Alberto Torricini

Alberto Amilcare Torricini nacque a Prato il 9 marzo 1906. Di professione impiegato, poi rappresentante di commercio, aderì giovanissimo al Partito Comunista (quasi tutte le notizie su di lui, contenute in questo articolo, sono desunte dal fascicolo del Casellario politico centrale che lo riguarda).

Nella primavera del 1932 Torricini, che non aveva all’epoca alcun precedente, fu colpito da mandato di cattura in quanto membro di un’organizzazione comunista clandestina attiva a Prato. Rifugiatosi a Lione, il 30 giugno 1932 fu denunciato in stato di latitanza al Tribunale speciale per la difesa dello stato. Venne inoltre iscritto nel Bollettino delle ricerche e nella Rubrica di frontiera per il provvedimento di arresto.

In seguito, per incarico del PCI e sotto falso nome, si stabilì a Milano, dove continuò l’attività antifascista.

Il 22 maggio 1936 fu arrestato e denunciato nuovamente al Tribunale speciale dall’ispettore generale di PS Francesco Nudi. Torricini, si legge nella denuncia, “Sottoposto a ripetuti interrogatori […] ha ammesso […] la sua qualifica di emissario comunista, precisando di essere stato incaricato nel marzo 1936 dai dirigenti del partito comunista all’estero di venire nel Regno […] per […] diffondere la stampa. Ha dichiarato però di non voler fare alcuna rivelazione”. Dalle dichiarazioni di altri arrestati, risultò però che Torricini li aveva incaricati di spedire giornali e materiale di propaganda.

Sulla base di queste accuse, Torricini venne condannato, con sentenza emessa l’11 dicembre 1936 a ben 21 anni di reclusione (che iniziò a scontare a Fossano, Civitavecchia e Sulmona). Autodidatta avido di letture, egli chiese, durante gli anni trascorsi in carcere, di essere autorizzato ad acquistare numerosi libri: è interessante osservare che fra questi figurava anche La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville, che il Ministero della cultura popolare (Direzione generale per il servizio della stampa italiana) giudicò, naturalmente, inadatto ad un condannato politico. Liberato nell’agosto 1943 per un “atto di Sovrana clemenza”. Torricini fece ritorno a Prato. Attivo nelle file della Resistenza, fu l’artefice della riorganizzazione dei sindacati e, dopo la liberazione, venne scelto dal CLN come segretario della ricostituita Camera del lavoro.

Negli anni successivi – stabilitosi in una casa di via Machiavelli, dove è stata poi collocata una lapide che lo ricorda – egli continuò l’attività politica, coprendo numerosi incarichi: consigliere comunale per il PCI fino al 1970, fu anche dirigente dell’ANPPIA e consigliere della Croce d’oro.

Morì a Prato il 10 dicembre 1981.

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




Mazzino Chiesa, un uomo in mare

«Il bacino occidentale del Mediterraneo può venire considerato nel suo complesso come un unico mercato del lavoro per l’emigrazione italiana, nonostante le diverse condizioni, sia giuridiche, sia economiche dei paesi che ne fanno parte»: così scriveva il Commissariato generale dell’emigrazione nel 1926, riportando la stretta connessione e circolarità esistente tra le diverse sponde del Mediterraneo, in cui si venivano a intrecciare antichi insediamenti italofoni legati al commercio e alle professioni liberali, con nuovi flussi dell’emigrazione da lavoro attratti dagli interventi infrastrutturali, dalle attività portuali o minerarie, oltre che dai più tradizionali mestieri agricoli o servizi urbani. Alla metà degli anni ’20 si può stimare un totale di 550.000 persone di nazionalità italiana che vivevano stabilmente nei territori bagnati dal mar Mediterraneo e che intrattenevano con il paese di origine rapporti più o meno fitti e continui. Si trattava con ogni probabilità della più numerosa nazionalità in emigrazione nell’intero arco mediterraneo, considerando le minori dimensioni demografiche di Grecia e Malta, altri paesi con un’importante diaspora marittima.

Così come era successo con l’emigrazione politica degli esuli risorgimentali, lo spazio mediterraneo tornò a essere durante il periodo fascista un luogo di rifugio per gli emigrati politici avversati dal potere in Italia: gli antifascisti trovarono nei porti del “mare di mezzo” una risorsa molto importante per sfuggire alle maglie della repressione fascista e allo stesso tempo poter continuare a tenere rapporti con la società italiana.

L’intricato campo di relazioni dei sovversivi antifascisti che univa le coste del Mediterraneo si basava sulla presenza stabile delle comunità italiane all’estero, ma aveva poi bisogno di vettori e persone mobili che facessero da tramite. È il caso di Mazzino Chiesa, nato nel 1908 in un quartiere popolare di Livorno. La sua storia è strettamente legata al mare e al partito comunista: di madre valdese e di indole anarchica, fu attivo politicamente sin da giovane in un comitato sindacale comunista. Possiamo ricostruire la sua vicenda a partire dal fascicolo personale conservato nei faldoni della Polizia politica presso l’Archivio Centrale dello Stato e dall’intervista che gli fece Iolanda Catanorchi nel 1974, disponibile online.

chiesa_2A 17 anni si imbarcò per un trasporto oltreoceano, senza avere però l’accortezza di passare ai compagni le consegne delle sue attività politiche. Commise così una grave imprudenza: «avevo del materiale del soccorso rosso e dei soldi in casa e sono partito […] imbarcai a bordo di questo vapore […] partimmo e io nel partire siccome avevo lasciato tutto il materiale a casa e non avevo avuto il tempo di fare… […] scrissi una lettera a mia madre, scrissi: “cara mamma dietro al quadro trovi il materiale, dallo a Gino”». La lettera fu intercettata dalla polizia, che a distanza seguì gli spostamenti del vapore fino al suo rientro. «Ritornando da Montereale [Montreal, n.d.a.], dal Canada, avevamo caricato del grano, quando arrivammo nel porto di Napoli, fuora, nel golfo di Napoli, vedemmo dei motoscafi della milizia che circondavano il vapore, difatti diedero ordine al comandante di dar fondo fuora. Quando fummo fermi ci invitarono tutti al centro…». Non ancora maggiorenne Chiesa venne arrestato per la prima volta e portato al carcere minorile di Napoli, quindi a Regina Coeli e poi a Livorno.

Da allora fu costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine. Nel 1931 Chiesa venne a sapere che era stato spiccato un mandato di cattura e decise di partire per la Corsica insieme ad altri quattro ricercati, con una barca comprata per l’occasione. «Quasi tutta a remi ce la siamo fatta, 42 ore ci abbiamo messo, siamo stati più bischeri noi, perché non c’era vento, non abbiamo trovato…». Stabilitosi a Bastia con altri fuoriusciti comunisti, si fece notare per la vivace propaganda antifascista. Nel novembre 1931 venne arrestato per aver picchiato a sangue Vasco Patania, un altro livornese venuto a Bastia insieme a un commerciante di stoffe, ritenuto un agente dell’Ovra. Nonostante la gravità delle percosse (in seguito alle quali Patania morì in un sanatorio a Livorno) il processo si concluse con una lieve condanna, un mese di prigione che Chiesa aveva già scontato, come riferiva alla polizia italiana un’informativa anonima:

Il Chiesa è così uscito glorioso e trionfante, accolto dai compagnoni suoi, fra gli applausi generali. […] l’avv. Moretti di cui già altra volta abbiamo parlato per il suo antifascismo […] fra gli unanimi applausi sostenne invece che il Chiesa è un perseguitato politico dovuto fuggire dalla sua patria perché odiato dal Fascismo […]. Il processo è emerso [sic] una requisitoria antifascista che ha fatto andare in sollucchero i fuoriusciti che in gran numero si erano dati convegno nell’aula e nelle adiacenze del Tribunale. Il Chiesa Mazzino non appena uscito è tornato alla carica ed alla sera stessa ha tenuto una concione antifascista sulla banchina del Porto (malgrado il freddo) e dinanzi agli operai della “Impresa Vestrini” ha parlato ancora delle necessità di naturalizzarsi francesi per evitare di tornare in Italia a morir di fame sotto la sferza del fascismo. I soliti canti antifascisti hanno posto termine alla gazzarra senza che la polizia intervenisse.

 Partì quindi verso Marsiglia e si recò a Parigi. Qui prese contatto con i vertici del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) in esilio: lavorò dapprima per il Soccorso rosso, poi insieme a Giuseppe Di Vittorio iniziò a occuparsi dell’organizzazione della propaganda presso i lavoratori dei porti. Dopo aver partecipato con lo stesso Di Vittorio a un congresso internazionale dei portuali ad Altona, vicino ad Amburgo, entrò ufficialmente nell’organizzazione sindacale per conto del partito.

Alla fine del 1932 i servizi informativi fascisti lo individuavano come «un rappresentante della federazione italiana dei lavoratori del mare» (Film), inviato dal comitato centrale del Pcd’i a Marsiglia «allo scopo di tentare di organizzare in detta associazione i marittimi delle navi mercantili italiane che toccano quel porto»: «costui frequenta spesso il Club dei marittimi di Marsiglia, cercando di avvicinare connazionali ai quali distribuisce stampa del partito e tessere». Prese contatto tra gli altri con gli ambienti dei portuali di Genova, Livorno, Savona, Napoli: «andavo nei porti, creavo i comitati di diffusione e stampa, e poi attraverso questi prendevamo contatti con i marinari e dovevamo andare molte volte negli ambienti equivoci, molte volte passavamo per magnacci, altre volte passavamo per contrabbandieri, altre volte… perché i marinari si trovano lì, non si trovano…».

Come ha ricostruito Paolo Spriano, nella storia ufficiale del Partito comunista, «in questo periodo [tra 1933 e 1934] una buona parte della propaganda clandestina comunista che riesce a penetrare nel Regno ha come veicolo i marittimi, e la polizia aumenta la sua sorveglianza sugli equipaggi». Per poter svolgere questa attività e sfuggire al controllo poliziesco, Chiesa assunse differenti identità, in un gioco di dissimulazione che gli apparati di sicurezza italiani stentavano a seguire: Mario Landrelli, Mario Sandrelli, Assante Puntoni, Luigi Lenzi, Mario Luschi, Mario Lucchi, André Bernard, Masianello, Silverio, Masini, Alfredo o Alfredone, Ernest Morioli, Ernst Boschi, Roque Celeste Amado sono alcuni dei nomi utilizzati, il più delle volte con la copertura di un documento falsificato. Nel marzo 1933 da Parigi un informatore della polizia politica riferiva gli estremi della carta d’identità francese di un certo Alfredo Ferrari, nella convinzione che si trattasse in realtà della copertura fittizia per un’altra persona, Luigi Lenzi. Non sospettava che la vera identità dell’uomo che stava seguendo era ancora un’altra, quella di Mazzino Chiesa.

Alcune missioni di cui venne incaricato dal partito appaiono particolarmente rischiose. Ad Algeri ebbe il compito di avvicinare i membri italiani della flotta navale, creare delle cellule comuniste a bordo e trovare un marinaio disposto a disertare per recarsi a un congresso ad Amsterdam, per poi andare a vivere in Russia. «Mi hanno dato una valigia a doppio fondo, con già il materiale, i clichet pronti, tutto il materiale, il passaporto svizzero, mi chiamavo Morioli Ernest». Riuscì nell’intento e tornò a Marsiglia con un disertore comunista. Sempre in Algeria, ma a Bona, fu ancora inviato per fare proselitismo tra gli italiani che caricavano i fosfati e i concimi chimici sui vapori.

Nonostante tutti questi spostamenti, il centro del suo peregrinare per i porti mediterranei rimaneva Marsiglia, dove teneva le fila dell’organizzazione dei marittimi. «Ero più utile io in questo lavoro…», dichiarò con orgoglio alla metà degli anni settanta. La guerra di Spagna segnò una cesura in questa sua attività. Si recò una prima volta come volontario insieme al fratello nelle formazioni di Giustizia e libertà, nella colonna Rosselli. Venne quindi severamente rimproverato dal partito che lo rispedì a Marsiglia a riprendere il lavoro con la Film, fortemente indebolita dalla sua partenza improvvisa. Qui però continuò a pensare alla Spagna: «è anche latore – segnalavano gli informatori fascisti – presso alcune personalità ed organizzazioni, di richieste di materiale bellico e di uomini». Riuscì a ripartire per il fronte spagnolo, per poi finire all’inizio del 1939 nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Dopo un breve periodo scappò e fece ritorno a Marsiglia, dove la polizia francese lo stava aspettando per trarlo in arresto. Riuscì a imbarcarsi clandestinamente su un vapore diretto a Tunisi. Qui trovò Giorgio Amendola e Velio Spano e fu introdotto nel gruppo degli italiani comunisti locali.

 Attualmente è ospite di un giudeo che abita nella Avenue Jean Jures [sic] n. 59. Il controscritto – appena giunto – si mise subito in contatto con gli altri compagni di fede, ai quali rimprovera la mancata energia e la mancata attività di mettere in esecuzione il programma rivoluzionario e dinamitardo anarchico. Sembra – ma non lo si può affermare con prove specifiche – che il Chiesa avrebbe preso parte alla spedizione punitiva eseguita recentemente contro la sede del Dopolavoro del circolo rionale Bab El Kadra di Tunisi.

 Nel corso del Ventennio, la vicinanza geografica tra le sponde del Mediterraneo e l’eredità storica delle circolazioni che avevano avuto luogo all’interno del bacino crearono delle condizioni favorevoli per gli antifascisti: di fronte alla situazione oppressiva che il regime fascista aveva instaurato all’interno della penisola e su cui imponeva in maniera sempre più dura i suoi apparati di controllo, il mare rappresentò una risorsa fondamentale per gli oppositori. Le vie acquatiche potevano portare con facilità in ambienti non sottoposti al codice penale fascista né alla sovranità della sua polizia, ma pur sempre familiari, grazie alla presenza delle comunità italiane e alla larga diffusione della lingua italiana nell’arco mediterraneo. La zelante attività di informatori e consoli non mancò di estendere la rete di controllo anche fuori dai confini, ma pur sempre sotto ordinamenti giuridici e statuali differenti da quelli dominati dal fascismo. In questa situazione si mossero persone e organizzazioni con una competenza specifica nel fare propaganda presso i portuali e la gente di mare. La ricostruzione dei loro percorsi e dei network su cui si muovevano è di grande interesse per un’analisi della centralità della dimensione mediterranea come spazio storico e geografico di libertà e democrazia.




L’Archivio di Paolo Barile

Figura di primo piano del diritto italiano, Paolo Barile (1917-2000) è stato non soltanto un illustre costituzionalista, ma anche un grande intellettuale, un uomo di cultura che fin dai giorni della militanza nella Resistenza e nel Partito d’Azione, e poi lungo più di cinquant’ anni di battaglie politiche e civili, ha fatto sentire la propria voce anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico di competenza, partecipando attivamente al dibattito politico-istituzionale e vivendo la propria carriera di magistrato, avvocato, docente universitario con uno spiccato senso di responsabilità civile.

Nato a Bologna nel 1917, Barile studia a Roma dove si laurea nel 1939 in giurisprudenza con Giuseppe Messina. Nel 1941 vince il primo posto del concorso in Magistratura ordinaria e prende servizio nel 1943 presso il Tribunale militare di Trieste, per poi passare a quello di Firenze e in seguito a quello di Pistoia. Dopo aver aderito nel 1941 al movimento liberalsocialista, nel 1943 entra nel Partito d’azione e, tornato a Firenze dopo l’8 settembre, partecipa attivamente alla Resistenza. Tra i dirigenti del Comitato militare del Comitato toscano di liberazione nazionale, nel novembre è catturato insieme agli altri membri del Comitato militare dalla polizia di Mario Carità; torturato e portato in ospedale per una pugnalata alla testa, è reclamato dal comando tedesco e trasferito nel carcere militare della Fortezza da Basso. Nonostante le insistenti richieste di fucilazione avanzate dai fascisti, i prigionieri sono rilasciati con l’obbligo di presentarsi settimanalmente; a questo punto Barile entra in clandestinità e nel maggio 1944 riprende la sua attività nella Resistenza fiorentina. Dopo la Liberazione è chiamato da Piero Calamandrei a lavorare nel suo studio e nel 1947 si dimette dalla magistratura per cominciare la libera professione di avvocato, che porterà avanti per decenni con il suo rinomato studio professionale. Inizia anche la carriera accademica: diventa assistente di Calamandrei all’università, consegue la libera docenza in Diritto costituzionale e in Istituzioni di diritto pubblico, dal 1954 ottiene la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e dal 1963 ricopre quella di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, presso cui insegnerà fino al 1992. La sua carriera culmina con la carica di ministro per i rapporti con il Parlamento ricoperta nel governo Ciampi tra il 1993 e il 1994. Muore nel 2000 a ottantatré anni.

L’archivio di Paolo Barile è stato donato nel 2013 da Stefano Grassi (avvocato, docente universitario, stretto collaboratore di Barile), che ne era entrato in possesso dopo la morte del giurista, all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, di cui Barile stesso era stato uno dei fondatori nel 1953 e presidente nel 2000 per pochi mesi prima della morte.

Il fondo è stato condizionato, ordinato ed inventariato, e dopo alcuni anni di lavoro è finalmente a disposizione degli studiosi. Al termine dell’intervento consta di più di 1200 fascicoli, contenuti in 250 buste circa, ed è articolato in 12 seguenti serie. L’arco temporale si estende dal 1960 al 2000 (con una sottoserie contenente esemplari a stampa di scritti di Barile dal 1944): purtroppo la maggior parte dei documenti antecedenti al 1966 è andata distrutta con l’alluvione di Firenze.

Nell’impossibilità di dare conto in dettaglio, in queste poche righe, del contenuto di ciascuna serie, proviamo a mettere in evidenza le potenziali ragioni di interesse per gli studiosi. L’archivio contiene corrispondenza, appunti, schemi e bozze degli scritti, ritagli stampa, opuscoli, materiale vario accumulato dal soggetto produttore nel corso della sua attività di professore universitario, di consulente, di ministro, insomma moltissimo materiale di studio relativo alle questioni di volta in volta trattate nell’ambito dei diversi incarichi. Gli scritti di Barile – riuniti sostanzialmente in tre serie, contenenti articoli in periodici specializzati e non, monografie, saggi, voci per enciclopedie, interventi a convegni e conferenze, interventi per trasmissioni radiotelevisive, pareri e audizioni per enti diversi – costituiscono una raccolta quasi completa della sua intensa produzione: dunque, anche se per la maggior parte editi, il loro valore risiede proprio nel fatto di permettere, nel loro complesso, di seguire l’evoluzione del pensiero del giurista, e in particolare la sua riflessione sui diritti di libertà. Allo stesso tempo, consentono di studiare, ripassare o approfondire numerosi argomenti inerenti alle fasi e alle modalità di attuazione della Costituzione, al percorso compiuto dai diritti nella storia dell’Italia repubblicana, a questioni politiche ed etiche che hanno animato il discorso pubblico. Anche altre serie possono richiamare l’interesse di studiosi del diritto e di storia contemporanea; ad esempio la consistente raccolta di ritagli stampa offre una carrellata di articoli di autori diversi su temi e vicende ampiamente dibattuti, come la legge sul divorzio, la legge 194, i rapporti tra Stato e Chiesa, il ruolo della magistratura, il rapporto tra poteri dello Stato, l’istituto del referendum.

Il materiale epistolare è per la maggior parte di tipo organizzativo; si trova in particolare in tre serie costituite da fascicoli per lo più tematici, che quindi riuniscono anche appunti, scritti, periodici e materiale di studio, e in una serie dedicata alla corrispondenza di tipo più personale, che contiene scambi epistolari con personalità anche di spicco del panorama giuridico, politico, intellettuale, principalmente nazionale. Pur nella netta predominanza del profilo pubblico rispetto a quello privato, la corrispondenza fa luce sulla personalità del soggetto produttore, sui suoi interessi, sul suo universo di valori, sulla sua fittissima rete di relazioni all’interno della società civile e di vari contesti politici e culturali.

Nel suo complesso, e in modo complementare ad altri fondi di giuristi conservati presso istituzioni giuridiche e universitarie, il fondo Barile può interessare un bacino di utenza non strettamente limitato al diritto costituzionale, supportando percorsi di ricerca su aspetti diversi della storia politica, istituzionale, sociale e culturale del nostro Paese nella seconda metà del secolo scorso.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Roveno Benedetti, Pietro Del Giudice e Balilla Grillotti: antifascismo, guerra e resistenza a Montignoso

Lo sguardo da un piccolo centro, vocato all’agricoltura e alle cave di marmo, Montignoso. Linda Grillotti – Benedetti ha attraversato tutta la seconda guerra dei trent’anni (Hobsbawm) e con i suoi  frammenti di memorie (in allegato) ci restituisce l’umanità e l’ideologia di una contadina che si trovò a vivere a ridosso di quella che sarebbe divenuta la Linea Gotica. Sono ricordi raccolti dai nipoti che, pur nella loro essenzialità, riescono a trasmettere piccole fotografie di una vera e propria ideologia popolare, ovvero “l’intero arco delle idee e delle convinzioni che sono alla base dell’azione sociale e politica”, per dirla con George Rudé. Da quelle voce si intravede il “fronte interno” nella Grande guerra, il regime fascista, l’emigrazione, la miseria, la violenza invadente della seconda guerra mondiale e l’ancoraggio ad un territorio che, nonostante la preminenza del marmo, conserva un volto rurale. Nello scritto emergono riferimenti sfuggenti ai partigiani Roveno Benedetti, Pietro Del Giudice e Balilla Grillotti.

Roveno Benedetti era il secondo dei numerosi figli nati dall’unione di Linda, narratrice delle nostre memorie, ed Ottaviano, autore delle poesie riportate nella testimonianza. Nacque nel 1923 a Sant’Eustachio di Montignoso, una manciata di case a picco sui castagni e sul mare. L’ambiente che lo circondava era intriso di cristianesimo e cultura contadina. Dopo aver terminato le scuole elementari, il piccolo Roveno venne mandato a studiare a Sampierdarena (Genova) presso il collegio dei Salesiani. La guerra strappò Benedetti dalla costa ligure tirrenica conducendolo al fronte fino all’8 settembre, quando decise, tra mille peripezie, di tornare a casa, a Montignoso. Una volta uscito il bando di arruolamento per l’esercito della RSI, prese la strada dei monti, arruolandosi in seguito nel gruppo autonomo dei Patrioti apuani. Dall’autunno del 1944 Roveno fu un caposquadra e guida montana, incaricato di consegnare agli Alleati le comunicazioni inerenti al trasporto dei civili lungo la celebre via della libertà. Il sentiero, che univa il paese di Antona, controllato dai partigiani e la Versilia, dove si trovavano gli statunitensi della Buffalo, era continuamente esposto ai colpi dell’artiglieria tedesca ed italiana. Il 21 novembre 1944, in località Pozzi di Seravezza, durante un fuoco degli eserciti dell’Asse contro gli avamposti Alleati, Roveno rimase gravemente ferito insieme al compagno Francesco Buffoni. Ricoverati presso l’ospedale di Viareggio, i due patrioti apuani morirono dopo pochi giorni.

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Partigiani del gruppo patrioti apuani al centro il comandante Pietro Del Giudice

Pietro del Giudice, classe 1914, di origine operaia, era un frate domenicano laureato in Diritto canonico a Firenze. Fra il giugno ed il luglio 1944, dopo aver abbandonato il convento, mise in piedi i Patrioti apuani. Comandante della formazione, rifiutò il commissario politico e collaborò militarmente con gli Alleati, ai quali forniva indicazioni sugli spostamenti nemici e dai quali riceveva rifornimenti. I Patrioti Apuani facevano riferimento alla componente cattolica del CLN di Massa. Durante l’attacco che sarebbe risultato decisivo, il 5 aprile 1945, i partigiani guidati da Del Giudice supportarono gli statunitensi. A liberazione avvenuta l’ex frate venne nominato prefetto di Massa, impegnandosi nell’opera di ricostruzione della provincia. Meno di un anno dopo, nel marzo 1946, Del Giudice fu sostituito da un funzionario. Il suo albergo, incastonato nelle Apuane, a due passi dal monte Folgorito, diventò luogo di ritrovo di moltissimi intellettuali ed artisti del dopoguerra tra i quali ricordiamo Beppe Fenoglio, Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti, Sandro Penna, Eugenio Montale e Carlo Carrà.

Balilla Grillotti, elettromeccanico, era figlio di Daniele, instancabile organizzatore dei cori del maggio in tutta la regione del marmo (Massa Carrara e Versilia). La famiglia Grillotti, in cui si mescolavano tradizioni risorgimentali e socialiste, diventò un obiettivo prioritario della violenza fascista locale. Daniele (detto il Pisan), vice sindaco di Montignoso dopo la tornata elettorale del 1920, morì nel 1922 in seguito alle percosse ricevute da alcune camicie nere. Il figlio Balilla, prima dell’avvento del fascismo, prese parte alle riunioni e alle bevute presso il circolo anarchico Né dio né padrone di Montignoso. Ardito del popolo, il 25 novembre 1921 fu arrestato con l’accusa di aver ucciso un fascista ma, l’11 gennaio 1922, venne assolto per mancanza di prove e scarcerato. Grillotti, in seguito all’ennesimo pestaggio da parte delle camicie nere, decise di emigrare a Genova, dove divenne uno dei capi del movimento operaio clandestino della Valpolcevera. Dopo l’8 settembre 1943 fu nominato responsabile politico del partito comunista di tutta la Valpolcevera e quindi comandante dei Gap genovesi, partecipando ad alcune rilevanti operazioni militari. La notte del 19 luglio 1944, Grillotti si recò a trovare la famiglia dopo alcuni mesi di assenza ma, in seguito ad una delazione, venne arrestato dai fascisti. Tradotto in questura e poi nel carcere di Marassi (Genova) Grillotti fu ripetutamente torturato, poi processato ed infine fucilato il 29 dello stesso mese. E’ uno degli autori delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana.

Nello scritto di Linda viene ricordato anche Giuseppe Del Freo, nato a Montignoso nel 1895 da una famiglia “di modeste condizioni economiche”, come ci narra Francesco Bergamini.  Del Freo, di formazione crociana, insegnò filosofia presso il liceo classico di Viareggio. Spesso, l’antifascista schedato dal 1931, conduceva i suoi studenti sulle Apuane dove insegnava loro a conoscere la montagna e a comprendere la realtà nella quale vivevano. Molti allievi di Del Freo diventarono partigiani e riconobbero nell’uomo di cultura montignosino un tassello importante della loro “scelta” resistenziale. Socializzazioni come quelle che si instaurarono tra Del Freo ed e i suoi studenti ci confermano la categoria di antifascismo esistenziale elaborata da Guido Quazza, un vero e proprio cuneo nel totalitarismo imperfetto del regime. In occasione del settantesimo della Liberazione, l‘Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca è stato tra i promotori dell’affissione di una targa commemorativa al Liceo classico Carducci di Viareggio, per ricordare quei giovani che persero la vita nella guerriglia al nazifascismo, dopo aver condiviso un percorso, intellettuale ed umano, con Del Freo.

Le memorie di Linda sono un documento raro e dalla potente forza evocativa. In poche pagine si mescolano e sovrappongono i “grandi temi” della storia del Secolo breve (Hobsbawm) con il punto di vista di una donna che ha incontrato, nel corso della sua lunga vita, i quattro percorsi biografici tratteggiati in questo articolo che rappresentano, emblematicamente, due rivoli che confluirono nella Resistenza, l’antifascismo storico e l’antifascismo di guerra.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




“…all’infuori di un immenso amore”: per un profilo intellettuale di don Aldo Mei a 75 anni dalla morte

L’autore ringrazia la Chiesa parrocchiale di Fiano per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate durate la redazione del presente articolo.

Si trova ai piedi delle mura di Lucca, venendo da Porta Elisa, a pochi passi dal baluardo San Salvatore, in uno scenario idealmente coronato dai rami degli alberi della verde passeggiata pedonale voluta da Maria Luisa di Borbone che si snoda lungo tutto il perimetro del monumento-simbolo della città: un’alta pietra squadrata – decorata unicamente da una croce bianca e da un’epigrafe – fatta erigere dalla Misericordia di Lucca per onorare la memoria di don Aldo Mei, “indegno parroco di Fiano” (così si firma nella sua ultima lettera-testamento), fucilato in quello stesso luogo dai tedeschi la sera del 4 agosto 1944 dopo esser stato costretto a scavare la propria fossa, oggi delimitata da un filare di pietre e ricoperta da bianca ghiaia. Da allora non è passato anno senza che la comunità locale non si sia riunita per ricordare la figura del giovane parroco – trentaduenne al momento della condanna a morte, essendo nato a Ruota (Capannori) il 5 marzo 1912 – a cominciare da quel 5 agosto 1945 quando, dopo una solenne e partecipata messa, l’arcivescovo Antonio Torrini (dalle cui mani dieci anni prima Aldo aveva ricevuto l’ordinazione presbiterale) benedice il cippo in memoria del parroco.

Una vicenda, ha scritto don Marcello Brunini, che “inizia nel silenzio e nell’umiltà […], si nutre di Vangelo […], si completa nell’offerta totale della vita, nel martirio non cercato, ma accettato come dono”: una vita breve (ma del resto don Aldo sa bene che essa è solo una preparazione alla “vera patria”, alla presenza di Dio), che una malattia scheletrica segnerà profondamente costringendo Aldo a indossare un busto di ferro, vissuta all’impronta di una fortissima fede, come emerge dagli scritti pubblicati nell’antologia Testimone sempre, editi da Maria Pacini Fazzi nell’ormai lontano 1987. Fede e amore: quell’amore che solo può essere accettato come “totalitario”, come il parroco scrive nel suo diario nel dicembre 1942, quando la guerra e i suoi effetti sulla popolazione fianese cominciano a incidere sempre più sulla comunità, con la partenza per il fronte di numerosi giovani; quella guerra definita come “la più atroce che ci ricorda la storia”, dove “si contano i carri armati, gli aereoplani, gli ordigni di guerra, ma gli uomini morti o feriti o dispersi, non si contano, affatto!”. E in questa guerra dove “funeste ideologie […] peggio delle antiche ideologie pagane”, scrive ancora don Aldo nel gennaio 1943, spingono gli uomini nelle braccia dei nuovi Moloch (lo Stato, il partito, il duce), non ci si può sottrarre ad una scelta, e “l’indegno parroco” non si tira indietro: la sua è una scelta dettata dalla carità verso le vittime. Amare e ad aiutare dunque le vittime, “i poveri, i reietti, i rifiuti della società” (i partigiani cui somministra i sacramenti, i renitenti e i perseguitati che nasconde) non meno che gli avversari: quanto a questi ultimi“amarli sempre”, in completa aderenza al dettato evangelico, “soprattutto quando insultano, quando avviliscono, quando perseguitano, quando crocifiggono”. Amare fino in fondo, come quella sera del 4 agosto sotto gli spalti delle mura, quando don Mei muore benedicendo i propri carnefici, e una pallottola trafigge la mano alzata a benedire.

Negli anni la figura del giovane parroco fianese è divenuta un simbolo di quella rete di resistenza civile e disarmata che proprio nella provincia di Lucca ebbe il suo fulcro nella Chiesa, vedendo la partecipazione di numerosi protagonisti – da Arturo Paoli a Sirio Niccolai fino a Guido Staderini, senza dimenticare i monaci certosini di Farneta (trucidati e deportati ai primi del mese di settembre 1944 per aver nascosto una ventina di persone di religione ebraica): fin dal primo anniversario della morte gli scritti di don Aldo – in particolare il testamento – vengono stampati e diffusi, seguiti da una biografia redatta da Mansueto Lotti i cui proventi servono a coprire le spese del monumento eretto a Fiano. A far conoscere su scala nazionale Aldo sarà però la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952), più volte ristampata nel corso degli anni da Einaudi; un anno dopo viene citato nella Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia. In tutti questi anni e in quelli successivi non si interrompono inoltre i pellegrinaggi alla tomba (che dal 1987 si trova nella chiesa di Fiano), .le commemorazioni e i cortei, come quello imponente che nel 1964, ventesimo anniversario della morte, attraversa la città partendo dalla Pia Casa – dove Aldo era stato imprigionato dopo l’arresto – e si conclude sul luogo del martirio, alla presenza dei fratelli e della madre del parroco (itinerario più volte riproposto e che negli ultimi anni ha visto la partecipazione dell’attore lucchese Marco Brinzi nei panni ideali di Aldo); infine le numerose pubblicazioni, come il Martirologio del clero italiano edito dall’Azione Cattolica sempre nel ’64 (in concomitanza con l’avvio del processo di beatificazione e canonizzazione), la già citata antologia di scritti editi da Maria Pacini Fazzi e i numerosi contributi dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, che hanno ulteriormente approfondito tanto la figura di Aldo Mei quanto il ruolo dei religiosi nella Resistenza e ai quali recentemente sono andati ad aggiungersi, in occasione del settantacinquesimo anniversario, mostre fotografiche (L’amore non muore. Don Aldo Mei martire della carità,curata da Emmanuel Pesi) film-documentari (Questa terra impastata di sangue, per la regia di Stefano Ceccarelli e la sceneggiatura di Marco Brinzi e Luciano Luciani) e persino fumetti (Come into my house. Nove storie di Fuga e Resistenza, scritto e disegnato da Emmanuel Pesi e Luca Lenci).

Non ha mai smesso di affascinare don Aldo, con la sua figura esile, l’aria mite, i grandi occhiali sfoggiati nelle fotografie d’epoca, resistente disarmato che sacrifica la propria vita nel nome del Vangelo (“Mio Dio”, scrive il 13 novembre 1942, “datemi di guardare con sereno coraggio all’Eroismo Evangelico”) e dell’amore – “muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio”, recita quello che è forse il più celebre passo tratto da una delle sue ultime lettere, quella indirizzata ai genitori, “io che non ho voluto vivere che per l’amore!”. Questa in ultima analisi l’eredità di Aldo Mei, che altro non ha avuto da lasciare che il proprio esempio, impossibile da rinchiudere entro i confini dell’agiografia, trasversale fino all’universalità, che parla a credenti e non credenti:”nulla da lasciare”, come recitano le righe tracciate a lapis sul breviario poco prima dell’esecuzione, “all’infuori di un immenso amore”.

Gli abiti indossati al momento della fucilazione, conservati presso la chiesa parrocchiale di Fiano (foto di S. Lazzari)

Articolo pubblicato nell’agosto del 2019.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




“Relazioni pericolose” nell’Africa orientale italiana

Il blitz compiuto dal collettivo femminista Non una di meno contro la statua di Indro Montanelli dei giardini di Porta Venezia a Milano lo scorso 8 maggio, ha nuovamente riportato al centro dell’agone mediatico il controverso rapporto tra gli italiani e il loro passato coloniale. I motivi che stanno alla base del gesto provocatorio delle attiviste (l’imbrattamento della statua con della vernice rosa lavabile), riguardano infatti una storia avvenuta in Etiopia tra il 1935 e il 1936, quando l’allora ventiseienne giornalista di Fucecchio prestava servizio nel Regio Esercito come comandante di un reparto di ascari impegnato nella guerra di aggressione scatenata da Mussolini contro il Paese africano. Milano. Statua di Indro Montanelli imbrattata. Di Clarita Di Giovanni

Com’è noto, in quel frangente, Montanelli intrattenne per alcuni mesi una relazione di concubinato (o per usare un termine più specifico, di madamato) con una ragazzina eritrea di soli 12 anni che egli aveva “acquistato” dal padre. Di questa esperienza – accusano le attiviste – Montanelli non si è mai pentito né scusato, neanche in tempi recenti quando le sensibilità verso tali tematiche erano ormai ampiamente mutate; al contrario ne ha sempre rivendicato la legittimità in virtù delle profonde differenze culturali tra il mondo civilizzato e l’Africa [1]. Valga come esempio paradigmatico l’ultima volta in cui il giornalista parlò della sua madama dalle colonne del Corriere della Sera, il 12 febbraio del 2000:

Mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonnella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie […] e di stabilirne con il padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazione a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e paglia del costo di 180 lire.La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni [sic!]: particolare che in anni recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. […]Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi […]. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni [2].

Fin dall’inizio della dominazione italiana in Eritrea sul finire del XIX secolo, il madamato si era imposto come la cornice istituzionale in cui si realizzavano i rapporti asimmetrici – e non di rado violenti – tra i coloni italiani e le donne indigene. L’esistenza di questo tipo di convivenza more uxorio che spesso si completava con la nascita di figli, veniva giustificata facendo riferimento al demoz (o dumoz), un complesso contratto matrimoniale a termine diffuso in alcune zone della colonia e caratterizzato da reciproci obblighi da parte dei contraenti; tra di essi il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto, il pagamento da parte dell’uomo di un compenso annuo alla donna, e l’obbligo, sempre da parte dell’uomo, di provvedere alla prole nel momento in cui il legame fosse stato sciolto. Tuttavia, come hanno osservato Barbara Sòrgoni e Giulia Barrera, le convivenze stabili che coinvolgevano coloni italiani e donne eritree interpretavano il demoz in una forma peculiare che ovviamente andava tutta a vantaggio dell’uomo bianco: in qualche caso esso si configurava come una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo doveva pagare alla donna; in qualche altro caso il madamato diveniva una sorta di concubinaggio attraverso cui l’uomo bianco poteva avere rapporti sessuali con la madama ed usufruire dei suoi servizi in ambito domestico, senza esser sottoposto ad alcun obbligo legale [3]. A prescindere che prevalesse l’una o l’altra interpretazione, raramente i figli nati da relazioni di questo genere venivano riconosciuti dal padre e pertanto erano destinati il più delle volte alla marginalità sociale. Allo stesso modo le donne abbandonate dai partner italiani si ritrovavano escluse dai contesti familiari di provenienza, non trovando spesso altra strada che quella della prostituzione.

Ufficio Postale

E. De Seta, Ufficio postale
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri, 1935-36

Già nei primi anni del XX secolo, tra il 1909 e il 1914, l’amministrazione coloniale italiana aveva tentato di porre un freno a fenomeni di questo tipo attraverso una serie di norme incorporate in uno speciale diritto coloniale che miravano a ridurre al minimo qualsiasi commistione tra coloni (in modo particolare i funzionari coloniali) e popolazioni indigene [4]. Tuttavia, fu solo con l’avvio della fase imperiale del fascismo che l’orientamento segregazionista, già contenuto in nuce nella legislazione di epoca liberale, trovò uno sviluppo coerente e definitivo attraverso un progressivo irrigidimento del confine tra i “cittadini italiani” e i “sudditi eritrei ed etiopici”. L’arrivo a Massaua, tra il 1935 e il 1936, dei soldati e lavoratori italiani mobilitati per la guerra con Etiopia, aveva infatti alterato drammaticamente le proporzioni tra i maschi bianchi – passati da qualche migliaio a più di mezzo milione in brevissimo tempo – e le donne indigene, traducendosi in un aumento vertiginoso delle relazioni interetniche (il madamato, ma anche matrimoni e rapporti occasionali). Al fine di depotenziare il pericolo rappresentato da questa situazione promiscua, il regime fascista emanò quindi, nella seconda metà degli anni Trenta, una legislazione coloniale articolata su un impianto ideologico fortemente razzista che disciplinava la vita quotidiana in colonia, istituendo spazi differenziati per gli italiani e i nativi e riducendo al minimo i contatti tra le razze. I provvedimenti più importanti riguardavano la definizione delle categorie di “cittadino” e “suddito” (R.dl. 1 giugno 1936, n. 1019, Sull’ordinamento e l’amministrazione dell’Africa orientale italiana), la difesa del “prestigio della razza” e il divieto assoluto di rapporti matrimoniali o sessuali interetnici (L. 30 dicembre 1937, n. 2590, Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi; R.dl 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; R.dl. 29 giugno 1939, n. 1004, Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Orientale), la definizione dello status giuridico dei meticci (L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci) [5].

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E. De Seta, Al mercato
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri [1935-1936]

Sebbene tali leggi furono largamente eluse dagli italiani presenti in colonia, che fino alla caduta dell’impero continuarono a praticare il madamato e unirsi a donne indigene nonostante il rischio di finire in carcere, esse ebbero indubbiamente degli effetti devastanti sulla popolazione italo-africana. Essendo stati equiparati ai nativi dal punto di vista giuridico, sul finire degli anni Trenta, i meticci nati dalle unioni miste videro infatti svanire le già tenui possibilità di acquisire la cittadinanza italiana [6] così come l’opportunità di accedere alle «scuole e gli altri istituti di carattere sociale ed educativo, che storicamente avevano servito le comunità a retaggio misto» [7]. Nella gerarchia imperiale imposta dal fascismo per salvaguardare il prestigio della razza italica, il meticcio finì insomma per rappresentare un elemento destabilizzante che doveva essere in qualche modo occultato o comunque assorbito all’interno della categoria dei nativi.

I programmi di ortopedia sociale proposti dal regime fascista per ridefinire lo spazio imperiale secondo dettami razziali si scontravano però con l’esistenza dei cosiddetti «insabbiati», cioè uomini che non solo avevano familiarizzato con l’elemento indigeno ma la cui esistenza era ormai radicata profondamente nella condizione coloniale. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, l’accusa di insabbiamento veniva rivolta, molto spesso, ai «vecchi coloniali». Con questa espressione si definivano tutti quei funzionari statali, agenti di commercio e militari che, avendo passato gran parte della propria vita in colonia, avevano contribuito a strutturarne la vita sociale, economica e culturale, grazie anche alla conoscenza degli usi, dei costumi e delle lingue delle popolazioni locali. Non di rado essi avevano instaurato relazioni più o meno formali con donne indigene e riconosciuto i figli nati da tali unioni.

Alberto Pollera. Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera.
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

A questo proposito è di estremo interesse affrontare il caso di Alberto Pollera, la cui peculiare esperienza di amministratore coloniale ed etnografo ci permette di osservare i temi che abbiamo precedentemente passato in rassegna all’interno di un contesto di vita vissuta, che si svolse quasi interamente nel Corno d’Africa coprendo tanto la fase liberale del colonialismo italiano, quanto quella fascista [8]. Quinto di undici figli, Pollera nacque in una famiglia della piccola aristocrazia lucchese il 3 dicembre 1871. Ottenuto il diploma liceale entrò nel 1890 all’Accademia Militare di Modena, dove rimase per tre anni, per poi trasferirsi prima a Brescia e poi, dopo sua esplicita richiesta, nella neonata colonia Eritrea dove giunse nel 1894 con il grado di sottotenente. Un anno dopo viene raggiunto dal fratello Ludovico, anch’egli destinato a divenire un funzionario coloniale di un certo rilievo. Dopo esser entrato a far parte del Corpo Speciale d’Africa al comando del governatore Oreste Baratieri, fu coinvolto, pur senza parteciparvi direttamente, nella disfatta di Adua (1° marzo 1896), poi in alcune operazioni militari contro i dervisci e nella delimitazione del confine tra l’Eritrea e il Sudan anglo-egiziano. Nel 1903, svestita l’uniforme militare, divenne per sei anni un funzionario civile incaricato di amministrare la turbolenta regione del Gasc e Setit come “primo residente”. Fu nel periodo immediatamente precedente a questo incarico che egli conobbe Unesc Arai Araià Capté, una giovane donna originaria della regione di Axum, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni e Michele, nati nel 1902, Giorgina, scomparsa prematuramente a un anno tra il 1907 e il 1909 e infine Giorgio (1912). Stabilitasi ad Asmara con i figli, Unesc Arai rimase al fianco di Pollera per alcuni anni e, dopo la fine del loro rapporto, continuò ad essere mantenuta dall’ex compagno che le aveva acquistato un’abitazione. In seguito, Pollera fu nominato commissario della provincia del Seraé (1909-1917) e regio agente a Dessiè e ad Adua, in territorio etiope, fino al suo temporaneo collocamento a riposo nel 1928. Egli tuttavia, in quello stesso anno, accettò di prendere parte alla spedizione organizzata da Raimondo Franchetti in Dancalia, occupandosi dei preparativi logistici e mettendo a disposizione le sue conoscenze in ambito antropologico. Come molti altri funzionali costretti – in un certo senso – a conoscere gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali per poter assolvere al meglio alle pratiche dell’amministrazione coloniale, Pollera era infatti divenuto un “etnografo per necessità”, dedicandosi nel corso della sua vita alla stesura di numerose monografie di carattere storico-giuridico-antropologico [9]. In questa attività egli poté contare sull’aiuto determinante di Chidan Menelik, la sua seconda compagna, che aveva conosciuto nel 1912 e che gli diede altri tre figli: Mario (1913), Marta (1915) e Alberto (1916).

A differenza di altri coloniali che abbandonavano i meticci nati dalle relazioni con donne africane al loro destino, Alberto riconobbe tutti i suoi figli, sebbene dal punto di vista giuridico egli non potesse legittimarli. Secondo il codice civile italiano, infatti, il padre naturale non poteva legittimare i propri figli naturali a meno di non sposarne la madre. Come abbiamo visto in precedenza però, in colonia tale strada non era percorribile, i quanto di decreti governatoriali del 1909 e del 1914 integrati nel diritto coloniale rendevano virtualmente impossibili i matrimoni misti, costringendo il cittadino a dare le dimissioni dal pubblico impiego in caso di nozze con una donna indigena. Nonostante la mancanza di legittimazione, i figli di Pollera poterono comunque frequentare scuole italiane e poi, intorno alla prima metà degli anni Venti, spostarsi in Italia per completare gli studi presso alcune strutture educative religiose.

La visione che il funzionario lucchese aveva del colonialismo spiega almeno in parte questi peculiari atteggiamenti nei confronti delle compagne e dei figli. Facendo riferimento ai suoi scritti, Pollera fu senza dubbio animato, da un lato, dall’ideale della missione civilizzatrice compiuta dai bianchi in Africa, e dall’altro, da un razzismo paternalistico giustificato da un paradigma evoluzionistico attraverso cui le razze umane venivano collocate su una scala di sviluppo. Pur rimanendo convinto della superiorità degli europei sugli africani e dei diversi livelli di civilizzazione che a loro volta contraddistinguevano le popolazioni colonizzate, egli rigettava però ogni riferimento al determinismo biologico. In altre parole, egli attribuiva un carattere temporaneo alla presunta inferiorità di certi popoli rispetto ad altri, in quanto tale inferiorità non era stabilita da dati naturali o biologici, ma piuttosto da fattori storici, sociali e culturali. «Il diverso grado di civiltà esistente nel paese del quale parliamo [l’Etiopia] – affermava Pollera nel corso di una conferenza tenuta a Torino nel 1927 –, non deriva da una congenita ragione di razza, ma da cause estranee che ne hanno arrestato o ritardato lo sviluppo, cessate le quali un risveglio non è solo possibile ma probabile» [10]. La condizione di inferiorità dei popoli africani, insomma, non era una condizione immutabile ma transitoria e dunque facilmente superabile attraverso lo studio, l’educazione e, più in generale, l’«aiuto» dell’uomo bianco.

Alberto Pollera con i figli Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra) Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera con i figli
Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra)
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Sebbene il razzismo paternalistico di Pollera fosse una concezione molto diffusa nell’Italia di inizio secolo, alla metà degli anni Trenta, esso appariva come l’anacronistica espressione di un pensiero piuttosto isolato in un panorama culturale ormai egemonizzato da forme di determinismo che di fatto ponevano in relazione diretta la psiche e le facoltà mentali al dato razziale inteso in senso biologico. Negando ogni possibile progresso alle «razze inferiori», tale orientamento, propugnato in maniera sempre più massiccia da antropologi di regime come Lidio Cipriani, fornì la base scientifica su cui fu legittimata la legislazione razziale nell’Africa Orientale Italia.

In questa fase crebbe l’isolamento di Pollera all’interno del contesto coloniale, nonostante egli avesse continuato a ricoprire cariche importanti (console di Gondar, in Etiopia dal 1929 al 1932; responsabile della biblioteca governativa e capo della sezione studi e propaganda presso l’Ufficio affari generali del personale del governo dell’Eritrea ad Asmara dal 1932 al 1939; consigliere personale del governatore dell’Eritrea Daodiace a partire dal 1937). Da un lato egli fu colpito dall’”offensiva” lanciata dai nuovi funzionari fascisti verso i “vecchi coloniali” accusati – come abbiamo visto in precedenza – di infangare il prestigio della razza e di essere ormai avvezzi ai costumi dei nativi. Dall’altro, come funzionario di stato, Pollera dovette conciliare la sua immagine pubblica con la sua sfera privata, gli imperativi richiesti ad un esponente del governo coloniale ai suoi legami affettivi con la compagna e i figli. In questo senso è facile riscontrare molte contraddizioni tra una adesione, probabilmente superficiale e di facciata, alle politiche governative e prese di posizione nette a favore dei meticci nati da unioni miste tra cittadini e sudditi.

La famiglia Pollera, riunitasi in Eritrea a partire dai primi anni Trenta, visse sulla sua pelle il mutato clima della colonia: la figlia Marta, ad esempio, fu espulsa dall’organizzazione delle Giovani Fasciste poiché meticcia; il figlio Giovanni allontanato dai luoghi di ritrovo in cui soleva recarsi per lo stesso motivo; la compagna Chidan tenuta lontana dalle cerimonie ufficiali dove non sarebbe potuta più comparire. Lo stesso Alberto eluse accuratamente ogni pretesto di vita mondana per ripiegare su un onorevole concubinaggio a cui metterà fine poco prima della sua morte, sposando la sua compagna nel 1939.

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Marta Pollera, figlia di Alberto
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Pur accettando, almeno ufficialmente, alcuni punti della politica razziale fascista (il divieto di matrimonio tra donne italiane e indigeni; la limitazione, entro una certa misura, del fenomeno del concubinaggio; la preferenza dei meticci nati da padre italiano e madre locale su quelli nati dall’unione opposta), Pollera si oppose in più occasioni alla legge del 1936 sull’ordinamento dell’Africa Italiana che ometteva ogni riferimento alla cittadinanza per i meticci, aprendo così la strada alla cancellazione di questa possibilità dalla legislazione vigente [11]. La sua preoccupazione maggiore era infatti legata al fatto che i suoi figli sebbene riconosciuti, rimanevano tecnicamente “illegittimi” e pertanto avrebbero potuto perdere da un momento all’altro la cittadinanza italiana ed essere parificati, dal punto di vista giuridico, agli nativi. Nel 1937 la questione fu portata davanti alla Corte d’Appello di Addis Abeba che alla fine riconobbe la piena cittadinanza ai figli del funzionario.

L’anno successivo, mentre i legislatori stavano preparando la legge che avrebbe definitivamente risolto il problema del meticciato dal punto di vista giuridico (la futura L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci), Pollera tornò ad occuparsi della questione relativa agli Italo-Eritrei indirizzando un appello accorato direttamente a Mussolini.

Scrive Pollera il 10 dicembre 1938:

Questi nostri figli meticci sono dunque per sangue del padre, per fisico prestante, per l’educazione, per sentimenti, perfettamente italiani. Sono ufficiali, funzionari, professionisti, commercianti, artigiani, onesti operai; e le femmine buone madri di famiglia, coniugate ad Italiani, ebbero prole per qualità intellettuali, morali, e fisiche spesso superiori agli italiani di razza pura […]. L’Albo d’oro dei caduti durante la guerra europea, ed in quella etiopica, segna i nomi di diversi nostri figli meticci, partiti volontari, colla benedizione paterna, perché da noi educati ad amare quella Patria per la quale non inutilmente consumammo la vita in terra d’Africa. Noi vogliamo, o Duce, restare orgogliosi della loro memoria, e non dover rimpiangere di averli spinti all’olocausto della propria vita per una Patria che avesse a rinnegarli […]. Nessuno pensa di chiedere modificazioni ad una legge che promana da Voi: chiediamo solo che detta legge sia chiarita con senso di umanità, come fu promesso [12].

Il passaggio centrale di questo brano mette in luce il tentativo di Pollera di ricomprendere i meticci nati da unioni miste all’interno della comunità nazionale, segnalando come prova tangibile di questo fatto la disponibilità dimostrata da quest’ultimi a morire per la Patria. Così facendo, il funzionario lucchese rievocava la dolorosa esperienza della perdita del figlio Giorgio che, arruolatosi come volontario per la guerra italo-etiopica, cadde in combattimento contro i ribelli abissini nei pressi del fiume Omo Bottego, al confine con il Kenya, il 12 dicembre 1936, ricevendo una medaglia d’oro al valor militare.

Nelle intenzioni dell’autore, l’appello a Mussolini avrebbe dovuto parlare a nome di tutti gli Italo-Eritrei che si trovavano ancora nello stato di figli riconosciuti e che la nuova proposta di legge sembrava voler integrare nella categoria di “suddito”. La sentenza che aveva sancito il riconoscimento della cittadinanza italiana ai Pollera, era stata probabilmente viziata dall’influenza del padre nella società coloniale, come sembra esser confermato dal fatto che decine di richieste analoghe furono respinte, nello stesso periodo, dai giudici della Corte d’Appello di Addis Abeba.

Alla fine, la legge sul meticciato, emanata nel maggio 1940 pochi mesi dopo la morte di Pollera, non ebbe effetti retroattivi, conservando la cittadinanza al novero ristretto degli Italo-Eritrei che l’avevano già ricevuta o fossero in procinto di riceverla all’entrata in vigore della legge stessa. Tuttavia, allo stesso tempo, per la stragrande maggioranza dei meticci dell’Africa Orientale Italia si apriva una fase drammatica: ogni residua possibilità di essere riconosciuti dai padri naturali, di essere adottati da cittadini, di ricevere un’istruzione adeguata e di ottenere la cittadinanza italiana si perdeva per sempre.


Note:

[1] Questa storia deve la sua popolarità ad alcune interviste televisive rilasciate dal giornalista nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1972, durante il programma L’ora della verità condotto da Gianni Bisiach, Montanelli parlò per la prima volta della sua madama ricevendo un duro attacco da parte della giornalista femminista di origine eritrea Elvira Banotti che lo accusava di giustificarsi sulla base di pregiudizi razzisti di tipo biologico – e non solo culturale – nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa. Dieci anni dopo, in un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi per la Rai, egli fece di nuovo riferimento alla propria esperienza coloniale in Etiopia cambiando però versione sull’età (da 12 a 14 anni) e sul nome (da Fatima a Destà) della ragazzina, forse per porsi al riparo da eventuali critiche. Cfr. la sezione Multimedia.
[2] La Stanza di Montanelli in «Corriere della Sera», 12 febbraio 2000.
[3] Sull’istituto del madamato e la sua diffusione i riferimenti sono Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori Editore, Napoli 1998 e Giulia Barrera, Sex, Citizenship, and the State. The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea, in Perry Willson (a cura di), Gender, Family, and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, Palgrave Macmillan, New York 2004.
[4] Mi riferisco ai R.D. 19 settembre 1909, n. 839 e R.D. 10 dicembre 1914, n. 16. Nel primo caso, l’articolo 43 specifica che è «inibito ai funzionari coloniali di coabitare con donne indigene»; nel secondo caso l’articolo 42 specifica invece che «il funzionario coloniale che contragga matrimonio con una indigena è considerato dimissionario».
[5] Per una panoramica sulla legislazione razziale Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 441-424.
[6] Il vuoto legislativo relativo allo status dei meticci era stato colmato con la L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, attraverso cui i figli nati nelle colonie d’Eritrea e Somalia da un genitore di «razza bianca» rimasto ignoto, avrebbero ottenuto la cittadinanza italiana previo possesso di specifici requisiti culturali e morali e al compimento del diciottesimo anno d’età. La legge prescriveva inoltre accurati procedimenti di «diagnosi antropologica etnica» al fine di discernere il «bianco scuro» dal «nero bianco» e dunque di ridurre la platea dei potenziali beneficiari.
[7] Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, p. 246.
[8] Sulla vita di Alberto Pollera il riferimento imprescindibile è Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Bollati Boringhieri Torino 2001.
[9] Tra le più importanti segnaliamo I Baria e i Cunama, Reale Società Geografica, Roma 1913; La donna in Etiopia, Ministero delle Colonie, Roma 1922; Lo Stato Etiopico e la sua Chiesa, SEAI, Roma-Milano 1926; La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi ove fu combattuta, Carpigiani e Zipoli, Firenze 1928; Le popolazioni indigene dell’Eritrea, Cappelli, Bologna 1935; Storie, Leggende e Favole del Paese dei Negus, Marzocco, Firenze 1936; L’Abissinia di ieri, Scuola Tipografica Pio X, Roma 1940.
[10] Alberto Pollera, Che cos’è l’Etiopia, Tipografia editrice Riva, Torino 1927, p. 6.
[11] Cfr. supra la già citata L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia.
[12] Lettera di Alberto Pollera a Benito Mussolini, Asmara 10 dicembre 1938 citata in Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo, cit., p. 210.

Articolo pubblicato nel giugno del 2019.




Torquato Cecchi: dall’anarchia all’amicizia con Soffici

Torquato Cecchi nacque a Poggio a Caiano il 5 gennaio 1872 da Camillo e Albina Rocchi, muratore. Dopo aver militato nelle file del PSI, aderì al movimento libertario e  prese parte ai moti del maggio 1898. Dovette per questo emigrare all’estero, prima a Vienna e poi in Francia, paese dal quale venne espulso nel 1900. Rientrato in Italia, nel 1901 era segnalato come un propagandista anarchico molto attivo, che per diffondere le sue idee si recava di frequente in varie città.

La sera del 28 agosto 1901, in occasione di un contraddittorio svoltosi a Poggio a Caiano fra l’avvocato Campodonico, monarchico, ed il socialista Alberto Furno, Cecchi – si legge nel fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato – mobilitò “molti socialisti ed anarchici di Sesto, Peretola […] Brozzi e frazioni limitrofe, facendo occupare ad essi quasi tutto il teatro, ed eccitandoli […] a commettere disordini che furono scongiurati mediante la di lui espulsione dalla sala”. Nel 1906 – insieme con Eusebio Nepi, futuro sindaco socialista di Carmignano – fu tra i fondatori dell’Unione comunale di consumo di Poggio a Caiano. Con lo pseudonimo di “Trincetto”, collaborò anche all’Avanti! ed alla Riscossa, il settimanale  dei socialisti del collegio di Campi Bisenzio. Nel 1911 (anno in cui si trasferì nel comune di Signa) risulta che Cecchi non si occupava più di politica. La grande guerra segnò poi una svolta nei suoi convincimenti politici, svolta alla quale non fu verosimilmente estranea l’influenza di Ardengo Soffici, di cui era diventato amico.

Cecchi cominciò così a guardare con favore al fascismo e nel 1920 – grazie a Soffici, che gli fece conoscere l’editore Vallecchi e gli fornì anche la xilografia per la copertina – poté pubblicare un libro di versi intitolato A bordo (il volume è stato ripubblicato nel 2003 dal Comune di Poggio a Caiano, con un’interessante Introduzione di Silvano Gelli, da cui abbiamo tratto alcune delle notizie riportate in questo articolo). Cecchi tornò così alla poesia, una delle passioni della sua giovinezza, che lo aveva visto cimentarsi con altri poeti estemporanei della zona in accese tenzoni in ottava rima. “Quanti leggeranno A bordo – scrive Gelli nella sua introduzione – non troveranno forse un grande poeta, ma vi scopriranno l’attualità di certi pensieri […] e la freschezza di alcune semplici rime, ancora piacevoli da gustare a distanza di ottanta anni”.

Ormai scivolato su posizioni conformistiche, fra il 1922 ed il 1923, Cecchi scrisse qualche articolo su giornali fiancheggiatori del movimento mussoliniano (fra cui L’avvenire di Prato, settimanale dei combattenti locali). Nel 1928 la polizia segnalò che Cecchi si dimostrava favorevole al regime, ma il prefetto di Firenze non ritenne opportuno radiarlo dallo schedario dei sovversivi a causa dei suoi precedenti politici. Ancora vigilato nel 1940, morì dieci anni dopo munito – come si suol dire – dei conforti religiosi.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.