Eleonora Benveduti Turziani, detta Noretta (1908-1993)

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: Giaccai)

Nata a Roma il 30 marzo 1908, Eleonora “Noretta” Benveduti trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Gubbio, dove consegue il diploma magistrale e si dedica all’insegnamento. Nel 1938 si laurea in Pedagogia a Roma e successivamente si trasferisce a Firenze per insegnare materie letterarie negli istituti superiori; dall’ottobre 1939 al maggio 1940 prosegue la sua attività di docente presso il R. Ginnasio di Derna, in Libia. Rientrata in patria dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, all’insegnamento scolastico affianca i compiti di assistente alla cattedra di Storia della filosofia dell’Università di Firenze.

Donna colta ed emancipata, negli anni Trenta “Noretta” si avvicina, grazie a Joyce Lussu1, al movimento di Giustizia e Libertà. A Perugia, inoltre, ha modo di frequentare gli ambienti liberalsocialisti e di conoscere Aldo Capitini2. Nei primi anni Quaranta aderisce al neonato Partito d’Azione (Pd’A) insieme al marito Giovanni Turziani, riscuotendo la piena fiducia dei compagni. Nel settembre 1943 il Comando esecutivo azionista le affida la responsabilità della “Commissione intendenza”, che si occupa prevalentemente degli approvvigionamenti per le formazioni partigiane in montagna e per i gruppi di città, nonché di garantire protezione a fuggiaschi e perseguitati politici e razziali mediante la fornitura di documenti falsi, vestiario, viveri e medicinali. Arrestata in novembre dagli uomini di Mario Carità, capo del Reparto servizi speciali della polizia fascista, pochi mesi dopo il rilascio – rimossa dall’insegnamento per motivi politici – entra in clandestinità.

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

Continuerà instancabilmente ad operare per il partito fino al giorno dell’insurrezione di Firenze, l’11 agosto 1944: a guerra finita le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente afferente alla III Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la Liberazione, Eleonora prosegue il proprio impegno pubblico: candidata alla Costituente senza essere però eletta, lascia il Pd’A prima della sua definitiva fine politica e si iscrive al PCI, nelle cui liste viene eletta in Consiglio comunale a Firenze (novembre 1946).

Già presidente provinciale dell’Unione donne italiane, dal 1951 al 1961 ricopre la carica di sindaco di Scandicci; successivamente viene eletta consigliere provinciale.

Abbandona il PCI nel 1965, a seguito di forti contrasti interni. Decide allora di dedicarsi principalmente allo studio e all’organizzazione di liberi corsi su temi politici, filosofici e sociali, molto apprezzati dal pubblico e frequentati anche da numerosi studenti. Ritornata nella sua Gubbio nel 1989, “Noretta” vi muore il 17 giugno 1993.

Eleonora Benveduti Turziani nel 1950 tra i fondatori dell’ISRT (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

NOTE:

1 Joyce Lussu (Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, 1912-1998) è stata una scrittrice e traduttrice, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, Medaglia d’argento al valor militare, moglie del politico e scrittore Emilio Lussu.

2 Aldo Capitini (1899-1968) è stato un intellettuale e politico antifascista, teorico del movimento nonviolento.

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🟥Memoria di testimoni in: Sandro Contini Bonacossi, Licia Ragghianti Collobi (a cura di), “Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione“, prefazione di Ferruccio Parri, Venezia, Neri Pozza, 1954, p. 302.

La Commissione Intendenza fu affidata da principio ad Eleonora Turziani, coadiuvata da Eva Mori, Bice Paoletto, Andreina Morandi, Elena Fanfani, Flunci, Romano Ragazzini, ed altri, e Bernardo Seeber per la Commissione Prigionieri. Già il 13 settembre aveva organizzato sia i depositi, che i turni di servizio per la consegna ai gruppi armati, secondo le indicazioni del Comando Militare. Per dare un’idea della ristrettezza di mezzi, si pensi che alla commissione non poterono essere assegnate, all’inizio, che cinquemila lire mensili. Tuttavia coi doni ed anche con i colpi di mano su magazzini e caserme si riusciva a rendere cospicue le riserve di viveri, di medicinali, di vestiario, coperte ed oggetti per i partigiani. Per esempio nel novembre Giorgio Faitsman e Max Boris poterono procurare, con un colpo di mano ad un magazzino militare, 160 teli da tenda, e un ingentissimo quantitativo di coperte e vestiario militare, che furono poi preziosi d’inverno; mentre Giovanni Turziani, medico distaccato dal P. d’Az. in servizio, traeva dal magazzino dell’Ospedale militare di Villa Granduchessa altro materiale prezioso. Per dare un’altra idea delle occorrenze, si ricorda che il 22 dicembre 1943 il comando chiese alla Turziani 350 carte annonarie per i partigiani. Arrestata da Carità il 23 dicembre (e per fortuna era stato fatto sparire dalla casa un deposito compromettente di materiali, e specialmente 150 bracciali tricolori con la scritta CTLN ordinati per i patriotti), fu sostituita da Eva Mori, e poi soprattutto da Achille Belloni (Prati), che già cooperava al servizio dall’ottobre. La Turziani veniva poi rilasciata e riprendeva attività di assistenza alle famiglie dei patriotti dal febbraio 1944.




Maria Assunta Lorenzoni, detta Tina (1918-1944)

Tina Lorenzoni (©️Archivio ISRT, Fondo Tina Lorenzoni)

Figlia dell’economista e docente universitario Giovanni Lorenzoni, nasce a Macerata il 15 agosto 1918. Iscritta alla Facoltà di Magistero, con l’entrata in guerra dell’Italia lascia gli studi e presta servizio come crocerossina in soccorso ai feriti di ritorno dal fronte. Dopo l’8 settembre 1943 Maria Assunta Lorenzoni entra in contatto con il Partito d’Azione. “Tina” – questo il nome di battaglia scelto –, entra a fare parte della Brigata V, formazione partigiana inquadrata nella I Divisione “Giustizia e Libertà”. Durante l’occupazione tedesca di Firenze, che durerà undici lunghi mesi, Tina Lorenzoni si adopera in soccorso di ebrei e perseguitati politici, cercando di favorirne la fuga in Svizzera sia procurando loro documenti e carte annonarie falsi, sia accompagnandoli personalmente nel Nord Italia. Staffetta coraggiosa, assiste feriti e malati militari e civili e collabora al reperimento di medicinali e di generi di conforto. Nei giorni cruciali della battaglia di Firenze, Tina attraversa più volte la linea del fronte, mantenendo i collegamenti tra le forze partigiane a nord della città e il Comando d’Oltrarno. Durante una di queste azioni, viene catturata da una pattuglia tedesca e condotta a Villa La Cisterna, sede del comando nazista, per essere interrogata.

Francobollo commemorativo

Il 21 agosto 1944, nel tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini, viene freddata da una raffica di mitra: ha soltanto 25 anni. Lo stesso giorno il padre Giovanni, appresa la notizia della cattura di Tina, ma inconsapevole della sua tragica fine, attraversa la città insorta e raggiunge un avamposto alleato per avere notizie della figlia: resta ucciso probabilmente dallo scoppio di una granata tedesca, anche se altre fonti fanno riferimento ad un colpo mortale sparato da un franco tiratore repubblichino.

Maria Assunta Lorenzoni sarà insignita della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nel documento per la richiesta della medaglia, il comandante della Brigata Vittorio Sorani presenta la proposta di decorazione usando un linguaggio che, oltre ad essere dettato dalla vicinanza emotiva agli eventi, è modellato sulle celebrazioni delle eroine del Risorgimento. Se il numero di 200 ebrei salvati non si riferisce alla sola attività di Tina, ma a una più ampia rete di soccorso, il testo ripercorre invece fedelmente i suoi ambiti di intervento e offre interessanti indicazioni sulla sua personalità.

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Tosca Martini (1914-1988)

Ritratto di Tosca Martini, anni Trenta (©️Archivio famiglia Maullu Martini)

 

Nata a Cantagallo nel 1914 in una numerosa famiglia contadina della zona, a dodici anni Tosca va a lavorare nella fabbrica tessile di La Briglia, di proprietà della famiglia ebrea Forti. Proviene da un ambiente antifascista, come pure l’amato fratello minore Lido, che nel dopoguerra sarà dirigente sindacale della Val di Bisenzio e di Prato. Sotto il regime, Tosca diviene un punto di riferimento per le rivendicazioni operaie e per la propaganda antifascista.

Lido, fratello di Tosca Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Dopo l’8 settembre 1943 agisce da staffetta nella formazione “Orlando Storai” di stanza sul Monte Javello; aiuta i renitenti a raggiungere i partigiani diventando anche punto di riferimento per le loro famiglie e fidanzate.

Nel suo percorso è cruciale la decisione di far cucire in segno di protesta una bandiera rossa per la festa dei lavoratori del 1944. La mattina del 1° maggio il paese di Usella, nel fondovalle, si sveglia con una bandiera rossa che sventola su un alto cipresso, sopra la strada provinciale (oggi SR 325), e con manifesti che tappezzano i muri delle case (“morte ai fascisti, fuori i tedeschi e viva il 1° maggio”). Di nascosto dalle famiglie, infatti, nei giorni precedenti Tosca e altre donne di Usella (Giulia Lavati, Martina Martini, Nigella Catani, Fernanda Ferrantini, Rosa “la merciaia”) hanno confezionato il drappo con un nastrino tricolore. I militi della Guardia nazionale repubblicana accorrono immediatamente per togliere la bandiera e per arrestare Tosca, ritenuta autrice della protesta. Già il 2 maggio è nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, dove conosce la partigiana fiorentina Tosca Bucarelli, che di lei racconterà: “insieme a me era la più torturata di tutte”.

Tosca Martini, al centro, con una sorella e un’amica di Usella, anni Trenta (©️Archivio Fondazione CDSE)

Viene interrogata numerose volte dalla Banda Carità presso Villa Triste e torturata per circa due mesi, ma non rivela mai informazioni sulla Resistenza. Secondo la sua testimonianza è salvata dalla possibile deportazione grazie all’intervento, tra giugno e luglio, di un noto avvocato pratese su insistenza dei compagni partigiani.

Tornata a casa, benché debilitata dalle sevizie e dal carcere, continua a dare il proprio contributo all’organizzazione della Resistenza fino al passaggio del fronte in Val di Bisenzio nel settembre 1944. Il 23 aprile 1951 si aprirà a Lucca il processo alla Banda Carità e Tosca Martini verrà chiamata più volte a testimoniare.

Nel Dopoguerra riprende a lavorare nel tessile, impegnandosi nel sindacato con il fervore che sempre l’ha contraddistinta; è riconosciuta partigiana combattente il 12 marzo 1947.

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🟪Stralci dall’intervista realizzata da Laura Landi il 10 settembre 1988, pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013, pp. 66-69.

Io entrai al Forti alla briglia appena finito dodici anni, sono nata di gennaio, a marzo ero già a lavorare nel reparto orditura. Si lavorava tante ore e ho imparato alle macchine di ritorto, sempre in orditura. Poi c’era il magazzino e poi si andava alla grande tessitura, perché il Forti è sempre stata una grande ditta, lì siamo cresciuti. […]

In fabbrica ci andavo in bicicletta, dopo parecchio tempo hanno messo un autobus. Noi donne non si prendeva la stessa paga degli uomini, per carità, e allora ho dovuto fare la sindacalista.

Nel 1943 morì la mia povera sorella Duilia di malattia e lasciò due bambine. Succede il patatrac di Badoglio, a questo punto mi venne chiesto di iscrivermi al sindacato di Badoglio, ma io non volevo assolutamente accettare, perché dovevo badare alle bambine ed ero troppo occupata, gli dissi “sentite, non ho proprio punta voglia di mettermi a fare la sindacalista perché ho altre cose, m’hanno lasciato due bambine”, non volevo accettare. Allora cosa hanno fatto? Hanno fermato tutte le macchine, i magazzinieri, 14 orditoi, tutte le macchine da ritorto, poi tutte quelle che facevano le rocche e i fusi, tutta la tessitura, era una grande ditta e io mi son trovata in mezzo a tutti gli operai in quella maniera, “lo devi far te, lo devi far te”, e alla fine ho accettato.

Ora succede che Badoglio sta poco, liberano il Duce e ritorna il sindacato fascista. Noi tutti in fabbrica si era d’accordo che questa cosa non si poteva assolutamente accettare. E allora vengono in tessitura a sparare con le rivoltelle, allora quel pover’uomo del mio zio di Vaiano, fratello della mia mamma, disse che accettava lui di essere delegato del sindacato fascista, mentre tutti urlavano e scappavano come pazzi. Poi [dopo l’8 settembre] successe la ribalta un’altra volta e allora io sono rimasta lì al sindacato mio, che non era più il sindacato di Badoglio, ma era il nostro. Sono sempre rimasta all’avanguardia della briglia fino a quando il 1° maggio non sono stata arrestata e portata via.

Dall’8 settembre al maggio ’44 si lavorava con le formazioni partigiane. Io avevo tutta l’organizzazione: quando venivano gli aerei americani o inglesi a portare la roba sulle colline, informavo le formazioni sugli arrivi: s’aveva il nostro ordine del giorno. […]

Salivo anche ai Faggi personalmente a portare le notizie e si vede che il Barellini2 l’hanno messo a fare la spia e mi ha visto. io e la povera Teresa moglie del mio povero fratello [Lido] si fece finta di andare a lavorare perché mi seguivano. Si aveva il segretario del partito fascista che stava lì a dormire nell’ultima casa in fondo, era di Prato, era un gobbino e diceva “benedetto il Dio, quella donna ci va la mia padrona di casa a veglia la sera e vado a chiamarla delle volte, ci resto anche io, l’è tutta casa e lavoro, possibile che lei la faccia codeste cose?”.

Insomma, mi presero il 1° maggio del ’44, qui [facendo riferimento a un libro] è un po’ raccontato, un po’ tralasciato, ’un possono mica dire tutto. Si capisce quanto è importante, c’è fatti per fare un libro. Mi arrestarono per cosa si è fatto con il mio cognato che era ferroviere di Vaiano.

Al mio cognato dissi: te la metti, e io preparo la bandiera, e vai per il 1° maggio a metterla proprio in cima al cipresso, quello che va al cimitero gl’era bello alto. Proprio in cima in cima aveva messo questa bandiera rossa, l’aveva legata con una maniera che lui figurati gl’ha avuto il primo premio che ha in casa, andava a allacciare i fili quando va il treno.3 L’aveva messa in un modo che non c’era modo nemmeno levarla, mandarono a levarla e non lo sapevano fare. La vedevano proprio bene dalla ferrovia, la si vedeva proprio bene, tutti la vedevano. La sera prima gli si dette la botta, si mise tre manifesti “morte ai fascisti”, ma grandissimi, tre di qua e tre di là, rivolti alla chiesa, e la mattina tutti li leggevano: “morte ai fascisti, fuori i tedeschi, viva il 1° maggio”, grandi così, io e la povera Fernanda sia andò a metterli. Non mi avevano visto, era notte.

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🟥Amiche per la libertà – Tosca Martini, Tosca Bucarelli e le altre – Corto realizzato dalla Scuola di Cinema “Anna Magnani” di Prato con regia di Massimo Smuraglia, ispirato alla vicenda della partigiana Tosca Martini di Usella, alla cui sceneggiatura ha collaborato la Fondazione CDSE (il film è liberamente ispirato al libro “Sul cipresso più alto”, edizioni CDSE). Con Francesca Cellini e Doriana Clemente. Musica Originale di Samuele Luca.

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🟪ISRT, Fondo Calamandrei, Processo alla Banda Carità, Busta 4.1.3. Stralcio della sentenza della Corte di Assise di Lucca del 28 luglio 19512, 25esimo episodio – Martini Tosca – (imputazione n. 27) – Il documento integrale è pubblicato in pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013 

[…] Questi come primo atto la prese per il petto nonostante le proteste della donna che irritarono maggiormente il Bellesi, quindi cominciò a coprirla con pugni e ceffoni al viso così violenti da farle uscire copioso il sangue dalle orecchie e dal naso. Dicendo poi che non voleva farsi male alle mani, si tolse la cinghia dei pantaloni e con questa prese a colpire la ragazza, in maniera che la placca di metallo piuttosto grossa la colpiva sulla carne che in tal modo veniva a lacerarsi avendole sollevato all’uopo anche le vesti e riducendola tutta pesta. Le cinghiate sempre più violente si protrassero per lungo tempo e la Martini per il dolore continuava ad urlare in modo tale che alcuni funzionari della Questura, che si trovavano nella stanza vicina, si affacciarono alla porta per protestare contro quel trattamento inumano. […]




Walma Montemaggi (1926-2017)

Walma (a sinistra) nel 1946 con le sorelle Clara e Fulvia

Nasce nel 1926 a Pontorme, sobborgo operaio di Empoli, da una famiglia composta dal padre, vetraio soffiatore, dalla madre sarta e da sei figli, di cui Walma è la più piccola. Frequenta le scuole elementari dalle suore, perché la famiglia antifascista non vuole che partecipi ai rituali della scuola di regime. Successivamente inizia a lavorare come operaia in una piccola ditta che produce vestiario militare.

Si avvicina all’attività politica aiutando il fratello Alfiero, comunista, nella distribuzione di volantini e nella raccolta di fondi per il Soccorso rosso. L’arresto di Alfiero nel 1936 segna anche per lei una tappa significativa, dato che a scuola è additata come sovversiva. Nella sua formazione svolgono inoltre un ruolo i legami con la famiglia allargata: è cugina per parte di madre di Giuseppina e Ateo Garemi, entrambi emigrati in Francia; Ateo aderirà ai GAP e sarà ucciso a Torino nel dicembre 1943.[1] Durante la guerra approfondisce i legami con gli ambienti clandestini empolesi e contribuisce già alla preparazione dello sciopero del marzo 1943.

Subito dopo l’8 settembre si impegna col fratello nel soccorso a militari fuggiaschi e renitenti alla leva, che vengono messi in contatto con i gruppi partigiani. Svolge il ruolo di staffetta e partecipa all’organizzazione dello sciopero del 4 marzo 1944; l’agitazione è infatti appoggiata da un corteo di donne verso il centro cittadino, alla quale si uniscono contadini dalle vicine frazioni, artigiani e bottegai e gli operai che escono dalle officine.[2] Per queste attività sarà riconosciuta patriota.

Dopo la Liberazione è assunta in una fabbrica di fiammiferi, diventando un’operaia specializzata. Il PCI le propone di frequentare un corso di formazione rivolto alle donne; Walma accetta e in seguito decide di abbandonare l’impiego per dedicarsi all’attività politica. Svolge prima un ruolo nella Federazione giovanile e poi diventa segretaria provinciale dell’UDI. Nel 1953 partecipa alla vertenza della fabbrica Pignone di Firenze, divenendo la portavoce delle famiglie degli operai presso il sindaco Giorgio La Pira, che riuscirà a evitare la chiusura dello stabilimento.

Walma Montemaggi

Nel 1955 si sposa con Ilio Bastianoni, anche lui aderente al PCI. La coppia successivamente si allontana dalla politica attiva; Walma decide nel 1963 di lasciare il ruolo di funzionaria, nel 1964 ha un figlio. Non abbandona però l’impegno pubblico, in specie nel sindacato e nell’ANPI, e nell’ultima fase della sua vita si dedica alla scrittura di racconti e memorie. Muore ad Empoli nel 2017.

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🟥Stralci dell’intervista a Walma Montemaggi in Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 155-7 e 168-169

L’anno successivo, il 1944, preparammo lo sciopero del quattro marzo con una riunione preparatoria nel bosco di Corniola, facendola sembrare una scampagnata di ragazze e ragazzi.

Lì ci fu detto il giorno e l’ora (il 4 marzo appunto, ad Empoli in Comune alle ore 10-11). Così iniziammo a formare piccoli gruppi che camminavano per il “giro” di Empoli, poi si fecero dei capannelli iniziando a parlare fra noi donne, in seguito diffondemmo la voce: “Andiamo in Comune dal podestà”. Eravamo un centinaio, tutte affollate al portone del palazzo comunale, entrammo. Fummo ricevute dalle autorità di allora: il podestà appunto, il segretario del Fascio repubblichino, il commissario di polizia, il maresciallo dei carabinieri e alcuni responsabili dei servizi comunali. Noi avanzammo le nostre richieste, erano mesi che con la tessera non ci veniva dato neppure ciò che toccava di diritto. Chiedevamo pane, un po’ di carne, vedevamo i tedeschi che stavano portando via tutto. Facemmo le nostre rimostranze. Le autorità ci calmarono, dicendo che in qualche modo avrebbero provveduto e così andammo via con queste promesse verbali. Appena fuori dal Comune, le donne e gli uomini ormai erano divenuti una folla che andava via via aumentando. La strada era piena di gente che ci domandava come fosse andata, cosa ci avessero risposto.

In quel momento fummo affiancate dalla polizia dell’OVRA[3] che ci provocò, dicendo: “Penerone![4] Andate a casa”. A queste parole venne fuori da parte di tutte le donne un abbaione di risposta: “Andate voi a casa!” e li rincorremmo. Uno si dileguò andando verso la stazione, un altro si diresse in piazza della Vittoria presso un albergo, quando fu arrivato ci mostrò la pistola e una bomba a mano. Allora presero in mano la situazione i compagni partigiani che erano scesi dalla montagna per scortarci ed il poliziotto fascista, vista la malaparata, si rifugiò nell’albergo. Di lì a pochi minuti arrivò un camion tedesco con una mitragliatrice innestata con due soldati che ci intimarono di sciogliere il raduno non autorizzato altrimenti avrebbero fatto fuoco. Noi non ci lasciammo intimorire, tenemmo ancora per un po’ la piazza, alcuni proposero di andare ad assaltare il silos del grano, ma ci fu detto di non andare che il grano se l’erano già preso i tedeschi. In quegli istanti di paura ma anche di coraggio ricordo che accanto a me avevo mamma “Palmira”, un’anziana compagna madre di un giovane che era stato condannato a tanti anni di carcere dal Tribunale Speciale perché comunista. Questa donna mi diceva: “Abbracciami Walma, stringiti a me e non aver paura, tanto non sparano. Lo fanno per impaurirci” […].

– Aveva paura?

– Sarei stata un’incosciente a non averne. Anzi ne ho avuta tanta. Quando andavo a prendere la stampa clandestina ad Avane, e la sistemavo nella borsa a doppiofondo fatta da mia madre, ti dirò che facevo in un lampo a distribuirla a tutti, così quando c’erano i libri, li diffondevo il pomeriggio nascondendo il fatto con la giratina in bicicletta oppure che andavo a Empoli a comprare i bottoni per i vestiti delle clienti di mamma. Poi c’erano i giorni nei quali venivano ammazzate le bestie comprate dai contadini, per mandare un po’ di carne ai ragazzi che erano in montagna e per noi. Vendevamo le frattaglie e le parti meno nobili da fare il lesso e lo spezzatino; a volte compravo anche per casa, ma la carne anche la meno nobile, costava molto e non sempre potevamo permettercela. Poi passare un posto di blocco dove c’erano i tedeschi, quelli della Wehrmacht, quando dovevo portare qualcuno in formazione: giovani renitenti alla leva militare che non volevano andare al fronte a morire o disertori dell’esercito che non volevano più combattere. Questi erano i pericoli che si correvano ogni giorno. Le prime volte, tremavo ma poi riuscivo sempre a cavarmela; non ti ho detto che ero piuttosto bellina e allora a volte tiravo un po’ più su del dovere la gonna andando in bicicletta e così passavo. Però passavo più volentieri dai posti di blocco tenuti dai tedeschi che da quelli dei repubblichini: avevo paura di incontrarci qualcuno che mi conosceva.[…]

 Nel 1943 iniziò la nostra Resistenza in Toscana. Con mio fratello Alfiero portammo tanti ragazzi sia in montagna, specialmente i renitenti alla leva, ma anche ufficiali badogliani che andarono nelle formazioni partigiane che come sai, si aggregarono agli alleati per compiere azioni di disturbo ai tedeschi allora invasori ed ai repubblichini fascisti visto che Mussolini aveva formato la Repubblica di Salò. Io feci scappare in montana un maresciallo della finanza che doveva andare sul fronte russo ed anche un ufficiale dell’esercito che era ricercato come disertore: episodi che ho descritto nei miei racconti. È proprio vero che più difficile diventa la vita, più si lotta. Il coraggio a me veniva dalla consapevolezza del rischio che era anche paura. Ma nei momenti più acuti io mi vedevo la fine di tutto questo patimento e la morte mi sembrava liberazione e rinascita ad una vita più giusta, migliore e degna di essere vissuta.