ci hanno lasciato volontaria o involontaria testimonianza dell’evento epocale a cui la giovane recluta di Rosignano fu chiamata suo malgrado ad assistere, il manoscritto ci dice qualcosa di piuttosto consueto. Vi riecheggiano i temi di tanta scrittura popolare di guerra: la nostalgia di casa, la convivenza quasi quotidiana con i disagi della fame o con il tormento dei pidocchi, il costante rumore degli spari o delle esplosioni in sottofondo, l’assillante ripetitività delle mansioni militari, il senso macerante dell’attesa, le angherie di molti superiori, gli eroismi o la viltà dei singoli. Anche nelle molte pagine dedicate alla rotta di Caporetto i dettagli e gli episodi riportati (dai violenti saccheggi all’abbandono dei feriti e dei più deboli al loro destino, dal panico diffuso per l’incalzare degli austriaci alla ricerca angosciosa del cibo) coincidono con la narrazione di altri memorialisti del drammatico evento.

Ma allo stesso tempo con la sua soggettività, differente da quella di tutti gli altri, Mascagni ci comunica cose assolutamente personali che afferiscono alla sua esperienza. Pur nelle maglie spersonalizzanti della macchina bellica, nelle sue regole ferree e spietate, resta lo spazio per l’emergere dei suoi sentimenti, dei suoi stati d’animo, ma anche di sue autonome iniziative. Se affiora nelle pagine un profondo senso di lealtà, che lo porta a svolgere con coscienziosa dedizione ogni compito militare assegnatogli, nei momenti più drammatici l’etica che alimenta questo stesso sentimento, non privo talora di sfumature e risvolti di senso comune patriottico, lascia spazio a un più ampio e universale umanesimo, a un moto di pietà quasi cristiana. In quei frangenti sembrano allora assottigliarsi, fino quasi a scomparire, le feroci contrapposizioni alimentate dagli odi nazionali, come nel caso dell’atteggiamento di profonda pena provato alla vista della massa sbandata dei prigionieri austro-ungarici dopo l’armistizio; o ancora si aprono nel fluire neutro e realistico della narrazione, come squarci improvvisi e illuminanti, prese di posizione, subito riassorbite dai doveri pratici dettati dalle esigenze richieste dell’ingranaggio bellico, sull’assurdità e l’insensatezza della guerra. Posto di fronte all’estremo, all’esperienza cioè della scoperta della morte, il senso dell’umana solidarietà pare insopprimibile a ogni imposizione ideologica o disciplinare.

Il primo incontro con un cadavere è così un’esperienza sensorialmente forte che arriva attraverso la propria mano «intrisa di sangue» ritratta di scatto dalla «faccia sfracellata» di un «povero disgraziato», il cui corpo giace nella cavità di un piccolo riparo di fortuna in cui Mascagni ha cercato di trovare invano momentaneo riposo; un’amara sorpresa che lo spinge ad annotare quanto «Questa veramente fu la prima impressione che mi rimase per valutare a pieno quali e quante siano le brutture della guerra». Non si può poi trattenere lo sgomento nell’essere obbligati dai comandi ad assistere alla fucilazione di un giovane caporal maggiore, attraverso la cui straziante vicenda si fa «una conoscenza diretta […] di ciò che è la legge iniqua della guerra». Si tratta solo delle prime di una serie di vittime che lastricheranno tutto il prosieguo della narrazione, dove non di rado si muore in maniera assolutamente antieroica per accadimenti fortuiti o per decisioni spietate; del resto di fronte all’impressionante racconto della scelta di far saltare un ponte «ancora brulicante di soldati» per l’incalzante arrivo degli austriaci durante la rotta del 1917, con popolaresca saggezza Mascagni annota: «la guerra non ha legge che perdona».

Non essendo le motivazioni della stesura del testo, diversamente dai suoi tempi («Riscritto dopo 44 anni»), chiaramente esplicitate, si può supporre che proprio la percezione delle implicazioni morali delle vicende vissute che affiora da questi episodi abbia fatto da notevole impulso al bisogno di raccontarle confidandole alle pagine di un quaderno.

Se il contesto d’ambiente iniziale della cronistoria fatta da Mascagni è quello, comune ad ogni coscritto, delle immediate retrovie del fronte e della linea di trincea, grande spazio è riservato alla lunga marcia imposta dalla ritirata, che segna buona parte della vicenda militare di Mascagni arrivato in zona di guerra poche settimane prima dell’evento spartiacque di Caporetto. Le vicende dell’arretramento del fronte e del suo consolidamento si saldano nell’anno seguente con quelle che portano alla controffensiva finale e all’armistizio del 4 novembre. La memoria si chiude a dopoguerra inoltrato, spingendosi fino agli inizi del 1920, momento del definitivo congedo.

1wwL’incipit narrativo non manca di un’involontaria efficacia letteraria, conducendoci senza preamboli direttamente dentro il clima della guerra e delle retrovie del fronte, quasi a trasmettere il senso di impreparazione e il modo improvviso con cui il giovane narratore fu gettato dalla provincia toscana in un evento più grande di lui. La scrittura procede con il succedersi degli avvenimenti, in cui la parte del leone la fa, sia nell’economia del testo che nello sconvolgimento emotivo che produce suoi protagonisti, il dramma della disfatta di Caporetto. Una tragedia che rompe l’equilibrio e la monotonia della vita al fronte e che imprime d’un tratto un maggiore dinamismo, specchio della concitazione del momento, alla stessa narrazione; in soli cinque giorni, in una marcia a tappe forzate e quasi senza soste, Mascagni e i suoi compagni di sventura coprirono del resto ben 155 chilometri di territorio. Ma la loro discesa agli inferi impose anche un’accelerazione macroscopica ad alcune delle logiche più dure della guerra e alla sua carica di violenza. Alla violenza primordiale innescata dall’istinto di sopravvivenza, alle fatiche delle marce quotidiane, all’ossessionante ricerca di cibo, alla decimazione dei reparti e delle compagnie e ai morti e ai feriti lasciati al loro destino. Se l’epopea di Caporetto in cui Mascagni è pienamente coinvolto è familiare a tutti, è invece meno noto il contesto in cui si svolse l’epilogo della sua vicenda. La sua guerra finì infatti ben oltre il termine armistiziale del conflitto, impegnato come molti altri mobilitati a partecipare al processo di normalizzazione delle aree a ridosso del fronte. Nella parte conclusiva del manoscritto lo troviamo così coinvolto nella faticosa opera di costruzione di cimiteri di guerra chiamati a dare sepoltura alla gran quantità di morti insepolti o sotterrati alla meglio fra le trincee; cimiteri militari edificati tuttavia anche per dare risposta a uno dei maggiori problemi di ordine culturale lasciati in eredità dall’immane disastro della prima guerra mondiale, quello dell’elaborazione di un lutto di portata spaventosa e di un conseguente sentimento di perdita senza precedenti.

Partecipa inoltre al controllo e al “governo” di un altro grande dramma, quello della smisurata quantità di persone fatte prigioniere, persone che nel suo piccolo è chiamato a gestire con l’affidamento di incarichi di responsabilità, e con cui intesse rapporti di sincera amicizia, trovando persino in un giovanissimo orfano mussulmano di origini bosniache un valido assistente trattato con atteggiamento quasi paterno. Un rapporto personale di cui ci è rimasta una bella fotografia, qui a fianco riprodotta, che Mascagni volle “regalare” a quell’ex nemico, divenuto in poche settimane suo fedele alleato, durante un’uscita a metà fra lavoro e svago a Bassano del Grappa. Tornati al campo di prigionia, la fotografia incontrò talmente l’entusiasmo di altri prigionieri che Mascagni ne fece stampare sessanta copie perché fra le tende in cui cechi, slovacchi, serbi, austriaci, ungheresi e tedeschi, dalmati, rumeni, bulgari venivano ospitati alla meglio molti la avessero come ricordo. Una concessione quasi frivola, dopo tante tragedie e tanta spaventosa serietà, che rivelava tuttavia una carica di grande umanità e a conti fatti il sentimento di estraneità verso la guerra di tanti semplici commilitoni dei vari fronti in lotta. L’ubriacatura nazionalistica non era finita, pronta a riesplodere solo meno di vent’anni dopo, ma per il comune milite di Rosignano quella stagione si era definitivamente chiusa in quel campo di tende freddo e desolato, sorto per caso, in un angolo sperduto di un’Europa devastata.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio

Maria De Unterrichter Jervolino

Maria De Unterrichter Jervolino

[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




“Io sono quel che sono..”: storia di Alberto Baumann, ebreo.

Io sono quel che sono… io vivo ai margini della città… sono un ragazza di strada” cantavano nel lontano 1966 i Rokes in una canzone che, sebbene temporalmente successiva, ben rappresenta l’infanzia “complicata” che Alberto Baumann passò a Montecatini.

Alberto è stato definito un “artista eclettico, un cantastorie sfacciato, un comunicatore innovativo”, ha scritto poesie, racconti e canzoni, realizzato opere pittoriche e gioielli in oro e argento, è stato un giornalista creatore di format televisivi. Ha vissuto da personaggio “contro”: dopo essersi sposato nel 1963 con Eva Fisher, una donna di tredici anni più grande di lui, recandosi in bicicletta in Campidoglio a Roma, decise nel 1967 di partire per la Guerra dei Sei Giorni come corrispondente di guerra lasciando a casa la moglie e un figlio di tre anni.

È stato soprattutto un ebreo, se non forse per religione, sicuramente per senso di appartenenza, soprattutto a partire dall’emanazione delle leggi razziali nel 1938.

Alberto Baumann nacque “per caso”, come diceva lui stesso, a Milano nel 1933 e giunse all’età di due anni a Montecatini Terme dove il padre ungherese Alessandro, un giornalista rimasto a vivere in Italia dopo essere stato inviato al seguito dell’esercito austro-ungarico aveva assunto l’incarico di direttore dell’Ufficio Propaganda, quello che oggi si sarebbe chiamato Ufficio Relazioni Esterne delle Terme e scriveva articoli a sfondo turistico. Con il suo humour diceva che, rincorrendo gli italiani, era arrivato a Viareggio, città nella quale con una cavalleria “da Belle Epoque”, aiutandola a scendere dalla carrozza, visto che aveva una gamba ingessata, conobbe Estelle Piperno, livornese di famiglia ma nizzarda di nascita, che divenne poi sua moglie. Per uno degli strani casi della storia il padre di Estelle, Alfredo, aveva combattuto contro gli austriaci nella guerra appena conclusa.

Montecatini divenne così la città di adozione di Alberto e il teatro della sua vita da “ragazzo di strada”. Nel 1938, a causa delle leggi antiebraiche, il padre, ebreo, apolide e recalcitrante ad indossare il distintivo fascista venne confinato a Ruoti[1], in provincia di Potenza. La Lucania, la terra che meritava il plauso del Duce perchè “non era sufficientemente infetta da tutte le correnti perniciose della società contemporanea” era diventata la terra di esilio per gli oppositori del regime. Alessandro Baumann tornerà a Montecatini in una sorta di licenza per un paio di giorni solo nel 1942.

Il 1938 fu anche l’anno in cui il giovane Baumann avrebbe dovuto fare il suo ingresso nel mondo dell’istruzione. A causa delle già citate leggi leggi razziali non potè però frequentare ufficialmente le aule scolastiche. Come scriveva nei suoi ricordi Alberto, per gli amici Berzi, cioè Albertino in ungherese, grazie al suo spirito di adattamento e all’aiuto del maestro Gennai, continuò però a varcare la soglia della scuola, pur non figurando ufficialmente in quanto ebreo. Ricordava infatti che: “A scuola andavo però non mi sedevo sul banco, oppure mi sedevo e non facevo niente. I compiti li scrivevo ma non me li richiedevano mai… Seguivo le lezioni adagiato in fondo alla classe, sebbene alcune volte riuscivo a farmi spazio tra alcuni compagni, come un fantasma che tutti potevano notare senza poterlo vedere”.

Nel 1939 rimase orfano della madre e, con il padre lontano, fu costretto con la sorella Iolanda, della Loly, a vivere presso i nonni materni titolari di un “banco” di stoffe. Amava rammentare, come segno della povertà familiare, che le cinquanta lire trovate nelle tasche dei pantaloni che il nonno indossava al momento della morte furono usate per pagare il suo funerale.
Per superare le continue difficoltà economiche, la nonna produceva con del sughero tomaie per zoccoli, mentre il nipote si recava in campagna per racimolare rape, barbabietole e la farina gialla con cui fare della polenta.

Il problema del cibo era una costante tanto che i ragazzi della banda di Alberto, il gruppo di via Cappellini di cui faceva parte tra gli altri anche Renzo Montagnani, avevano l’ordine, una volta usciti da scuola, di non tornare a casa se non con qualcosa da mangiare. Montecatini all’epoca era un grande “lazzarett”, cioè un ospedale militare tedesco e così per trovare qualcosa da mettere sotto i denti Alberto si intrufolava spesso nel parco dell’Hotel La Pace dove cercava gli avanzi dei pasti che i degenti meno gravi avevano consumato passeggiando.

Mi ricordo pezzi di pane tedesco con burro e marmellata, questo pane nero… golosamente si mangiava, se te lo davano. E poi si andava a fare castagne, cioè a rubare castagne sulle colline“.

Spesso il giovane Baumann andava ad “aprire il negozio del nonno”. Doveva prendere in pratica una tavola di due metri per uno e mezzo, trovare due “caprette” sulle quali adagiare la tavola stessa e disporre su questo elementare “banco” le mercanzie disponibili per la vendita, cioè tovaglie, cravatte, calzini.
Un giorno con i suoi amici di Via Cappellini, tutti ugualmente affamati, salì su un carro armato tedesco fermo in colonna. Introdotta la mano nel mezzo sottrasse al soldato tedesco addormentato al comando un mitra Mauser con cui, assieme ai compagni, si divertì a imparare a sparare. Il mitra venne poi, con grande rammarico di tutti, preso in consegna da un partigiano.
Alberto nelle settimane seguenti vide con terrore, mentre cercava di trovare le cicche con cui barattare con i contadini del cibo, due persone impiccate nella piazza principale di Montecatini. Al loro corpo era attaccato un cartello con scritto “Questo succede a chi tradisce i soldati tedeschi”. Mentre Alberto passava le donne amiche dei nazisti fotografavano.

Più o meno negli stessi giorni parte degli ebrei catturati in seguito a una soffiata nella retata di Montecatini venne radunata nell’albergo Croce di Malta. Fra i catturati figuravano, a detta di Alberto, anche due fratelli poliomelitici di nome Fiorentino, che erano stati presi con la madre[2] e il signor Abel Colembiowsky, un polacco che girava la città cercando di vendere oggetti utili per il ricamo e il cucito contenuti in una cassetta che portava al collo. La nonna di Alberto decise di mandarlo da quest’ultimo per restituirgli un vassoio di argento che il polacco le aveva prestato. Colembiowsky, alla vista di Alberto nella hall dell’albergo, resosi conto del fatto che questi rischiava di essere riconosciuto in una hall piena di SS e di ebrei come lui, lo cacciò via urlando “come un cane con la bava alla bocca” salvandogli così probabilmente la vita[3]. Nelle ore successive si sparse la voce che le persone catturate fossero state portate in una cittadella vicina, nessuno immaginava all’epoca che la destinazione finale fu il lager.
La scena dell’impiccagione, la retata di Dannecker e il rischio corso nell’albergo da Alberto spinsero nonna Anita a cercare, dopo aver sistemato la piccola Anita dalle suore di don Bosco a Montecatini, di organizzare la fuga del nipote.

Scappato nelle campagne, il ragazzo trovò degli artisti circensi di Firenze che lo presero con loro insegnandogli dei giochi e facendolo esibire. Alberto ricordava di essersi divertito un sacco in quel periodo e di aver imparato molti trucchi che avrebbe usato in seguito anche con i figli, come quello della “sigaretta mangiata” che rispuntava nella sua bocca integra dopo alcuni minuti.

Grazie ad una carta di identità falsa intestata a un inesistente “Gino Fabbri nato a Montecatini il 12 maggio 1933” fornitagli da Monsignor Barni, con cento lire in tasca e un biglietto ferroviario di sola andata, Alberto si recò alla stazione di Montecatini per prendere il treno che lo avrebbe condotto a Sacile, nei pressi di Pordenone. Lungo la strada Alberto si sentì chiamare “Picolo picolo” da un soldato tedesco affacciato a un balcone che gli lanciò un vasetto di marmellata solida. Forse, raccontava con ironia Alberto, “se quel soldato si fosse accorto che ero ebreo non l’avrebbe fatto”.

Nella cittadina veneta, a detta di don Barni[4], avrebbe dovuto incontrarsi con un sacerdote che lo avrebbe ospitato. Nella concitazione di quei momenti il prelato si era sbagliato sul conto dell’amico sacerdote che purtroppo era deceduto ormai da anni. Alberto si trovò quindi solo in un paese sconosciuto e alla mercé di chiunque. Non aveva con se nulla se non pochi vestiti: una maglia girocollo, un paio di pantaloni alla zuava e scarpe troppo grosse per lui. Decise di tornare in Toscana a piedi e trovò rifugio presso la casa di un operaio padre di cinque figli. Questi, dopo averlo ospitato per alcune sere, gli domandò se per caso fosse ebreo e di fronte alla risposta affermativa del giovane con le lacrime agli occhi lo invitò ad andarsene perchè temeva per l’incolumità dei suoi familiari. Gli donò quindi dei soldi e lo accompagnò alla porta.

Vagò a questo punto per alcuni mesi nell’Italia occupata dai nazisti fino a quando incontrò i soldati americani della 5a Armata dei quali divenne una delle mascotte.

Tornò a Montecatini poco prima della Liberazione e si unì a un gruppo di ragazzi più grandi. che lo spinsero a compiere delle azioni di sabotaggio. I nazisti in ritirata cercavano di far saltare con dei candelotti posti ogni 200-300 metri le linee ferroviarie per ostacolare l’arrivo delle truppe alleate. Il suo compito, realizzato con incoscienza e grande divertimento, era quello di spiare i nazisti all’opera e di recuperare l’esplosivo quando questi si erano allontanati impedendo così che la ferrovia venisse distrutta. Ricordava così quel periodo: “E un giorno si vide passare un gruppo di tedeschi che facevano delle buchette sotto il binario. Erano quattro o cinque, facevano questa buchetta, dopo di che riprendevano urla specie di trenino che si guidava con le mani… Andavano avanti e arrivavano altri quattro o cinque, dopo un po’, e mettevano la dinamite, la gelatina, in questa buca per far saltare il binario. Il mio amico Alvaro, molto più grande di me e mio vicino di casa, mi chiamò e mi disse “Berzi”…anzi mi ricordo quando me lo disse aveva il manico della pistola, bianco, che gli usciva di qua… Berzi, vali lì e levagli tutto quello che hanno messo dentro. Te strappa…” Collaborava, senza saperlo, con i partigiani della brigata Garibaldi e di Giustizia e Libertà[5].

45827559_2158044134228805_6909145466227654656_nIl padre tornò a Montecatini nel 1945 dopo essersi trattenuto a Ruoti per svolgere l’attività di interprete per il principe Ruffo di Calabria con gli ufficiali anglofoni sbarcati in Italia e di istitutore di inglese della principessa Maria Lucia Ruffo. “Era un professore di inglese e altre lingue splendido, mio padre. Si fermò a Roma, e poi venne su e arrivò. Io mi ricordo quando torno. Da anni non lo vedevo più ma l’avevo sempre presente perchè mia nonna non faceva altro che raccontare di papà. E stavo accendendomi una cicca, pensa te, ero terrorizzato. Io non fumavo davanti a mio padre nemmeno quando avevo vent’anni. Mi misi una cicchetta in bocca e in quel mentre vedo una jeep che si ferma proprio davanti a casa mia, con un ufficiale. E vedo mio padre che scende. La prima cosa… Non sapevo se inghiottire questa cicca o cosa… So che in qualche modo la spensi, la buttai. E poi entrò mio padre, abbracci e baci“.
Ricordava la liberazione di Montecatini come una festa di biciclette. Tutti gli abitanti tirarono fuori dalle loro case le bici che avevano nascoste per evitare che venissero prese dagli occupanti. I poliziotti avevano una fascia al braccio con la scritta CLN, cioè “Comitato di LIberazione Nazionale”. Finita la guerra Alberto trovò lavoro come fattorino in un albergo del lido di Venezia e poi nel ’52 venne “adottato dalla città di Roma dove cominciò a lavorare presso l’Hotel Continentale come cassiere del ristorante e segretario dell’albergo. Scoprì presto via Margutta, che divenne la “sua” strada, e Piazza di Spagna, dalle quali rimase folgorato. Si intratteneva spesso presso il bar Notegen dove conobbe i più grandi esponenti della vita culturale romana dell’epoca: Campigli, Mafai, Amerigo Tot. Il padre andò a trovarlo solo una volta a Montecatini e morì a sessantuno anni senza che il figlio potesse  funerale a causa della mancanza di soldi. A fine anni Cinquanta con una inchiesta sulla sinagoga di Roma per la rivista “Roto sei-Sei rotocalchi in uno” cominciò a dedicarsi al giornalismo e incontrò il rabbino Elio Toaff. Collaborò con la rivista Il Mondo diretta da Pannunzio grazie ad Aldo Garosci, amico dei fratelli Rosselli e co-fondatore di Giustizia e Libertà. Nel 1963, come già detto, si sposò in Campidoglio in bicicletta con Eva Fischer, cittadina iugoslava unitasi alla lotta partigiana italiana. È stato l’ideatore di Shalom, il primo quotidiano degli ebrei italiani e animatore del gruppo di amici composto fra gli altri da Enrico Modigliani, Mariolino Di Segni e Ariel Toaff che nei primi anni Settanta si impegnò per cancellare le scritte antisemite ricorrenti all’epoca sui muri della capitale. Negli anni Settanta affiancò all’attività di giornalista quella di scrittore, creò per una TV locale il controgiornale, una trasmissione di news ironica che ebbe un notevole successo tanto che un noto imprenditore milanese gli chiese, ottenendo una risposta negativa, di trasferirsi al Nord per lavorare con lui. A partire dagli anni Ottanta ha esteso i suoi interessi anche alla pittura.

Alberto è scomparso il 1 novembre 2014 nella sua casa di Trastevere a Roma. Amava dire spesso con il solito spirito “In Italia il due novembre ricordano i morti… chissà se quest’anno nonno Alfredo arriva primo!”.

[1]Ruoti è un comune italiano di 3551 abitanti della provincia di Potenza in Basilicata facente parte della Comunità Montana Marmo Platano (fonte Wikipedia)
[2]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non figurano uomini di nome Fiorentino catturati. Risultano invece arrestate e deportate ad Auschwitz due sorelle: Ada Fiorentino, nata a Roma il 9/12/1866, arrestata il 5/11/43, partita il 9/11/43 e arrivata ad Auschwitz il 14/11/43 e Margherita Fiorentino, nata a Pisa il 22/8/1888. E’ possibile che ad anni di distanza Alberto confonda i nomi indicati con i volti di altre persone.
[3]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non risultano deportati con questo nome. Forse il signore citato riuscì a sfuggire alla cattura.
[4]Don Guido Barni, nato a Montevettolini, laureato in teologia e filosofia, venne nominato nel 1912 parroco di Santa Maria Assunta a Montecatini. Resse la parrocchia fino al 5 agosto 1952. Fra le sue opere ricordiamo nel nel1917 l’istituzione dell “l’ospizio della Carità” e di una biblioteca circolante
[5]Le brigate Garibaldi operanti durante la Resistenza erano organizzate dal Partito Comunista Italiano e composte quindi principalmente da comunisti. Furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono il maggior numero di perdite. I suoi componenti si distinguevano per un fazzoletto rosso che portavano al collo. Le brigate di Giustizia e Libertà erano legate al Partito d’Azione e coordinate da Ferruccio Parri. I suoi componenti si distinguevano per l’uso di un fazzoletto verde.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




Un pratese “Giusto tra le Nazioni”

La vicenda di Gino Signori è abbastanza eccentrica rispetto ai miei interessi di storico, dato che io mi occupo prevalentemente di storia del movimento operaio e contadino, del sovversivismo e dell’anarchismo. Tuttavia, quando Manuele Marigolli e Fiorenzo Fiondi mi proposero di ricostruirla per conto dell’Associazione culturale per il lavoro e la democrazia, accettai subito con molto interesse. Riproporre oggi la figura di Signori, noto ai più soltanto come pittore, in un momento in cui l’intolleranza e l’odio per i diversi  sembrano prevalere assume infatti un particolare significato perché ci fa capire che i valori della solidarietà sono valori perenni, valori che non vanno mai dimenticati.

L’esistenza di Gino Signori è stata, nel contempo, un’esistenza comune ed eccezionale.

Nato a Barga nel 1912 in una famiglia di modeste condizioni che si trasferì negli anno Venti a Schignano e successivamente a Figline di Prato, Signori non ebbe modo di compiere studi regolari e cominciò a lavorare da ragazzo, prima, per un breve periodo, alla Direttissima e poi in fabbrica.

Richiamato alle armi nel 1941, venne catturato dai tedeschi all’Isola d’Elba pochi giorni dopo l’8 settembre ed immediatamente avviato in Germania. Dal punto di vista giuridico, la condizione di Gino era quella di “internato militare”, una categoria inventata dai nazisti per sottrarre i prigionieri di guerra italiani alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra ed all’assistenza della Croce rossa (nel diritto internazionale gli internati militari sono in realtà i soldati di uno stato belligerante sconfinati nel territorio di uno neutrale che ha l’obbligo di trattenerli per evitare che tornino a combattere).

Rispetto ai suoi compagni, Gino aveva due vantaggi: era in possesso della qualifica di infermiere specializzato e parlava discretamente il tedesco. Nell’estate del 1944 egli si trovava ad Amburgo dove, come infermiere, si prendeva cura delle vittime dei micidiali bombardamenti cui era sottoposta la città e godeva quindi di una relativa libertà di movimento.

Una sera, mentre si recava da Finkenwerder all’ospedale di Amburgo, Gino si imbatté in una colonna di ragazze ebree. Quelle che restavano indietro venivano sistematicamente eliminate. Signori vide che una ragazza, che non ce la faceva a tenere il passo della colonna, stava per essere uccisa: ubbidendo allora ad un impulso più forte di lui, e rischiando la propria vita, affrontò il soldato armato di mitra che stava per sparare alla ragazzina e lo convinse a risparmiarla.

Quella ragazza era un’ebrea praghese che rispondeva al nome di Hana Tomesowa. Gino la nascose nel campo dove era internato fino al momento della liberazione e, contemporaneamente, aiutò anche molte altre giovani israelite, fornendo loro cibo ed assistenza.

Tornato a Prato, Signori non si fece pubblicità, non parlò molto di questa esperienza, che pure aveva segnato la sua vita e sarebbe stata alla base della sua arte. Nel 1964, vent’anni dopo i fatti, venne però contattato da un camionista bresciano, un certo Giuseppe Bosio, che aveva avuto modo di conoscere Hana nell’albergo dove essa lavorava. Hana gli aveva chiesto di cercare il suo salvatore, fornendogli i pochi dati di cui disponeva, ed alla fine Bosio era riuscito nell’intento. Nel giugno del 1964 Hana venne a trovare Gino nella sua casa di Figline: a testimonianza di quell’incontro resta anche la foto che pubblichiamo, in cui si vede chiaramente Signori mentre osserva il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di Hana.

Nel 1984, al termine di una procedura lunga e complessa, Yad Vashem – l’istituto commemorativo dell’Olocausto, che ha sede a Gerusalemme e si occupa di rintracciare e ricordare i non ebrei che, disinteressatamente ed a rischio della vita, aiutarono gli ebrei negli anni delle persecuzioni naziste – attribuì a Gino la qualifica di Giusto fra le Nazioni. La medaglia dei Giusti gli venne consegnata l’anno successivo, nel corso di una cerimonia svoltasi nel Palazzo comunale di Prato.

Questa, in estrema sintesi, la vicenda di Gino Signori. A questo punto bisogna chiedersi perché egli agì come agì, quali furono le motivazioni del suo coraggioso comportamento. Ebbene, se nei documenti e nella memoria di chi lo ha conosciuto cerchiamo una risposta a questa domanda, vediamo che Gino – al pari degli altri Giusti fra le Nazioni, a cominciare da Giorgio Perlasca, quello forse più famoso – trovò del tutto naturale mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di una innocente.

Signori chiude così i suoi ricordi:

Io […] ho l’anima in pace in quanto non ho nulla da rimproverarmi perché ho rischiato più volte la […] vita per fare del bene agli altri […] Se dovessi ripercorrere quel Calvario di sofferenza, non mi discosterei di un sol passo dalla condotta da me tenuta.

“Fare del bene agli altri” è dunque una cosa da considerare del tutto naturale e – si potrebbe dire – quasi scontata. La malvagità e la violenza sono innaturali. Questa, al di là di ogni retorica, è la grande lezione che Gino ha saputo darci.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

vernet

Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.