La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”

Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.

Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.

Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata.

IMG_3280Inizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.

Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.

È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.

Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.

Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.

IMG_3308Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.

Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.

Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.

Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.

Si è infine spenta il 9 luglio 2000.

 

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




I fratelli Melauri e la famiglia Soffici

YADVASHEMQuella dei Soffici è una famiglia contadina che vive lavorando la terra nel Valdarno fiorentino. La loro storia si incrocia con due giovani ebrei Tullio e Aldo Melauri  a cui fra il dicembre del 1943 ed il luglio del 1944 Dante e Giulia, Oreste e Marianna Soffici scelsero, nonostante i pericoli, di dare rifugio e accoglienza.

La loro storia inizia a Trieste il 15 febbraio del 1925. Paolo e Lea Melauri danno alla luce il loro primo figlio: Tullio. Sedici mesi dopo sarà seguito dal fratello Aldo.
La loro è una famiglia relativamente benestante. Pur vivendo a Trieste, in realtà la loro non è una famiglia triestina. Il padre infatti proviene da Leopoli nell’odierna ucraina. Hanno origini ebraiche. Ma sono e si sentono completamente integrati. Anche per questo hanno prima rinunciato al cognome originario di Goldfrucht per cambiarlo nell’italiano Melauri e poi ottenuto la cittadinanza italiana nel 1920.
Tullio e Aldo hanno un’infanzia serena ed osservante delle proprie tradizioni religiose, ma tutt’altro che isolata dai compagni. Frequentano delle scuole elementari ebraiche, ma poi proseguono i loro studi nelle scuole pubbliche e sono in amicizia con molti altri adolescenti italiani di famiglia cattolica.

Le leggi razziali dell’autunno 1938 sconvolgono però le loro vite. Per fortuna il padre non subisce conseguenze immediate nel proprio lavoro, anche se perderà ben presto la cittadinanza italiana divenendo apolide. Sono proprio loro due Tullio e Aldo a subire all’inizio le ripercussioni più pesanti della discriminazione. Devono abbandonare la scuola pubblica per re-iscriversi in una scuola ebraica.

Ben presto le leggi razziali sono foriere di altre conseguenze molto più pesanti. Quella che fino ad allora era stata una discriminazione diventa chiaramente una persecuzione. I Melauri non si sentono più al sicuro a Trieste. Nel 1940 avevano acquistato un appezzamento di terreno al Brollo nel comune di Figline Valdarno (FI). A coltivarlo è una famiglia di contadini composta da Oreste e Marianna Soffici e i loro 5 figli. Ma quello fra i Melauri e i Soffici non è solo un rapporto di lavoro. È un’amicizia. I Melauri, insieme alla nonna paterna, si trasferiscono così in casa loro nell’estate del 1943. Partecipano alla vita, al lavoro e alle feste della piccola comunità di contadini del Brollo.

Oreste ha un fratello, Dante, che vive con la moglie Giulia in una casa isolata in località Scandelaia, sopra al Ponte agli Stolli. Così nascosta quell’abitazione può tornare utile in caso di pericolo e Oreste la mostra ai Melauri. Purtroppo tutti i segnali lasciano intendere che il pericolo potrebbe giungere presto. Nell’ottobre del 1943 infatti era arrivato in Italia uno dei più fedeli collaboratori dell’organizzatore della soluzione finale al problema ebraico: il capitano delle SS Theodor Dannecker, esperto nella caccia agli ebrei. Agisce con  poche decine di uomini, ma sa perfettamente come muoversi.

Vengono organizzate  retate in tutte le città d’Italia. il 6 novembre 1943 verrà rastrellata la comunità ebraica di Firenze. Gli ebrei vengono trasferiti in prigioni o nei campi di raccolta come Fossoli, Bolzano o la Risiera di San Sabba e da qui smistati verso Auschwitz o altri campi di concentramento. Presto si  uniscono alla caccia  anche  le autorità della Repubblica sociale italiana. Il 30 novembre il ministro degli interni della RSI emana precise direttive ai prefetti per l’arresto di tutti gli ebrei. Dall’Ottobre del ‘43 fino al Marzo del ‘45 verranno deportati quasi 8000 dei circa 32000 ebrei italiani. Di questi se ne salveranno poco più di 600 soltanto.

In questo clima di terrore è difficile mantenere la speranza e la fiducia. E i Melauri non si fanno illusioni: sanno benissimo cosa li attende quando l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1943, vedono arrivare sotto casa loro una camionetta dei carabinieri.
Paolo Melauri, dopo aver perso la cittadinanza italiana è un apolide. È costretto a comunicare i propri spostamenti alle autorità. Crede di avere instaurato un rapporto di amicizia con il maresciallo dei carabinieri di Figline e crede che questa amicizia possa fornirgli protezione. Ma quando fa il  nome del maresciallo ai carabinieri scesi dalla camionetta nessuno di loro torna sui suoi passi. Lui e la sua famiglia devono seguirli. Gli viene concesso solo il tempo di tornare in casa a preparare le valigie.

Ma la sorveglianza non è ferrea. Così prende piede un’idea. I figli Tullio e Aldo di 18 e 17 anni possono scappare sul retro della casa attraverso i campi verso quella casa isolata di Dante Soffici che gli era stata mostrata. Il piano ha successo. Tullio e Aldo riescono a fuggire fino a Scandelaia e lì vengono accolti da Dante e Giulia Soffici. Ma non possono essere sempre tenuti in casa. È  troppo rischioso. Così per loro dopo il periodo invernale viene costruita una baracca nascosta nei campi. Tutti i giorni Dante o Giulia vanno a portargli da mangiare. In quelle giornate di isolamento il tempo è lunghissimo per i due ragazzi. A fargli visita e portargli dei libri viene anche la famiglia dei Banchetti che avevano conosciuto durante il periodo al Brollo. A Tullio e Aldo arrivano anche delle lettere dei genitori e della nonna. La madre e la nonna sono rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, il padre in quello delle Murate. Ma Tullio e Aldo non si fanno illusioni. Mesi prima hanno ascoltato Radio Londra. Sanno qual’è la sorte scelta dai nazisti per gli ebrei. Purtroppo sia la madre che la nonna verranno deportate ad Auschwitz e lì verranno uccise il 6 febbraio del 1944; il padre sopravviverà poco oltre e morirà nel dicembre del 1944.

Con l’arrivo del fronte bellico in prossimità del Valdarno nel luglio del ‘44 un giorno Dante gli suggerisce di scappare. Sta diventando troppo rischioso per loro rimanere lì. Devono fuggire verso gli alleati. Così Tullio e Aldo scappano nella direzione che gli ha indicato Dante. Nella loro fuga incrociano anche una truppa tedesca, ma riescono a non farsi vedere. Infine dopo quarantotto ore senza bere e senza mangiare si imbattono in dei soldati inglesi.

Tullio e Aldo nel dopoguerra sono stati privati della famiglia, ma per fortuna non sono allo sbando. Con l’aiuto economico di alcuni amici di famiglia riescono a riprendere gli studi e a diplomarsi a Roma. Verranno a Firenze da una zia, poi rientrano a Trieste nel 1947. Ma la loro prospettiva come per  molti altri ragazzi ebrei europei scampati allo sterminio è una sola: Israele. Si iscrivono ad una scuola preparatoria poi dopo un anno si trasferiscono definitivamente in Israele lavorando nei kibbutz.

Nei primi anni ’50 le vite di Tullio e Aldo dopo tutto il tempo passato insieme si separano. Tullio durante una vacanza dalla zia di Firenze conosce quella che diventerà sua moglie. Nel 1957 Tullio si sposa e rientra definitivamente in Italia. Succede anche altro. Sta trascorrendo le proprie vacanze all’Impruneta quando re-incontra Oreste Soffici che proprio lì si è trasferito e allacciano rapporti di fraterna amicizia.

Con gli anni in Tullio matura un’idea. Ha sentito parlare dell’onorificenza di “Giusto fra le nazioni” che lo stato di Israele, attraverso l’ente apposito, lo Yad Vashem, concede ai non ebrei che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare la vita degli ebrei. Si sente in dovere di far assegnare il titolo alle persone cui deve la propria vita. Chiede aiuto al fratello che vive ancora in Israele e insieme inviano la richiesta.

Il 14 novembre 1988 lo Yad Vashem, con il dossier 2604, riconosce Dante, Giulia, Oreste e Marianna Soffici come “Giusti fra le nazioni”. Il loro nome viene aggiunto al Giardino dei giusti presso il museo dello Yad Vashem a Gerusalemme dove per primo nel 1961 era stato invitato a piantare un albero Oscar Schindler.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Maria Luigia Guaita (1912-2007)

Maria Luigia Guaita

Maria Luigia Guaita nasce a Pisa l’11 agosto 1912. Cresciuta tra Torino e Firenze, nel capoluogo toscano si avvicina agli ambienti liberalsocialisti. Agli inizi degli anni Quaranta, assieme al fratello Giovanni, aderisce al Partito d’Azione (Pd’A) e inizia a operare come staffetta, contribuendo in particolare alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito. Durante l’occupazione tedesca, il Comando militare azionista le affida, inoltre, il mantenimento dei contatti tra il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese. Di particolare rilievo risulta anche la sua partecipazione alla “Commissione intendenza” del Pd’A, principalmente con mansioni inerenti alla falsificazione di documenti, permessi e timbri utili per l’assistenza ai partigiani e ai perseguitati politici. È durante questo periodo che la sua abitazione fiorentina, in via Giovanni Caselli 4, nella zona del Campo di Marte, diviene uno dei punti di riferimento dell’organizzazione clandestina azionista. Per il tenace e valoroso impegno profuso nella lotta al nazifascismo, Maria Luigia Guaita sarà riconosciuta partigiano combattente, afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”- Servizio “I” (Informazioni).

Nei primi anni di vita della giovane Repubblica italiana, delusa dal prematuro scioglimento del Pd’A e non riconoscendosi in altri partiti, Maria Luigia Guaita decide di non occuparsi più di politica.

Maria Luigia Guaita

Tale assenza viene da lei compensata con un intenso impegno nel campo dell’imprenditoria e della cultura: attiva nel settore tessile pratese, a fine anni Cinquanta fonda, a Firenze, la Stamperia d’arte “Il Bisonte”, cui segue l’apertura di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Promotrice e animatrice delle Edizioni “U”, che pubblicano libri sull’arte contemporanea italiana, collaboratrice della rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, Maria Luigia Guaita è anche autrice di un noto libro di memorie, La guerra finisce, la guerra continua, edito nel 1957 nei “Quaderni de Il Ponte”, diretti da Piero Calamandrei.

Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di commendatore. Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007. In lei l’azionista Ferruccio Parri, il comandante “Maurizio”, ha riconosciuta “una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose” della lotta di Liberazione.

__________

🟧Intervista a MARIA LUIGIA GUAITA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 153

Come ha fatto ad entrare nella Resistenza?
Come? Ero un’antifascista eh. La mia famiglia era antifascista, mio fratello… soltanto che io sono sempre molto…voglio sempre fare di più di quello che debbo fare e m’hanno fatto fare la steffetta partigiana. Sono stata io che ho avvertito gli americani, gli inglesi che i tedeschi se ne stavano andando di Firenze. Io andai ad avvertire che suonassero la campana del Bargello, sono stata la prima che ho passato tutto il Palazzo Vecchio.
[…]
È stata un’esperienza bella?
No, l’esperienza della Resistenza è stata un’esperienza piena di paure, ci voleva proprio tutto il mio coraggio, non era molto bello e poi sono morti anche tanti amici.




Teresa Mattei (1921-2013)

Teresa Mattei

 

Nasce in provincia di Genova nel 1921, in una numerosa famiglia borghese cattolica e di tradizione liberale. Cresce a Firenze in un clima culturalmente vivace e anticonformista; i suoi famigliari condividono una precoce attività antifascista, dal boicottaggio alla propaganda. Durante gli anni della guerra civile in Spagna a Teresa, allora sedicenne, viene affidato il compito di trasportare in Francia una colletta per i fratelli Rosselli.

Teresa Mattei

Fin dall’infanzia si mostra capace di svolgere un’analisi critica del fascismo, con un’attitudine al ribellismo verso le ingiustizie e alla disobbedienza nei confronti delle istituzioni del regime. Ne paga le conseguenze in prima persona: emblematico è l’episodio in cui si esprime con fermezza contro le leggi razziali, che le costa l’espulsione immediata dal Liceo Michelangiolo e da tutte le scuole del Regno; consegue il diploma da privatista e si iscrive a Filosofia all’Università di Firenze, laureandosi nel 1944.

La sua attività antifascista ha un crescendo con l’inizio della guerra, a cui si oppone organizzando una manifestazione, e successivamente con la propaganda antifascista e antinazista e il sabotaggio dei macchinari nelle fabbriche destinate alla produzione bellica. Nel 1942 insieme al fratello Gianfranco si iscrive al PCI e partecipa alle prime riunioni che seguono il 25 luglio 1943. Dall’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia “Chicchi”, entrando in clandestinità e lavorando con i Gruppi di difesa della donna, col Fronte della gioventù comunista e coi Gruppi di azione patriottica (GAP), con attività di assistenza, di organizzatrice e di staffetta; contribuisce inoltre all’organizzazione degli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli.

È un periodo segnato da ferite profonde e perdite incolmabili, come quella del fratello Gianfranco, che, arrestato a Roma a causa di una delazione per cui era stato individuato come artificiere dei GAP, sceglie di suicidarsi nel luogo di detenzione di Via Tasso, dopo atroci torture. Nei giorni della Liberazione di Firenze è attiva come staffetta tra il fuoco incrociato e al comando della compagnia “Gianfranco Mattei” del Fronte della gioventù.

Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, nel giorno della firma della Costituzione

Nel dopoguerra è la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e ne diviene segretaria di Presidenza. Espulsa dal PCI nel 1955 perché non condivide la linea del partito, si impegna per tutta la vita sul piano politico, sociale e culturale nell’affermare l’uguaglianza sostanziale, i diritti delle donne, delle bambine e dei bambini. La sua figura è legata all’articolo 3 della Costituzione, che contribuisce a scrivere, e alla mimosa, perché proprio lei lo propone come fiore simbolo per la festa dell’8 marzo. Negli ultimi decenni risiede vicino Lari, in provincia di Pisa, dove muore nel 2013.

__________

 🟥 Intervista di Bruno Enriotti e Ibio Paolucci, Dall’antifascismo attivo all’Assemblea Costituente, “Triangolo rosso”, maggio 2004, pp. 11-3.

Mio padre ha sostenuto sempre la necessità di un impegno diretto, soprattutto di noi giovani, nei confronti di un regime che – lui lo aveva capito – avrebbe portato l’Italia al disastro. Diceva che per essere antifascisti non ci si può limitare a raccontare barzellette contro il regime.
Per questo, quando avevo poco più di 16 anni, venni mandata in Costa Azzurra, per portare dei soldi ai fratelli Rosselli, capi di Giustizia e Libertà. Al ritorno venni arrestata, mentre mi trovavo a Mantova da don Primo Mazzolari. Sapevano che ero stata in Francia e quel mio incontro con un prete antifascista li insospettì, ma riuscii a cavarmela dicendo che mi occupavo di problemi religiosi. In quegli anni l’attività antifascista di tutta la nostra famiglia era notevole. In casa stampavamo in modo rudimentale dei volantini che poi con mio fratello Nino andavamo a mettere nelle buche delle lettere, all’ufficio postale o a quello dei telefoni. […]
Qualche giorno dopo il 25 luglio, credo fosse il 30, vi fu una grande riunione antifascista al Politecnico di Milano. Mio fratello Gianfranco era allora assistente di Natta, insignito in seguito del premio Nobel. Mio fratello era un chimico molto promettente, tanto è vero che dopo la Liberazione, Natta disse a mia madre che buona parte di quel premio se lo meritava Gianfranco, per le sue ricerche. Io vivevo a Firenze e Gianfranco mi avvertì di venire a Milano per partecipare a quella riunione. Cosa che feci e partecipai così ad un incontro di alto significato politico: gli intellettuali milanesi che si impegnavano a lottare contro il fascismo.
Poi tornai a Firenze, entusiasmata; e mi impegnai con gli antifascisti di quella Università dove frequentavo la Facoltà di Lettere. Ricordo Adriana Fabbri e Adriano Seroni che poi si sposarono e lei con il nome del marito divenne responsabile delle donne del Pci, ricordo Aldo Braibanti e molti altri giovani di allora. Facemmo una sorta di associazione degli studenti antifascisti e pochi giorni dopo, l’8 settembre, mentre eravamo riuniti, udimmo i carri armati tedeschi che passavano per piazza San Marco. Riunimmo le nostre forze e capimmo che dovevamo passare alla clandestinità. Con noi c’erano anche Mario Spinella ed Emanuele Rocco, ci riunivamo in casa sua. Io tenevo i collegamenti tra i diversi gruppi partigiani, ero una staffetta, ma facevo anche azioni molto più impegnative. Come quella del 3 giugno 1944. […]
Ricordo molto bene la data perché il giorno dopo mi sono laureata in modo rocambolesco.
Dunque avevamo saputo che in una galleria, i tedeschi avevano nascosto dei vagoni carichi di esplosivo, soprattutto dinamite. Io e un altro ragazzo, Dante, dovevamo farli saltare. Ci siamo inoltrati nel tunnel, io da una imboccatura lui dall’altra e siamo riusciti ad accendere una miccia, fuggendo da parti diverse prima dell’esplosione.
Quando essa avvenne io ero fuori dal tunnel; Dante, invece, era inciampato e l’esplosione lo ha travolto. È stata una cosa orribile. Sono fuggita in bicicletta e capivo che i tedeschi mi stavano inseguendo. Mi sono rifugiata nell’Università e sono entrata in una stanza dove Garin teneva una riunione di professori.1 Proprio con Garin in quei mesi stavo preparando la tesi. Gli ho detto: “professore, i tedeschi mi stanno inseguendo, dica che sono qui per discutere la tesi”. Così fecero e quando i tedeschi entrarono Garin disse: “questa ragazza sta discutendo la sua tesi, è sempre stata qui”. Con questo stratagemma non solo mi sono salvata, ma i professori hanno considerato valida la discussione della mia tesi e mi hanno laureato.

__________

🟩L’Italia è libera! Protagonisti della Resistenza – Nell’ambito del webdoc di RaiCultura ‘25 Aprile: il giorno della Liberazione’



__________

🟧 Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza – Radio Rai3 – Michela Ponzani racconta la vita di Teresa Mattei, partigiana comunista, Firenze e Roma. Per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



__________

🟦 Teresa Mattei raccontata da Simonetta Soldani, Puntata di Wikiradio del 08/03/2017






Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944)

Anna Maria Enriques Agnoletti (©️Archivio ISRT, Fondo Leonardo Giorgi)

Anna Maria Enriques nasce a Bologna il 14 settembre 1907. Figlia del biologo Paolo Enriques, dovendone seguire gli spostamenti che la professione di docente universitario gli impone, trascorre l’infanzia in varie località della penisola. Stabilitasi a Firenze, si laurea in Lettere e filosofia e, nel 1933, ottiene il diploma in paleografia e archivistica presso la Scuola per bibliotecari ed archivisti paleografi, che dal giugno 2005 porta il suo nome.

Assunta presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel 1936 diviene “primo archivista”, ma due anni dopo, a causa della promulgazione delle leggi razziali – il padre ha origini ebraiche – è costretta a lasciare l’impiego. Anna Maria già da tempo sta affrontando un personale, intenso percorso di fede che la porterà alla conversione al cattolicesimo, religione della madre Maria Clotilde. Il suo particolare caso, grazie all’interessamento di Giorgio La Pira e dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, giunge pertanto a conoscenza di monsignor Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato in Vaticano. Questi si adopera per farla assumere come paleografa presso la Biblioteca apostolica vaticana di Roma. Nella capitale, a partire dal 1939, Anna Maria frequenta gli ambienti cattolici ed entra in confidenza con Gerardo Bruni, anch’egli bibliotecario alla Apostolica, avvicinandosi al movimento cristiano-sociale.

Anna Maria Enriques Agnoletti

Dopo l’8 settembre, Anna Maria si impegna nella propaganda e nell’assistenza ai patrioti, ai prigionieri politici e agli ebrei. Rientrata a Firenze, contribuisce inoltre al mantenimento dei contatti tra il Partito d’Azione, in cui opera il fratello Enzo, e il movimento cristiano-sociale livornese, soprattutto tramite lo stretto legame con don Roberto Angeli, che per la sua attività antifascista finirà deportato a Dachau.

Nel maggio 1944 la sua identità viene scoperta. Arrestata assieme alla madre, tradotta in carcere, poi rinchiusa a Villa “Triste”, subisce atroci torture senza mai cedere e fornire informazioni che possano mettere in pericolo la vita delle compagne e dei compagni di lotta. Trasferita nel carcere femminile di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 viene prelevata da tedeschi e portata a Cercina, nella zona di Monte Morello; qui viene fucilata assieme ad altri cinque militari e ad un partigiano cecoslovacco.

Nel 1947 le viene conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, quale “indimenticabile esempio di valore e di sacrificio”.

Murales dedicato ad Anna Maria Enriques Agnoletti a Sesto Fiorentino

__________

🟪Isabella Insolvibile racconta la vita di Anna Maria Enriques Agnoletti per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



__________

🟦Documentario realizzato dalla Rai in occasione del ventennale della Liberazione, e diretto da Liliana Cavani. Con storie e testimonianze di e su Germana Boldrini (Bologna), Norma Barbolini (Modena), Adriana Locatelli (Bergamo), Gilda Larocca (Firenze), Tosca Bucarelli (Firenze), Marcella Monaco (Roma), Maria Giraudo, Anna Maria Enriques Agnoletti e sua madre, Suor Gaetana del carcere di Santa Verdiana (Firenze), Maria Montuoro (Milano)

__________

🟩 Storia di Anna Maria Enriques Agnoletti – Video a cura dell’Università di Firenze